Decadentismo ed Ermetismo

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Testo

Il Decadentismo ebbe origine in Francia e si sviluppò in Europa tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento. Trova un corrispettivo nella corrente artistico-architettonica che prese nomi diversi a seconda del paese in cui fiorì: Liberty in Italia, Art Nouveau in Francia, Jugendstil in Germania. Il Decadentismo rappresenta una reazione decisa agli aspetti ideologici, morali e letterari del Positivismo. Fu l’esasperazione di una delle due tendenze del Romanticismo, quella rivolta alla contemplazione di un mondo di mistero e di sogno, all’espressione di un soggettivismo estremo, mentre il realismo e il verismo ne avevano sviluppato la tendenza oggettiva.
Il termine “decadente” ebbe, in origine, un senso negativo; fu infatti rivolto contro alcuni poeti che esprimevano lo smarrimento delle coscienze e la crisi di valori di fine Ottocento, sconvolto dalla rivoluzione industriale, dai conflitti di classe, da un progressivo scatenarsi degli imperialismi, dal decadere dei più nobili ideali romantici. Questi poeti avvertirono il fallimento del sogno più ambizioso del Positivismo: la persuasione che la scienza, distruggendo le “superstizioni” religiose, sarebbe riuscita a dare una spiegazione razionale ed esauriente del mistero della vita e avrebbe posto i fondamenti di una migliore convivenza degli uomini.
Il Decadentismo fu, prima di tutto, uno stato d’animo di perplessità smarrita, un sentimento di crisi esistenziale, che si è venuto progressivamente approfondendo nella prima metà del nostro secolo, travagliata da tragiche esperienze di guerre, dittature, rivoluzioni, e anche da scoperte scientifiche sconvolgenti.
Due sono gli aspetti fondamentali della spiritualità decadentista: il sentimento della realtà come mistero e la scoperta di una nuova dimensione nello spirito umano, quella cioè, dell’inconscio, dell’istinto, concepita come anteriore e sostanzialmente superiore alla razionalità.
La nuova spiritualità si riallaccia a due motivi essenziali del Romanticismo: il sentimento ossessivo del mistero e l’irrazionalismo. La ragione è decisamente ripudiata non più in nome del sentimento, ma del disfrenarsi delle forze oscure del subcosciente. In riferimento alla componente irrazionale del comportamento umano, Henri Bergson concepì il tempo non come unità di misura dello scorrere dei fatti ma come dimensione soggettiva e psichica, e Friedrich Nietzsche diede risalto a quanto vi è di cieco, irrazionale, animale nel comportamento umano.
Questa visione del mondo produce nell’arte una rivoluzione radicale, nel contenuto e nelle forme, che potremmo riassumere nei termini di simbolismo e misticismo estetico.

La poetica del Decadentismo

Ammessa l’impossibilità di conoscere la realtà vera mediante l’esperienza, la ragione, la scienza, il decadente pensa che soltanto la poesia, per il suo carattere di intuizione irrazionale e immediata possa attingere il mistero, esprimere le rivelazioni dell'ignoto. Essa diviene dunque la più alta forma di conoscenza, l’atto vitale più importante; deve cogliere le arcane analogie che legano le cose, scoprire la realtà che si nasconde dietro le loro effimere apparenze, esprimere i presentimenti che affiorano dal fondo dell’anima. Per questo è concepita come pura illuminazione. Non rappresenta più immagini o sentimenti concreti, rinuncia al racconto, alla proclamazione di ideali; la parola non è usata come elemento del discorso logico, ma per l’impressione intima che suscita, per la sua virtù evocativa e suggestiva.
Nasce così la poesia del frammento rapido e illuminante, denso, spesso, di una molteplicità di significati simbolici.
La nuova poesia non si rivolge all’intelletto o al sentimento del lettore, ma alla profondità del suo inconscio, lo invita non a una lettura, ma a una partecipazione vitale immediata. Essa si propone di darci una consapevolezza più profonda del mistero.
Da questi principi sono nate molte mode letterarie e anche di costume, a cominciare dal simbolismo (rappresentato, ad esempio, dal Pascoli, espressione più conseguente e radicale della nuova poetica), per continuare con l’estetismo(rappresentato, ad esempio, dal D’Annunzio); difatti il decadentismo ha aspirazioni aristocratiche, che si esprimono nel gusto estetizzante. Sul piano artistico l’estetismo si traduce nella ricerca di raffinatezza esasperata ed estenuata. L’idea della superiorità assoluta dell’esperienza estetica induce l’artista a tentare di trasformare la vita stessa in opera d’arte, dedicandosi al culto della bellezza in assoluta libertà materiale e spirituale, in polemica contrapposizione con la volgarità del mondo borghese La svalutazione della moralità e della razionalità, portarono, tra l’altro, ai vari miti del superuomo.

