cap. XXIX Promessi Sposi

Materie:Riassunto
Categoria:Italiano
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Testo

Riassunto e commento cap. XXIX Promessi Sposi

Dopo la disgressione storica della guerra cominciano a riapparire i personaggi.
Il primo personaggio è Don Abbondio, il quale deve affrontare non solo i pericoli personali o immaginari, ma una catastrofe reale che riguarda tutti. Le sue reazioni sono legate sempre al suo ristretto orizzonte. L’arrivo dell’esercito invasore assume un colore “apocalittico” nelle “voci” popolari filtrate attraverso la voce del curato: il numero smisurato dei soldati, le qualità demoniache, la loro capacità di divorare spazio e tempo conferiscono al flagello una dimensione sovraumana. Vengono elencati una serie di paesi della Valsassina dove passavano le truppe: Cortenuova, Primaluna, Balabbio,Barsio). Al movimento dell’esercito si accompagna e si contrappone quello della popolazione. Alcuni vorrebbero fuggire, altri restare (per paura di organizzare la fuga).
Don Abbondio all’inizio sembrava convinto di fuggire, ma subito si trova bloccato dal contrasto fra il pensiero e l’azione, infatti sono sopraggiunti dei timori immaginari. (diceva “come fare?” “dove andare?”). I monti non erano sicuri, perché si sapeva che “i lanzichenecchi” (soldati mercenari- il loro nome significa fanti della milizia territoriale) si arrampicavano come “gatti”.
Anche la natura viene descritta in modo che sembra raddoppi le difficoltà “lago grosso” “tirava un gran vento”. I barcaioli trasportavano le persone e sembrava che le barche a causa del peso e della burrasca fossero pericolose e si rovesciassero da un momento all’altro.
Don Abbondio vede in ogni spazio esterno un pericolo. Il territorio bergamasco non era molto lontano, però sapendo che era stato spedito uno squadrone di “cappelletti” (soldati temuti della repubblica veneta chiamati così per il loro elmo a visiera), Don Abbondio impaurito seguiva in continuazione Perpetua che la considera il suo rifugio nei momenti di pericolo.
Perpetua, era occupata a raccogliere gli oggetti più importanti della casa per nasconderli in soffitta ed in questi momenti, era un po’ intrattabile però non perde la sua capacità d’affetto nei confronti di Don Abbondio. Lo tratta come un bambino, gli dice di reagire, invece di continuare a lamentarsi, perché non è l’unico a trovarsi in questa situazione.
Don Abbondio, affacciato alla finestra, gridava ai passanti di “procurargli qualche cavallo, qualche mulo, qualche asino” per scappare. Si comporta da egoista, infatti si vuole unire ai parrocchiani che invece dovrebbe guidare e proteggere, pretendendo una carità di cui lui non è minimamente capace.
Queste frasi erano rivolte a persone innocenti che passavano con i propri figli. Alcuni passanti non rispondevano, altri gli dicevano di “ingegnarsi” e commentavano che lui era fortunato perché doveva pensare solo a se’stesso.
Don Abbondio non pensa neanche più al suo denaro, tanto la sua mente è resa ottusa dalla paura.
Ci pensa Perpetua a sotterrare il denaro nell’orto.
Anche Agnese, pur avendo molti dubbi sul modo di comportarsi in questa situazione, non si lascia travolgere dallo spavento. Possedendo gli scudi regalati dall’Innominato, Agnese è preoccupata, perché teme di essere maggiormente esposta alla violenza da parte degli stranieri.
Agnese si ricorda che l’Innominato le avrebbe offerto i suoi servizi in caso di bisogno e pensa che il castello potrebbe essere un luogo sicuro, quindi si reca a casa di Don Abbondio per proporglielo.
Perpetua accetta immediatamente, invece Don Abbondio continua ad essere titubante, incredulo sulla conversione dell’Innominato. Perpetua, sbrigativa, incita il curato a prendere breviario e cappello e ad incamminarsi.
