Da Machiavelli a Leopardi

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Testo

LA TRATTATISTICA POLITICA TRA IL XVI E XVII SECOLO
Le figure più rappresentative della trattatistica politica tra XVI e XVII secolo sono Machiavelli e Guicciardini. Il contributo più innovativo nello sviluppo di questo filone letterario è sicuramente quello di Machiavelli autore del trattato “DE PRINCIPATIBUS” (Il Principe).
La vicenda personale di Machiavelli è interessante per definire il pensiero dell’autore e la sua evoluzione. Nel 1494 Carlo VIII di Francia era sceso con il suo esercito nella penisola italiana, per raggiungere il regno di Napoli, di cui intendeva impadronirsi. La sua discesa aveva provocato delle reazioni e delle trasformazioni a livello politico: a Firenze ad esempio erano stati cacciati i Medici e si era affermato un vero e proprio regime teocratico guidato da Girolamo Savonarola. Tuttavia la politica repressiva attuata da quest’ultimo, che interessa controllare ogni aspetto della vita sociale, aveva finito per determinare la rovina: i fiorentini infatti avevano consegnato Savonarola all’inquisizione che lo aveva processato e condannato come eretico.
Si era così formata la Repubblica Fiorentina, di cui Machiavelli era stato segretario. Tra 1511 e 1512 però i Medici riuscirono a tornare a Firenze e attuarono una politica di epurazione contro tutti coloro che avevano collaborato con la Repubblica. Machiavelli perciò era stato esiliato e condannato a vivere all’ALBERGACCIO, lontano dalla vita politica.
In una famosa lettera a Francesco Vettori, Machiavelli descrive le sue giornate in esilio, sottolineando il fatto che egli costretto all’inattività e al continuo contatto con la gente rozza del luogo rischia di abbrutirsi. L’unico conforto per lui è la lettura dei classici e dei grandi autori della letteratura italiana perché in questo modo egli si astrae dalla miseria della sua condizione. In questa lettera egli comunica all’amico che sta scrivendo un trattato intitolato “De Principatibus”.
Due sono i motivi per cui egli inizia la stesura del principe:
1. Da una parte egli spera di risollevarsi, attraverso la pubblicazione del libro, dalla precaria situazione economica in cui si trova.
2. Dall’altra parte egli spera di poter tornare ad occuparsi di politica (ed è per questo che dedica il trattato a Giuliano dei Medici).
I CARDINI DEL PENSIERO MACHIAVELLIANO NEL “PRINCIPE”
Virtù e Fortuna
Secondo Machiavelli tutti gli eventi umani sono determinati da due forze fondamentali: la Virtù e la Fortuna.
La Fortuna si deve intendere come caso e può essere favorevole o sfavorevole (come in Boccaccio che è il primo ad affermare una concezione laica della Fortuna).
La Virtù è la capacità di sfruttare le occasioni favorevoli offerte dal caso. È importante notare che l’uomo non può nulla, non può trasformare la realtà se la fortuna non gli offre l’occasione opportuna. Egli può anche disporre della virtù ma quest’ultima non conta nulla se non ha l’opportunità di manifestarsi. Nel XXV capitolo del suo trattato Machiavelli sostiene che la fortuna è arbitra per l’età degli eventi umani mentre la virtù decide dell’altra metà. Tuttavia il rapporto tra le due forze non è sempre così lineare: infatti nel VII capitolo, lo scrittore fiorentino, Lodando la virtù di Cesare Borgia, afferma che quest’ultimo non ha commesso errori nelle sue azioni ma è andato in rovina per una estrema malignità di fortuna.
IL TRATTATO DE PRINCIPATIBUS
La Struttura
La struttura del trattato De Principatibus è razionalmente organizzata: i capitoli sono ripartiti per argomenti concettualmente legati tra loro. Questa struttura riflette la visione Machiavelliana del mondo: lo scrittore è ancora un uomo rinascimentale, nel senso che crede ancora alla possibilità di conoscere razionalmente la realtà e di trarne delle indicazioni utili per l’agire umano. Anche se nella concezione della realtà Machiavelliana la fortuna introduce elementi di imprevedibilità di fronte ai quali l’azione dell’uomo è limitata, lo scrittore fiorentino ha ancora fiducia nella capacità da parte dell’uomo di condizionare almeno in parte il corso degli eventi attraverso la virtù.
IL CAPITOLO VI
Il capitolo VI tratta del caso di un principe il quale acquisisce un principato attraverso l’uso della virtù e le armi proprie.
CAPITOLO VI:
- Affermazione di una Concezione Ciclica della storia
- Fiducia nella capacità dell’uomo di incidere sulla realtà (Ciro, Romolo, Teseo operarono con la medesima efficacia di Mosè, che era ispirato da Dio)
- Importanza di possedere delle ARMI PROPRIE: chi non le ha (come Savonarola) e si fonda solo sul consenso popolare è destinato alla rovina.
In apertura di capitolo Machiavelli chiarisce che per agire efficacemente nella realtà occorre percorrere le vie battute dagli uomini che ci hanno preceduto e seguire gli esempi migliori del loro operare in questo modo egli traccia una concezione ciclica della storia: nel divenire storico, eventi e situazioni, sono destinati a ripetersi ed è per questo che l’uomo può trarre utili insegnamenti dal passato. Questo spiega anche perché Machiavelli si riferisca spesso agli esempi antichi. Nel capitolo l’autore afferma che colui che si procura il Principato attraverso l’uso della virtù e delle armi proprie si assicura un potere molto più saldo e durevole di chi acquisisce uno stato attraverso un colpo di sfortuna e le armi altrui.
Un altro aspetto interessante del capitolo è la fiducia che Machiavelli manifesta nelle capacità umane, infatti egli sostiene che Ciro (gran Re dei Persiani), Romolo (fondatore di Roma), Teseo (Re di Atene) hanno agito con la stessa abilità di Mosè che era stato guidato da Dio. In questo modo egli esalta la virtù umana.
La parte finale del capitolo ruota intorno al concetto della necessità, per un principe, di possedere armi propri (un esercito personale). Infatti chi si fonda soltanto sul consenso popolare è sottoposto ai mutamenti arbitrali del favore della gente: il popolo come concede il suo appoggio, così può da un momento all’altro toglierlo e se il principe non può imporre la sua volontà attraverso le armi è destinato alla rovina.
Machiavelli fa l’esempio di Girolamo Savonarola che volle imporre un regime teocratico a Firenze ma, quando il popolo gli voltò le spalle perché esasperato dalle restrizioni imposte anche nella vita privata, non avendo la forza militare per difendere il suo potere fu consegnato all’Inquisizione e finì al rogo come eretico.
CAPITOLO VII
Il protagonista del Capitolo VII è Cesare Borgia, detto il Valentino, figlio del Papa Alessandro VI. In generale il capitolo tratta di quei principi che si procurano il potere attraverso un colpo di fortuna e le armi altrui.
Machiavelli sostiene che non è impossibile per un principe che arrivi al potere in questo modo consolidare lo Stato, tuttavia è sicuramente più difficile. Cesare Borgia è un tipico esempio in questo senso: il Papa Alessandro VI di cui era figlio il legittimo voleva procurargli uno Stato, ma non poteva concedergli dei territori all’interno dello Stato della chiesa.
Così egli approfitta di una particolare situazione politica: il Re di Francia, Luigi XII aveva deciso di scendere in Italia con il suo esercito e attaccare il Duca di Milano Ludovico Il Moro.
In ciò la Repubblica di Venezia era alleata del Re Francese, perché aveva dei conflitti territoriali con il Duca di Milano. Approfittando della confusione del momento Alessandro VI riesce a ottenere la neutralità della Repubblica di Venezia e l’appoggio del Re Francese ai progetti del figlio. Quest’ultimo mirava ad impadronirsi del ducato di Romagna.
Perciò Cesare Borgia diventa Duca di Romagna per una particolare circostanza storico-politica e avvalendosi dell’aiuto dell’appoggio dell’esercito francese. A questo punto ottenuto il potere, il Valentino comincia a consolidarlo.
In primo luogo indebolisce le famiglie avversarie gli ORSINI e i COLONNA sottraendo loro le clientele attraverso la concessione di favori.
In secondo luogo egli provvede a riordinare e a pacificare il ducato di Romagna, che era in uno Stato di anarchia. Egli incarica Ramiro De Lorqua condottiero famoso per la sua abilità e crudeltà, di eliminare le bande che percorrevano il paese e di riportare l’ordine.
Ramiro De Lorqua svolge il suo compito con efficienza e raggiunge l’obiettivo, usando però metodi estremamente duri che lo rendono odioso per tutta la popolazione. A questo punto Cesare Borgia, che temeva di alienarsi in favore dei sudditi, scarica ogni responsabilità su colui che aveva incaricato e lo fa uccidere. Il corpo viene poi esposto su una pubblica piazza spezzato in due.
Tuttavia nonostante la sua abilità Cesare Borgia è destinato alla rovina. Per mantenere il potere egli avrebbe dovuto fare 4 cose:
1. Riordinare il Ducato;
2. Indebolire i Nemici;
3. Controllare la curia Romana in vista dell’elezione del nuovo Papa;
4. Consolidare territorialmente il proprio Stato.
Egli riesce a realizzare i primi due obiettivi ma non riesce a portare a termine la sua azione per quanto riguarda gli altri 2.
In questo, gioca un ruolo importante, la morte prematura del padre Alessandro VI.
Al posto di quest’ultimo viene eletto Giulio II, un pontefice che gli fu molto ostile.
Inoltre, un altro fattore determina la sua rovina e non gli consente di difendersi dai nemici: infatti egli si ammala gravemente. Per questo Machiavelli parla di una “estrema malignità di fortuna”. Tuttavia Machiavelli riconosce che Cesare Borgia commise un errore, egli non riuscì a controllare l’elezione del nuovo pontefice e questo fu un elemento determinante della sua caduta.
CAPITOLO IX
Il tema dal capitolo IX è il principato civile: per principato civile Machiavelli intende un dominio formatosi perché un privato cittadino è stato innalzato un potere o dai nobili (i grandi) o dal popolo.
Per Machiavelli è meglio per un principe essere arrivato al potere con l’appoggio del popolo, perché quest’ultimo non fa difficoltà ad essere comandato, mentre i nobili si considerano alla pari con il principe e sono popoli controllabili.
Machiavelli chiarisce che il popolo se trattato senza eccessiva crudeltà non abbandona facilmente il principe; invece i nobili sono più pericolosi perché sono capaci di insidiare chi esercita il potere inoltre Machiavelli afferma che anche colui che è salito alla massima carica dello Stato col favore dei nobili deve mantenersi amico il popolo per poter controllare i grandi (righe 41-52).
L’autore sottolinea tuttavia la volubilità e l’ingenuità del popolo: infatti esso vedendo che riceve dei benefici da un uomo da cui non se le aspettava sarà tanto più grato e fedele al principe anche se quest’ultimo agisce per puro calcolo politico.
CAPITOLO XII
In questo capitolo Machiavelli torna sulla necessità per un principe di avere armi proprie e soprattutto di non ricorrere ai mercenari.
Un capitano di ventura infatti se è scarsamente capace porta il principe alla rovina; se invece è veramente abile potrebbe avere la tentazione di ambire il potere sottraendolo al Principe stesso.
Inoltre un esercito di cittadini o comunque di abitanti del Principato difenderà con molta più determinazione il territorio, perché deve tutelare le famiglie e i beni.
CAPITOLO XV
Il tema del XV Capitolo è costituito dai comportamenti per cui un principe è lodato e lesinato. In realtà il nucleo concettuale veramente importante è un altro: la necessità per un principe e per gli uomini in generale va agire sulla base della “VERITÀ EFFETTUALE”.
Machiavelli sostiene che parlando di politica non si può far riferimento a modelli ideali, astratti, ma occorre considerare le forze concretamente in gioco nella realtà.
Il mondo quindi non va considerato per ciò che dovrebbe essere ma per ciò che è e l’uomo deve essere abile a gestire eventi e circostanze usando la sua capacità di valutarli correttamente (righe 1-13) alle righe 9-11 Machiavelli fa una notazione sulla natura umana: egli afferma che sarebbe bello per un principe poter agire da buono ma, poiché gli uomini non sono buoni, se agisse così andrebbe incontro alla rovina. Questo è anche un esempio dello stile dilemmatico di Machiavelli.
Nel Capitolo appare evidente l’assoluta autonomia che Machiavelli assegna alla politica rispetto alla morale: in politica per agire con successo occorre a volte trasgredire le norme etiche ciò appare chiaro in relazione a quanto l’autore dice sempre nel capitolo XV.
Egli cita infatti una serie di qualità e di difetti che un principe può avere; naturalmente sarebbe auspicabile che egli avesse tutte le migliori qualità ma questo è impossibile per i limiti della natura, che è sostanzialmente portata al male.
Perciò un principe deve essere abile nel dissimulare i suoi difetti. L’arte della dissimulazione consiste nel saper nascondere perfettamente alcune parti della propria personalità in modo che gli altri non possono mai comprendere qual è la reale natura di un individuo.
È importante che un principe sappia dissimulare quei vizi che sono pericolosi per il mantenimento del suo potere (ad esempio deve frenare la sua crudeltà) invece egli si può lasciare andare a quei vizi che non compromettono troppo la sua posizione.
CAPITOLO XVIII
Il tema essenziale del capitolo è l’opportunità o meno per un principe di mantenere la parola data. All’inizio del capitolo (righe 1-5) abbiamo un esempio dello stile dilemmatico di Machiavelli. Infatti egli afferma che per un principe sarebbe lodevole mantenere la parola data; tuttavia dall’esperienza si è visto che coloro che hanno agito con l’astuzia venendo meno alle loro promesse hanno ottenuto risultati migliori di quelli che hanno agito con realtà: in sintesi lo stile dilemmatico consiste nel prospettare al lettore una situazione ideale e nel negarne immediatamente dopo la possibilità di realizzazione, richiamandolo alla dura legge delle cose umane.
Nel Capitolo XVIII egli sostiene che l’uomo può agire secondo due modalità: o con le leggi o con la forza (righe 6-15). Il settimo modo di agire è proprio dell’uomo, mentre il secondo è proprio della bestia. Machiavelli sostiene che un principe deve saper “usare la bestia e l’uomo”, vale a dire impiegare e applicare le leggi e la forza a seconda della circostanza. Egli fa come esempio il centauro Chirone cui fu affidata l’educazione di Achille. Dalla riga 16 alla 30 l’autore specifica che la forza può essere impiegata in due modi: quello della volpe e quello del leone.
Il primo modo consiste nell’agire attraverso l’astuzia e l’inganno mentre il secondo attraverso l’audacia e il coraggio.
Ad ogni modo il principe non deve mantenere la parola data: ciò sarebbe possibile solo se gli uomini fossero buoni, ma poiché sono malvagi è bene diffidare (righe 22-24).
Un principe quindi deve essere un grande simulatore e dissimulatore; d’altra parte conclude pessimisticamente Machiavelli, chi inganna troverà sempre chi si lascia ingannare (righe 27-30). L’autore poi fa l’esempio di Alessandro VI che per tutta la vita non fece altro che ingannare il prossimo e tutte le trame da lui ordite ebbero successo.
Machiavelli sostiene che questo risultato non furono altro che il frutto della conoscenza del mondo che aveva il pontefice.
Nella seconda parte del capitolo Machiavelli afferma che non è importante per un principe avere determinate virtù ma sembrare tale da convincere gli altri di possederle.
Nella parte finale l’autore ingerisce un’altra amara considerazione sulla natura umana (righe 51-56): gli uomini giudicano più dall’apparenza che dalla verità, perché poi hanno la lucidità necessaria per capire veramente chi hanno di fronte. E anche coloro che riescono a comprendere la reale natura del principe non osano opporglisi e andare contro l’opinione dei molti.
CAPITOLO XXV
Il tema del capitolo è quanto potere abbia la fortuna nelle cose umane e in che modo la si debba affrontare. L’autore apre la trattazione sostenendo che egli sarebbe tentato di credere, visti i tempi in cui vive, e che la sorte governi davvero le cose umane. Ma poiché egli non si rassegna a relegare l’uomo ad una condizione di impotenza.
