Dante Alighieri

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Testo

AVVENIMENTI STORICO-POLITICI DAL 1265 AL 1321
(Età di Dante)
Il periodo storico in cui visse Dante è caratterizzato:
• Dalle lotte tra papato e impero, tra Guelfi e Ghibellini e tra fazioni politiche della stessa città (a Firenze tra Guelfi Bianchi, capeggiati dai Cerchi, e Guelfi Neri, capeggiati dai Donati);
• Dall’aumento della popolazione e il conseguente sviluppo della produzione e del commercio (i ricchi mercanti diventano “magnati” della città);
• Dal passaggio dal Comune alla Signoria in molte città italiane (non ancora a Firenze).
AVVENIMENTI STORICO-POLITICI
1265 La battaglia di Montaperti (1260), vinta dai Ghibellini, aveva segnato l’inizio
del loro dominio su Firenze
1266 Vittoria a Benevento degli Angioini (Guelfi) alleati del Papa. Firenze è divisa
in Guelfi Neri, favorevoli al Papa e Guelfi Bianchi, difensori dell’indipendenza
della città.
1282 I“magnati” fiorentini impongono il governo delle Arti Maggiori, cioè un
potere aristocratico.
1289 Battaglia di Campaldino: i Guelfi sconfiggono i Ghibellini di Arezzo guidati da
Buonconte da Montefeltro.
1293 Giano della Bella con gli “ordinamenti di giustizia” esclude i “magnati” dal
governo di Firenze: solo chi fa parte delle Arti Minori può avere cariche
pubbliche.
1300 Dante è eletto fra i sei “priori” che a turno dovevano governare Firenze
dilaniata dalle lotte di fazione. Dante si accosta ai Bianchi capeggiati da
Vieri de’ Cerchi.
1301 Dante, del Consiglio dei Cento, si oppone alla richiesta di truppe da parte del
papa Bonifacio VIII che manda a Firenze Carlo di Valois con l’aiuto del quale
i Neri salgono al potere.
1302 I Neri al potere eleggono podestà Cante de’ Gabrielli, il quale inasprisce la
condanna di Dante.
1310 L’Imperatore Arrigo VII scende in Italia per mettere pace.
1313 Morte di Arrigo VII a Buonconvento, presso Siena (spedizione contro le
città guelfe della Toscana).
1315 Il governo di Firenze concede un’amnistia: Dante può tornare in città in
atteggiamento di penitente, cioè coperto di cenere e vestito di sacco.
LA VITA DI DANTE
Dante Alighieri nacque a Firenze tra il 14 Maggio e il 13 Giugno del 1265. Il padre, Alighiero, apparteneva alla piccola nobiltà cittadina guelfa e godeva di un certo benessere economico grazie ad alcuni possedimenti agricoli e alle attività mercantili svolti in città. La madre, donna Bella, morì prima del 1275, e il padre sposò poi Lapa Cialuffi, dalla quale ebbe altri figli. Nel 1277 i familiari stipularono un contratto notarile per il matrimonio tra Dante e Gemma di Manetto Donati; il matrimonio avvenne nel 1285, quando il padre era già morto e Dante si trovava ad amministrare il patrimonio della famiglia.
La sua prima educazione si basò sullo studio della “grammatica” presso la scuola di un precettore (doctor puerorum); negli anni dell’adolescenza e della giovinezza egli manifestò curiosità per la letteratura classica e romanza che circolava a Firenze negli anni 70 e 80. Nella formazione di Dante non contò tanto un curriculum scolastico regolare, quanto una serie di contatti che, nella vita intellettuale di Firenze, si offrivano facilmente a un giovane nobile e intelligente; va ricordato il suo rapporto con Guido Cavalcanti, il “primo amico”, col quale si impegna nella poesia amorosa dello stil novo.
Alla frequentazione dei gruppi giovanili fiorentini è legato anche l’incontro con Beatrice, una figura prettamente ideale e simbolica, ma va identificata con una donna realmente vissuta: Bice, figlia di Folco Portinari, sposata con Simone de’ Bardi e morta nel Giugno del 1290. Nell’amore per Beatrice, Dante concentra tutto il senso e il valore del proprio impegno morale; benchè nella realtà i contatti con Beatrice fossero stati assai sporadici, l’amata rappresenta per il poeta un valore supremo nel quale specchiare le proprie scelte e il proprio desiderio di giustizia e verità. Nel frattempo Dante aveva compiuto alcuni viaggi. Il decennio successivo alla morte di Beatrice, ricco di interessi e studi,lo allontanò dall’amico Cavalcanti.
Frequentando le “scuole de li religiosi” e le “disputazioni de li filosofanti”, Dante approfondì la sua preparazione teologica e filosofica. Data la giovane età, Dante non aveva preso parte alla vita politica fiorentina negli anni 80 e nei primi anni 90;tuttavia per i suoi doveri di nobile,partecipò ad alcune imprese militari e partecipò alla presa di Caprona nella guerra contro Pisa. Mentre la situazione economica della sua famiglia stava peggiorando, Dante assunse le prime cariche pubbliche: dal Novembre ’95 all’Aprile ’96 fece parte del Consiglio dei Trentasei del capitano del Popolo,e dal Maggio al Dicembre ’96 del Consiglio dei Cento.