GABRIELE D’ANNUNZIO
LA VITA

Nasce a Pescara nel 1863 da una famiglia medio-borghese. Studia al collegio Cicognini di Prato, una dei più prestigiosi d’Italia, quindi si stabilisce a Roma, dove si iscrive alla facoltà di Lettere, senza però completare gli studi. Appena sedicenne pubblica un libro di poesie intitolato “Primo vere”, ispirato decisamente al Carducci. A Roma inizia, per il poeta, una più brillante avventura, letteraria e, insieme, umana. Il periodo romano è caratterizzato dalla frequentazione dei salotti, diviene cronista mondano dell’aristocrazia della capitale e si immerge in una vita d’esteta, protesa, fra amori e avventure, alla ricerca di piaceri raffinati. Vaste ma non profonde sono, in questo periodo, le sue esperienze di cultura. Legge soprattutto i poeti del Decadentismo europeo, di cui assorbe i motivi di sensibilità più raffinata. Nel 1882 viene pubblicato il secondo libro di poesie, “Canto Novo”, che arricchiva il linguaggio carducciano, già utilizzato per la raccolta d’esordio, di una solare e corporea vitalità. Qualche anno dopo pubblica un romanzo che ha un notevolissimo successo: “Il piacere”. D’Annunzio cerca di trasferire il suo gusto estetizzante anche nella vita, coltivando l’eleganza e indulgendo al gesto clamoroso. Si sposa molto giovane, dopo una fuga d’amore, ed ha una vita sentimentale intensissima, costellata di numerose amanti. Adora circondarsi di raffinate opere d’arte e conduce una vita dispendiosa che lo porta a indebitarsi. Proprio per sfuggire ai debiti si trasferisce nel 1891 a Napoli, dove rimane fino al ’94. Le raccolte poetiche maggiori sono del 1903: con i primi tre libri, “Maia”,”Elettra”,”Alcyone” si sarebbero misurati i poeti italiani delle successive generazioni. Ad Alcyone appartengono le famose liriche “La sera fiesolana” e “La pioggia nel pineto”, dove viene ripreso il tema, già preannunciato nel Canto Novo, dell’immedesimazione del poeta con la natura. Dal 1898 vive a Settignano (Firenze), nella villa La Capponcina, vicino alla residenza di un’ennesima donna amata, la celebre attrice Eleonora Duse, con la quale ha un’intensa relazione. La vicinanza con la Duse fa sí che D’Annunzio intensifichi l’attività teatrale; il meglio del suo teatro è costituito dalle tragedie “Francesca da Rimini”, “La figlia di Jorio” e “La fiaccola sotto il moggio”. I creditori riescono a sequestrargli la villa e per questo nel 1910 D’Annunzio emigra in volontario esilio in Francia, dove continua a scrivere. Vive quattro anni a Parigi. Fino dalla fine dell’Ottocento comincia a registrare appunti e ricordi, costituendo così la base per le prose raccolte nelle “Faville del maglio”. Tornato in Italia nel 1915, tiene altisonti e violenti discorsi a favore dell’intervento in guerra e si impegna personalmente in ardite azioni belliche. Dal 1921 fino alla morte vive sul lago di Garda, a villa Cargnacco. Nell’opera di D’Annunzio la vita dell’autore e la letteratura non solo si rispecchiano, ma l’esistenza privata diventa spettacolo per il pubblico, attirando sul poeta un interesse mai raggiunto da nessun autore italiano precedente e contemporaneo. E’ un artista inimitabile, anche grazie a gesta clamorose e avventurose, come l’impresa di Fiume.

