Commento Canto XV Paradiso

Materie:Altro
Categoria:Italiano

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Testo

PARADISO CANTO XV commento
Un'improvvisa immobilità si sostituisce all'immagine del cielo di Marte che si volge intorno a Dante come un immensa, scintillante scudo crociato e a quella delle anime che hanno formato la croce luminosa nella quale "lampeggia" la figura di Cristo, mentre il canto del l'inno di vittoria e di risurrezione si interrompe improvvisamente: scompaiono, insomma, tutti quegli elementi che avevano animato la grandiosa, e pur liricamente vibrante, rappresentazione del canto precedente. Con questa pausa narrativa ( una di quelle a cui il Poeta affida spesso, nel Paradiso, il compito di preparare una particolare effusione poetica) viene approfondito il tema della caritatevole benevolenza dei beati, la quale anticipa l'intima disposizione affettuosa di Cacciaguida, di Beatrice, di Dante stesso durante il loro colloquio. pervaso da un senso di caritas che lo lega fortemente all'atmosfera paradisiaca. La presenza di questo, come di altri motivi paradisiaci ( la luce, l'intensificarsi del sorriso di Beatrice, il mistico eloquio di Cacciaguida ), concorrono a costituire " la base altissima ed intensa su cui si attua la poesia dell'ultima parte, a elaborare gli elementi di nobilitazione e santificazione della voce di Cacciaguida, il tono epico-religioso e storicamente testimoniale in cui la rappresentazione della Firenze antica può superare le condizioni di un semplice e isolato idillio nostalgico...". (Binni). In queste quattro terzine viene impostato ed energicamente evidenziato il tema fondamentale non solo di questo canto, ma di tutta la trilogia di Cacciaguida: contrasto fra cielo e terra, fra benigna volontade e cupidità, fra mondo fallace e pace celeste, contrasto che troverà la sua esemplificazione concreta, storica in quello fra la Firenze sobria e pudica di un tempo e la Firenze corrotta del presente. La storia della sua città diventa così per il Poeta l'esempio di una verità universale e centrale del Paradiso, conferendo un ulteriore rilievo " al mito della Firenze antica, la cui pace nasceva per Dante non solo e non tanto da una situazione sociale, economica, politica... quanto e più dall'adesione dei suoi cittadini all'amore dei beni sostanziali, alla cristiana e civile carità" (Binni) .
Recuperato il senso dello spazio infinito con la visione di un sereno cielo notturno - che diffonde su tutto il canto una pace superiore, un'arcana immobilità, quasi ad aiutare l'evocazione di un mitico passato e la speranza di un lontano futuro - ritorna l'immagine della croce luminosa, delineata attraverso preziosi accostamenti ( la gemma, il nastro, il foco che traspare dietro la diafana luminosità dell'alabastro) che ripropongono le suggestioni lirico-visive delle metafore del canto precedente. Infatti anche qui l'immagine non è fine a se stessa, edonistico godimento dell'occhio che segue attento il bagliore della gemma o le variazioni di luce prodotte dal foco dietro ad alabastro. ma serve a determinare la situazione intima di Cacciaguida, che, pur partecipando della beatitudine delle altre anime (non si distacca, infatti, dalla croce, ma la percorre per la lista radiai), nella sua sollecitudine affettuosa e paterna ''corre" verso il suo discendente, si illumina per un accrescimento improvviso di caritas, "si porge", si protende verso Dante con un gesto intenso di pietà, da padre a figlio. Sorge così, con la naturalezza di un ricordo che affiora improvviso alla memoria, il richiamo all'incontro nei Campi Elisi di Enea con il padre Anchise (Virgilio, Eneide VI, 684-686), che gli profetizza i travagli attraverso i quali dovrà passare prima di porre le fondamenta di quella che diventerà Roma; anzi l'economia della Commedia l'incontro di Dante con Cacciaguida assume la stessa funzione - rivelazione di missione - che nel poema virgiliano rivestiva quell'episodio. E' il momento centrale del poema sacro, è il momento nel quale Dante riceve la sanzione del destino che Dio gli ha assegnato. Nel canto secondo dell'Inferno il Poeta aveva obiettato a Virgilio, che lo esortava al viaggio, di non essere né San Paolo né Enea, coloro che ebbero il privilegio di vedere il mondo ultraterreno, il primo per ricevere forza nella sua opera di diffusione della fede, il