In quegli anni nella classe dirigente guelfa si produsse una spaccatura profonda: da una parte la fazione dei Bianchi, che faceva capo alla famiglia dei Cerchi; dall’altra la fazione dei Neri, capeggiata dai Donati. Dante si schierò a favore dei Bianchi, mantenendo una posizione moderata, in quanto contrario a un inasprimento del conflitto. Quando alla lotta tra i due partiti entrò nella fase cruciale, con un braccio di ferro tra il papa Bonifacio VIII e il governo della città di Firenze, Dante recitò un ruolo di primo piano, venne eletto tra i sei priori; rivestendo questa carica diede prova di grande imparzialità e fermezza, deliberando la condanna al confino dei membri più intransigenti delle due fazioni. Dai pochi documenti che si possiedono, risulta che le prese di posizione di Dante si legavano non tanto dal punto di vista della sua fazione, quanto alla volontà di difendere l’autonomia di Firenze.
Probabilmente il poeta fu uno dei tre ambasciatori inviati a Roma, all’inizio dell’Ottobre 1301 per tentare di placare il Papa. Non si trovava a Firenze quando il primo Novembre 1301 vi entravano le truppe angioine di Carlo di Valois, destituendo il governo bianco e richiamando i Neri dall’esilio; e non vi si trovava quando il 27 gennaio 1302 il podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio lo condannava, con altri fiorentini, all’esclusione da ogni carica e al confino per due anni, come falsario e barattiere, ingiungendogli di presentarsi entro 3 giorni a pagare un’ammenda di 5000 fiorini. Non essendosi presentato, Dante fu condannato a marte in contumacia con sentenza, dello stesso podestà, del 10 Marzo 1302.
Iniziò così il lungo cammino dell’esilio, che sarebbe durato fino alla morte. Incalzato dalle difficoltà materiali, fu costretto a spostamenti continui e a chiedere ospitalità a corti e signori dell’Italia centrale e settentrionale. Con pochissimi libri a disposizione, facendo tesoro del suo sapere, affermò sempre più intensamente la dignità della poesia. La cronologia dei suoi spostamenti non è molto precisa; in un primo momento egli rimase legato al gruppo dei Bianchi fuoriusciti, sostenendo il loro progetto di rovesciare il governo instauratosi a Firenze; si recò a Forlì, per avere l’appoggio degli Odelaffi, e a Verona, presso della Scala. All’inizio del 1304, a nome dei Bianchi,scrisse un’epistola al cardinale Niccolò da Prato, che era stato inviato a Firenze dal nuovo papa Benedetto XI per tentare una pacificazione tra le fazioni. Mentre il tentativo del cardinale falliva, si aveva la definitiva separazione di Dante dagli altri fuoriusciti, che pensavano di raggiungere i loro obiettivi attraverso azioni di forza che il poeta non condivideva. Dante aveva già fatto parte per se stesso quando la compagnia malvagia e scempia dei suoi vecchi compagni di partito subì la sconfitta alle porte di Firenze.
Dopo un soggiorno nella Marca Trevigiana, fu in Lunigiana alla corte dei Malaspina e in diverse località della Toscana: sono questi gli anni del De vulgari eloquentia e dell’Inferno. La notizia dell’elezione al trono imperiale di Arrigo VII di Lussemburgo (1308), suscitò in Dante la speranza nell’instaurazione di un nuovo ordine universale, nel trionfo della giustizia e della pace, e con la liberazione di Firenze dal governo dei Neri. In questo clima di rinnovata speranza scrisse varie epistole ai principi italiani; si recò nell’Italia settentrionale, dove poté incontrare Arrigo VII. Il 31 marzo 1311 scrisse una violenta epistola contro i fiorentini, che rifiutavano di far atto di obbedienza all’imperatore; il 17 aprile, indirizzò un’epistola allo stesso imperatore, invitandolo a scendere in Toscana e a Firenze. Il poeta venne escluso da un’amnistia a favore degli esuli guelfi, che mirava a raccogliere forze in previsione dell’assedio di Firenze da parte dell’imperatore.
In tutta Italia i guelfi si opponevano ai progetti di Arrigo VII; Dante si accostò così ai Ghibellini, ma le sue speranze crollarono con l’improvvisa morte dell’imperatore. Nel 1312 Dante si recò a Verona, alla corte di Cangrande Della Scala, dove rimase fino al 1318; in questo periodo si occupò della stesura del Paradiso e probabilmente della Monarchia. Nel 1314, alla morte di Clemente V, scrisse una lettera ai cardinali italiani, invitandoli ad eleggere un pontefice italiano e a ristabilire la sede papale a Roma. Nel 1315 il comune di Firenze promulgò un’altra amnistia, che ora includeva anche Dante, ma gli imponeva di pagare un’ammenda e di fare pubblico atto di sottomissione; il poeta rifiutò sdegnosamente. Dopo la sconfitta subita a Montecatini, Firenze confermò i vecchi provvedimenti contro gli esuli non tornati in patria, e il 15 ottobre 1315 venne ribadita la condanna a morte di Dante. Nel 1318 Dante si recò a Ravenna e li trovò un gruppo piuttosto vivace di studiosi ed ebbe veri e propri allievi. Col Paradiso aveva portato a termine il poema “al quale ha posto mano e cielo e terra”; ma non sopravvisse molto al suo capolavoro. Di ritorno da un’ambasciata a Venezia morì di febbre il 14 settembre 1321. Venne tumulato a Ravenna nella chiesa di S. Francesco. I resti non torneranno più in patria, in quella Firenze che egli aveva chiamato “bello ovile ov’io dormii agnello”.