Egli sostiene che la fortuna controlla metà degli eventi umani mentre l’uomo attraverso la virtù può controllare l’altra metà.
N.B.
Il rapporto tra virtù e fortuna non è così lineare in tutta l’opera di Machiavelli: infatti si deve osservare che nel capitolo VII, a proposito della rovina del Valentino Machiavelli parla di “Estrema Malignità di Fortuna”.
Queste oscillazioni nella definizione del rapporto tra virtù e fortuna hanno delle radici sostanzialmente emotive: da uomo del Rinascimento, Machiavelli non può rassegnarsi all’idea che l’uomo sia preda degli eventi e non “arbitro” della sua fortuna.
Per gli uomini rinascimentali infatti l’uomo era padrone di se stesso e del suo destino. Ma nel periodo in cui vive Machiavelli l’Italia è attraversata dalle lotte tra i principi e dalle invasioni straniere: un intero mondo che pareva inattaccabile si va disgregando ed è per questo che molti sono indotti a pensare che la fortuna abbia il potere quasi assoluto sugli individui.
Nel testo (righe 10-23) Machiavelli inserisce una famosa metafora quella della fortuna che è paragonabile a un fiume rovinoso che tutto travolge nella sua furia devastatrice se nessuno è tanto accorto da creare degli argini.
L’autore sottolinea poi il fatto che se nelle circostanze favorevoli la virtù non provvede ad attivare delle adeguate contro misure in vista di tempi più difficili, ogni cosa è destinata ad andare in rovina. È quanto è avvenuto in Italia, dove nessuno ha pensato a premunirsi di fronte alle prevedibili variazioni della fortuna. È così che ora la penisola è divenuta preda degli eserciti stranieri.
Nella seconda parte del capitolo Machiavelli si pone l’interrogativo se sia meglio affrontare la fortuna con impeto o con prudenza.
Fatto salvo il principio secondo cui la prudenza e l’audacia vanno usate in base alle circostanze, l’autore mostra una evidente preferenza per le azioni energiche e decise. Egli fa l’esempio di Papa Giulio II che in ogni cosa ha sempre agito impetuosamente e ha avuto successo, anche se il fatto che sia vissuto poco e non sia stato costretto a mutare strategia lo ha messo al riparo da eventuali fallimenti.
Il capitolo si conclude con un’altra famosa metafora: affermando che per lui è meglio essere impetuoso che prudente. Machiavelli sostiene che la fortuna è come una donna che si lascia vincere più dalla forza che da metodi più rispettosi.
CAPITOLO XXVI
Il XXVI Capitolo consiste in una esortazione a restituire la libertà all’Italia e a liberarla dai Barbari. Vedendo la condizione di subordinazione e di schiavitù in cui si trova la penisola Machiavelli fa un paragone con la servitù degli Ebrei in Egitto come questi ultimi hanno trovato in Mosè colui che li ha guidati verso la libertà, così l’Italia deve trovare un principe che le restituisca l’antica dignità e indipendenza. È a questo principe che si rivolge il trattato di Machiavelli. Nelle righe 37-54 l’autore si mostra fiducioso sulle capacità di riscatto degli italiani.
Agli italiani non mancano né l’abilità né l’ingegno e né nelle capacità militari, come dimostra la loro storia.
È la debolezza dei capi ad aver trascinato la penisola nella triste condizione in cui si trova. In ultimo egli si rivolge ai Medici perché uno di loro prenda su di sé l’incarico di unificare e liberare l’Italia e cita quattro versi di una canzone di Francesco Petrarca “Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno”, in cui esortano gli italiani a prendere le armi contro gli invasori.
ANALISI DEI RICORDI 30, 110, 117, 134 DI FRANCESCO GUICCIARDINI
Pensiero n.30
Guicciardini a differenza di Machiavelli ritiene che la fortuna domini gli eventi umani e che non sia possibile né prevedere che cosa può accadere né evitare i colpi della sorte. In questo senso egli ha una visione molto più pessimistica della realtà: l’uomo può solo usare la discrezione che è la capacità di adattarsi agli eventi “con onore” cioè in modo dignitoso.
Pensiero n.110
In questo pensiero Guicciardini contesta coloro che ritengono di poter utilizzare i modelli antichi come punto di riferimento per formulare la loro strategia d’azione nel presente. Infatti bisognerebbe trovarsi nella medesima situazione storica dei Romani il che per lui è impossibile.
Pensiero n.117
Guicciardini sostiene che è sbagliato giudicare in base agli esempi passati perché ogni minima variazione del caso produce conseguenze diverse ed è molto difficile cogliere queste ultime in questo modo egli nega la concezione ciclica della storia che era stato uno dei perni del pensiero Machiavelliano.
Pensiero n.134
Guicciardini ritiene che gli uomini siano più portati al bene che al male, però a causa della loro fragilità possono essere facilmente trascinati verso il male. In questo pensiero notiamo in Guicciardini una sensibilità più vicina a quella Luterana che a quella Cattolica soprattutto nella sottolineatura della debolezza umana come fonte del peccato e quindi dell’errore.
Pensiero n.28
Francesco Guicciardini manifesta in questo pensiero un giudizio molto severo sulla moralità dell’istituzione ecclesiastica. Infatti egli sostiene che se nella sua attività di diplomatico non fosse stato costretto a tutelare gli interessi della chiesa (santa sede) certamente avrebbe aderito al pensiero Luterano. Il motivo di questa dura critica sta nella sua esperienza tra gli ecclesiastici di cui egli ha potuto osservare da vicino la corruzione e l’immortalità. Va sottolineato il fatto che anche Machiavelli formula sulla chiesa cattolica un giudizio negativo: ma mentre quello di Guicciardini è un giudizio morale quella di Machiavelli è una valutazione storica. Infatti egli afferma che la chiesa cattolica esercitando il potere temporale ha ostacolato la creazione di uno Stato Unitario nella penisola italiana inoltre spostando l’attenzione degli italiani sul mondo ultraterreno a contribuito al formarsi di quel atteggiamento passivo che ha impedito gli italiani di affrontare coraggiosamente i loro problemi.
Pensiero n.32
In questo pensiero appaiono evidentissime le differenze tra Machiavelli e Guicciardini per quanto riguarda la definizione del rapporto tra morale e politica. Infatti mentre per Machiavelli la politica è indipendente dalla morale e il principe può violare le norme etiche (morali) per raggiungere i suoi scopi, per Guicciardini è giusto che un vano politico sia ambizioso e miri al potere, però lo deve fare con onore quindi nel rispetto delle norme morali.
Pensiero n.125
Questo è uno dei pensieri-cardine della concezione Guicciardiniana della realtà. Guicciardini infatti afferma che si ingannano tutti coloro che vogliono prendere il futuro o conoscere la verità sul mondo perché l’uomo è al “buio delle cose”: in questo modo l’autore sostiene la inconoscibilità della realtà che l’uomo non può analizzare e comprendere tramite la ragione. È chiaro che Guicciardini è già al di fuori della cultura rinascimentale ed ha già una sensibilità barocca. Machiavelli invece da uomo rinascimentale ritiene che la realtà sia conoscibile e che se ne possano trarre utili insegnamenti per formulare un efficace strategia d’azione.
Le due strutture del principe e dei ricordi e la concezione della realtà in Machiavelli e in Guicciardini
Quanto abbiamo evidenziato sopra trova una conferma nella diversa struttura delle opere dei due autori: infatti “il principe” è un trattato che ha una struttura razionale divisa per capitoli e argomenti che riflette la convinzione che nonostante l’opera della fortuna la realtà sia governata da leggi comprensibili all’uomo invece “i ricordi” hanno una struttura frammentaria come mistero e di un insieme di eventi imprevedibili che l’uomo non può comprendere.
EVOLUZIONE DELLA MATERIA CAVALLERESCA TRA XIV E XVI SECOLO
I CANTARI
Tra il XII – XVI secolo cominciano diffondersi in Europa i Cantari, delle elaborazioni politiche trasmesse per lo più oralmente nelle quali si realizza una fusione tra ciclo bretone e ciclo carolingio. Del ciclo bretone vengono utilizzati i temi dell’amore e dell’avventura, mentre del ciclo carolingio vengono recuperati i personaggi fondamentali (Carlo Magno, Rinaldo, Roland che però finisce per assumere il nome di Orlando).
Un altro elemento importante nello sviluppo dei Cantari è l’utilizzazione dell’VIII (forma metrica costituita da una strofa di 8 endecasillabi, variamente rimate). Questo metro sarà utilizzato da tutti gli scrittori di poeti cavallereschi, dal Pulci al Tasso.
IL MORGANTE MAGGIORE DI LUIGI PULCI
Di estrazione borghese; ciò significa che egli è sostanzialmente estraneo alle idealità aristocratiche che coincidono con i valori cavallereschi. Questo spiega perchè egli possa procedere ad una vera e propria dissacrazione dell’etica cavalleresca ed a un suo rovesciamento in chiave comica.
N.B.
La comicità mira alla disgregazione dei valori rappresentata dai bersagli contro cui si dirige; chi rovescia in chiave comica del valore non vi si riconosce affatto e può quindi colpirli senza provare alcuna forma di nostalgia nei loro confronti. La comicità è diretta ed immediata ed utilizza il riso come mezzo di dissoluzione dei valori-bersaglio. L’ironia invece presuppone una condivisione di valori: è chiaro quindi che chi usa l’ironia non intende procedere ad un azione di disgregazione dei valori stessi, ma soltanto ad una presa di distanza che non presuppone un rifiuto definitivo. Ariosto ad esempio condivide i valori cavallereschi e trova nostalgia per essi; tuttavia è consapevole del loro definitivo tramonto per questo evidenzia un distacco ironico nei loro confronti.
Pulci usa l’arma della comicità, ma può farlo perchè egli è per estrazione sociale completamente estraneo al sistema di valori che diventa estraneo. Egli infatti è di origine borghese, lontano da quel mondo aristocratico che si identifica ancora nei valori cavallereschi. Lo stesso modo, Pulci è lontano anche dai valori religiosi a punto tale che nel Morgante Maggiore egli procede ad una dissacrazione, attraverso l’uso della comicità e del grottesco.
N.B.
Il “grottesco” coincide con una deformazione caricaturale dei valori o dei personaggi che sono il bersaglio dell’operazione. L’esempio più significativo e utile per capire la categoria del grottesco è una caricatura; in quest’ultima infatti il personaggio preso di mira, non viene raffigurato realisticamente, ma deformando l’immagine in modo da risaltarne i difetti. L’effetto è quello di suscitare il riso di chi lo osserva e di ridicolarizzare il personaggio scelto come oggetto.
GLI ANTI-ERO DEL MORGANTE MAGGIORE
I personaggi del poeta cavalleresco di Pulci, sono quanto di più lontano si può immaginare dagli eroi del ciclo carolingio e del ciclo bretone. Infatti si tratta di personaggi che non sono guidati da nobili valori cavallereschi ma sono animati da un gusto tutto “materiale e fisico” della vita.
Una delle caratteristiche dell’età umanistiche rinascimentali è il recupero della fisicità: in questo senso ci si allontana profondamente dall’ideale mistico ascetico secondo il quale il corpo doveva essere mortificato per consentire all’individuo di avvicinarsi a Dio. La rivalutazione del mondo terreno, porta anche ad una rivalutazione del corpo, ma l’esaltazione di tutto ciò che è materiale e fisico fa parte anche del ROVESCIAMENTO comico tipico del poeta. Personaggi come MORGANTE e MARGUTTE sono intenti a soddisfare i loro bisogni materiali in primo luogo la necessità dl cibo verso cui possono manifestare una passione sfrenata. Il rapporto con il cibo assume caratteri della “DISMISURA”. I personaggi divorano cibo in quantità immaginabili, secondo una regola dell’eccesso che guida tutte le loro azioni. Tutto questo senso della dismisura è presente nel loro aspetto fisico: Morgante è un gigante, Margutte è un mezzo gigante; il primo è tutto istinto e forza, il secondo eccelle per astuzia. Nell’episodio riportato (pag.51-54) i due si incontrano per la prima volta: Morgante chiede a Margutte di che fede egli sia (VIII – 114) e Margutte risponde in maniera paradossale: l’unica cosa in cui egli crede è ciò che può vedere, toccare e soprattutto mangiare. Nelle VIII – 115-116 egli procede ad una dissacrazione sistematica dei dogmi cristiani, facendo una parodia della trinità. Non sorprende il fatto che dopo la morte le autorità ecclesiastiche imponessero la sepoltura del Pulci in terra sconsacrata. Infine nelle altre VIII che fanno parte degli episodi, Margutte elenca una serie di vizi che egli pratica senza rimorso, e addirittura con orgoglio.
“Orlando Innamorato” di Matteo Maria Boiardo:
- Novità già evidente nel titolo: fusione tra ciclo carolingio (v. personaggio di Orlando) e ciclo bretone (v. tema amoroso).
- Alcuni personaggi appartengono al ciclo carolingio(Orlando→ Ronald Rinaldo)
Altri sono frutto dell’invenzione fantastica dell’autore (esempio: Angelica, Bradamante – esempio di donna-cavaliera si ricordi ENIDE nel romanzo di Chretien de Troyes, “EREC ET ENIDE”.
Significato dell’Incipit:
“Signori cavalieri, che ‘ve adunati”
( , signori e cavalieri, che siete qui riuniti);
Processo di identificazione tra personaggi del poema e lettori (aristocratici della corte estense).
“Orlando Innamorato” rappresenta un’importante punto di svolta nell’evoluzione della materia cavalleresca nel XV secolo infatti è il primo poema cavalleresco in cui la fusione tra ciclo carolingio e ciclo bretone, già verificatasi nei cantari, appare evidente. Il titolo del poema di Boiardo è già in sé significativo: Orlando, rielaborazione del conte Roland, che nel ciclo carolingio rappresenta il modello del cavaliere-martire, completamente devoto alla causa religiosa della difesa della cristianità contro gli infedeli, per la prima volta in un’opera scritta assume caratteri cortese, disposto a tralasciare i suoi doveri per amore di Angelica.
Quest’ultimo personaggio è un’invenzione di Boiardo: è un’affascinante donna saracena, che si presenta alla corte di Carlo Magno per ottenerne l’appoggio in una contesa con il fratello. I cavalieri cristiani s’innamorano di lei e sono disposti a lottare tra loro per ottenere il suo amore. Angelica quindi nel poema riveste una duplice funzione.
1. Quella di personaggio in grado di sovvertire situazioni e valori costituiti (i cavalieri: dimenticano il loro dovere per lei).
2. Quello di motore dell’azione (gran parte degli eventi e delle iniziative prese da altri personaggi ruotano intorno a lei).
Queste due caratteristiche ritorneranno anche nell’Orlando Furioso di Ariosto.
Un altro aspetto che va sottolineato è il processo di identificazione che l’autore stabilisce fin dall’inizio tra i personaggi del poema e i lettori: la corte estense era una delle più aristocratiche della penisola italiana; Ferrara infatti era stata la prima signoria a formarsi in Italia trasformandosi direttamente in questa forma istituzionale in seguito alla crisi del comune aristocratico.
Era inevitabile che una corte del genere si identificasse nei valori cortesi che d’altra parte anche Boiardo condivide in pieno. Essi corrispondono a quell’ideale di raffinatezza di nobiltà e di bellezza che animano la corte estense. L’atteggiamento di Boiardo quindi, è ben diverso da quello di Pulci, che nega i valori cortesi attraverso il rovesciamento grottesco del mondo cavalleresco ma è anche diverso da quello che assumerà Ariosto, che attraverso l’ironia, manifesterà una forma di distacco rispetto al mondo cortese pur condividendone i valori. L’ironia di Ariosto è il frutto della consapevolezza che l’etica cortese e la realtà ad essa legata sono ormai al tramonto: si può provare della nostalgia ma non si può recuperare ciò che è finito per sempre. L’ultimo elemento importante da evidenziare è la funzione archetipica che l’Orlando innamorato assume per Ariosto nell’elaborazione dell’Orlando Furioso: temi, situazioni e personaggi che troviamo nel poema di Boiardo ricompaiono in quello Ariostesco. Un esempio è rappresentato dalle figure di Orlando, Angelica e Bradamante e dell’importanza che assume la figura di Ruggero capostipita della dinastia estense.