LA POETICA

La poetica e la poesia del D’Annunzio sono l’espressione più appariscente del Decadentismo italiano. Dei poeti decadenti europei egli accoglie modi e forme, senza però approfondirne l’intima problematica, ma usandoli come elementi decorativi della sua arte fastosa e composita. Aderisce soprattutto alla tendenza irrazionalistica e al misticismo estetico del Decadentismo, collegandoli alla propria ispirazione narrativa, naturalistica e sensuale. Egli rigetta la ragione come strumento di conoscenza per abbandonarsi alle suggestioni del senso e dell’istinto; spesso vede nell’erotismo e nella sensualità il mezzo per attingere la vita profonda e segreta dell’io. Egli cerca una fusione dei sensi e dell’animo con le forze della vita, accogliendo in sé e rivivendo l’esistenza molteplice della natura, con piena adesione fisica, prima ancora che spirituale. E’ questo il “panismo dannunziano”, quel sentimento di unione con il tutto, che ritroviamo in tutte le poesie più belle di D’Annunzio, in cui riesce ad aderire con tutti i sensi e con tutta la sua vitalità alla natura, s’immerge in essa e si confonde con questa stessa. La poesia diviene quindi scoperta intuitiva; la parola del poeta, modulata in un verso privo di ogni significato logico, ridotta a pura musica evocativa, coglie quest’armonia e la esprime continuando e completando l’opera della natura. La sua vocazione poetica si muta poi in esibizionismo e la poesia vuol diventare atto vitale supremo, una sorta di moralità alla rovescia, estremamente individualistica e irrazionale. Abbiamo allora l’esaltazione del falso primitivo, dell’erotismo o quella sfrenata del proprio io, indicata nei due aspetti dell’estetismo e del superomismo. L’estetismo è in definitiva il culto del bello, in pratica vivere la propria vita come se fosse un’opera d’arte, o al contrario vivere l’arte come fosse vita. Quest’atteggiamento, preso dal Decadentismo francese, è molto consono, corrispondente cioè alla personalità del poeta. Quindi l’esteta si limita a realizzare l’arte, ricercando sempre la bellezza; ogni suo gesto deve distinguersi dalla normalità, dalle masse. Di conseguenza vengono meno i principi sociali e morali che legano al contrario gli altri uomini. A differenza di questo il superuomo assomiglia all’esteta, ma si distingue per il suo desiderio di agire. Il superuomo considera che la civiltà è un dono dei pochi ai tanti e per questo motivo si vuole elevare al di sopra della massa; è l’esteta attivo, che cerca di realizzare la sua superiorità a danno delle persone comuni.