LE OPERE IN BREVE
• La Divina Commedia.
L’Inferno fu scritto da Dante nel 1313-14, il Purgatorio compiuto prima del 1316, il Paradiso steso tra il 1316 e il 1321. L’appellativo divina è stato indebitamente premesso al titolo autentico, nel 1555, da Ludovico Dolce. Il poema, in volgare, consta di quasi quindicimila versi e si suddivide in cento canti, raggruppati in tre cantiche: l’Inferno, di 34 canti, il Purgatorio e il Paradiso.
La struttura è ritmata. Il racconto è in prima persona: il protagonista, il fiorentino Dante Alighieri. L’inferno, prodotto dalla caduta di Lucifero dal cielo, consiste in una voragine conica, che s’apre sotto Gerusalemme. In seguito alla sua caduta, le terre formarono i continenti attualmente abitati dall’uomo compresi tra le colonne d’Ercole e il Gange; in seguito una massa di terra, risalì in mezzo all’oceano, formando, una grande montagna nella quale, dopo l’incarnazione di Cristo, ospitò il Purgatorio, la cui vetta, è occupata dalla foresta del Paradiso terrestre. Il Paradiso consta, di nove cieli concentrici, sfere di materia rotanti intorno alla terra. Queste sfere sono comprese dall’Empireo, compreso a sua volta nella mente di Dio. Dante ripercorre a ritroso il cammino dal bene al male compiuto dall’uomo, dalla selva infernale alla contemplazione di Dio. I tre regni sono divisi rispettivamente secondo le colpe. L’Inferno è costituito da nove cerchi (con il vestibolo si giunge al canonico numero di dieci); il Purgatorio si compone di nove parti completate dal Paradiso terrestre; il Paradiso comprende i nove cieli tolemaici più l’Empireo.
• Fiore e Detto d’Amore
Alla prima attività letteraria di Dante, apparterrebbero, due libretti intitolati Fiore e Detto d’Amore. Il primo consiste in una parafrasi delle parti narrative del Roman de la Rose, disposta in una collana di sonetti; il secondo in un poemetto didattico in distici di settenari volgari. L’autore del Fiore e del Detto d’Amore, pervenutici in trascrizione unica appartenente in origine allo stesso manoscritto, è senz’altro uno solo: “ser Durante”. Da “Durante” a “Dante” il passo è breve: si tratta del medesimo nome.
• Convivio
Dante, ormai, è occupato alla stesura del Convivio: un libro di alta divulgazione dottrinaria, in prosa volgare, che avrebbe dovuto abbracciare, in quindici trattati, il commento letterale e allegorico a quattordici canzoni del poeta stesso. A noi sono pervenuti i primi quattro trattati, stesi tra il 1304 e il 1307: nei primi tre ci sono le canzoni Voi che ‘ntendendo (II), Amore che né la mente (III), Le dolci rime (IV). Scopo della trattazione è di imbandire a un pubblico di non letterati a trascurare la scuola della cultura. All’ amore per Beatrice si sostituisce l’amore per la filosofia. Al complesso latineggiante periodare del Convivio, Dante, affida il compito di mostrare ai concittadini l’altezza delle sue liriche più recenti. Nel Convivio Dante organizza e fonde dottrine tomistiche, aristoteliche e neoplatoniche in un “sistema” eclettico.
• De Vulgari Eloquentia
Dante si dedicò alla meditazione sull’arte del dire in volgare, compiendo, con il De Vulgari Eloquentia, il primo esame critico della storia letteraria duecentesca. Il trattato, in latino, fu progettato da Dante, attorno al 1304, in almeno 4 libri; ma alla vigilia de La commedia, verso il 1305, il poeta lo interruppe al quattordicesimo paragrafo del II libro. Diversamente che nel Convivio, Dante muove qui dalla convinzione che il volgare sia superiore al latino. I due idiomi, rispettivamente naturale e artificiale, sono distinti con chiarezza.
• La Monarchia
Esso risulta di difficile e incerta collocazione cronologica: da alcuni è stato collocato nel 1312-13, da altri negli anni 1313-1318. Dante muove dal proposito di indagare il fine ultimo di ciascun uomo. La storia passata della gloriosa, mitica Roma assurge a protagonista nel II libro. Ove Dante legittima, contro le usurpazioni dei grandi elettori tedeschi: al centro è l’impero pagano voluto da Dio e riconosciuto da Cristo. Ma è con il libro conclusivo, che Dante affronta il punto centrale della questione, cioè il problema dei rapporti tra impero e papato. Gli uomini, essendo composti di corpo e di anima, aspirano al doppio fine della felicità terrena, consistente nell’esplicazione e della beatitudine eterna.
• Egloghe
A tutt’altro clima ci riporta la composizione delle due Egloghe latine di tipo virgiliano (la prima di 68 esametri, la seconda di 97). Tra la fine del 1319 e l’inizio del 1320, Giovanni del Virgilio, ed il suo scopo era di introdurre Dante a cantare nella lingua di Roma per i dotti. Dante gli rispose con un’egloga; in essa afferma con decisione di attendere la gloria proprio dall’opera iniziata, in particolare dal Paradiso.