“ORLANDO FURIOSO”:
• Struttura Orizzontale → I personaggi sono semplici pedine che servono a far procedere l’azione → Ciò che conta è il Dinamismo della Narrazione
• Tre Luoghi nel poema:
1. La Selva → dominio del caso realtà come “Labirinto”
2. Il Palazzo di Atlante:
→ percezione illusoria della realtà
→ proiezione dei propri desideri
3. Gerusalemme → recupero della Razionalità dell’Etica Cavalleresca
• Nel “Furioso” l’armonia è solo strutturale → la visione della realtà è sostanzialmente Pessimistica
LA STRUTTURA DELL’ORLANDO FURIOSO E IL RAPPORTO CON IL RINASCIMENTO
L’Orlando Furioso trae diversi spunti dall’Orlando Innamorato di Boiardo: innanzitutto vi sono dei personaggi come quello di Angelica o quello di Bradamante (pura invenzione di Boiardo) che ricompaiono anche nel furioso; inoltre anche in questo caso abbiamo una fusione tra ciclo carolingio e ciclo bretone. Ciò appare evidente nell’incipit del poema:
“Le donne, i cavallier, l’armi e gli amori”
Come si può vedere attraverso una figura retorica il chiasmo si prende atto dell’avvenuta integrazione tra i due cicli. La struttura del poema cavalleresco è orizzontale: ciò significa che prevale l’elemento dinamico (movimento) e che i personaggi non vengono approfonditi psicologicamente ma sono semplici strumenti a servizio dell’azione. Qualche critico ha parlato, a proposito dell’Orlando Furioso di una tecnica dell’articolazione narrativa simile a quella dei cartoni animati. Nell’Orlando Furioso come vedremo non c’è traccia dell’ottimismo che caratterizza la prima fase del Rinascimento: in sintesi si può dire che l’individuo è preda del caso, non percepisce correttamente la realtà, e vive in un mondo dominato dalla follia. Lo stesso Orlando il più saggio dei paladini perde la ragione e ad ogni modo il “senno” è una facoltà estremamente fragile che l’uomo può perdere in qualsiasi momento. Di Rinascimentale del poema c’è l’armonia tra le parti: il Furioso è un’opera corale in cui nessun personaggio ha la preminenza: l’opera è costituita da diversi tipi narrativi che si incrociano fra loro: una tecnica molto usata da Ariosto è infatti la Dissolvenza Incrociata.
In pratica l’autore traccia un determinato filo narrativo e lo interrompe riprendendolo più tardi e inserendo un filo narrativo diverso. Questa tecnica crea un effetto di “Suspence”, perché un lettore viene preso dalla curiosità di conoscere il seguito della storia.
L’EPISODIO DELLA SELVA:
L’individuo e il caso, la struttura labirintica della realtà
La selva metaforicamente rappresenta il dominio del caso: tutti gli incontri tra i personaggi hanno questo carattere casuale: ovviamente questo rinvia ad una concezione del rapporto tra uomo e fortuna diverso da quello tracciato da Machiavelli. Infatti lo scrittore fiorentino pur ammettendo il peso dell’imprevedibilità del caso nelle azioni umane riteneva che l’uomo potesse comunque volgere le circostanze a proprio favore quando se ne presentava l’opportunità. Invece Aristo presenta nella selva una serie di personaggi governati quasi interamente dall’imprevedibilità della fortuna: è come se l’uomo non fosse assolutamente in grado di gestire gli eventi che lo riguardano. Oltretutto l’uomo si muove in una realtà in cui non riesce ad orientarsi: essa gli appare come labirinto (la Selva) in cui gli può accadere di girare a vuoto, come capita al cavaliere saraceno Ferrau, che sbagliando la scelta del sentiero ad un bivio si ritrova al punto di partenza (Ottava 23 p.108-109).
PARAFRASI – VIII – 23
“E poiché non sapevano se Angelica avesse scelto l’uno o l’altro sentiero, dal momento che in tutti e due comparivano orme fresche, si affidarono alla fortuna scegliendo Rinaldo una e Saraceno l’altra. Ferrau si aggirò a lungo all’interno del bosco e si ritrovò alla fine al punto di partenza.”
Come si può vedere la Selva appare come un Labirinto in cui i cavalieri si perdono girando a vuoto questo potrebbe anche costituire una metafora della vanità dell’agire umano. L’uomo si affanna per raggiungere i suoi obiettivi ma ogni sua scelta e ogni sua azione si dimostrano inefficaci di fronti al caso. D’altra parte la parola chiave dell’VIII è “arbitrio di fortuna” che esprime pienamente il capriccio del caso. Un altro aspetto interessante dell’episodio è la nostalgia che Ariosto manifesta nei confronti dei valori cavallereschi: ciò è particolarmente evidente nell’VIII 22.
PARAFRASI – VIII – 22
“O grande virtù dei cavalieri antichi! Erano rivali, erano di fede religiose diverse e sentivano per tutto il corpo i dolori provocati dai violenti colpi ricevuti in un duello: eppure se ne vanno insieme per boschi oscuri e sentieri intricati senza sospettare l’uno dell’altro. Il destriero spronato da due cavalieri giunge ad un bivio da cui ripartivano due sentieri.”
Ariosto condivide i valori cavallereschi ma che ormai appartengono al passato. Rinaldo cavaliere cristiano e Ferrau cavaliere saraceno sospendono temporaneamente un duello per raggiungere Angelica che è fuggita; pur essendo nemici si comportano lealmente l’uno verso l’altro, rispettando il codice cavalleresco. Anche in questo VIII si fa riferimento al carattere labirintico della Selva quando ad esempio si citano le “Selve oscure” e i “Calli oblique” (verso 5 VIII 22) che attraversano i due cavalieri.
L’EPISODIO DEL PALAZZO DI ATLANTE
L’episodio del palazzo di Atlante è importante perché pone in rilievo il carattere fallace della conoscenza umana. I cavalieri sono tutti vittime dell’incantesimo realizzato dal mago Atlante che fa sì che i cavalieri che entrano nel castello non riescano più ad uscirne, vittime di visioni allucinatorie che non altro che le proiezioni dei loro desideri, ad esempio Orlando vede Angelica ma è solo un’illusione. L’episodio ha un valore metaforico: indica non solo il carattere illusorio della percezione umana della realtà ma ancora una volta il carattere labirintico della realtà stessa, e l’impossibilità dell’uomo di orientarvisi. Infatti analogamente a quanto avviene nella Selva, i cavalieri si aggirano a vuoto nel castello senza riuscire a trovare la via d’uscita.
Il tema dell’illusorietà della percezione e dell’agire umano appare particolarmente evidente nell’articolazione di uno specifico campo semantico che comprende i seguenti termini:
“invan” al v.6 dell’VIII 9, “invano” al v.1 dell’ VIII 11, nella stessa VIII “vani sentieri” al v.6.
Altri termini sono: “vani” al v.1 dell’ VIII 12, “inganno” al v.7 della stessa VIII e “invano” al v.4 dell’ VIII 13.
LA PAZZIA DI ORLANDO
L’episodio della pazzia di Orlando è particolarmente interessante per varie ragioni che si possono sintetizzare come segue:
1. Il fatto che a diventare folle sia il più saggio tra i paladini dimostra l’assoluta fragilità della natura umana.
2. In questo episodio troviamo un insolito approfondimento della psicologia del personaggio.
3. Dal punto di vista stilistico il passo dell’opera presenta un’evidente complessità retorica.
Orlando è alla ricerca di Angelica e si trova ad attraversare un bosco. Li scopre che sugli alberi sono stati incisi, intrecciati i nomi di Angelica e Medoro. Occorre a questo punto fare un breve passo indietro nella narrazione. Angelica aveva soccorso un umile fante saraceno, il giovane Medoro, e lo aveva curato con l’aiuto di alcuni pastori. I due si erano innamorati e avevano lasciato i segni della loro passione attraverso un’incisione dei loro nomi e di messaggi sugli alberi, e come vedremo, dentro una grotta. Sono proprio queste incisioni che Orlando scopre passando per il bosco. Inizialmente Orlando non crede a ciò che legge, anzi non vuole crederci: arriva a ipotizzare addirittura che Medoro sia un soprannome che Angelica gli ha assegnato. In questo caso è chiaro che Orlando da il via ad un processo di auto-inganno. Ma di fronte all’incisione che trova nella grotta, Orlando non può più mentire a se stesso e rimane impietrito. In questa incisione infatti Medoro rende chiaro il suo amore per Angelica e si rivolge ai riandanti augurandogli un felice soggiorno in quei luoghi in cui Angelica giacque nuda tra le sue braccia.
La reazione iniziale di Orlando è quella di trattenere il dolore dentro di sé, allibito di quanto ha scoperto: per lui si tratta di un doppio affronto. Per primo luogo gli è stato preferito un altro umano (per questo per il più famoso dei paladini è un’anta) ma oltre a ciò Medoro è un semplice fante. L’ironia della situazione sta nel fatto che Angelica amata e inseguita dai migliori cavalieri saraceni e cristiani, alla fine preferisce un umile fante, un uomo che non ha nessun linguaggio e che non ha compiuto nessuna nobile impresa. Proprio questo sforzo che Orlando fa per trattenere il dolore, fa si che durante la notte egli esploda in una follia distruttrice: egli esce nel bosco e colpisce a caso tutto ciò che trova per fargli recuperare il senno, un cavaliere cristiano Astolfo dovrà recarsi sulla luna a cavallo ippogrifo.
ASTOLFO SULLA LUNA
Astolfo compagno di Orlando si reca sulla luna per recuperarle il senno (la ragione). Egli compie il suo viaggio su un animale fantastico, ippogrifo. Quando arriva sulla luna egli trova un mondo che è allo stesso tempo speculare e rovesciato rispetto al mondo terreno: infatti da una parte sulla luna si trovano le stesse cose che esistono sulla terra (montagne, castelli, boschi) dall’altra sulla luna si raduna tutto ciò che si perde sulla terra. Innanzitutto Astolfo scopre che sulla luna appare in tutta la sua evidenza l’inutilità di tutto ciò che gli uomini ritengono importante sulla terra: la gloria, la fama, i progetti fino ad arrivare ai grandi regni e imperi dell’antichità.
VIII – 74
Il narratore si riferisce non solo a ciò che la fortuna nella sua instabilità toglie o concede ma anche a ciò che gli uomini fanno di tutto per ottenere come ad esempio la fama che però è divorata dal tempo e quindi inutile.
Alla 2° riga dell’VIII - 74 è una metafora attraverso cui si indica la fortuna mentre al 5° verso si ha una similitudine (“..come tarlo”). Al verso 6 si ha un’altra metafora. In questa VIII si ha un elenco di tutto ciò che l’uomo perde inutilmente sulla terra e comincia a delinearsi un campo semantico che sarà caratterizzante di tutto l’episodio quello della vanità. Troviamo infatti termini “inutil” al v.2, “vani” al v.4-5 nell’VIII - 75.
Un altro campo semantico che emerge è quello della perdita (“perde” al v.2 e “perdesti” al v.7 nell’VIII - 75).
VIII – 76
Astolfo poi vede un monte di vesciche di sacche gonfie dalle quali provengono urla e grida: l’apostolo gli spiega che si tratta degli antichi regni, quello degli assiri, quello dei persiani, quello di Alessandro Magno, che un tempo furono famosi e dei quali si è persa la gloria. Il fatto che essi siano ridotti a vesciche introduce un elemento di svalutazione. Quest’ultimo è ben rappresentato anche dall’antitesi presente nell’ultimo verso (“incliti” e “oscuro”): tutto ciò che sulla terra è glorioso mostra la sua inconsistenza sulla luna.
VIII – 82-86
Astolfo arriva ad un monte in cui sono custoditi in ampolle i “senni” degli uomini. La quantità di ampolle è impressionante e questo già da l’idea di quanto la ragione sia esente dal mondo umano. Ma ancora più significativa è la descrizione del contenuto delle ampolle:
VIII – 83
“Era come un liquido poco denso e fluido facile ad evaporare se non si tiene ben chiuso”.
Attraverso questa similitudine Ariosto sottolinea la fragilità della ragione umana e la facilità con cui essa può essere perduta. Nell’VIII – 84 infatti Astolfo si accorge che c’è anche la sua ampolla: ne beve il contenuto ma il narratore si avvisa che in futuro Astolfo lo riperderà.
“Gerusalemme Liberata” (1575) di Torquato Tasso:
- Struttura Verticale e a Blocchi: → Superamento della visione rinascimentale;
- → Approfondimento Psicologico dei personaggi dalle cui personalità dipendono le azioni;
- Forte presenza dell’elemento religioso (Clima Culturale Controriformistico) → v. Incipit del poema “Canto le armi devote e il capitano” → che è in tensione con la sensualità che emerge da alcuni personaggi e situazioni (v. Episodio del “Giardino D’Armida”);
- Tema dell’Amore Irrealizzabile (es. Erminia ama Tancredi, che non la contraccambia perché è innamorato di Clorinda, che ne è ignara).
LA STRUTTURA GENERALE DEL POEMA
La Gerusalemme Liberata ha una struttura verticale esattamente opposta a quella dell’Orlando Furioso: mentre in questo poema i personaggi sono semplici che servono a far procedere l’azione, nella Gerusalemme Liberata essi sono il perno da cui scaturiscono azioni ed eventi.
Infatti ciò che essi compiono è la diretta conseguenza di ciò che essi sono. La struttura del poema Tassiano può anche essere definita a blocchi. Esistono dei nuclei narrativi che si articolano intorno ad alcuni personaggi principali (Rinaldo, Tancredi, Erminia, Clorinda, Argante), ma non esiste un centro unificatore per cui l’opera può sembrare in alcuni punti disorganica.
Si può trovare un corrispettivo di questa struttura nella pittura del tempo: ad esempio nella trasfigurazione di Raffaello se noi infatti osserviamo questo quadro ci rendiamo conto che lo sguardo non converge verso il centro (come accade ad esempio nel “Tondo Doni” di Michelangelo) ma si disperde in diversi blocchi figurativi.
L’esistenza dell’uso della prospettiva nei quadri Rinascimentali è legata ad una visione del modo in cui vi sono un ordine e una razionalità e al centro di tutto vi è l’uomo. Con i manieristi (come Raffaello) la disposizione di cose e figure umane nei quadri cambia: l’uso frequente di blocchi figurativi che non rispettano un preciso ordine prospettico indica una diversa concezione del mondo in cui emerge una sfiducia nella possibilità che esista un ordine razionale.
L’ELEMENTO RELIGIOSO NEL POEMA
Fin dall’Incipit emerge un elemento che nell’Orlando Furioso è completamente assente: quello religioso. Nel proemio Tasso afferma che l’argomento della sua narrazione sarà la prima crociata (1096-1099): il capitano a cui l’autore fa riferimento è infatti Goffredo da Buglione.
Questo elemento si spiega con il clima culturale dell’epoca: si era appena concluso il concilio di Trento con cui la Chiesa Cattolica aveva avviato la Controriforma, cioè la risposta dottrinale e organizzativa alla Riforma Luterana. La Chiesa con la Controriforma aveva inteso ad assumere il controllo della cultura imponendo severi limiti alla Libertà d’Espressione.
Nel 1562 era stato istituito l’Indice dei Libri Proibiti. I testi che erano considerati in contrasto con dogmi della Chiesa Cattolica venivano ritirati dalla circolazione e bruciati in piazza. Gli autori dei testi proibiti erano sottoposti a processo da parte del Tribunale dell’Inquisizione Romana e se ritenuti colpevoli venivano dichiarati eretici e condannati al rogo.
N.B.
L’uso della tortura in questo tipo di processi era usuale; l’importante per gli Inquisitori era ottenere la confessione del sospettato di eresia. Molte confessioni di colpevolezza venivano estorte con la forza e non risultavano attendibili: infatti diversi sospettati preferivano fare una falsa dichiarazione di colpevolezza e andare incontro alla morte piuttosto che essere sottoposto ad altre torture.
