Come parlare di pace - il dizionario di pace

Materie:Tema
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Testo

COME PARLARE DI PACE - IL DIZIONARIO DI PACE
Non è semplice parlare di ciò che rappresenta l’assenza più grande del secolo appena passato. Mi trovo a congetturare qualcosa che non ho studiato, che non sono riuscito mai a vivere con pienezza. È vero, non ho mai combattuto nessuna guerra, e neppure i miei genitori, ma non credo che questi anni possano essere definiti come anni di pace.
E poi, se c’è pace, uno non sa come accorgersene: durante la guerra sei tempestato dalle notizie delle bombe che piovono dal cielo, dritte sulla tua testa o su quella del tuo vicino; durante la pace, o finiamo col parlare della guerra appena conclusa, dei danni che ha provocato, del dolore che ha generato, oppure con lo stare lì inebetiti di fronte a quel –perdonatemi il termine azzardato- nulla che non sai con cosa spiegare. I termini spigolosi e drammatici sono finiti, e quelli armoniosi e poetici tardano a venire fuori.
Oppure, ancora peggio, anche se la guerra non l’hai vissuta, critichi governi, istituzioni ed eserciti vari, provi odio nei confronti degli artefici. Oppure ancora, anche se la guerra non la combatti direttamente ti senti in accordo con il tuo capo di stato e con l’idea diffusa che l’odio nei confronti di un altro popolo, o di un altro determinato gruppo di persone, sia lecito, inequivocabile, sia addirittura sintomo di giustizia. Perché anche chi non fa la guerra, vuole farsi giustizia e vuole farsi valere: se ne va al bar con gli amici e, mentre fuma una sigaretta bevendo un martini ghiacciato, si prende la licenza di inveire contro “quei fanatici orientali” o “quel popolo inferiore”.
Insomma: parole per la guerra ne abbiamo a bizzeffe.Anche perché la vita col passare del tempo e delle notizie strappa via alcune pagine al dizionario e ci lascia le più crude, per le occasioni violente. Manca un dizionario di pace.
Da sempre l’uomo canta la guerra come eroismo, ma anche come dolore, come il momento dei vincitori e dei vinti, come il momento in cui dobbiamo fare il resoconto dei parenti persi, come il momento in cui la nostra casa è aperta da una bomba. Sono immagini che tutti abbiamo visto, almeno nei film, o nei libri. C’è anche chi parla di pace, come Virgilio nelle sue Bucoliche o il più moderno Tiziano Terzani: ma lo fanno tenendo davanti agli occhi qualche tipo di guerra, un momento passato e presente a cui fare riferimento. O i grandi pacifisti del Novecento, che hanno sentito il bisogno di parlare di non-violenza: ma sempre in risposta alla guerra.
Prendiamo la guerra, la guardiamo bene, e poi iniziamo a scrivere tutto ciò che non è guerra. Non sappiamo come lodare la pace, nel migliore dei casi raccontiamo una non-guerra.
A me la bandiera arcobaleno appesa al balcone non basta. Che c’entra, lo so, è coreografica, ma quello non è linguaggio di pace, è solo un rifugio comodo e rassicurante. Alcuni potrebbero pensare “comunque meglio di nulla”. Ma, se iniziamo a speculare su un concetto che deve esserci caro, finiremo per rovinare anche le ultime motivazioni che ci fanno sperare. Se la pace è “appendere la bandiera al terrazzo, e andare a lavorare, e tirare avanti, e tornare a casa, e telegiornale, e cena, e poi a dormire, e il mattino dopo la solita bandiera al terrazzo”, ci rendiamo conto che la pace non è questa bellezza infinita, e che, se pace deve essere, o comunque se ci deve essere una qualche forma di non-guerra, dobbiamo far sì che esista in qualche altro modo.
Dobbiamo far sì che la pace nasca nella semplicità e nel silenzio, e dopo dobbiamo iniziare a darle voce. Dobbiamo iniziare ad accostare ciò che è bello e che in noi genera piacere alla pace. Per me è pace ogni tramonto in collina, e ogni aurora, e ogni mare, e ogni canzone e ogni serata con gli amici. Ognuno deve imparare ad associare la propria visione di bellezza a ciò che è pace. Quando cerchiamo ordine e armonia nella vita stiamo solo cercando pace. Anche Omero, il più grande cantore della guerra, nell’Iliade, racconta il rispetto, la regolarità e l’ordine della guerra, i tempi determinati in cui il conflitto si ferma: canta comunque una bellezza. Come fa notare Baricco, la bellezza della guerra. Ma non è tanto la bellezza del conflitto, è piuttosto la necessità di descrivere un ordine. E Omero canta la pace attraverso lo splendore delle lance, delle corazze e degli scontri frontali tra due eroi: questa è comunque bellezza, e quindi pace. Non c’è quasi violenza nell’Iliade, in un certo senso: è solo un monumento di bellezza. Per intendersi, nel leggere l’Iliade, non proviamo angoscia, ci sentiamo solo “più alti”, umani, e meno violenti. Non è odio vero e proprio, in un certo senso. E in ogni caso, in una società guerriera come quella greca, esaltare lo scontro non era altro che cantare la parte più evidente della propria umanità. E forse era così anche per Ariosto e Tasso, la guerra era solo un pretesto per parlare di Dio, di amore, o semplicemente per sdrammatizzare. In un certo senso, sempre parole di pace in riferimento alla guerra: un ordine da raccontare.
C’è anche chi prova oggi a cambiare i nome delle cose: le guerre sono diventate “missioni di pace”. Abbiamo addirittura il Ministero della Difesa che pensa a gestire le guerre. Ci difendiamo preventivamente. Orwell aveva ragione in questo: sarebbe arrivato il giorno in cui l’uomo avrebbe perso la capacità di distinguere l’odio dall’amore, la guerra dalla pace. Le parole servono oggi per occultare la realtà: lontani anni luce dal dizionario di pace…non è facile creare questo dizionario. Sarà che prima bisognerebbe farla, questa pace.

Daniele Pasquini
V B liceo

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