• Epistole
E’ certo che egli stilò molte più Epistole delle 14 a noi pervenute. Le più importanti epistole sono quelle di contenuto politico, ma anche quelle private e dottrinali. Nelle epistole di Dante splende un latino appassionato e sacrale; la più notevole è quella indirizzata nel 1315 ad un amico fiorentino; Dante vi rispende l’offerta di un rientro a Firenze condizionato da alcune colpe.
Dalle Epistole: A Cangrande della Scala
Pare ormai accertata dalla maggior parte degli studiosi l’autenticità più volte rimessa in discussione di questa lettera, inviata a Cangrande della Scala insieme ai primi canti del Paradiso ( o all’intera cantica, secondo un’altra ipotesi) probabilmente tra il 1315 e il 1317. La prima sezione dell’epistola accenna ai benefici già ottenuti da Cangrande e contiene la dedica della cantica al medesimo; la seconda sezione, dottrinale ed espositiva, è un introduzione alla lettura del poema, accompagnata da un auto-commento relativo ai primi versi del Paradiso. La frattura contenutistica fra le due sezioni è probabilmente all’origine della circolazione autonoma della prima parte (la dedica), alla quale si limita un ramo importante e antico della tradizione manoscritta. Non pare sostenibile, per vari motivi, e soprattutto per la riconosciuta unità stilistica della lettera, la tesi di altri critici (Mancini, Nardi) che attribuiscono a Dante solo i capitolo 1-4 (collocati nel 1319-1320), e ad altro autore i rimanenti, che sarebbero stati poi saldati ai primi inizi del Quattrocento.
La parte espositiva, fondamentale per l’esegesi della Commedia e per la comprensione delle premesse alle quali Dante ha operato, è strutturata secondo il modello dei medievali accessus ad autore (introduzioni, approcci agli autori), con i quali nelle scuole iniziava lo studio dei classici. L’analisi del Paradiso è preceduta da una premessa generale, sugli elementi che è necessario discutere per poter leggere un’opera dottrinale: soggetto, agente (autore), forma (struttura e ordine della trattazione), e fine (utilità dell’opera), titolo, genere filosofico di appartenenza. Si spiega poi che in tre di questi elementi (soggetto, forma e titolo) il Paradiso si differenza dal resto dell’opera, mentre condivide gli altri tre con l’intera Commedia. Viene infine esaminato il prologo del Paradiso (vv.1-36), seguito dalla sua esposizione letterale e da un rapido accenno allo scema della terza cantica.
• La Vita Nova
Dopo la morte di Beatrice, Dante decise di raccogliere, dal complesso delle liriche scritte fino a quel momento, quelle più significative, facendole precedere da un commento in prosa che spiegasse l’occasione da cui singoli componimenti erano nati, e facendole seguire da un commento retorico. Era questa la novità di grandissima portata: tutti i poeti d’amore precedenti, avevano semplicemente messo insieme dei canzonieri, cioè delle serie di liriche staccate che si affiancavano l’un all’altra. La prosa dantesca vale invece ad individuare nelle poesie un senso profondo ed unitario, la linea di svolgimento di una decisiva vicenda interiore. L’opera, compiuta fra il 1293-1295 fu intitolata Vita Nova proprio ad indicare il rinnovamento spirituale determinato nel poeta da un’amore eccezionale ed altissimo.
La Divina Commedia.
La Divina Commedia è un poema in terzine di endecasillabi a rima incatenata, composto di tre cantiche: l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Pensata dopo la morte di Beatrice (1290), iniziata nel 1308 e compiuta poco prima della morte del poeta (1321), quest’opera si collega strettamente con la Vita Nuova e con il Convivio. Due volte nell’Inferno Dante designa la sua opera con il nome di Commedia; nel Paradiso la chiama una volta il sacrato poema e un'altra volta il poema sacro. Nella Vita Di Dante, il Boccaccio per la prima volta la chiamò divina, ad affermare insieme il sacro carattere e la perfezione artistica, ma solo nel 1555 l’edizione veneziana del Giolito recava il titolo di Divina Commedia.
Ogni cantica è divisa in trentatre canti, sicché l’opera, con il canto proemiale, consta di 100 canti (3 e 10 erano per Dante numeri di speciale significato, l’uno come simbolo della Trinità, l’altro della perfezione, secondo le idee del tempo). Le tre cantiche hanno pressappoco lo stesso numero di versi (totali 14233) e si chiudono significativamente con la stessa parola stelle.
Il poema è un racconto fantastico di un viaggio compiuto da Dante, attraverso i tre regni dell’oltretomba. Scopo dichiarato del poema è di ricondurre il mondo traviato sulla via del bene e della verità, mediante la rappresentazione delle pene e dei premi che attendono i peccatori e i buoni. Il racconto, nel suo schema fondamentale, ha significato allegorico di semplicità intuitiva: Dante che, smarritosi in una selva, per scappare a essa è condotto da Virgilio a visitare l’Inferno e il Purgatorio e quindi da Beatrice alla visione dei beati e di Dio nel Paradiso, rappresenta l’anima umana. Essa, caduta nell’errore e nel peccato, ne riconosce la bruttura e se ne pente sotto la guida della ragione umana (Virgilio), sicché, così purificata, può poi comprendere le superiori verità della fede sotto la guida della teologia (Beatrice) e pervenire alla beatitudine celeste e all’unione con Dio, che è il fine ultimo per cui essa è stata creata e a cui naturalmente tende. Il viaggio nell’oltretomba dura sette giorni: dall’8 al 14 aprile 1300, l’anno del primo giubileo, quando Dante, giunto al suo trentacinquesimo anno di età, si sentiva, dopo la morte di Beatrice, smarrito nella selva degli errori giovanili. Immagina che a lui soccorra Virgilio, perché questi nel sesto libro dell’Eneide aveva cantato la discesa di Enea nell’Inferno e perché l’interpretazione messianica della quarta sua egloga lo presentava come il preannunciatore del cristianesimo.