Nel 1571 si è creata la congregazione dell’Indice, formata da Ecclesiastici incaricati di esaminare tutti i testi che venivano pubblicati e di controllare la loro conformità rispetto alla dottrina cattolica. Esisteva addirittura una lista di soggetti che gli artisti potevano rappresentare e una in cui erano inseriti i soggetti vietati dall’autorità ecclesiastica.
In questo clima culturale particolarmente repressivo anche Torqueto Tasso viene sottoposto a dure critiche per il poema cavalleresco Gerusalemme Liberata.
Gli si rimprovera infatti di aver inserito nel poema alcuni elementi in contrasto con la morale cattolica, esaltando la sensualità e l’amore passionale nell’episodio di Rinaldo e Armida, inoltre gli viene rimproverato di aver dato troppo spazio al tema amoroso.
Per questo egli, che era un cattolico convinto entra in crisi: nel 1590 egli pubblicherà una revisione integrale del poema cavalleresco, con il titolo di Gerusalemme “Conquistata”. I risultati artistici di questa operazione saranno però decisamente inferiori rispetto alla Gerusalemme Liberata.
I tre aspetti fondamentali del proemio sono i seguenti:
1. La presenza dell’elemento religioso che appare evidente fin dall’incipit.
2. Una concezione didascalica della poesia.
3. Uno sviluppo del motivo encomiastico (la lode del Signore) che rivela una sincera gratitudine per il protettore del poeta Alfonso II d’Este.
Dal primo elemento abbiamo già parlato diffusamente; riguardo al secondo occorre sottolineare che nell’Ottave 2-3 alla poesia viene assegnata una funzione morale ed educativa (e questa costituisce una importante differenza rispetto ad Ariosto): la poesia viene paragonata infatti a una amara medicina che viene fatta ingoiare ad un fanciullo malato, rendendo la più sopportabile attraverso l’uso del miele sugli orli della tazza che la contiene.
Con questo si vuole sottolineare il fatto che la poesia deve trasmettere contenuti morali, anche duri da accettare ma deve farlo attraverso la bellezza e l’armonia dei versi.
Nel IV stanza del proemio abbiamo per l’appunto lo sviluppo del motivo encomiastico: appare evidente tutta la gratitudine che il poeta prova per il suo protettore Alfonso II d’Este. Infatti Tasso prima di arrivare alla corte di Ferrara aveva condotto una vita di continue peregrinazioni e la sua adolescenza e la sua giovinezza erano state quindi caratterizzate dalla precarietà e dall’instabilità. È chiaro che per Tasso la Corte degli Estensi rappresenta un porto sicuro dove trovare finalmente la serenità di cui ha bisogno. Il sentimento di gratitudine nei confronti di Alfonso II è quindi sincero.
L’episodio di Erminia tra i Pastori (p.244-250 Tomo V)
Il personaggio di Erminia introduce uno dei temi centrali della Gerusalemme Liberata: quello della impossibilità di realizzare l’amore. Erminia infatti è innamorata di Tancredi che però non corrisponde al suo sentimento ed è invece a sua volta innamorato di Clorinda. Nel poema Tassiano, tanto più grande è il sentimento amoroso tanto meno esso è destinato a trovare una realizzazione. Nell’episodio Erminia dopo essere fuggita dall’accampamento dei cavalieri cristiani si rifugia tra i pastori. Un elemento particolarmente importante è l’interpretazione del rapporto tra personaggio e paesaggio: il paesaggio diviene la proiezione dei sentimenti del personaggio rappresentandone pienamente la malinconica rassegnazione ad una condizione di infelicità. Tuttavia Erminia proprio in mezzo alla natura e vivendo la semplice vita dei pastori riuscirà a trovare la serenità necessaria per accettare l’impossibilità del suo desiderio amoroso.
ERMINIA TRA I PASTORI (p.245 Tomo V)
Nelle prime tre Ottave prevale la rappresentazione dello smarrimento di Erminia sottolineata dalla presenza di un campo semantico appositamente costruito (“si raggira” al verso 5 dell’Ottava 1, “smarrita” al verso 7 dell’Ottava 2, “senza consiglio e senza guida” al verso 2 dell’Ottava 3). Dal punto di vista retorico abbiamo un’antitesi al verso 4 dell’Ottava 1 (“viva e morte”); vi è poi una similitudine ai versi 1-6 dell’Ottava 2 infine abbiamo una personificazione ai versi 5 e 6 dell’Ottava 3. Nell’Ottava 4 vi è la rappresentazione del tormento interiore del personaggio: anche nel sonno Erminia è tormentata dall’amore per Tancredi (si veda la personificazione ai v. 7,8).
A partire dall’Ottava 5 comincia ad allinearsi una rappresentazione della natura in cui avviene una proiezione dei sentimenti e dello Stato d’animo di Erminia.
Nell’Ottava 20-21-22 questo stretto rapporto tra personaggio ambiente si concretizza nelle parole che Erminia rivolge alla natura alle “amiche di ante”.
Nella parte centrale del brano abbiamo la rappresentazione del processo interiore attraverso cui Erminia giunge ad una malinconica rassegnazione riguardo il suo amore non corrisposto per Tancredi. La vita semplice e naturale dei pastori, il contatto diretto con la natura rasserenano in qualche modo Erminia e placano il suo tumulto interiore che si risolve in una pacata sia pure dolorosa accettazione del destino.
EPISODIO DI CLORINDA E TANCREDI (p. 252-258)
Come Erminia è innamorata di Tancredi senza speranza così Tancredi nutre nei confronti di Clorinda un amore non corrisposto. In realtà Clorinda è una Donna Cavaliere Saracena e ignora del tutto i sentimenti di Tancredi. Quest’ultimo, Cavaliere Cristiano è drammaticamente combattuto tra senso del dovere (che lo spinge a lottare contro i nemici saraceni) e amore per Clorinda (che è a tutti gli effetti una nemica).
A differenza di questo avviene nell’Orlando Furioso nella Gerusalemme Liberata i personaggi subiscono un processo di approfondimento psicologico Tancredi è il caso più evidente. Sempre in bilico tra dovere e amore Tancredi non sa fare una scelta definitiva: tuttavia egli non viene mai meno ai suoi obblighi di cavaliere. La vicenda che vede coinvolti Tancredi e Clorinda avrà esito drammatico: i Saraceni infatti faranno un’incursione al di fuori delle mura di Gerusalemme assediata e Clorinda non riuscirà a rientrare in tempo. Per di più ella non indossa la sua consueta armatura per cui Tancredi non la riconosce. È significativo il fatto che il duello che si svolgerà tra l’Ignaro Tancredi e Clorinda si svolga di notte: l’oscurità ha un valore metaforico perché indica la cecità di Tancredi che non riconosce la donna amata. Il duello si conclude con la morte di Clorinda: in fin di vita ella chiederà a Tancredi di essere battezzata; il Cavaliere Cristiano va a prendere dell’acqua da un fiume vicino e alza la visiera dell’elmo. A questo punto si rende conto di aver colpito la donna amata.
Tancredi si fa forza e battezza Clorinda ma non appena questo perde i sensi e muore egli sente la vita spegnersi dentro: quello di Clorinda è una morte fisica ma quella di Tancredi è una morte spirituale. In realtà l’intero episodio è come una dolorosa metafora della vita umana: non solo l’uomo è destinato a non realizzare mai il vero amore, ma finisce per distruggere proprio ciò che ama di più. Da notare un’ultima cosa: il caso in questo episodio e in gran parte del poema ha sempre conseguenze negative. Questo è un’altra importante differenza tra il poema Tassiano e l’Orlando Furioso.
GALILEO GALILEI
LA NASCITA DELLA SCIENZA MODERNA
La figura di Galileo è centrale per comprendere l’evoluzione del pensiero scientifico in età moderna. Fino ad allora la scienza rinascimentale aveva fatto riferimento aristotelici (che ritraeva nella filosofia Aristotele, pensatore greco vissuto nel V° secolo a.C.), quindi il pensiero scientifico non si era reso dalla tradizione: si riteneva che gli antichi avessero già scoperto tutte le leggi che riguardavano e governavano la natura, perciò ai moderni non restava altro che parsi sulla via dei pensatori delle epoche precedenti. Il pensiero di Galileo è rivoluzionario per i seguenti motivi:
1. Esso introduce una concezione dinamica della scienza e del sapere; tutto ciò che è stato scoperto in passato può essere posto in discussione in base alla sperimentazione empirica (che si fonda su esperimenti concreti su cui si valutano i risultati).
2. L’adozione del metodo sperimentale; esso si basa su una serie di esperienze che vengono ripetute nella medesima condizione varie volte, se l’esperimento dà sempre i medesimi risultati si passa alla definizione di legge fisica che viene espressa in formule matematiche.
3. La natura viene concepita come un insieme di rapporti matematici di cui la necessità di uno scienziato di conoscere a fondo il linguaggio della matematica senza il quale è impossibile interpretare l’universo.
4. La ricerca scientifica non viene concepita come in contrasto con la fede infatti occorre dare della Bibbia una interpretazione storicizzata che tenga del livello di comprensione di uomini vissuti diversi secoli prima quando le conoscenze scientifiche erano rudimentali.
SCIENZA E FEDE IN GALILEO
Il rapporto tra scienza e fede in Galileo trova la sua espressione più significativa nella lettera a Cristina Di Lorena duchessa di Toscana. In questa lettera il concetto secondo cui a suo parere la ricerca scientifica non è affatto in contrasto con fede e la sacra scrittura. Infatti bisogna tener conto del fatto che la sacra scrittura non possono essere interpretate letteralmente. Esse infatti contengono numerose contraddizioni perciò bisogna ricorrere a una interpretazione storicizzata dei testi.
N.B.
La necessità di questa interpretazione storicizzata era stata adottata da Lutero ed era la norma del mondo protestante ma non in quello cattolico, dove per molto tempo è prevalsa una interpretazione letterale. Per Galileo i testi biblici si esprimono con immagini e metafore che devono rendere comprensibili a uomini ignoranti la veracità della rivoluzione divina di cui la necessità di superare l’interpretazione letterale dei Testi stessi.
Se infatti si adotta questo principio non si può negare che la ricerca scientifica non è in contraddizione con la fede, inoltre Galileo fa notare che Dio non avrebbe dato l’intelligenza e la volontà di conoscere se non ha voluto che l’uomo l’avesse.
Nella letteratura si nota l’elaborazione di una prosa scientifica estranea all’oscenità espressiva barocca. In essa prevale la razionalità e la chiarezza ed è inevitabile che sia così perché essa riflette una concezione dell’universo come insieme di fenomeni fisici razionalmente organizzati e relegati da leggi fisiche ben precise.
LA NATURA COME INSIEME DI RAPPORTI MATEMATICI
In un suo trattato “Il Saggiatore” Galileo parla di uno studioso gesuita Orazio Grossi che su un suo scritto intitolato “La Libra” aveva contestato il metodo sperimentale sostenendo la necessità di rifarsi sul principio di autorità in base al quale scienziato deve basarsi su verità già note. In questo trattato Grossi si era firmato Sarsi. Galileo sostiene la necessità di una rigorosa indagine scientifica. La scienza non si può fondere su verità che non sono state provate attraverso la sperimentazione, ironicamente Galileo fa notare che uno scienziato non può operare alla stregua di un letterario le cui opere si fondono sulla fantasia l’Orlando Furioso. Inoltre per capire l’universo bisogna conoscere il linguaggio della matematica senza questo il cosmo è come un labirinto incomprensibile. Lo scienziato pisano infine dichiara di non comprendere perché il Sarsi preferisca Ticone a Copernico.
N.B.
Con il nome di Ticone si intende lo studioso danese Tico Brane che aveva cercato di elaborare un tema di compromesso tra la cosmologia Tolemaica e quella Copernicana. La teoria di Tolemaica si basava che la Terra fosse al centro dell’universo intorno ad essa ruotavano i cieli con le stelle e i pianeti tra cui essi vi era il Sole.
L’astronomo polacco Niccolo Copernico sosteneva la teoria Eliocentrica secondo cui la Terra giri intorno al Sole.
Galileo è convinto che le prove fornite da Copernico siano valide scientifiche e quindi aderisce all’interpretazione Eliocentrica del cosmo.
IL “DIALOGO” SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO E L’INTERVENTO DELL’INQUISIZIONE ROMANA
L’opera fu scritta da Galileo tra il 1624 e il 1630; essa fu pubblicata a Firenze nel 1632. Tuttavia già nello stesso anno della pubblicazione una commissione pontificia aveva dato l’ordine di ritirare tutte le copie dell’opera Galileliana. Nel 1633 il dialogo sopra i due massimi sistemi venne incluso nell’indice dei libri proibiti. Galileo quindi fu chiamato a Roma davanti al tribunale del Sant’Uffizio e fu sottoposto ad un processo per eresia.
CONTENUTI ESSENZIALI DELL’OPERA
Il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo si impernia sulla discussione tra tre personaggi: Salviati, un nobile veneziano animato da curiosità scientifiche e pronto ad affrontare un dibattito senza pregiudizi, infine Simplicio fa autore delle teorie aristoteliche. Il tema fondamentale della discussione è costituito dalla Concezione e dai limiti del sapere umano. Simplicio sostiene sostanzialmente che gli antichi hanno già chiarito tutti gli aspetti essenziali del mondo naturale: i moderni quindi devono inserirsi nel solco di quanto hanno già scoperto i loro predecessori. In questo senso Simplicio si fa fautore del principio di autorità, in base al quale gli antichi hanno già scoperto tutto ciò che si potesse rilevare sulla natura. Salviati invece si fa portatore di un’idea completamente diversa: i moderni devono ricercare la verità sulla natura, individuarne e definirne le leggi interne, senza necessariamente fondarsi su ciò che hanno scoperto gli antichi che può essere messo in discussione attraverso il metodo sperimentale. È chiaro che Salviati rappresenta le posizioni di Galileo stesso, sostenitore di una concezione dinamica del sapere.
UNA NUOVA CONCEZIONE DELLA SCIENZA
La discussione si svolge tra Salviati e Sagredo e ha come tema fondamentale la natura e i limiti della conoscenza umana. Sagredo afferma che per l’uomo è un atto di presunzione cercare di comprendere come opera Dio nell’universo. Inoltre egli sostiene che il vero scienziato deve essere consapevole dei limiti della conoscenza umana: in questo senso egli fa l’esempio di Socrate, il quale affermava di “sapere o non sapere).
N.B.
Socrate è un note filosofalo greco vissuto nel 5° secolo a.C. ad Atene; la sua affermazione va così interpretata: non bisogna pretendere di dare un’interpretazione totalizzante e definitiva della realtà perché ogni conoscenza e ogni interpretazione possono essere poste in discussione e comunque ciò che l’uomo non conosce sarà sempre di più di quanto egli conosce (Righe 21-29).
Salviati allora opera una distinzione tra intendere “extensive” e intendere “intensive”: si infatti la pretesa dell’uomo è quella di comprendere la natura dell’intero universo (intendere extensive) allora si deve riconoscere che questo è impossibile perché l’intelletto umano, di fronte alla infinità dell’universo è “come nullo”. Tuttavia se l’uomo si propone invece di comprendere e definire settori limitati del mondo fisico (intendere intensive) questa è invece un’ambizione realizzabile. La ricerca scientifica quindi darò i suoi migliori risultati quando sceglierò come oggetto dei settori ben definiti e delimitati della realtà. Vi è tuttavia una facoltà posseduto dall’uomo, quella che si esprime attraverso il metodo matematico e geometrico (Righe 49-63) in cui l’intelletto umano eguaglia quello divino.
PAOLO SARPI E LA STORIOGRAFIA ANTICONFORMISTICA NEL 600
Paolo Sarpi rappresenta un esempio molto significativo di storiografia anticonformistica: fino ad allora le caratteristiche fondamentali della letteratura storiografica erano il tono celebrativo della trattazione (i fatti storici venivano rappresentati come opera di pochi uomini potenti, senza tener conto del contesto culturale, economico e sociale), il fatto che non si indagasse in maniera rigorosa sulle cause effettive dei fenomeni, una scarsa “scientificità” (era poco frequente l’analisi e lo studio dei documenti). In linea di massima si trattava di una storiografia che non assumeva mai toni critici nei confronti di chi esercitava il potere e non si caratterizzava per libertà di giudizio.