secondo per contemplare la Roma futura. Ora egli è veramente come San Paolo, come Enea: attraverso la visione del mondo sovrannaturale attinge la promessa e la certezza delle cose future, la promessa e la certezza di un rinnovamento del mondo, e Cacciaguida, il martire della fede, conferma solennemente la sua missione. Ma per rinnovare il mondo occorre un esempio da indicare agli uomini, un modello che si possa realizzare concretamente: è il passato della sua Firenze dentro dalla cerchia antica, quando si stava in pace, sobria e pudica. Il discorso di Cacciaguida nel canto XV "non è soltanto l'espressione di un rimpianto del tempo passato, una fuga nella memoria di cose antiche abbellite dall'animo, un moto di laudator temporis acti [lodatore del tempo passato], la voce di un conservatorismo incapace di comprendere la presente realtà" (Montano), perché, evocata dall'avo nell'animo del Poeta "come un'immagine mitica, è la città della purezza e della fede che muove la sua ansia e che egli vorrebbe restaurare". Osserva ancora il Montano, che ha dato una fine interpretazione di tutto l'episodio di Cacciaguida: "L'ansia profetica della restaurazione e della riforma non può non rifarsi a un passato da far ritornare, a una purezza originaria da riattingere". E questo è il puro mondo fiorentino, anteriore ai guadagni e alla corruzione portata dalla gente nova. In questo senso l'ideale ritorno a Firenze non è certo una interruzione del moto di ascesa verso Dio, un indugio autobiografico nel processo di elevazione spirituale, ma è un ritrovare, da parte del Poeta, le ragioni della sua speranza, del suo sogno di un futuro migliore, della sua stessa missione.
L'esordio in latino, nel quale l'espressione sanguis meus ripete quella rivolta da Anchise a Cesare (Virgilio Eneide VI, 835), concorre a quella nobilitazione epico-sacra che, a partire da questo momento, diventa la tonalità caratteristica del canto.
Cacciaguida ricorda il figlio Alighiero (o Allaghiero), dal quale derivò il nome di tutto il casato. Il nome di Alghiero compare in un documento del 1189 e in uno del 1201, ma Dante dovette crederlo morto prima del 1200, perché nel 1300 - data dell'immaginario viaggio oltremondano - afferma che da cent'anni e più e si trova nel primo girone del purgatorio, tra i superbi. Da Alighiero nacque Bellincione e, da questo, Alighiero, padre di Dante.
La cerchia antica delle mura fu costruita al tempo di Carlomagno sovra 'l cener che d'Attila rimase (Inferno XIII, 149). Presso queste mura sorgeva l'antica chiesa della Badia dei Benedettini che suonava le ore del giorno. Dopo la morte di Cacciaguida furono costruite altre due cerchia, nel 1173 e nel 1284 (quest'ultima terminata solo nel secolo XIV).
Alla visione complessiva delle passate virtù segue ora una descrizione dettagliata che, scandita dall'epica energia di una serie di negazioni in crescendo, presenta un quadro particolareggiato del contrasto fra la Firenze antica e la Firenze attuale. Anche il Villani fu colpito dalla suggestione di questi versi danteschi, che riecheggia in un passo della sua Cronaca (VI, 70) allorché descrive la Firenze del passato e i suoi cittadini.
Per le giovani il tempo delle nozze e l'entità della dote erano fissate secondo una giusta misura: non troppo presto il primo e non troppo ricca la seconda. Nella Firenze attuale, invece, i padri maritano le figlie quando sono ancora "nella culla" (Ottimo) e la dote è tale che la figila esce di casa "con tutto quello che ha il padre".
Le case appaiono ora fastosamente sproporzionate al bisogno (le più grandi famiglie nobili occupavano con le loro " consorterie " interi quartieri della città) e quasi disabitate. Questa interpretazione deve essere unita ad un'altra che la completa: le case sono ora vote di prole a causa della degenerazione morale della famiglia. La depravazione e la mollezza dei costumi è penetrata nell'intimo della vita familiare e merita di venire rappresentata attraverso la figura di Sardanapalo, il re assiro vissuto nel VII secolo a. C., famoso per lussuria ed effeminatezza.
Il fasto di Firenze, che si può ammirare dal monte Uccellatoio, non aveva ancora vinto il fasto della città di Roma, osservata dall'alto di Monte Mario. Ma come è stata rapida l'ascesa, altrettanto lo sarà l'inevitabile decadenza, che colpirà presto Firenze a causa della sua corruzione.