Inferno.
La poesia dell’Inferno consiste nella rappresentazione degli esseri umani, ora dannati, e nell’atteggiamento di Dante di fronte ad essi: il poeta vive del dramma delle anime, soffre con loro, umano e pietoso, perché anche lui uomo e peccatore.
La voragine infernale è costituita da nove enormi gradini (o cerchi concentrici) che sprofondano sempre più stretti verso il centro della Terra, dove andò a conficcarsi Lucifero dopo la cacciata dal Paradiso. Per l’inesorabile legge del contrappasso, che castiga per analogia o per contrasto, i dannati sono puniti con una pena proporzionata al peccato commesso e che aumenta con il procedere verso il basso. Accompagnato da Virgilio, Dante scende tra “le genti dolorose”. Alle porte dell’Inferno, oltre il fiume Acheronte, incontra gli ignavi; nel I cerchio, il Limbo, si trovano i morti senza battesimo, qui si trovano personaggi come Socrate, Platone, Aristotele e Ovidio. I cerchi dal II al V sono occupai dagli incontinenti; il VI cerchio contiene gli eretici; il VII comprende i violenti. L’VIII cerchio, detto Malebolge, accoglie i fraudolenti contro chi non si fida; il IX cerchio ospita i fraudolenti contro chi si fida, cioè i traditori. Al centro del IX cerchio, Lucifero dilania nelle sue tre bocche i traditori della Chiesa e dell’Impero, ossia Bruto, Giuda e Cassio.
Il Purgatorio.
Il Purgatorio è il regno della pace e del perdono: le anime che vi sono accolte sono rassegnate al tormento e al periodo di permanenza cui sono costrette e, nella luminosa speranza che è per loro certezza, si preparano a salire al cielo. La montagna del Purgatorio si formò quando la terra inorridita si ritrasse allo sprofondare di Lucifero. Esso è ripartito in nove zone (balze o cornici), dove i peccatori sono collocati non in base alle colpe commesse, ma secondo le disposizioni peccaminose. Ai piedi della montagna, dopo la spiaggia, si trova l’Antipurgatorio (I balza), dove scontano la loro pena quattro schiere di negligenti, ossia coloro che si pentirono in punto di morte: gli scomunicati, i pigri, i morti di morte violenta, i principi negligenti. Si apre poi il purgatorio vero e proprio, diviso in sette balze sulle quali i peccatori espiano i sette peccati capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria. Sono gli stessi peccati puniti nell’Inferno, ma qui l’ordine è inverso, dal più grave al meno grave. Anche qui i peccatori devono subire la pena morale della privazione di Dio e un castigo fisico regolato dalla legge del contrappasso. Sulla cima della montagna (IX balza) si stende il giardino del paradiso terrestre, dove le anime cancellano il ricordo delle colpe immergendosi nel fiume Lete, mentre nel fiume Eunoè rafforzano la memoria del bene compiuto.

Il Paradiso.
Il Paradiso è il regno di Dio e della sua corte celeste, ma è anche la più alta spiritualizzazione di Beatrice, la donna amata dal poeta nella giovinezza. Conformemente alla struttura simmetrica che regola i due regni precedenti, il Paradiso è organizzato in nove cieli concentrici che ruotano attorno alla Terra. Ciascun cielo è governato da un pianeta e da una gerarchia angelica, e tutti sono contenuti nell’Empireo, il decimo cielo, dove risiedono stabilmente i beati, disposti nell’immenso anfiteatro che forma la “candida rosa” e al centro della quale si trova Dio. Tuttavia, durante il viaggio di Dante, gli spiriti beati appaiono al poeta distribuiti nei singoli cieli: ciascuno si avvicina a lui nel cielo la cui virtù influenzò maggiormente la sua vita terrena. Così secondo un ordine crescente di beatitudine, il poeta incontra: nel I cielo, quello della Luna e degli angeli, gli spiriti che mancarono ai voti; nel II cielo, di Mercurio e degli arcangeli, gli spiriti attivi per desiderio di gloria; nel III cielo, di Venere e dei principati; gli spiriti amanti; nel IV cielo, del Sole e del Potestà, gli spiriti sapienti; nel V cielo, di Marte e delle virtù, gli spiriti militanti; nel VI cielo, di Giove e delle dominazioni, gli uomini giusti; nel VII cielo, di Saturno e dei troni, gli spiriti contemplativi. Nell’VIII cielo, quello delle Stelle Fisse e dei cherubini, dante assiste al trionfo di Cristo, di Maria e dei beati, e nel IX, il cristallino o Primo Mobile (cosiddetto perché trasmette il movimento rotatorio agli altri cieli) governato dai serafini, vede il trionfo degli angeli attorno a Dio. Entrato nell’Empireo, Dante giunge al centro della “candida rosa”, dove Beatrice, che l’ha condotto attraverso i nove cieli, lascia il posto di guida a san Bernardo, il quale spiega al poeta la disposizione dei beati e chiede alla Vergine Maria di intercedere affinché Dante possa vedere Dio. Preghiera che viene esaudita.
