Francesco Petrarca

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Testo

IL TRAVAGLIO SPIRITUALE DEL PETRARCA

Il “travaglio interiore” di Francesco Petrarca fu generato da un’esigenza del suo spirito “ad essere migliore” ad elevarsi a Dio, allontanandosi dalla contemplazione della bellezza terrena e dalle sue tentazioni, dalle illusioni e dalle amare delusioni. Così il poeta scrisse nella Lettera a Dionigi di San Sepolcro (“Familiares”,IV,1) concludendo la sua narrazione sull’Ascensione al Monte Ventoso “Io vorrei che i singoli pensieri, da vaghi ed incerti come sono, dopo essersi inutilmente volti qua e là, si volgano alfine a ciò che è unico, buono, vero e sicuro”.
Questo suo “travaglio” fu particolarmente accentuato e vissuto drammaticamente perché egli fu l’iniziatore e, nel contempo, il massimo protagonista dell’Umanesimo.
Rispetto a Dante egli ebbe più vasta conoscenza dei classici latini, maggiore sapienza nel rivedere la storia civile e letteraria degli antichi, più ampia erudizione e conoscenza filosofica e più raffinata eleganza negli scritti in Latino. Ebbe più fortuna di Dante anche perché da Dante stesso ereditò il linguaggio volgare già filtrato e la pratica del colloquio col passato (Dante- Virgilio) che egli, in forma ineguagliabile, proseguì con Cicerone, Seneca, Virgilio, Ovidio, Agostino ecc. confrontando con loro la sensibilità, l’intellettualità e la spiritualità d’uomo moderno.
Nel 1326 intraprese la carriera ecclesiastica e divenne canonico laico.
Nel 1327, ad Avignone, vide per la prima volta Laura. Ella con la sua bellezza fisica e spirituale, figura storicamente esistita o “Simbolo-Allegoria”, si pose al centro dei suoi pensieri più intimi, dei suoi sentimenti più profondi, delle sue riflessioni più dolorose, delle conclusioni più amare “quanto piace al mondo è breve sogno”. Così quelle due inclinazioni opposte, entrambe manifestatesi fin dalla prima gioventù (di canonico con istanze fortemente etiche ed ascetiche e di uomo imprigionato da sensi e sentimenti) ed entrambe interrotte, la prima dalla volontà e l’altra dal destino, trovarono unità ed espressione artistica in un percorso poetico che durò fino alla fine della sua vita.
Infatti tutti i suoi pensieri il poeta raccolse nel “Rerum vulgarium eloquentiae”. Il poema, capolavoro di lirica introspettiva, fu realizzato con quel culto della “forma deificata” dagli Umanisti. A questi trasmise anche la sua passione per la ricerca degli antichi testi che lo portò a scoprire antichi codici, ad avere la biblioteca più importante del tempo ed a iniziare il lavoro di paziente filologo.
Il Petrarca fu uomo di successo: la sua curiosità, il suo desiderio di conoscenza e di fama lo portarono ad essere uno dei primi alpinisti (la salita al monte Ventoso) a viaggiare per tutta l’Italia e per l’Europa, a compiere importanti missioni diplomatiche.
Fu un intellettuale inquieto, acuto critico delle vicende storiche in cui, suo malgrado, visse. Fu appassionato studioso di Platone e di Sant’Agostino per cui, idealista, lottò fino alla fine della sua vita per essere migliore.
Fu, infine, un letterato consapevole della funzione della cultura e della libertà di questa fu strenuo difensore. I suoi amici più cari furono i libri e la cultura fu per lui “la patria, la libertà, il godimento, la luce dell’anima, la gioia della vita”. Petrarca nella cultura così vissuta trovò “pace” al tormento dell’anima ed alla faticosa ricerca della creazione artistica.
Nel primo libro delle “Familiares, a Raimondo Soranzo scrisse “lego non ut eloquentior aut argutior sed melior fiam”.

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