GIOVANNI PASCOLI
(1855-1912)
LA VITA

Nasce a S.Mauro di Romagna nel 1955. Nel ’62 entra nel collegio dei padri Scolopi a Urbino, dove rimane fino al ’71. E’ il quarto di otto fratelli e il padre è l’amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia. Nel ’67 accade l’episodio che segna indelebilmente la sensibilità del piccolo Pascoli: viene assassinato il padre da ignoti, mentre ritorna a casa . Non si seppe mai chi fu l’assassino, ma il Pascoli crede di individuarlo nell’amministratore che successe a suo padre nell’amministrazione della tenuta dei Torlonia e nella sua poesia lo rappresenta come il “cuculo”, uccello che non si crea il suo nido, ma che occupa quello degli altri. L’anno seguente muore una sorella, poi, di seguito, la madre e due fratelli. La morte della madre viene considerata dal Pascoli la tragedia maggiore, perché viene meno il nucleo familiare, il “nido”. D’ora in poi il suo proposito sarà sempre di riformare il nido originario. Questa precoce esperienza di dolore e di morte sconvolge profondamente l’anima del Pascoli; rimane una ferita non chiusa, che si traduce in un senso sgomento del destino tragico e inesplicabile dell’uomo, e segna il crollo di un mondo d’innocenza e di infanzia serena a cui sempre il poeta aspirerà con immutata nostalgia. Nel ’73 il Pascoli vince una borsa di studio all’università di Bologna, dove si iscrive alla facoltà di lettere. Il periodo bolognese lo mette in contatto con il movimento anarchico e si avvicina così agli ideali socialisti. Aderisce all’ Internazionale e inizia a frequentare Andrea Costa, capo dell’anarchismo romagnolo. Nel ’79, in seguito a dimostrazioni connesse all’ attentato dell’anarchico Passannante contro il re Umberto I, subisce alcuni mesi di carcere preventivo; quando vi esce riprende gli studi e da questo momento in poi non si occuperà più di politica, essendone rimasto evidentemente spaventato. Non è più un ribelle, ma un uomo che china il capo davanti all’oscuro destino. L’unico rimedio al male gli appare ora la pietà e l’amore fraterno fra gli uomini, solo conforto al mistero insondabile della vita. Nello stesso tempo, nasce in lui l’ideale di ricostruire il proprio focolare domestico, con le due sorelle superstiti, Ida e Maria, di ritrovare così nella quiete appartata e nell’intimità degli affetti la pace. Laureatosi nell’82, ottiene una cattedra presso il liceo di Matera, Massa e Livorno. Nel frattempo, per più anni, partecipa a concorsi di poesia latina ad Amsterdam, vincendoli. Lo troviamo presso varie università: a Bologna, dove inizialmente insegna latino e greco, a Messina ed infine, nel 1906, succede al Carducci nella cattedra di letteratura italiana all’università di Bologna, dove muore nel 1912. Viene sepolto a Castelvecchio, in una casa di campagna che dal ’95 era stata il suo rifugio più caro insieme alle sorelle.