La struttura e la lingua.
La commedia ha una struttura assai articolata e complessa, ricca di allegorie, simmetrie e parallelismi basati sui numeri tre e dieci e sui loro multipli. Ad esempio, tre sono le cantiche della commedia, ciascuna è composta di trentatre canti (il primo canto funge da proemio) e 100 sono i canti totali. Tutti e tre i regni dell’oltretomba sono ripartiti in nove zone più una, per un totale di dieci: l’Inferno ha un vestibolo e nove cerchi; il Purgatorio ha L’antipurgatorio, sette girone e il paradiso terrestre; il Paradiso ha nove cieli e l’Empireo. Le anime dei dannati sono organizzate in tre gruppi principali (incontinenti, violenti, fraudolenti); così come le anime dei penitenti (coloro che diressero il loro amore verso il male, coloro che amarono poco il bene e coloro che amarono troppo i beni terreni) e le anime beate ( spiriti mondani, attivi e contemplativi).
La lingua della commedia è in volgare di uso corrente, e precisamente il dialetto fiorentino in tutte le sue forme, auliche e plebee, arricchito da latinismi, gallicismi e neologismi. Mai il poeta ha saputo utilizzare un linguaggio con straordinaria creatività e sapienza, piegandolo a esprimere i sentimenti più sottili e i concetti più difficili e dimostrando così le reali possibilità della nuova lingua (si ricordi che all’epoca della commedia il volgare non aveva ancora una consolidata dignità letteraria ed era utilizzato quasi esclusivamente nella lirica amorosa). Per questo motivo Dante è considerato il padre della lingua italiana.
FRANCESCA DA RIMINI
Il canto V dell’Inferno è uno dei piu’ noti e, forse, piu’ amati dai lettori di tutti i tempi. Dante vi parla d’amore, vi analizza questo sentimento e fa rivivere al lettore la vicenda di Francesca da Polenta e Paolo Malatesta, gli sfortunati amanti di cui raccontano le cronache del 200.
Francesco de Sanctis interpreta Francesca con la sua coscienza di intellettuale romantico. Secondo lui Francesca è viva e vera come Dante l’ha concepita. Francesca è una donna e non altro che donna ed è una compiuta persona poetica di una chiarezza omerica. I suoi lineamenti si trovano gia’ in tutti i concetti della donna prevalenti nelle poesie di quel tempo: amore, gentilezza, purita’, verecondia, leggiadria. Francesca è l’umano e il terrestre, l’essere fragile, appassionato, capace di colpa e colpevole, e percio’ in tale situazione che tutte le sue facolta’ sono messe in movimento, con profondi contrasti che generano irresistibili emozioni; non ha alcuna qualita’ volgare o malvagia come odio, o rancore, o dispetto: sembra che nel suo animo non ci sia posto per un altro sentimento oltre all’amore. Francesca è il tipo di donna dalle quali sono uscite le piu’ cari creature della fantasia moderna: esseri delicati, fragili fiori a cui ogni lieve soffio è mortale.
Secondo Edoardo Sanguineti Francesca sarebbe una lettrice di provincia, nutrita alle letterature dei romanzi cavallereschi e alle poesie d’amor cortese, come Madame Bovary, signora di provincia che annoiata dalla solita quotidianita’ aspira a grandi storie d’amore riempiendo il suo tempo con letture che stimolano la fantasia e invitano al sogno. Cosi’ ricosce in Francesca una Bovary del 200, che sogna i baci di Lancillotto e trae giovamento dagli abbracci del cognato. Il parlare di Francesca si risolve nel continuo scambio fra letteratura e vita.
DE VULGARI ELOQUENTIA
Il De Vulgari Eloquentia è un trattato iniziato poco prima del Convivio, che ad esso si riferisce e fu interrotto sulla fine del 1304. Quest’opera, che rivela il pensiero di Dante sull’arte del dire, è divisa in due libri ed è il documento più esplicito del grande studio che Dante pose nella ricerca e nell’uso attento e consapevole dei mezzi espressivi. Il primo libro tratta della lingua volgare: la locutio naturalis quella che si apprende, bambini, della nutrice. C’è poi la locutio secondaria artificialis che i Romani chiamarono “grammatica” che si apprende solo con lo studio. E’ più nobile la prima, la locutio naturalis ed è di questa che Dante intende trattare. Indaga sull’origine e l’assenza del linguaggio, sulle origini e la natura dei diversi idiomi. Il linguaggio è cosa tutta umana, concreato per la necessità propria degli uomini di comunicare tra loro; tra gli angeli, che sono pure spirito, il pensiero traspare dall’uno all’altro; l’uomo, formato di corpo e di spirito, è impedito dalla materialità del suo corpo a trasmettere i suoi e percepire i pensieri degli altri senza il segno il senso sensibile della parola, mediante la quale la mente dell’uno si apre come alla menta dell’altra.