L’“ISTORIA DEL CONCILIO TRIDENTINO” di Paolo Sarpi segna una notevole differenza rispetto alla letteratura storiografica precedente e ciò per i seguenti motivi:
1. Sarpi indaga attentamente e rigorosamente sulle cause dei fenomeni storici: ad esempio è il primo ad occuparsi di analizzare i motivi per cui si manifesta lo scisma luterano;
2. Sarpi non teme, pur essendo religioso, di criticare scelte e atteggiamenti della Chiesa Cattolica sottolineandone la natura temporale del potere pontificio e la condotta spregiudicata di numerosi papi, animati più dell’ambizione politica che dalla volontà di prendersi cura delle anime;
3. Al di là della stesura dell’Istoria, Sarpi entra in contrasto con la Chiesa per via del sostegno che egli dà alle teorie giurisdizionalistiche.
1- L’Istoria ha come argomento la narrazione degli eventi connessi al Concilio di Trento (svoltosi tra il 1563 e il 1572, con varie interruzioni) con il quale la Chiesa, attraverso la controriforma, intende dare una risposta allo scisma luterano. Per Sarpi il Concilio non risolve i problemi che sono all’origine dello scisma e che consistono essenzialmente nel temporialismo dei Papi e nella corruzione interna dell’istituzione ecclesiastica. Egli è il primo a chiarire al di là di ogni forma di demonizzazione che la riforma Luterana nasce da cause ben precise e che la degenerazione dei costumi e dei comportamenti degli Ecclesiastici vi ha una grande parte (si ricordi come vengono rappresentati gli incaricati di raccogliere i soldi in denaro della vendita delle indulgenze): essi li spendono nelle caverne e nei lupanari.
2- Ovviamente questo comporta un atteggiamento critico nei confronti della Chiesa e dell’autorità e presuppone l’esercizio della libertà di giudizio come qualità fondamentale dello storico. In questo senso Sarpi è quasi un isolato.
A suscitare il malumore della Chiesa non fu soltanto la pubblicazione dell’Istoria: infatti Sarpi sostenne la Repubblica di Venezia in una causa contro due Ecclesiastici che provocò il coinvolgimento della Chiesa stessa. Due Ecclesiastici avevano infranto la legge nel territorio della Repubblica di Venezia. Essi pretendevano di essere giudicati dal foro riservato quindi dalle autorità Ecclesiastiche. Invece la Repubblica voleva sottoporli a processo in un tribunale veneziano. Sarpi sostenne la tesi giurisdizionalistica secondo cui chi commetteva un reato in un dato Stato doveva essere giudicato dalle autorità stesse.
“IL RITRATTO DI PAOLO IV” (TOMO VII p.70-72)
Righe 1-13
Sarpi sottolinea la natura autoritaria della personalità del Papa che è talmente sicuro di sé da non consultare né principi né ambasciatori e da sostenere la superiorità dell’autorità papale.
Righe 14-35
Paolo IV viene descritto come un uomo audace e dalla personalità complessa: infatti da una parte egli era dotato di spiritualità e sarebbe stato portato ad esercitare l’autorità pontificale in senso spirituale; dall’altra era caratterialmente vicino a suo nipote Carlo Carafa che da soldato era stato fatto cardinale e che sollecitava lo spirito bellicoso del Papa. Oltre tutto Paolo IV sa usare l’arte della dissimulazione: all’esterno sembra che egli eserciti solo l’autorità spirituale mentre dietro le quinte egli trama degli intrighi politici.
Righe 36-62
Per consolidare il suo potere il Papa promuove cardinali solo uomini a lui fedeli, in modo da non incontrare intralci nella sua azione. Infine egli contravviene chiaramente a uno dei principi affermati dal Concilio di Trento. Infatti durante il Concilio ci si era proposti di limitare l’autorità pontificale e di rafforzare il potere dei vescovi; però la gestione del potere di Paolo IV fu assolutistica e rese vane tutte le speranze di un rinnovamento interno della Chiesa.
CULTURA E POESIA BAROCCA NEL 17° SECOLO
Il “Baracco” è uno dei fenomeni più rilevanti della cultura seicentesca (600): esso rappresenta una vera e propria visione del mondo, per molti versi “antitetica” a quello rinascimentale.
Il Barocco si manifesta con risultati particolarmente rilevanti sia in campo artistico sia in campo letterario. Sotto questo ultimo aspetto esso raggiunge i suoi vertici in Spagna con i “Sonetti” di Luis Gongora, il “Don Chisciotte” di Miguel De Cervantes e i drammi teatrali di Calderon De La Barca.
Dal punto di vista artistico il Barocco raggiunge risultati pregevoli con Bernini e Borromini in architettura e con pittori come Caravaggio nelle arti figurative.
Le componenti fondamentali della visione Barocca della realtà si possono riassumere come segue:
1. La convinzione è che la realtà sia in conoscibile; essa per l’uomo è un mistero e la ragione non è sufficiente a penetrarlo.
2. L’uomo, a differenza di quanto avviene nell’ideologia rinascimentale, non ha nessuna centralità nell’universo in quanto non può conoscere e dominare la realtà.
3. Se la realtà è inconoscibile non se ne può dare non se ne può dare una rappresentazione oggettiva (valida per tutti): ogni individuo sviluppa una visione soggettiva del mondo che non può che essere diversa da quella elaborata da altri individui. Nel barocco quindi prevale un “relativismo gnoseologico” (ogni individuo ha una percezione puramente soggettiva della realtà; una stessa cosa può essere percepita in maniera diversa da un individuo all’altro, e ciò esclude in partenza la possibilità di arrivare alla verità).
4. Nella poesia Barocca prevale una notevole oscurità e complessità espressiva: ciò rinvia alla indecifrabilità del mondo all’impossibilità di definire delle leggi razionali che la governino. L’oscurità espressiva quindi è il corrispettivo formale della concezione Barocca della realtà.
LA POESIA GONGORIANA
“SOPRA IL SEPOLCRO DELLA DUCHESSA DI LERMA”
PARAFRASI
“Oggi sei poca terra e ieri eri una dea umana; ieri la duchessa era al sommo degli onori e oggi è in una tomba, oh uomini mortali!
Le piume anche se appartengono ad aquile reali sono sempre piume (quindi effimere): chi lo ignora si sbaglia di molto.
Le ossa che sono racchiuse oggi nel sepolcro, se non fossero cosparse da balsami orientali, darebbero segno della loro presenza: la mente comprenda chiaramente ciò che il marmo funebre nasconde.
L’essere apparentemente immortale che fu la duchessa e oggi un verme tra la cenere e un tarlo per la coscienza di ogni uomo saggio. Se l’oceano inghiotte un veliero avrà forse riguardo per una barca? Si prenda terra: l’essere umano è l’effimero come la polvere.”
ANALISI TEMATICA
Come si nota dalla parafrasi del testo in questo sonetto vi sono alcuni nuclei tematici ricorrenti:
1. L’incombere nella morte che costituisce l’inevitabile conclusione della vita umana.
2. La fragilità e il carattere effimero dell’esistenza umana.
3. L’illusorietà della gloria terrena: anche chi in vita ha rivestito il ruolo di un regnante è destinato a ridursi in polvere.
Nel sonetto il campo semantico della morte è piuttosto esteso. Esso si articola nei termini: “terra” al v.1, “mortali e tomba” al v.2, “ossa e sepolcro” al v.5, “mortali” al v.7, “marmo” al v.8, “cenere” al v.10 e “terra” al v.14.
ANALISI STILISTICA
Nel testo vi sono delle metafore ai versi 1,2,3,4,8,10,11 e negli ultimi tre versi del componimento.
Nel testo è presente anche un’antitesi al v.8 (apre-serra). Allo stesso verso vi è una metonimia: la parola “marmo” è usato per indicare una tomba, il materiale viene indicato al posto della cosa di cui esso è composto.
Del Catafalco che eresse cordova nelle esequie della regina Margherita
In questo sonetto Gongora focalizza i temi ricorrenti della sua poesia: il carattere effimero della vita dell’uomo e la vanità di ogni gloria umana.
Sintesi Contenuti
Nel testo egli si rivolge alla regina Margherita di Spagna ormai defunta come si intuisce dal titolo del componimento. La regina è vissuta nel fasto e in mezzo al potere, eppure la sua esistenza e il suo stesso essere sono paragonati ad una “crespa voluta di piume” (v.3 - Metafora). In questo modo il poeta indica la fragilità umana che caratterizza anche un personaggio di così alto rango: la morte rende tutti uguali. L’ascesa dell’anima della regina al cielo è rappresentata attraverso due metafore ai v.7 e 8. Nelle due terzine del sonetto il tema della vanità della vita umana diventa ancora più evidente: infatti il campo semantico relativo a questo concetto si articola nei seguenti termini: “vanità e vento” v.10, “fumo” v.12, “pavone” v.13, “disinganno” v.14. È poi presente un campo semantico secondario, quello del dolore, che si articola nei seguenti termini: “dolente” v.5, “dolor” v.9, “pianto” v.14.
Nel testo sono presenti altre figure retoriche: una metafora al v.9, un apostrofe al v.12 e una sinéddoche al v.13 (“cent’occhi”, in cui si ha l’uso di un numero determinato per indicare una quantità indeterminata).
Altre caratteristiche della poesia Gongoriana
Un altro elemento interessante della poesia di Gongora è la presenza di riferimenti a situazioni macabre. Nel sonetto “Sopra il sepolcro della Duchessa di Lerma” si afferma che il corpo della Duchessa, se non fosse cosparso di balsami profumati segnalerebbe la sua presenza attraverso odori sgradevoli. Questa tendenza al macabro e all’orrido è una delle novità del barocco. In un altro punto del sonetto sopra citato si paragona la Duchessa a un verme, anche in questo caso abbiamo un riferimento macabro. Nella letteratura rinascimentale questo tipo di riferimenti non sarebbe stato possibile, perché il Rinascimento tende ad elaborare un immagine del mondo basata sull’armonia e sulla compostezza. L’idealizzazione che caratterizza l’immagine rinascimentale del mondo scompare totalmente nella cultura barocca che invece tende a sottolineare gli aspetti disarmonici e tragici dell’esistenza.
La realtà come gioco di specchi: Il “Don Chisciotte” di Miguel De Cernantes
Il romanzo “Don Chisciotte” di Miguel De Cernantes è una delle opere più conosciute nella letteratura barocca. La vicenda narrata è relativamente semplice: un Hidalgo (appartenente alla piccola nobiltà terriera di origine feudale). Don Chischiotte della Mancia è un appassionato di romanzi cavallereschi, egli trascorre gran parte del suo tempo dedicandola alla ricerca e alla lettura di queste opere al punto tale da trascinare l’amministrazione dei suoi beni e da perdere le poche ricchezze che gli restano. La lettura dei poemi e dei romanzi cavallereschi lo porta infatti in un mondo fantastico in cui egli vorrebbe vivere la sua esistenza invece di spendere i suoi giorni in una realtà che gli appare mondano e squallida.
Egli finisce perciò per identificarsi nelle figure dei cavalieri protagonisti dei romanzi e per vivere in una dimensione virtuale, completamente sganciato dalla realtà concreta. In pratica avviene un processo di proiezione dei propri sogni sulla realtà: Don Chisciotte non vede ciò che esiste veramente, ma solo ciò che vorrebbe che esistesse. Tutto preso dai suoi sogni, Don Chisciotte decide di diventare un cavaliere errante: ripulisce alcune antiche armi appartenente agli antenati, sistema alla meglio il suo ronzino e si trova uno scudiero, un contadino furbo e concreto: Sancio Panza. Quanto più Don Chisciotte è emerso nelle sue idealità cavalleresche tanto più Sancio Panza è attento al lato concreto e materiale della vita: in molti punti del romanzo uno stesso episodio viene raccontato attraverso gli occhi di Don Chisciotte e quelli di Sancio Panza, e ovviamente si escono fuori due interpretazioni completamente diverse. In questo senso abbiamo una trasposizione artistica del relativismo gnoseologico che è tipico della cultura barocca. Il mondo visto da “Sancio Panza” è completamente diverso da quello visto da Don Chisciotte ed è interessante notare che anche il linguaggio è diverso. Quello usato da Don Chisciotte è ricco di reminiscenze cortesi mentre quello adottato da Sancio Panza è tutto costruito su un registro colloquiale, e pieno di riferimenti alla realtà materiale. Nel romanzo è famoso l’episodio della lotta contro i mulini a vento di Don Chisciotte. Vedendo dei mulini il cavaliere crede che si trattino di giganti e pretende di affrontarli nonostante Sancio Panza insista nel chiamarlo alla realtà. Egli lancia il suo cavallo contro un mulino e da un urlo terribile contro questa costruzione. Questo ha l’effetto di richiamarlo bruscamente alla realtà. Soltanto in punto di morte il protagonista riconoscerà di aver inseguito dei vani sogni. Il romanzo è particolarmente rappresentativo perché si fonda su una sostanziale ambiguità tra illusione e realtà concreta. Il confine tra le due sfere è molto sfumato tanto che è difficile separare nettamente una dall’altra.
IL RITRATTO DI DON CHISCIOTTE
Il ritratto che viene delineato di Don Chisciotte è quello di un nobile ormai decaduto a cui rimane ben poco dell’antico Patrimonio. Del personaggio vengono sottolineate due cose in particolare:
1. La vita sostanzialmente oziosa che conduce (righe 17-18)
2. La smisurata passione per la letteratura cavalleresca (righe 19-29)
Gradualmente Don Chisciotte perde la ragione (riga 30), cercando di comprendere il senso recondito delle parole oscure che trova scritte nei libri (un esempio è nelle righe 26-29). Egli passa nottate intere sui testi cavallereschi (righe 47-49); così diventa inevitabile che egli finisca per considerare reali i mondi fantastici narrati dai romanzi. Alla fine (righe 66 e seguenti) egli finisce per confondere la fantasia con la realtà: egli proietta all’esterno il suo desiderio di vivere le avventure dei personaggi dei romanzi e decide di diventare uno di loro. Fin dall’inizio però il personaggio di Don Chisciotte assume caratteri tra il grottesco e il patetico. Basta pensare al tempo che egli dedica alla ricerca di un nome per il suo cavallo (righe 90-100), che in realtà era povero ronzino. Inoltre egli ritiene giusto avere una dama da amare come i suoi cavalieri ma finisce per scegliere una rozza contadina cui però egli da l’altisonante nome Dulcinea del Toboso (riga 131).
L’AVVENTURA DEI MULINI A VENTO
All’inizio viene rappresentato il culmine del delirio di Don Chisciotte. Vedendo dei mulini a vento egli crede che siano dei giganti e gli lancia contro il cavallo. È importante notare le due differenti visioni nella realtà che rappresentano Don Chisciotte e Sancio Panza (righe 11-16).
Sancio insiste nell’avvertire del suo padrone che si trattano di mulini ma Don Chisciotte è convinto ormai delle sue allucinazioni. Dopo il duro colpo ricevuto Don Chisciotte viene aiutato dal suo scudiero il quale pur nella sua ingenuità contadina è l’unico sostegno che ha Don Chisciotte e si occupa degli aspetti concreti della sua esistenza (righe 70-78).
D’altra parte il completo stato di astrazione in cui si trova Don Chisciotte è evidente nelle righe 13-14 quando il narratore dice che il cavaliere “non voglia mangiar nulla perché: preferiva nutrirsi di memorie”.
ARTE BAROCCA → Gusto per l’ILLUSIONISMO (l’arte del provocare un senso di Meraviglia):
• Colonnato di San Pietro di Gian Lorenzo Bernini;
• L’immagine muta a seconda della posizione assunta dall’Osservatore;
• Falsa cupola di S. Ignazio di Andrea Pozzo
→ Rappresentazione del carattere effimero dell’esistenza umana:
- ALLEGORIA (vi comparono dei personaggi che meditano sulla morte) → vi comparono simboli come il Teschio e la Clessidra.