LA POETICA

Il carattere dominante della poesia del Pascoli è costituito dall’evasione della realtà per rifugiarsi nel mondo dell’infanzia, un mondo rassicurante, dove l’individuo si sente isolato ma tranquillo rispetto ad una realtà che non capisce e quindi teme.
Il Pascoli esprime questa sua poetica in uno scritto che intitola “Il fanciullino”. Egli afferma che in tutti noi c’è un fanciullo che durante l’infanzia fa sentire la sua voce, che si confonde con la nostra, mentre in età adulta la lotta per la vita impedisce di sentire la voce del fanciullo, per cui il momento veramente poetico è in definitiva quello dell’infanzia. Di fatti il fanciullo vede tutto per la prima volta, quindi con meraviglia; scopre la poesia che c’è nelle cose, queste stesse gli rivelano il loro sorriso, le loro lacrime, per cui il poeta non ha bisogno di creare nulla di nuovo, ma scopre quello che già c'è in natura. Il fanciullino è quello che parla alle bestie, agli alberi, alle nuvole e scopre le relazioni più ingegnose che vi sono tra le cose, ride e piange per ciò che sfugge ai nostri sensi, al nostro intelletto. La poesia si presenta quindi con un carattere non razionale, ma intuitivo e alogico. L’atteggiamento del fanciullo gli permette di penetrare nel mistero della realtà, mistero colto non attraverso la logica, ma attraverso l’intuizione ed espresso con linguaggio non razionale ma fondato sull’analogia e sul simbolo. La funzione del simbolo è proprio quella di far comprendere il senso riposto nella realtà, per mezzo di collegamenti apparentemente logici fra oggetti diversi, attraverso l’associazione di colori, profumi, suoni di cui si può percepire la misteriosa affinità, attraverso la scelta delle parole non per il loro significato concreto ed oggettivo, ma per le suggestioni che sono in grado di evocare. La poesia quindi può avere una grande utilità morale e sociale; il sentimento poetico che è in tutti gli uomini gli fa sentire fratelli nel comune dolore, pronti a deporre gli odi e le guerre, a corrersi incontro ed abbracciarsi. Da un lato egli concepisce la poesia come ispiratrice di amore umano, le assegna il compito di rendere gli uomini più buoni, ma il poeta non deve proporselo come fine, perché non è un oratore o un predicatore, ma ha unicamente il dono di pronunciare la parola nella quale tutti gli altri uomini si riconoscono. In definitiva il poeta è l’individuo abbastanza eccezionale che, pur essendo cresciuto, riesce ancora a dare voce al quel fanciullo che c’è in ogni uomo.
La situazione tipica della poesia pascoliana è quella del poeta solitario, immerso nella campagna vasta e silenziosa ed inteso a descrivere le rivelazioni delle cose. Di fatti gli eventi tragici della vita del Pascoli ne condizionano la vita stessa ed anche la poesia, creando vari miti; tra questi vediamo il “nido”, che rappresenta la famiglia , che lo preserva dalla vita violenta e difficile da affrontare, solo nel nido può trovare tranquillità e serenità. Al di là del nido troviamo la “siepe”, che recinge uno spazio che dà autarchia. Con il mito della siepe il Pascoli rappresenta la situazione o il desiderio della piccola borghesia contadina che mira ad una vita indipendente dall’esterno e quindi autarchica. Oltre la siepe vi troviamo il “campo santo”: una strada dritta porta dal podere al campo santo, ove giacciono i morti, presenze costanti nella vita del Pascoli e che ritornano continuamente confondendosi con i vivi. A questi tre elementi di fondo il Pascoli circoscrive tutta quanta la sua esistenza.

IL LINGUAGGIO

Fu completamente nuovo, soprattutto per la letteratura italiana, in cui persiste ancora la tradizione classica. Qui la frase si spezza; il soggetto è spesso da solo, senza bisogno di un verbo che lo specifichi. Il tutto è affidato a parole che riproducono suoni (frequentissime sono le onomatopee) oppure a immagini che evocano sentimenti. Possiamo quindi definirlo un linguaggio completamente innovativo nella letteratura italiana, che nel Pascoli forse è più intuitivo che non una semplice imitazione del Decadentismo; è qualcosa di istintivo, che risponde perfettamente al suo modo di esprimersi e alla sua visione della vita. Possiamo definirlo inoltre un linguaggio pittorico: si affida molto al colore, come anche alla musicalità e unendo queste due componenti realizza spesso delle sinestesie (mescolando sensazioni che provengono da sensi diversi).
Il Pascoli influisce fortemente sulla letteratura italiana proprio per la particolare innovazione del linguaggio. Mentre D’Annunzio influisce molto con la sua esperienza personale, quindi sul costume italiano, il Pascoli è un importante innovatore del linguaggio poetico.