La prima parola umana dovette essere “ El “, cioè Dio, pronunciata da Adamo; l’ebraico fu la sua lingua, conservatasi pura presso tutti i discendenti di Adamo, fino all’edificazione della torre di Babele, perche’ Cristo, venendo al mondo, potesse parlare non una lingua nata dalla confusione, la lingua della grazia. Alla confusione delle lingue successe la dispersione dei popoli su tutta la terra; e quelli che abitarono l’Europa portarono con se un “ idioma trifarium “, parlato dai popoli che occuparono il sud-est dell’Europa e parte dell’Asia, da quelli che tennero il sud-est dell’Europa i quali Dante dimostra che ebbero in origine un unico e medesimo idioma sebbene il loro idioma apparisse a sua volta “ trifarium “, triforme, perchè suddiviso nelle lingue dette di oc, oïl e si.
Da queste lingue i dotti furono mossi ad inventare la “ grammatica “, che egli definisce “ una certa identità di lingua inalterabile, in tempi e luoghi diversi “: essa fu inventata “ perchè non fossimo nell’impossibilita’ di avvicinarci al pensiero autorevole e alle gesta degli antichi, o anche di quelli che la diversità dei luoghi rende diversa da noi “.
Passando quindi a un raffronto tra le tre lingue, riconosce alla lingua d’oïl, per essere di più facile e piacevole divulgazione, il primato nella prosa, a quella d’oc il merito di aver dato la prima lirica volgare, a quella di si la preminenza per la maggiore dolcezza e sottigliezza di coloro che poetarono in questa lingua e per la maggiore affinità che essa dimostra con la “grammatica” comune a tutte e tre, che è il latino.
Fin qui la parte introduttiva e generale del trattato, nella quale, accanto a molte cose legate alle conoscenze e all’indirizzo degli studi del tempo, appaiono notevoli il tentativo di aggruppamento delle lingue europee, il concetto della naturale evoluzione delle lingue. Da questo punto la trattazione si ristringe al volgare italico, “vulgare latiunm”, il cui Dante riconosce quattordici principali varietà, appartenenti a quattordici regioni.
Esamina i vari volgari, movendo alla ricerca della più decorosa parlata d’Italia; ma nessuno egli trova che risponda alle esigenze del suo gusto artistico, neppure il volgare siciliano, bolognese, che è da ritenere il migliore dei volgari municipali d’Italia, e tanto meno il “turpiloquio” dei Toscani.
Vero è che alcuni dei poeti siciliani ed altri poeti bolognesi e toscani, per essersi allontanati dalle loro parlate municipali, hanno conosciuto che cosa sia l’eccellenza del volgare. Esso trascende tutte le parlate municipali, è l’unum e il semplicissimum, con il quale tutti i volgari italiani si misurano, pesano e confrontano il tipo ideale e perfetto della lingua nobile italiana, quello che esprime il più alto grado dello spirito nazionale. Dante lo chiama illustre perché risplende sulle deteriori parlate; lo chiama cardinale perché ha funzione analoga al cardinale della porta nell’accogliere o espellere e regolare gli elementi dei volgari municipali; aulico e curiale, cioè lingua della Reggia e del Senato, sebbene quella in Italia non esista e questo sia diviso in tante membra, le quali tuttavia costituiscono un ideale Curia. Dante afferma e precisa l’unità nazionale dell’Italia, sentita come unità spirituale.
Il secondo libro comincia con l’affermazione che il volgare illustre conviene tanto alla prosa che alla poesia. Di esso dovranno servirsi solo i poeti che emergono per ingegno e dottrina e solo per trattare i più alti argomenti nella forma metrica più degna del sommo volgare e dello stile più elevato, cioè nella canzone.
L’autore, poi, passa a considerare la qualità dei versi da adoperare: l’endecasillabo è il piu’ superbo di tutti, e associato con il settenario, sembra piu’ splendido e superbo. Ma occorre un’arte sapiente nella costruzione della frase e gusto finissimo nella scelta dei vocaboli piu’ nobili: e qui l’indagine si fa piu’ sottile e delicata e rivela l’originalita’ della personalita’ artistica di Dante, il quale crea le regole secondo un ideale di perfezione di lingua e di stile tutto personale. L’autore passa quindi a trattare della canzone, di cui comincia con l’esaminare la struttura della stanza, il rapporto con la musica, la disposizione e la qualita’ delle rime, infine il numero dei versi e con quest’ultimo argomento il trattato si interrompe. Si pensa che nel terzo libro avrebbe parlato del volgare illustre nella prosa; nel quarto forse dei volgari inferiori. Storicamente il trattato, conosciuto soltanto nel ‘500, e frainteso come opera che riguardasse non la lingua poetica e letteraria d’Italia, ma la formazione e unita’ della nostra lingua, pose il secolare problema della lingua italiana.
LA VITA NUOVA
Nella vita nuova, opera giovanile scritta in volgare, come tutta la lirica amorosa del tempo, Dante ripercorre idealmente la storia del suo amore per Beatrice. L’opera venne redatta fra il 1292 ed il 1293 legando insieme rime,composte in parte negli anni immediatamente precedenti, con brani in prosa volti a spiegare gli stati dello spirito da cui i versi d’amore traggono origine. L’incontro con Beatrice, infatti, diventa il punto di svolta della maturazione umana e poetica di Dante, la cui vita è, da questo momento “rinnovata dall’amore”.