Don Abbondio diede un’ultima occhiata alla chiesa e disse in mezzo ai denti “Tocca al popolo custodirla, perché serve a lui”. Si denota l’arido rapporto del sacerdote con la chiesa. Quindi un addio senza rimpianti. Durante il tragitto, il curato, inizia mugugnando uno dei suoi consueti soliloqui. Nell’accusare i grandi delle politica europea si nota nel suo soliloquio comicità per il dislivello fra le immagini evocate (duca Nevers, imperatore, governatore) ed il linguaggio popolare usato da Don Abbondio. Perpetua è preoccupata di aver dimenticato qualcosa e quasi passa al rallentatore le proprie mosse frettolose eseguite prima di uscire di casa. Don Abbondio la rimprovera dicendole “Dove avevate la testa?”.Perpetua si ferma con le mani sui fianchi (suo gesto caratteristico) gli risponde che il responsabile è lui che invece di farle coraggio le faceva “perdere la testa” ed usa un’espressione proverbiale (che deriva dal Vangelo) “ho dovuto far Marta e Maddalena”. ( Marta simboleggia la vita attiva e Maddalena quella contemplativa).
Agnese è dispiaciuta, perché è svanita la sua speranza di riabbracciare presto Lucia e vedendo quei luoghi, i ricordi e l’assenza di Lucia si fanno sentire in modo più pungente.
Agnese si commuove abbracciando la moglie del sarto, il quale li invita a pranzo. Il sarto spera di aver trovato un interlocutore pari al suo livello intellettuale in don Abbondio, per poter parlare della situazione attuale creatasi, ma si accorge che il curato non ha intenzione di analizzare il mondo esterno, preso com’è da se’ stesso. Da alcune citazioni che fa il sarto si nota che è un uomo di cultura. Infatti fa alcune citazioni dicendo che il castello dell’Innominato è diventato una Tebaide e trae spunto dal “Leggendario” che parla dei santi eremiti nel deserto dell’Egitto. Il sarto non sa che per Don Abbondio la lettura è solo un modo per trascorrere le ore serali. I tre si accomiatano e proseguono la seconda parte del viaggio con più tranquillità.
Intanto l’Innominato (che avevamo lasciato al cap. XXIV quando comunica ai bravi la sua grande giornata di conversione) soccorreva i poveri, usciva sempre solo e senza armi. Essendosi convertito si sente spiritualmente unito agli altri, quindi può affrontare ogni incontro senza armi di difesa.
L’Innominato era quell’uomo che nessuno aveva potuto umiliare e che si era umiliato da solo.
Molte persone che nutrivano sentimenti violenti nei confronti dell’Innominato, ora non hanno la forza di imporsi. L’innominato, in chiesa, si era scelto l’ultimo banco (richiamo alla parabola del fariseo e del pubblicano: il ° davanti all’altare e il 2° prega con umiltà all’ultimo posto nel tempio.)
Nessuno gli occupava il posto, perché sarebbe stato come usurpare un posto d’onore.
La presenza dell’Innominato assume un valore sacro, quasi che il Manzoni voglia far assumere al racconto il valore di una parabola. Commenta che “se quell’uomo in passato fosse caduto tutti sarebbero accorsi per calpestarlo”: ma siccome lui si è messo” volontariamente a terra veniva risparmiato da tutti e inchinato da molti”. A molte persone il cambiamento dell’Innominato non avrebbe dovuto far piacere, perché perdevano una forza sulla quale avrebbero fatto affidamento. Però la notizia della sua conversione portò nei bravi , stupore, stizza, dolore ed abbattimento, ma certamente non odio e disprezzo. Parecchi bravi se ne erano andati, perché non speravano in un cambiamento della situazione. Alcuni avranno cercato un altro padrone, qualcuno si sarà arruolato in qualche reggimento di Spagna e Mantova. Alcuni saranno diventati banditi di strada.
I fuggiaschi dei paesi invasi chiedono ricovero nel castello dell’Innominato che li ospita con riconoscenza (perché era un’occasione di far del bene). Le persone che vi si rifugiano, avevano considerato per tanto tempo le mura del castello come “uno spauracchio”, ora non più.
L’Innominato fa allestire il suo castello come un dormitorio, assume su si se’ il peso di ogni responsabilità, si dimostra un uomo d’azione. Tutti lo guardano estasiati e stupiti.

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