L'Ermetismo
Col termine Ermetismo si indica un tipo di poetica che sorge intorno agli anni '20 e si sviluppa negli anni compresi tra le due guerre mondiali. Fondatori della poesia ermetica sono considerati Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale e la definizione fu coniata in senso dispregiativo dalla critica tradizionale che intendeva condannare l'oscurità e l'indecifrabilità della nuova poesia, ritenuta difficile in confronto alle chiare strutture della poesia classica. Il nome deriva da Ermete o Mercurio, il dio delle scienze occulte, e fu adoperato in senso dispregiativo appunto da Francesco Flora nel suo saggio "la poesia Ermetica".
Di tutte le poetiche sorte nell'ambito del decadentismo la poesia ermetica fa sua e sviluppa quella dei simbolisti francesi (Rimbaud, Mallarmé, Verlaine). Perciò è detta anche poesia neosimbolista. I poeti ermetici perseguono l'ideale della "poesia pura libera", cioè libera non solo dalle forme metriche e retoriche tradizionali, ma anche da ogni finalità pratica didascalica e celebrativa.
Il tema centrale della poesia ermetica è il senso della solitudine disperata dell'uomo moderno che ha perduto fede negli antichi valori, nei miti della civiltà romantica e positivistica e non ha più certezze a cui ancorarsi saldamente. Egli vive in un mondo incomprensibile sconvolto dalle guerre e offeso dalle dittature per tanto il poeta ha una visione della vita sfiduciata, priva di illusioni. Altri temi della nuova poesia che ci fanno accomunare gli ermetici a Pirandello e Svevo sono: l'incomunicabilità, l'alienazione (la coscienza di essere ridotto ad un ingranaggio nella moderna civiltà di massa), frustrazione (deriva dal contrasto fra realtà quotidiana che è sempre deludente e i nostri sogni).
I loro temi sono desolati e intimistici, i poeti ermetici rifiutano il linguaggio e le forme della poesia romantica e positivistica a scopo celebrativo, in quanto il poeta dell'800 aveva miti e certezze da porre e celebrare. Il nuovo poeta non ha più miti e certezze in cui credere, perciò va alla ricerca di parole essenziali, scabre e secche che meglio descrivano il loro stato d'animo; per poter far questo ricorrono all'analogia e alla sinestesia. L'analogia si può considerare una metafora in cui è stato soppresso il primo termine di paragone (es.: da "accarezzo i tuoi capelli neri come la notte" a "accarezzo la tua notte"). La sinestesia è l'accostamento di parole appartenenti a diverse aree sensitive (es.: "l'urlo nero").
Eugenio Montale
L'Ermetismo
La parola ermetismo sta a indicare il carattere chiuso (ermetico, appunto), arduo e riservato a pochi delle opere che si possono ricondurre all'interno di questo movimento.
I poeti ermetici vivono intensamente l'esperienza della solitudine, dell'incertezza, del male di vivere e puntano per comunicarla, sull'essenzialità, della parola e sul gioco delle analogie.
La poesia ermetica è concentrata, spesso difficile, ignora i normali nessi logici e sintattici e vuole esprimere l'inesprimibile.
I principali poeti ermetici sono Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo e Eugenio Montale.
La vita
Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896, ultimo di sei fratelli di una famiglia di commercianti. Per motivi di salute è costretto a interrompere gli studi regolari e consegue il diploma di ragioniere da autodidatta. Nel 1917 partecipa come ufficiale alla prima guerra mondiale combattendo in Trentino. Trasferitosi a Firenze nel 1928, è nominato direttore di un prestigioso istituto, il Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, che è costretto a lasciare dieci anni dopo per non aver voluto aderire al fascismo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si trasferisce a Milano, dove lavora come redattore del Corrire della Sera fino al 1973. Nel '75 riceve il premio Nobel per la letteratura.
Tra le sue principali opere poetiche ricordiamo: Ossi di seppia (1925), Le occasioni (1939), La bufera e altro (1956). Muore a Milano nel 1981.
Secondo Montale nè la poesia nè il poeta devono esprimere la ricercatezza, l'eccezzionalità, l'effetto speciale (come, ad esempio, abbiamo visto nella poesia futurista o in alcune liriche di D'Annunzio); "la poesia," dice Montale, "è una delle tante possibili positività della vita. Non credo che un poeta stia più in alto di un altro uomo che esista, che sia qualcuno".
Dunque il poeta è una persona comune che ha un rapporto con le cose concrete e con il mondo e che del mondo percepisce il dolore o l'assurdità; non ha soluzioni da proporre o messagi da comunicare, il poeta è solo un testimone che esiste. Scrive ancora Montale: "La poesia non è fatta per nessuno / non per altri e nemmeno per chi la scrive. / Perchè nasce? Non nasce affatto e dunque / non è mai nata. Sta come una pietra / e un granellino di sabbia. Finirà / con tutto il resto".
Con queste parole il poeta ci dice dunque che la poesia esiste, allo stesso modo di una pietra o di un granellino di sabbia, da quando esiste il mondo. Nessuno l'ha creata o la crea.
Poesie-campione: "Elogio del nostro tempo" e "La solitudine"
Molti esaltano l'era contemporanea, spesso identificando le scoperte della scienza e l'invenzione di nuove, efficientissime tecnologie col progresso civile, culturale e sociale dell'umanità. In Elogio del nostro tempo Montale, fingendo di associarsi al coro dei lodatori, sottolinea invece due aspetti veri quanto drammatici del mondo attuale: la fredda violenza e la rapidità con cui tutto viene consumato. Poi, con ironia bruciante, torna alle lodi di questo modo sempre più gonfio di sè, ricordando però, come un presagio, la favola della rana e del bue.
Non si può esagerare abbastanza
l'importanza del mondo
(del nostro, intendo)
probabilmente il solo
in cui si possa uccidere
con arte e anche creare
opere d'arte destinate a vivere
lo spazio di un mattino sia pur fatto
di millenni e anche più. No, non si può
magnificarlo a sufficienza. Solo
ci si deve affettare perché potrebbe
non essere lontana
l'ora in cui troppo si sarà gonfiata
secondo un noto apologo la rana.
Ne La solitudine La "famiglia" del poeta è costituita da una "corporazione" di piccioni che beccano le briciole su un divano, contendendole a un merlo. C'è incece chi, di famiglie - di vere famiglie - ne ha una o due intere: un vero spreco, in confronto alla solitudine del poeta!
Se mi allontano due giorni
i piccioni che beccano
sul davanzale
entrano in agitazione
secondo i loro obblighi corporativi!
Al mio ritorno l'ordine si rifà
con supplemento di briciole
e disappunto del merlo che fa la spola
tra il venerato dirimpettaio e me.
A così poco è ridotta la mia famiglia.
E c'è chi n'ha una o due, che spreco ahimè!