Sintesi della Vita Nuova
Dante racconta che il suo primo incontro con Beatrice avvenne quando entrambi avevano nove anni, numero che, nella interpretazione numerologica, identifica il miracolo. Da quel momento è preso d’amore per lei.
I due giovani si rivedono dopo nove anni: Beatrice gli rivolge un cortese saluto. Estasiato da questo incontro, il poeta si ritira nella solitudine della sua stanza e fa uno strano sogno:in una nube color fuoco gli appare un uomo di aspetto terribile che tiene fra le braccia Beatrice, avvolta in un drappo sanguigno. A lei l’uomo da in pasto un cuore ardente e, rivolgendosi a Dante, pronuncia le parole “Vide cor tuum”. Dante si risveglia e compone il sonetto “A ciascun’alma presa e gentil core” che invia a tutti i poeti d’amore. Ad esso risponde il primo dei suoi amici, Guido Cavalcanti e da questo momento inizia la profonda amicizia che legherà i due poeti per tutta la vita. Il successivo evento fondamentale della vicenda d’amore di Dante è l’episodio della “Donna dello Schermo”. Dante rivede Beatrice in Chiesa, ma il timore che altri si accorgano della sua attenzione per lei, volge lo sguardo ad un’altra donna, che fa da schermo alla verità del suo amore. Questa donna deve poi allontanarsi da Firenze e Dante è costretto a cercare un altro “schermo” ai suoi sentimenti. Questo atteggiamento viene però frainteso da Beatrice, che lo priva dal saluto. Addolorato, egli si trova di nuovo solo nella sua camera ed ha un altro sogno: Amore gli appare nelle sembianze di un giovane rivestito di abiti canditi e lo rimprovera per le attenzioni alle donne-scherzo, suggerendogli di narrare in versi il suo vero amore. Il poeta comprende che il suo amore per Beatrice trascende ogni manifestazione concreta, sia pur tenue come il saluto. La donna diventa, così, colei che è stata mandata “da cielo in terra a miracol mostrare”, cioè una creatura angelica inviata da Dio sulla terra per ricondurre gli uomini al bene. Accade poi che Dante sia condotto da un amico là dove molte donne gentili si trovano riunite. Alla vista di Beatrice fra loro, Dante non può dissimulare il suo profondo turbamento ed è per questo schernito dalle altre donne che lo interrogano sul significato del suo amore. Dante replica dicendo che la beatitudine del suo sentimento sta in “quelle parole che lodano” la sua donna. Dopo la morte del padre di Beatrice si fa strada, nella riflessione di Dante, la possibilità della morte di Beatrice stessa, che sopravvive in breve. Una donna gentile, impietosita del dolore del poeta gli appare spesso solidale con la sua sofferenza e si fa strada nel suo cuore, ma egli è di nuovo visitato da un sogno, in cui gli pare di vedere Beatrice nella sua gloria celeste, giovane come quando l’ha incontrata la prima volta. Distoglie allora vergognoso il pensiero dalla donna gentile che ha risvegliato il suo desiderio e si propone di non parlare più di Beatrice se non quando potrà farlo in modo del tutto adeguato ai suoi meriti.
CRITICA
Boccaccio ammiratore, Petrarca critico
La fama di Dante subì numerose crisi e fu per lunghi periodi alquanto precaria,ostacolata da grandi resistenze e da aperte ostilità,dal Quattrocento al Settecento. Si manifestano del resto già nel 300 due valutazioni critiche antitetiche, provenienti dalle due massime personalità della letteratura italiana dopo Dante:Petrarca e Boccaccio.
Boccaccio va annoverato tra gli ammiratori più entusiasti. Imitò Dante nelle sue opere e fu fatto il primo dantista:a lui infatti risale una raccolta di opere volgari dell’Alighieri ed egli corresse anche il testo. Proprio con il Boccaccio inoltre iniziano le pubbliche “letture” del poema.
Petrarca ha una posizione piuttosto ambigua ed esprime parecchie riserve sulla Commedia, anche se le sue parole contrastano decisamente con il suo operato poiché appare evidente la presenza delle rime dantesche e della Commedia in tutto il cosiddetto “Petrarca volgare” ossia nel Canzoniere e nei Trionfi.
Linee della critica novecentesca
Risalgono agli inizi del ‘900 gli importanti interventi di Benedetto Croce che inquadrò le ricerche su Dante in una teoria estetica di vasta risonanza. In un contributo del 1921, La poesia di Dante, egli riportò in primo piano la necessità di valutare Dante soprattutto come poeta e non per le sue idee politiche che secondo Croce sarebbero invece elementi strutturali e non poetici ma non fu l’impostazione crociana a tracciare le linee maestre entro le quali si è mossa la critica del secondo Novecento. Dalle prime, in particolare dalla nuova filologia di Barbi, vennero fondamentali contributi metodologici nelle messa a punto dei criteri tecnici per una corretta ricostruzione testuale. La composizione di un testo richiedeva una profonda conoscenza della cultura dottrinario-filosofica e della vita e della cultura del Medio Evo. I risultati dell’applicazione di questi criteri aprirono nuove prospettive cominciando a contrastare efficacemente le tendenze dell’estetica idealista.

Esempio



  


  1. Aly

    sto cercando dei appunti su Dante Alighieri,perche' devo sostenere un tema d'esame