Chiusa la prima parte del discorso di Cacciaguida con l'immagine di una parabola di grandezza e di decadimento, che lascia dietro di se una desolata immagine di rovine (versi 109-111 ), la visione della Firenze antica si fa più diretta, più nitida: appaiono i suoi cittadini più illustri, rappresentativi dell'alterezza cavalleresca e delle virtù romane. Sono uomini austeri, donne pudiche, e su di loro si ferma. assorto, l'occhio di Cacciaguida (vid'io... vidi), che quel mondo ben conobbe e rappresento. Dante non prospetta una vita ascetica o un rifiuto dei mondo (anzi e da quella Firenze che Cacciaguida è partito per la sua impresa più grande, la difesa della fede), bensì una società retta dalle virtù più sante: la casa, la famiglia, il lavoro, il culto del passato, le virtù, cioè, che per Dante coincidevano con gli ideali della Cavalleria: ed el mi cinse della sua milizia... per bene ovrar, dirà Cacciaguida alla fine del canto (versi 140-141). Bellincione Berti, padre della buona Gualdrada (Inferno XVI. 37) e nobile cavaliere fiorentino, fu capostipite della famiglia dei Ravignani.
Le famiglie guelfe dei Nerli e dei Vecchietti furono fra le più ragguardevoli di Firenze, secondo la notizia del Villani ( Cronaca IV, 12-13 ) .
Le lotte di partito non costringevano intere famiglie all'esilio e alla sepoltura fuori della patria, né la brama smodata di guadagno spingeva gli uomini a portare i loro commerci fuori di Firenze e fuori d'Italia.
Accanto alla dolcezza degli affetti familiari il Poeta ricorda il retaggio delle antiche glorie e degli antichi racconti, coltivato nell'intimità delle case. Nella gioia e nella pace della famiglia venivano rievocati l'arrivo dei Troiani in Italia, l'origine di Fiesole, la fondazione di Firenze da parte dei Romani dopo la distruzione di Fiesole: i tre cicli che costituivano il fulcro dei racconti tradizionali molto diffusi in Toscana (cfr. Villani, Cronaca 1, 6 sgg.). In queste tre terzine la rappresentazione dell'antica Firenze culmina in una poesia intima e delicata, celebrante gli aspetti della vita familiare, quelli, cioè, su cui si fonda la vita di ogni uomo. E Dante, I'exul immeritus, li avverte con la tenerezza disperante della nostalgia, che si fa sempre più acuta man mano che la speranza di un ritorno si allontana nel tempo. E' questa una pagina autobiografica che per il fatto di essere rivissuta nell'atmosfera paradisiaca, dove tutto acquista un valore superiore e una dimensione eterna, si trasferisce su un piano universale, per cui la Firenze antica diventa il modello di ogni città perfetta, i dolori dell'esule rappresentano i dolori di chi ama la giustizia e ricerca la verità, e la memoria degli affetti goduti nella pace della propria casa e dellà propria città si trasforma nella celebrazione del culto della famiglia.
Cianghelia, figlia di Arrigo della Tosa, fu celebre al tempo di Dante per lusso, arroganza e dissolutezza. Capo Saltarello, giurista e rimatore, partecipò attivamente alla vita politica di Firenze, conquistandosi fama di uomo fazioso e corrotto. Venne bandito dalla città nel 1302 sotto l'accusa di brogli e di baratteria.
Di Cacciaguida, trisavolo di Dante, nato intorno al 1091 e morto verso il 1147, non abbiamo altre notizie (ad eccezione di un documento del 1189 dal quale risulta che era già morto) se non quelle che il Poeta ci presenta in questi ultimi versi del canto.
Non abbiamo notizie neppure dei due fratelli di Cacciaguida. Poiché un'antica tradizione ricorda che la famiglia fu legata da vincoli di parentela con quella degli Elisei, che vantava un'origine romana, il Ricci diede questa spiegazione: Moronto fu anche Eliseo, cioè mantenne il cognome degli Elisei, mentre Cacciaguida, che sposò un'appartenente alla famiglia Ferrarese (di dal di Pado) degli Aldighieri, diede origine al ramo degli Alighieri.
Corrado III di Svevia (a. 1093-1152) partecipò con Luigi VII di Franciá alla seconda crociata, iniziatasi nel 1147. Nel passato molti interpreti ritennero che qui Dante confondesse Corrado III con Corrado II, imperatore dal 1024 al 1039, poiché il primo non sarebbe mai venuto in Italia, mentre il secondo scese per combattere contro i Saraceni in Calabria, e a Firenze creò cavalieri molti cittadini ( Villani - Cronaca IV, 9 ) . Invece studi più recenti hanno stabilito che anche Corrado III venne in Italia e si fermò in Toscana: in questa occasione poté conoscere Cacciaguida, il quale, diventato cavaliere, lo segui alcuni anni dopo nella crociata in Terrasanta.

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