VANITAS (vi compare un simbolo della morte. Es.: un teschio – ma in un contesto inanimato) → un esempio di vanità è anche la Tomba di Alessandro VII nella Basilica di S. Pietro.
ARTE BAROCCA
L’allegoria della “vanitas” sono due forme di espressione artistica che si concretizzano sia nella cultura che nella scultura barocche. L’allegoria rappresenta la riflessione dell’uomo sulla morte: in genere compaiono dei personaggi che meditano davanti ad un simbolo della morte stessa che spesso è un teschio. A volte nell’allegoria compare anche il simbolo della clessidra che rappresenta lo scorrere del tempo e il carattere effimero di tutto ciò che esiste. I due simboli compaiono anche nella vanitas ma in quest’ultima forma di rappresentazione artistica in genere non vi sono esseri animali; spesso il teschio e la clessidra si trovano inseriti in una natura morta. Come è facile dedurre i temi della morte e del carattere effimero del mondo umano e terreno sono presenti in varie forme della cultura barocca (basta pensare ai sonetti di Gongora). La forma della vanitas può manifestarsi anche in opere scultorie (due esempi significativi si trovano nella basilica di San Pietro e sono opera di Gian Lorenzo Bernini). La scultura barocca ha come caratteristica fondamentale la presenza di elementi architettonici e pittorici. Nel primo caso se osserviamo il monumento funebre di Urbano VIII e la tomba di Alessandro VII notiamo che la costruzione della scultura è elaborata in modo che la rappresentazione del pontefice si trovi al vertice di una struttura monumentale che richiama quasi una forma piramidale. Ciò conferisce alle due opere un carattere “architettonico”; si nota poi che vengono usati materiali e marmi di diverso colore (nel caso del sepolcro di Urbano VIII i marmi sono bianco e nero ma nel monumento viene utilizzato inoltre il bronzo; nella tomba di Alessandro VII i marmi sono bianco e rosa anche in questo caso con inserzioni di bronzo). La presenza di materiali colori diverso conferisce ai due sepolcri un carattere pittorico. Il tema della morte compare nella raffigurazione di due scheletri: nel primo caso lo scheletro è davanti a un libro; nel secondo caso lo scheletro è seminascosto da marmo rosa ed impugna una clessidra. In tutte e due i casi si può parlare di forme di vanitas.
IL COLONNATO DI SAN PIETRO
La forma del colonnato di San Pietro, che è sempre opera del Bernini ha una forma particolare che rappresenta la chiesa che accoglie in un abbraccio tutti i credenti. È interessante notare che mutando la posizione da cui si osserva il colonnato muta anche l’immagine che se ne ha. Secondo quel relativismo gnoseologico che è tipicamente baracco.
LA FALSA VOLTA DI SANT’IGNAZIO A ROMA
Nella chiesa barocca di S. Ignazio si trova una falsa volta dipinta d Andrea Pozzo: assumendo da osservatori una certa posizione può sembrare di trovarsi sotto la profonda volta di una cupola: in realtà si tratta di un’illusione ottica perché appare si cambia il punto osservazione si comprende che si tratta di una volta dipinta su uno spazio leggermente concavo.
In questo caso è chiaro l’emergere del tema della sovrapposizione tra realtà ed illusione (uno dei fulcri di Don Chisciotte di Cervantes).
LA FONTANA DEI QUATTRO FIUMI A PIAZZA NAVONA
La fontana di Gian Lorenzo Bernini che si trova a Piazza Navona rappresenta, attraverso i più lunghi fiumi allora conosciuti (Danubio, Nilo, Gange, Rio delle Amazzoni) rappresenta l’universalità della Chiesa.
L’obelisco che è stato inserito nella fontana proviene dal Circo Massimo ed è autenticamente egiziano e fu portato a Roma dall’Imperatore Caracalla (211-217). L’alto numero di fontane costruite in età barocca si ricollega al tema del carattere effimero di tutto ciò che è terreno. Infatti non vi è nulla di così fluido ed instabile come l’acqua.
“Candido” di Voltaire
Il romanzo “Candido” di Voltaire nasce dalla crisi del rapporto tra i pensatori illuministi e il potere. Alcuni dei primi avevano ritenuto possibile una collaborazione con i sovrani illuminati; nel caso di Voltaire egli aveva sperato di poter stabilire una fruttuosa collaborazione con Federico II di Prussica.
In questo modo egli pensava di poter contribuire al progresso sociale e civile dello Stato. In realtà questa speranza si rilevò illusoria: 1756 Federico II scatenò la sanguinosa Guerra dei Sette anni (1756-63). Per Voltaire fu un fallimento ed egli abbandonò la corte del sovrano Prussiano. Tre anni dopo egli scrisse un romanzo, “candido”, in cui egli esprimeva la sua disillusione: attraverso la violenza della storia e il dolore della sua personale esperienza. Voltaire si trovava ad ammettere che l’ottimismo illuministico non corrispondeva alla realtà concreta: l’uomo poteva venire travolto dalla brutalità degli eventi e non aveva una reale possibilità di cambiarli. Inoltre la storia appariva come un insieme di accadimenti irrazionali e imprevedibili. Il protagonista del romanzo, Candido, è costretto ad attraversare molteplici esperienze, dalle catastrofi naturali alla follia bellica degli uomini.
UN EROICO MACELLO
Righe 1-8
Nel brano del romanzo “Candido” si sottolinea immediatamente il carattere distruttivo della guerra. Emerge una definizione che ci fa comprendere l’atteggiamento del narratore nei confronti della guerra: è chiaro che il titolo ha un carattere ironico, una strage non può essere eroica.
Righe 9-17
Ironico è anche il fatto che i due sovrani a capo degli eserciti facciano intonare il “te Deum”, un inno di ringraziamento a Dio: ciò rivela la commistione tra saturo e profano che avviene spesso nei conflitti bellici; d’altra parte Dio viene spesso invocato come protettore dall’una e dall’altra parte in causa e spesso il suo presunto appoggio funge come giustificazione a qualsiasi forma di aggressione militare. La descrizione del campo di battaglia presenta elementi macabri ma molto realistici: Voltaire vuole evidenziare tutta la brutalità della guerra.
Righe 18-29
Il protagonista del romanzo, Candido, riesce a sfuggire al Eroico Macello e a raggiungere l’Olanda dove spera di trovare la serenità. Nelle ultime due righe si fa riferimento al motivo primario delle peregrinazioni di Candido: egli era stato cacciato da un castello in Germania, dove egli prestava servizio presso un Barone. Il motivo della cacciata era dato il fatto che Candido era stato sorpreso con la figlia del Barone, Cunegonda.
COLTIVARE IL PROPRIO GIARDINO
Il brano in esame si trova verso la fine del romanzo: Candido ha sposato Cunegonda ma questa non ha risolto i suoi dubbi e le sue inquietudini sul senso della vita. Si svolge un dibattito tra tre personaggi, Candido, Ponglass e Martin. Essi decidono di consultare un saggio turco per ottenere una risposta ai loro dubbi. Candido sottolinea il fatto che il mondo è attraversato dal male e il Dervè (saggio turco) risponde che la cosa non lo riguarda: con questo egli vuole dire che un individuo di fronte alla violenza della storia non può pretendere di comprendere tutto ne di cambiare il corso degli eventi, l’unica cosa che può fare l’uomo è coltivare il proprio giardino: l’uomo può costruirsi un suo spazio personale nel mondo ed è solo in esso che può sperare di ricostruire l’armonia e la razionalità che in forma ideale dovrebbero governare il mondo. Questa conclusione ci dimostra che Voltaire ha superato l’ottimismo che inizialmente caratterizzava la filosofia illuministica, per la quale conoscere il mondo significava determinarne gli eventi. Voltaire si è reso conto dei limiti dell’azione dell’uomo e della ineminabile disarmonia del mondo.
L’“ENCICLOPEDIA” E LA CONCEZIONE ILLUMINISTICA DEL SAPERE
L’enciclopedia elaborata a cura dei filosofi illuministici francesi Diderot e D’alembert ha come obiettivo fondamentale una riorganizzazione sistematica di tutti i campi fondamentali del sapere. Inoltre essa si pone lo scopo di servire alla pubblica utilità e all’Interesse Generale degli uomini questa impostazione fa si che venga data un’importanza fondamentale al sapere tecnico e scientifico. Fino ad allora l’istruzione di un individuo era prevalentemente umanistica e quindi questo particolare aspetto dell’enciclopedia costituisce una vera novità. Altre caratteristiche essenziali dell’enciclopedia sono le seguenti:
1. Il rifiuto di ogni dogma precostituito: per gli Illuministi il sapere deve nascere dall’esperienza e ogni conoscenza può essere messa in discussione (in questo caso sono evidenti gli influssi del pensiero scientifico galileliano).
2. Elaborare una storia del sapere umano che tiene conto della relatività della prospettiva umana: poiché nell’Universo non esiste un piano divino al centro della ricerca conoscitiva vi è l’uomo con le sue esigenze e il suo modo di vedere il mondo. Ciò significa che il sapere deve corrispondere alle esigenze e ai fini pratici dell’uomo stesso.
IL SENSISMO
Una particolare articolazione filosofica del pensiero illuministico è costituita dal sensismo, propugnato da Condillac. Nel suo “trattato delle sensazioni” (1754), egli sostiene essenzialmente queste idee:
1. Tutte le conoscenze derivano dall’esperienza e passano attraverso la percezione sensoriale dell’uomo.
2. È partendo dalle sensazioni che l’individuo, attraverso un processo di astrazione elabora i concetti, che sono frutto della ragione.
3. La percezione sensoriale è alla base del giudizio estetico: per l’individuo è bello ciò che è piacevole.
È chiaro che questa concezione si contrappone chiaramente alla concezione classicistica di bellezza in base alla quale esiste una bellezza universale ed eterna, che è stata espressa soprattutto nei modelli antichi a cui gli artisti di ogni epoca devono rifarsi.
IL DEISMO
In genere l’Illuminismo esclude la possibilità di una dimensione trascendente dell’esistenza umana; Inoltre come abbiamo visto rifiuta una concezione dell’universo basata su un disegno provvidenziale di Dio. Gli Illuministi però ammettono l’esistenza di Essere Supremo immanente all’Universo stesso che coincide con il principio regolatore di tutto ciò che esiste.
L’Essere Supremo è conoscibile razionalmente perché coincide con le leggi fisiche che governano l’Universo.
L’ILLUMINISMO IN ITALIA
La filosofia illuministica in Italia si sviluppa soprattutto in due centri: Milano e Napoli. A Milano sicuramente il diffondersi dell’Illuminismo trovò un terreno più fertile, perché la dominazione Asburgica aveva garantito all’area del Lombardo-Veneto un grado di sviluppo sociale ed economico più elevato rispetto a Napoli, dove vi era una maggiore arretratezza (in particolare il ceto borghese era molto meno sviluppato ed era costituito quasi esclusivamente da funzionari dello Stato e liberi professionisti; a Milano invece la borghesia comprendeva anche imprenditori e titolari di imprese commerciali, il che ci fa capire che questo ceto era più articolato). A Milano venne istituita una rivista, “Il Caffè” che venne distribuita dal 1761 al 1763 e raccolse intorno a sé il meglio del ceto intellettuale Lombardo. Vi collaboravano infatti Pietro e Alessandro Verri e Cesare Beccaria. Il programma del Caffè si può sintetizzare nei seguenti punti:
1. Sprovincializzare la cultura italiana attraverso l’assimilazione della filosofia illuministica.
2. Valorizzare il sapere tecnologico e scientifico.
3. Favorire una diffusione, la più ampia possibile, della cultura che doveva essere non più patrimonio di pochi ma punto di partenza per una maturazione civile del cittadino.
4. Creare un nuovo tipo di linguaggio letterario elaborato in funzione di una chiarezza comunicativa che doveva escludere le oscurità espressiva del barocco.
Cesare Beccaria e la polemica contro la pena di morte
Cesare Beccaria era un giurista che aderì in maniera convinta alla filosofia illuministica. Egli infatti concepiva la cultura come un mezzo per intervenire concretamente sul piano sociale, favorendo il progresso civile. L’opera che lo ha reso famoso è il trattato dei “delitti” e delle “pene” 1764.
La pubblicazione del trattato suscitò le azioni contrastanti per tesi innovative che vi venivano sostenute. L’obiettivo fondamentale di Beccaria era dimostrare l’assurdità del sistema giuridico e giudiziario allora vigente; Esso per Beccaria anziché a servire ed assicurare la giustizia provocavano una serie di soprosi e di brutalità del tutto inutili e inique.
CONTRO LA PENA DI MORTE
I concetti essenziali che esprime Beccaria in questo brano sono i seguenti:
1. La pena di morte è una pratica che si può storicamente comprendere solo in situazioni di emergenza per lo Stato, quando è in gioco la sicurezza della nazione. Ma in tempi di pace essa è non solo ingiusta ma anche inutile perché non funziona come deterrente per chi voglia come un grave reato;
2. Secondo Beccaria una lunga detenzione o la detenzione a vita costituiscono una prospettiva molto più spaventevole di un esecuzione: quest’ultima infatti dura un attimo, mentre una lunga prigionia costringe l’individuo alla perdita della libertà per un arco importante della propria vita.
3. Infine Beccaria sostiene che la pena di morte colpirebbe soprattutto i più disagiati: chi è ricco ed occupa una buona posizione sociale può meglio difendersi e trova più comprensione da parte dei giudici che gli sono socialmente omogenei.
Un’ultima annotazione merita di essere sottolineata (righe 95-101): Beccaria afferma che è assurdo che per punire un omicidio lo Stato si faccia a sua volta omicida.
Pietro Verri → La Tortura è utile anche quando è utilizzata per scoprire la verità.
“Osservazioni contro la Tortura” → è comunque ingiusta quando il delitto è possibile e il presunto reo è innocente. Là dove il delitto cessa di essere certo in precisamente comincia la possibilità dell’innocenza (r.22-23).
→ La natura prevede che l’uomo difenda se stessa. Costringerà un individuo ad accusarsi di un delitto, attraverso la tortura è qualcosa di naturale ne forma di tirannie ingiustissime.
GIUSEPPE PARINI
• Nuovo modello di intellettuale, che concepisce la letteratura e la cultura in funzione del Progresso Civile.
• Collabora con il regime Asburgico, ma mantenendo la sua indipendenza: dopo il periodo dell’occupazione francese, vista la politica repressiva attuata dagli austriaci, rifiuta di riprendere la collaborazione e finisce i suoi giorni in povertà (v. Ode “La Caduta”).
• Parini unisce una concezione illuministica della letteratura ed un Solido Classicismo.
• Nel poema Didascalico “Il Giorno” Egli ironizza sulla Nobiltà Oziosa del tempo, ma ha una posizione Contraria alla Rivoluzione Francese.
L’Ode “La salubrità dell’aria”
Contrapposizione Città/Campagna
Città → Inquinamento → Dovuto alla continua Ricerca del profitto Privato, a scapito del Benessere Pubblico.
Campagna → Salubrità dell’aria e dei costumi
LA SALUBRITÀ DELL’ARIA
ANALISI
Versi 1-24
Parini apre il componimento salutando la terra natale: “Eupili” (v.2) è il nome latino del Lago di Pusiano presso cui sorge Bosisio, luogo natale del poeta. Parini sottolinea il fatto che in questo ambiente non è inquinato come la città: l’aria è pura e salubre e adatta a reintegrare le forze e ad allietare l’animo. Come si può notare nel testo compaiono dei platinismi (termini ricalcati su modelli latini): il già citato “Eupili” al v.2, “Egri” (malati) al v.10, “Austro” (scirocco) al v.13. Inoltre al v.18 la tramontana viene personificata mediante l’utilizzazione del termine Borea.