Giuseppe Ungaretti
La vita
1. Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d'Egitto nel 1888, da genitori toscani emigrati per la costruzione del canale di Suez. Dopo gli studi liceali si trasferisce a Parigi, dove frequenta l'università e conosce esponenti della cultura francese, come i pittori Braque e Picasso, gli scrittori Apollinaire e Breton, ma incontra anche alcuni scrittori italiani (Soffici, Palazzeschi, Savinio) che di Parigi avevano fatto in quegli anni una seconda patria. Allo scoppio della prima guerra mondiale, torna in Italia e si arruola come soldato semplice combattendo in prima linea sul fronte del Carso. La vita di trincea è un'esperienza decisiva per il poeta che scopre compiutamente in quei mesi la propria vocazione di scrittore.
Negli anni successivi aderisce al fascismo lavorando come addetto culturale all'ambasciata italiana a Parigi. Fa il corrispondente dei giornali "Il Popolo di Italia" e "La Gazzetta del Popolo". Nel 1931 accetta la cattedra di letteratura italiana all'università di San Paolo in Brasile. Lì nel 1939 una tragedia sconvolge la sua esistenza: la morte del figlio Antonietto, di nove anni, in seguito ad un incidente. Tornato in Italia, dal 1942 al 1958 insegna letteratura italiana all'università di Roma e continua la sua attività di poeta e uomo di cultura. Muore a Roma nel 1970.
Quando Ungaretti comincia a raccogliere e a dare un ordine alla sua produzione poetica sceglie il titolo Vita di un uomo, quasi a ribadire che non esistevano tante poesie, tanti testi, tante raccolte, ma un'unica e grande opera cui lui stesso si impegnava a dare forma e perfezione con riscritture e rifacimenti.Conformemente alla poetica decadente e simbolista, Ungaretti concepisce la poesia come strumento di conoscenza della realtà, che si raggiunge non per via nazionale, ma per via analogica.

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