Versi 25-42
Al luminoso e al salubre clima della campagna si contrappone l’ambiente inquinato e tossico della città: le acque fervide dei canali del cielo aperto in cui confluiscono tutti i rifiuti e gli scarichi della produzione manifatturiera fanno si che la salute dei cittadini venga minata. Tutto ciò avviene soprattutto per desiderio di lucro: l’interesse individuale ed egoistico prevale su quello comune ed è proprio questo che Parini condanna. Anche qui abbiamo riferimenti di tipo classico, ad esempio al v.32 quando viene citato il fiume Sfige (che compare nell’Eneide ma anche nell’Inferno di Dante). In questa parte del componimento emerge un’altra caratteristica della poesia di Parini: la mescolanza tra riferimenti e termini di derivazione classica e parole che rappresentano una realtà molto concreta e che generalmente non trovano spazio in poesia (ad esempio il termine “Bitume” al v.33). Nei versi 37-42 Parini evidenzia che la creazione di veri e propri acquitrini a Milano è dovuta alla volontà di incrementare la produzione di riso (v.39): la presenza di acque stagnanti favorisce il diffondersi delle malattie.
Versi 43-66
Parini in questi versi afferma che egli intende passare la maggior parte del suo tempo godendo del clima sano della campagna e non perde l’occasione di sottolineare la vita serena e laboriosa dei contadini a cui vengono contrapposti nei versi successivi il lusso, la cupidigia e la pigrizia degli abitanti della città.
N.B.
Per Cupidigia s’intende una smodata brama di possesso: chi ne è afflitto desidera avere sempre di più anche se già possiede molto.
Versi 67-132
Parini afferma che la natura ha fatto dei doni a l’uomo ma quest’ultimo non ha saputo mantenerlo. Le brama di ricchezza ha spinto gli individui a rendere malsano un ambiente che prima era integro. La ricchezza di pochi si fonda su malessere di molti, le acque stagnanti ormai giungono ai piedi dei palazzi, esalano vapori ammorbanti e i cittadini più poveri sono i primi a risentire di queste terribili condizioni sanitarie. Ai versi 79-84 si sottolinea il fatto che il fasto e il lusso dei nobili e dei ricchi prende quest’ultimi completamente indifferenti alla sorte dei più umili. Anche in questi versi elementi linguistici di estrazione classicheggianti (esempio “Lavi Plebei” al v.97), “Vie Giorni” al v.106 si mescolano a termini legati al registro colloquiale e caratterizzati da un evidente realismo esempio “fragili” al v.99, “latrine” al v.110 e nell’ultima parte del testo (v.115-132). Parini sottolinea che le leggi esistono ma i cittadini che badano solo al profitto non le rispettano. Infine ai versi 127-132 c’è una vera e propria dichiarazione di poetica: per Parini la poesia deve unire l’utilità dei contenuti alla bellezza dei versi. In questo modo egli unisce una concezione classicistica della poesia, attenta ai valori formali all’idea tutta illuministica di una letteratura che dev’essere utile agli uomini e deve costituire uno strumento di battaglia civile.
LA CADUTA di Giuseppe Parini
In questo Ode Parini racconta un episodio che gli è accaduto durante l’ultima fase della sua vita, quando egli dopo aver rifiutato di collaborare ancora con le autorità austriache si trova in una condizione di povertà. Attraversando la strada a Milano durante la stagione invernale egli cade: a questo punto viene soccorso da un uomo che lo riconosce. Quest’ultimo lo invita a riscattarsi dalla condizione di povertà, adattandosi ad adulare i potenti e mettendo la poesia a loro servizio.
Ma Parini rifiuta sdegnosamente e riafferma la propria indipendenza intellettuale. Un letterato per lui non deve piegarsi alle esigenze del potere ma deve rappresentare la coscienza critica della collettività e conferire alla sua opera una funzione civile. In questo componimento emerge pienamente la figura dell’intellettuale illuminista che non è più “Cortigiano” cioè a servizio di un signore ma è indipendente e può scegliere se collaborare o meno con l’autorità senza subire ricetti o costrizioni.
ANALISI
Versi 1-16
Verso 1 Orione è una costellazione ben visibile in inverno perciò si comprende immediatamente che il fatto narrato avviene in questa stagione.
Verso 8 Il cammino percorso dal poeta è scivoloso ma anche pericoloso perché per strada passano velocemente i carri trainati dai cavalli. Inoltre Parini sottolinea il fatto che egli zoppica (v.6) “infermo il piede”. Notiamo l’inserimento come al solito di termini appartenenti al linguaggio aulico (elevato, solenne) come “lubrico” (v.11) e “cubito” (v.15) al tempo stesso vengono inseriti termini più legati al linguaggio comune ad esempio “stramazzar” (v.12).
Versi 17-60
Lo sconosciuto riconosce Parini e si stupisce che egli si trovi in quelle condizioni costretto a trascinarsi faticosamente per strada. Per due volte si trova la figura retorica della sineddoche al v.20 (lato=corpo) e al v.33 (fianco=corpo).
Al verso 28 vi è una metafora. Al v.44 abbiamo ancora l’uso di un termine Aulico; al v.48 troviamo un’altra metafora. La stessa figura retorica compare al v.52. Ai versi 53-60 lo sconosciuto invita il poeta a comportarsi come un cliente dei più potenti: anzi lo esorta addirittura a cercare il favore di chi può fungere da intermediario tra lui e i potenti stessi (“imi”→ latinatismo. Coloro che sono in basso). Inoltre lo invita a compiacere i potenti con la sua arte, divertendoli (si noti la metafora ai v.59-60).
Versi 61-84
Il soccorritore del poeta lo invita anche a “pescare nel torbido”: ad approfittare quindi della vicinanza al potere per trarne dei profitti non esitando ad agire senza scrupoli. Poi lo definisce un illuso perché egli si è sempre dedicato in maniera integra e disinteressata alla poesia. Secondo il soccorritore infatti Parini dovrebbe usare i versi per diventare i potenti assecondando anche i loro bassi istinti. Ma il poeta reagisce rabbiosamente accusando il soccorritore di voler sorreggere il suo corpo ma abbattere il suo spirito. Nel testo notiamo come al solito la compresenza di termini aulici e classicheggianti alternati a parole più legate al registro colloquiale:
“musa”v.72-“pondo”v.83: termini aulici e classicheggianti; “esca”v.65-“stagno”v.68-“bile”v.77: termini legati al registro colloquiale.
Versi 85-104
Per Parini un buon cittadino deve utilizzare le sue qualità per farsi onore e guadagnarsi la stima dei suoi concittadini. Se puoi una volta vecchio e bisognoso deve chiedere aiuto lo deve fare con dignità, senza piegarsi a compromessi. Nel caso poi che egli riceva solo in gratitudine egli deve farsi della fermezza uno scudo contro le sventure. Un buon cittadino infatti “né si abbassa per duolo/né s’alza per orgoglio” v.97-98.
Con questa espressione Parini vuole dire che un uomo che ha dignità non si piega di fronte alla sofferenza ma non diventa superbo di fronte ai successi. Infine il poeta abbandona il suo soccorritore sdegnosamente e zoppicante ritorna a casa.
“IL GIORNO” (poema didascalico → deve trasmettere dei contenuti di carattere morale)
- Quattro parti: “IL risveglio”, “Il meriggio”, “Il vespro”, “La notte”
→ ricordare dichiarazione di poetica che compare nella parte finale dell’Ode “La Salubrità dell’aria”
- La poesia deve trasmettere attraverso la Bellezza dei versi dei Contenuti che favoriscono il progresso Civile della Società.
LA COMMEDIA DELL’ARTE E LA RIFORMA GOLDONIANA
Durante il 17° secolo in campo teatrale si era affermata la Commedia dell’Arte che aveva conosciuto un grande successo in varie corti europee. Le caratteristiche essenziali di questo genere si possono sintetizzare come segue:
1. La mancanza di un vero e proprio testo scritto contenente le battute che avrebbero dovuto pronunciare gli attori e le didascalie con le indicazioni di scena. Al posto del testo vi è un “canovaccio”, un insieme di indicazioni sommarie che lascia largo spazio all’improvvisazione degli attori.
2. La centralità dell’attore, vero protagonista della performance teatrale: il virtuosismo attorico nella Commedia dell’Arte era spinto all’estremo. L’attore ricorreva ad ogni mezzo per tenere testa l’attenzione del pubblico.
3. La volontà di compiacere l’uditorio (e anche la necessità di guadagnare) portano ad un progressivo deterioramento e involgarimento della rappresentazione teatrale: gli attori costellano le loro battute di riferimento scurrili andando incontro ai gusti più corrili del pubblico.
Goldoni intende ridare dignità alla commedia e perciò introduce una serie di innovazioni, che si possono riassumere come segue:
1. La reintroduzione di un testo scritto a cui gli attori devono attenersi rigorosamente.
2. La dissoluzione della centralità dell’attore: il nucleo fondamentale della rappresentazione teatrale non è più costituito dal virtuosismo attorico ma dalla messa in scena del testo: è ciò che viene rappresentato è importante.
3. Compare per la prima volta la figura dell’autore che partecipa attivamente alla messa in scena.
IL MONDO E IL TEATRO
In un suo famoso scritto, intitolato Il Mondo e Il Teatro, Goldoni mette a fuoco quelle che a suo parere dovrebbero essere le caratteristiche essenziali della rappresentazione teatrale:
1. Per Goldoni è inutile riferirsi ai modelli antichi o comunque passati, perché la società e i valori che essi rappresentano sono lontani dalla contemporaneità e il pubblico non li capirebbe. Per la stessa ragione è inutile rifarsi ai modelli stranieri perché ciascuna nazione ha la sua specifica cultura.
2. Dal punto di vista dei contenuti l’autore di commedie deve prendere come modello e fonte di ispirazione il mondo, con i suoi casi ed eventi concreti. Il pubblico infatti deve potersi rispecchiare in ciò che viene rappresentato sulla scena.
3. Dal punto di vista tecnico l’autore deve invece far riferimento alla tradizione teatrale cioè all’insieme di conoscenze tecniche che è stato accumulato nei secoli attraverso le diverse esperienze di autori e attori.
Perciò Goldoni dice che un commediografo deve avere come punti di riferimento Il Mondo e Il Teatro. Il pubblico delle commedie goldoniane è sostanzialmente, come vedremo, costituito dalla borghesia veneziana, formata da mercanti, imprenditori e professionisti.
Goldoni scrive commedie sia in lingua sia in dialetto veneziano. Alla prima categoria appartengono celebri commedie la locandiera e la bottega del caffè, mentre alla seconda appartengono opere come le baruffe chiossotte e i rusteghi. Il linguaggio che Goldoni utilizza nelle commedie in lingua è calibrato sul pubblico che generalmente assiste alla rappresentazione delle sue opere: come abbiamo visto si tratta di un pubblico borghese. Goldoni quindi elabora un linguaggio che mira soprattutto alla chiarezza e alla funzionalità comunicativa (in linea con il pensiero illuministico). Anche il dialetto viene in qualche modo rielaborato eliminando le strutture e il lessico che possono risultare troppo specifici e quindi incomprensibili per chi non è noto nella città lagunare.
LA SOSTITUZIONE DEL CARATTERE CON IL PERSONAGGIO
La commedia dell’arte prevedeva dei tipi fissi quindi delle maschere (esempi tipici erano le maschere veneziane di Arlecchino e Pantalone). Le maschere erano tipi fissi nel senso che esprimevano delle caratteristiche psicologiche e antropologiche unilaterali: Arlecchino ad esempio era il servo astuto abile nel districarsi nelle situazioni più complicate e capace di risolvere le difficoltà dei suoi padroni anche con inganno se necessario. Pantalone invece rappresentava una figura patriarcale, quella del mercante veneziano che si era arricchito con grandi sacrifici personali e non comprendeva l’atteggiamento più libero e spensierato di figli e nipoti. Era però una sorta di “burbero beneficio”: alla fine era sempre colui che con il suo denaro tirava fuori i giovani dai guai. Goldoni inizialmente usa ancora le maschere (un esempio è “Arlecchino servitore di due padroni”) ma ben presto passa a costruire veri e propri personaggi, dotati di una personalità molto più ricca e complessa. La differenza tra maschera e personaggio è per l’appunto questa: una maschera si caratterizza per un particolare vizio o per una particolare virtù; un personaggio viene approfondito psicologicamente, anche nelle sue contraddizioni.
IL ROMANTICISMO
Nella seconda metà del 700 all’estetica illuministica si contrappongono due diversi fenomeni culturali: il Neoclassicismo e il Romanticismo.
Il Romanticismo rappresentò in diversi Paesi Europei (ed in particolar modo in Germania e in Inghilterra) un elemento di rottura rispetto alla tradizione classicistica. In Italia invece il Romanticismo si sviluppò nei suoi aspetti meno radicali, venendo a compromesso con il preesistente classicismo.
ESTETICA CLASSICISTICA ED ESTETICA ROMANTICA
I caratteri del “bello” secondo i canoni classicistici erano l’eternità e l’universalità. Ciò significava che la bellezza era eterna, quindi valida in tutte le regole, e universale, uguale per tutte le culture e civiltà. Il modello di perfezione era quello offerto dall’antichità classica. In base all’estetica romantica invece la bellezza non è affatto eterna ma storicizzata: essa muta nel rapporto all’epoche. Inoltre non è universale ma specifica e legata al particolare contesto culturale in cui la si considera. Ciò significa l’ideale di bellezza che esiste in una cultura è diversa da quello che troviamo in un'altra. Rispetto al Classicismo notiamo già due elementi importanti:
1. L’importanza che assume nel divenire storico;
2. Il ruolo fondamentale svolto dalle specificità etnico razionali.
LA CONCEZIONE ROMANTICA DELLA REALTÀ
La concezione romantica della realtà si può riassumere nei seguenti punti:
1. La realtà è bidimensionale e si articola in due piani: quello della realtà fenomenica e quello della realtà noumenica. La realtà fenomenica è quella apparente visibile, che è regolata da leggi razionali che l’uomo può comprendere attraverso la ragione. La realtà noumenica è la dimensione più profonda della realtà: essa è immateriale e arazionale e proprio per questo l’uomo non può conoscerla attraverso la ragione ma solo attraverso l’intuizione.
2. L’arte e la letteratura sono espressione della realtà noumenica quindi della parte più misteriosa della realtà. Soltanto l’artista dotato di una sensibilità e un’intuizione può arrivare a cogliere la realtà noumenica. Egli perciò è un essere eccezionale e la poesia nell’arte hanno un valore conoscitivo.
3. Se l’arte e la letteratura sono espressione della realtà noumenica, che è immateriale e arazionale si pone il problema di trovare un linguaggio adatto ad esprimere ciò che è difficilmente rappresentabile usando i canoni razionali.
IL ROMANZO EPISTOLARE “LE ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS” DI UGO FOSCOLO E L’IMMAGINE DELL’EROE ROMANTICO
Nell’ambito della cultura romantica un grande rilievo ha la figura del “titano” (o eroe romantico). Il “titano” è un individuo eccezionale, dotato di una sensibilità e di una intuizione superiori alla norma che essendo diverso dalla mediocrità degli altri individui entra in conflitto con l’ambiente circostante. Spesso alla figura del titano è associato il tema del suicidio romantico: il titano, pur di non adeguarsi ad una realtà che egli considera squallida e inferiore alle sue aspettative preferisce autoannullarsi. Il suicidio così concepito non rappresenta quindi l’ammissione di una sconfitta ma un atto di autoaffermazione, attraverso il quale egli rifiuta di venire a compromessi con i suoi ideali. La tensione verso l’assoluto, verso una dimensione esistenziale intensa ed estrema si traduce in realtà quasi sempre nell’isolamento del titano e spesso ha anche nella scelta suicida. Nel romanzo epistolare “le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo l’idea della morte è presente fin dalla prima lettera riportata.
N.B.
Un romanzo epistolare è formato dalle lettere che si scambiano due personaggi; nell’Ortis però sono riportate quasi esclusivamente le lettere scritte dal protagonista e raccolte dall’amico Lorenzo Alderani.
BREVE SINTESI DELLA TRAMA DEL ROMANZO
Jacopo Ortis è un patriota italiano, nativo di Venezia che si era arruolato per combattere a fianco dell’esercito francese guidato da Napoleone, illudendosi che il generale avrebbe appoggiato la causa della riunificazione della penisola italiana. Ma Jacopo Ortis dopo aver partecipato all’insurrezione di Venezia, riceve una profonda delusione perché Napoleone firma con l’Austria il trattato di Campoformio (1797) con il quale da Repubblica Veneziana viene ceduta agli asburgo. Per Jacopo Ortis tutto è perduto; egli è ricercato e fugge, trovando rifugio sui colli Euganei. Qui conosce Teresa, una giovane di cui si innamora, già promessa però a Odoardo. Ortis finisce per suicidarsi; tuttavia il motivo fondamentale della sua scelta non è tanto la delusione amorosa ma la delusione storico-politica.
LETTERA DELL’11 OTTOBRE 1797 (TOMO VIII P.151-156)
Nel brano in esame compaiono già alcuni temi che caratterizzeranno tutto lo sviluppo della poetica foscoliana: come ad esempio quelli dell’esilio e del sepolcro. In realtà la lettera è dominata dall’idea della morte e perciò si può dire che la struttura del romanzo è circolare: esso si apre e si chiude con il tema della morte, presagita nella lettera di apertura realizzata nell’ultima parte del romanzo. Il tema della morte si articola anche sul piano lessicale in un vero e proprio piano semantico.
LA LETTERA DA VENTIMIGLIA DEL 19 E 20 FEBBRAIO 1798
La concezione della realtà che ha Foscolo deriva direttamente dal materialismo deterministico illuminista. In linea con questo pensiero Foscolo ritiene che l’intero universo sia governato da leggi ineludibili; Anche l’uomo è materia ed è parte di un immenso meccanismo di creazione e distruzione. Perciò gli esseri umani sono tutti destinati alla morte e non esiste alcuna forma di sopravvivenza dopo di essa.
N.B.
Per quanto riguarda la concezione della realtà, Foscolo si allontana decisamente dal pensiero romantico che ammette l’esistenza di due dimensioni: quella Fenomenica e quella Noumenica (immateriale). Foscolo aderisce alla concezione illuministica che è puramente materialistica.
Nella lettera da Ventimiglia molte delle riflessioni che fa il protagonista derivano direttamente dalla concezione materialistica sopra evidenziata:
1. L’idea che tutto ciò che esiste nel mondo umano sia destinato a dissolversi: l’uomo ha creato imperi e civiltà che sembravano eterni ed invece sono scomparsi e non nel male che un labile ricordo.
2. La storia appare come caratterizzata da una serie di eventi in cui non esiste un ordine provvidenziale o un filo logico che integri in una rivoluzione razionale; tutto è dominato da una logica di sopraffazione: come nel mondo della natura la morte di un essere significa la sopravvivenza di un altro, così nella storia umana la fine di una civiltà alimenta la nascita di un’altra. La storia è quindi dominata dalla violenza.
3. Il rapporto tra uomo e natura è contrassegnato dall’irrazionalità e relega l’uomo ad una condizione di infelicità: la vita infatti è caratterizzata dalle infermità e dal dolore; tuttavia l’uomo è spinto a lottare dall’istinto di sopravvivenza che gli ha conferito la natura. Egli lotta per sopravvivere, ma la vita non è altro che dolore; l’esistenza umana appare perciò priva di senso (in questo brano il pensiero di Foscolo è molto vicino a quello di Leopardi).
4. Foscolo dedica una riflessione anche all’Italia, constatando dolorosamente la decadenza della penisola e lo stato di asservimento in cui vivono gli italiani. Tuttavia questi ultimi, come già hanno fatto in altre epoche storiche si scontrano tra di loro sanguinosamente nonostante abbiano la stessa patria.
Come si può vedere le riflessioni esposte in questa lettera esprimono un profondo pessimismo, sia sul piano strettamente storico sia su quello esistenziale. A questo punto il suicidio appare quasi una conclusione scontato.
I SONETTI
ALLA SERA
Nel sonetto la sera assume un valore simbolico, perché allude alla morte. Questo particolare aspetto è evidente fin dal primo verso: infatti la sera viene rappresentata come l’immagine “della fatal quiete”. Nelle due quartine vengono tracciati due paesaggi in qualche modo antitetici: nella prima quartina prevale un paesaggio luminoso ed estivo che infonde un senso di serenità; nella seconda quartina invece il paesaggio è tenebroso e inquietante. Al verso 7 vi è un affermazione significativa: “sempre scendi invocata”; con queste parole l’autore ci vuole far intendere che la pace della sera pone fine alle inquietudini e agli affanni che vengono affrontati durante il giorno. A livello simbolico ciò significa che la morte viene concepita come liberazione dai mali e dalle angosce dell’esistenza. Il concetto viene ribadito negli ultimi due versi quando il poeta sottolinea che la pace della sera ha un effetto pacificatore sullo “spirto guerrier” che produce i conflitti e le inquietudini da cui è attraversata la vita dell’autore. Al verso 10 c’è quella che potremmo definire la parola chiave del componimento: “nulla eterno” in questo modo il poeta fa riferimento alla concezione materialistica e meccanicistica dell’universo che è tipica dell’illuminismo. L’uomo non è altro che un ingranaggio in questo immenso meccanismo di creazione e distruzione (il tema era già comparso nella lettera di Ventimiglia). Dal punto di vista stilistico notiamo: un’apostrofe al v. 3; vi sono tre metafore ai v. 3-4-5-6-7-8. altre metafore compaiono ai v. 9-10-11 e ai v. 13-14.
A ZACINTO
Il sonetto è dedicato alla città d’origine di Foscolo, Zante (che nel sonetto assume il nome di Zacinto). Essa si trovava in Dalmazia; quest’area era stata per secoli sotto la dominazione della Repubblica di Venezia.
I temi del componimento sono ricorrenti nella poesia letteraria e nella produzione foscoliana: essi sono quelli dell’esilio e del sepolcro.
N.B.
Questi temi erano già comparsi nel romanzo epistolare “le ultime lettere di Jacopo Ortis”, già nelle prime lettere.
Infatti Foscolo afferma che non potrà più rivedere la sua città d’origine, ricca di memorie storiche e mitologiche. Il poeta cita il mito della nascita di Venere (in greco Afrodite); egli poi fa riferimento ai versi di Omero, che nel suo poema epico “Odissea” narra il sofferto itinerario attraverso cui con alterne vicende Ulisse torna ad Itaca. In questo senso una parola chiave del componimento è “diverso esiglio” (v.9): infatti essa stabilisce un parallelismo tra la vicenda di Foscolo e quella di Ulisse sottolineandone però i diversi esiti. Infatti Ulisse riesce a tornare in patria mentre Foscolo sarà per sempre escluso da questa possibilità e potrà rivolgersi alla terra nativa soltanto attraverso i versi. Un’altra parola chiave è “illacrimata sepoltura” (v.14): essa indica il fatto che il poeta sarà sepolto lontano dalla patria e quindi la sua tomba non potrà essere oggetto delle cure delle persone amate. Il sepolcro ha un’importanza rilevante nella poesia foscoliana: poiché l’uomo è destinato alla morte e non vi è alcuna speranza di sopravvivenza al disfacimento del corpo, non restano che le nobili illusioni. La memoria di un individuo è affidata all’esistenza di un sepolcro che i suoi cari possano onorare, stabilendo una “corrispondenza d’amorosi sensi”. L’unica forma di sopravvivenza di un individuo è nella memoria di chi resta. Nel “carme”, i sepolcri, si afferma che il ricordo dei personaggi eroici è affidato ai loro sepolcri, ma essendo questi ultimi soggetti all’azione distruttiva del tempo il ricordo di questi uomini può sopravvivere nella poesia, che vince il silenzio dei secoli. Nel componimento ci sono alcuni enjambements.
Enjambements → frantumazioni dell’unità logica di un sintagma.
Agg. separato dal sostantivo (e viceversa);
Sogg. separato dal Predicato Verbale (e viceversa);
C. Ogg. separato dal Predicato Verbale (e viceversa).
Ai versi 4-5 6-7 8-9 13-14.
IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI (p.165)
Il sonetto è dedicato da Foscolo al fratello Giovanni, morto suicida a Venezia nel 1801. I temi che ritroviamo in questo componimento sono ricorrenti nella produzione foscoliana: l’esilio (v.1-2), la morte (v.4), il sepolcro (v.13-14). Il poeta afferma che se un giorno egli non sarà costretto a fuggire in mezzo a genti straniere, potrà visitare la tomba del fratello. Foscolo ricorda il dolore della madre, che ormai nella fase finale della sua vita, è costretta a una situazione di solitudine; egli non può far altro che pensare da lontano alla sua patria. Egli comprende profondamente le angosce e le inquietudini che hanno attraversato la vita del fratello, e si augura di trovare finalmente pace nel suo “porto” (la morte v.11). La morte viene concepita come un evento liberatorio (la stessa concezione si trova nel sonetto “alla sera”).
ANALISI STILISTICA
Si possono notare alcuni particolari:
- metafore (v.4,9-10,11).
- sineddoche (la parte per il tutto; “tetti” per “case” al v.8), un’altra compare nel v.16 (“ossa” per “corpo”).
- Metonimia (al v.6 “cenere” invece di “urna”; il contenuto per il contenente).
- Allitterazione (al v.2 e al v.5).
IL CARME E I SEPOLCRI (p.189)
Un carme è un componimento poetico molto esteso; i sepolcri infatti sono formati da 295 versi. Il carme fu scritto nel 1806 e lo spunto occasionale è costituito dalla legge emanata durante il regime napoleonico che imponeva che i cimiteri furono costruiti fuori dalle mura cittadine per ragioni igieniche. Il componimento si apre con il poeta che si rivolge all’amico Ippolito Pindemonte: Foscolo è contrario alla legge sopraccitata e ciò si spiega con l’importanza che per lui ha il sepolcro, simbolo che consente a chi è defunto di rimanere vivo nella memoria di chi resta. Infatti Foscolo come abbiamo visto ha una visione materialistica e meccanicistica della realtà: l’individuo muore e si dissolve come qualsiasi altra cosa che esiste, in un continuo meccanismo di creazione e distruzione.
VERSI 1-23 – Al v.7 vi è una personificazione, al v.13 vi è una metonimia (“sasso” per “lapide” il materiale per l’oggetto). Al v.14-15 vi è un enjambements. Al v.15 un’altra personificazione. Dai v.16-20 emerge con chiarezza la concezione materialistica e meccanicistica che Foscolo deriva dall’Illuminismo.
VERSI 23-40 – Ai v.26-30 viene sottolineato l’importanza che il sepolcro assume come unico legame tra i vivi e i morti: infatti esso consente la sopravvivenza di una “corrispondenza d’amorosi sensi” (v.30). Quindi di un legame affettivo tra chi resta e chi non c’è più. V.29-30 e 37-38 vi sono enjambements. Dai v.33-36 abbiamo una personificazione.
VERSI 41-77 – In questi versi viene ricordata la figura di Parini che non ha una tomba ma è stato inumato in una sepoltura comune. Foscolo ricorda la semplicità e l’indipendenza intellettuale di Parini il cui corpo forse giace insieme a quello dei delinquenti comuni. Al v.75 abbiamo una sineddoche (“ossa” per “corpo”) e un’altra sineddoche al v.65 (“tetto” per “casa”).
VERSI 78-195 – In questi versi Foscolo afferma che i sepolcri degli uomini nobili e coraggiosi sono di esempio per i vili. Il poeta ricorda i sepolcri custoditi nella chiesa di S.Croce in Firenze, quelle di Dante, di Michelangelo e di Galileo. Inoltre ricorda la figura di Vittorio Alfieri che era solito passeggiare nel silenzio lungo l’Arno. La figura di Alfieri viene ricordata come quella di colui che nelle sue tragedie ha condannato la piramide ed esaltato la libertà.
VERSI 226-295 – In quest’ultima parte del carme Foscolo esalta la funzione della poesia: egli ricorda il tragico destino di Troia e la figura di Omero che attraverso i suoi versi ha reso immortale ciò che il tempo con la sua forza distruttiva, può dissolvere e gettare nell’oblio. Anche i sepolcri infatti sono soggetti all’azione del tempo; Perciò l’unica possibilità di sopravvivenza per le gesta degli eroi e degli uomini grandi è affidata alla poesia che sfida i secoli e ne rende eterna la memoria.
GIACOMO LEOPARDI
Le componenti culturali della formazione leopardiana si possono riassumere come segue:
1. una componente Classicistica: che fa sì che il Romanticismo Leopardiano non si ponga mai in rottura con la tradizione letteraria precedente.
2. una componente Romantica: che si esprime soprattutto nella teoria del vago e dell’indefinito.
3. una componente Illuministica: che si manifesta in una concezione della realtà che è materialistica e deterministica e nel riferimento alle teorie sensiste.
La lettera di risposta alla lettera di Madame De Stael alla “Biblioteca Italiana”
Il primo documento interessante elaborato da Leopardi fu scritto dall’autore quando aveva 18 anni e venne inviato alla rivista biblioteca italiana che però non la pubblicò. Nel suo scritto Leopardi replicava alle affermazioni contenute in una lettera che Madame De Stael aveva inviato alla stessa rivista.
Madame De Stael invitava gli intellettuali italiani da attuare un opera di sprovincializzazione della letteratura nazionale, facendo riferimento ai modelli stranieri (che rientravano sostanzialmente nel filone romantico). Leopardi contesta le affermazioni di Madame De Stael e avanzando le seguenti obiezioni:
1. Non c’è necessità di riferirsi ai modelli stranieri perché la tradizione letteraria italiana dispone di grandi e validi modelli.
2. I modelli stranieri sono spesso ricchi di elementi che esulano dalla compostezza e dall’equilibrio della tradizione italiana (si noti come questa visione faccia emergere la matrice essenzialmente classicistica della formazione leopardiana: il modello estetico si fonda sui canoni dell’armonia e della compostezza formale che sono tipici della tradizione classicistica).
Questo documento ci mostra un Leopardi fortemente influenzato dalle teorie classicistiche che hanno una parte importante nella sua prima formazione: la teoria del piacere, della noia e dell’infelicità dell’uomo.
Per tutta la vita Leopardi si dedicò alla stesura dello Zibaldone. Quest’opera ha una struttura eterogenea e tratta una molteplicità di temi. Lo Zibaldone infatti raccoglie gli appunti e le riflessioni sparse che Leopardi scrisse sviluppando il suo pensiero e la sua poetica. È partendo dallo Zibaldone che siamo in grado di ricostruire il pensiero leopardiano sul piacere, sulla noia e sull’infelicità umana. Secondo Leopardi l’uomo è animato da un desiderio infinito di piacere e di infelicità. Tuttavia siccome tutto ciò che esiste è limitato e finito, non che destinato a dissolversi in quelle norme di meccanismo di creazione e distruzione che è la natura, l’uomo non può soddisfare questo desiderio.
Da questa consapevolezza nasce la noia, che è appunto la reazione di insoddisfazione e inquietudine che l’uomo prima quando si rende conto che ciò che esiste non può soddisfare il suo infinito desiderio di piacere. L’uomo può arrivare a soddisfare questo desiderio solo usando la facoltà dell’immaginazione; È importante notare come Leopardi arrivi a delle conclusioni tipicamente romantiche (l’esaltazione dell’immaginazione) partendo da premesse sensiste (e quindi illuministiche).
Leopardi inoltre afferma che la condizione dell’infelicità dell’uomo è strettamente legata all’età moderna: infatti una delle caratteristiche fondamentali dell’uomo moderno è l’esaltazione dell’uso della ragione. Ma l’uso della ragione rende l’uomo consapevole del fatto che egli è solo un ingranaggio in un meccanismo di creazione e distruzione. Da qui nasce l’infelicità umana. Secondo Leopardi invece gli antichi non conoscevano l’infelicità dei moderni perché, non avendo sviluppato ancora pienamente la facoltà razionale usavano l’immaginazione ciò impediva loro di percepire e comprendere la condizione di infelicità di cui era destinato l’uomo (pessimismo storico). Sulla scia di queste riflessioni Leopardi sviluppa anche la teoria del vago e dell’indefinito, che è la parte più romantica della poetica Leopardiana: ciò che è indefinito è più poetico perché induce l’uomo a usare l’immaginazione.
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