Canti divina commedia - parafrasi e introduzione critica

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Testo

INFERNO CANTO XIII. I due poeti si addentrano nel secondo girone del settimo cerchio, in un bosco di piante secche, contorte e spinose, abitato dalle mostruose Arpie, uccelli dal volto umano. Non si vedono anime di peccatori, ma se ne odono i lamenti. Esortato dal maestro, Dante stacca un ramoscello da un grande pruno e questo, attraverso la ferita, incomincia a sanguinare e a parlare. Virgilio scusa il suo discepolo ed invita l’anima imprigionata nell’albero a rivelare il suo nome. E il tronco parla: fu Pier delle Vigne, ministro dell’imperatore Federico II; si uccise perché, ingiustamente accusato dai cortigiani invidiosi del suo ascendente sul sovrano, era caduto in disgrazia. Davanti a Dante, che in terra potrà riabilitarne la memoria, giura che mai tradì la fiducia in lui riposta dal suo sovrano. Poi narra come le anime dei suicidi, dopo essere cadute nella selva, trasformatesi in piante, vengano crudelmente dilaniate dalle Arpie. Dopo il Giudizio Universale i corpi di questi peccatori saranno appesi ciascuno all’albero nel quale è incarcerata la loro anima. Il discorso di Pier delle Vigne è interrotto dall’apparizione delle ombre di due scialacquatori e, dietro loro, di una muta di nere cagne fameliche. Mentre uno di questi due dannati . riesce a sottrarsi alla caccia, l’altro, esausto, cerca riparo in un cespuglio, ma le cagne, non tardano a scoprirlo e lo sbranano ferocemente. La loro violenza non risparmia neppure il cespuglio, dal quale una voce si leva a protestarle contro tanto scernpio. Quella che adesso parla è l’anima di un suicida fiorentino: prega i due pellegrini di raccogliere ai piedi del suo corpo vegetale le fronde di cui è stato mutilato e lamenta le sventure abbattutesi sulla sua città.

Introduzione critica
La selva deI suicidi è l’espressione tangibile dell’innaturalezza del loro peccato, dell’empietà, radicata nella superbia, che condusse questi infelici a disprezzare il dolore, a disperare della giustizia che ripara ogni torto, al di là dell’ingiustizia degli uomini. Per gli antichi il suicidio non rappresentava un atto moralmente riprovevole; l’uomo era considerato padrone della sua vita fino al punto di potersela togliere, e responsabile di essa soltanto nei confronti di se stesso. Tutta una tradizione letteraria ha esaltato le figure di quegli stoici che, ostacolati dalla tirannide nell’esercizio della libertà, preferirono darsi la morte anziché riconoscersi soggetti ad un’autorità che non fosse quella della loro coscienza. Ma il Cristianesimo ha dato all’idea di libertà una dimensione ignorata dagli antichi, trasferendola, dal piano esclusivamente umano - sul quale essa finiva per identificarsi con la libertà politica - al piano dei rapporti dell’uomo con Dio, fonte e fondamento di tutti i valori.
L’uomo, per il cristiano, deve svolgere nel mondo un compito che non si esaurisce nell’ambito dei doveri verso lo stato. Egli non appartiene solo a se stesso o alla comunità dei suoi simili, né può disporre a suo piacimento di ciò che non è opera sua, ma dono, gratuito ed inestimabile, di Dio, la più alta espressione della sua potenza creatrice e del suo spirito d’amore: la vita.
Nel canto tredicesimo la metamorfosi dell’uomo in pianta, già ampiamente trattata dagli autori latini, diviene, per Dante, cristiano, consapevole all’estremo della dignità umana, quel qualcosa di tragico e di irrimediabile che è la degradazione dell’umano nelle forme di un ordine inferiore.
Scrive lo Spitzer: "là dove Ovidio dispiega al nostro sguardo la ricchezza della natura organica, Dante mostra l’inorganico, l’ibrido... il peccaminoso, il dannato". E, ancora, precisando: "Però una metamorfosi di Ovidio, pur essendo presentata come " naturale ", è forse meno " reale " di quella di Dante. Ovidio tratta una tradizione leggendaria che ripete come se vi credesse; le sue favole si svolgono in un remoto passato ed hanno una patina di leggenda. Invece i due protagonisti della metamorfosi di Dante, Pier delle Vigne ed il suicida anonimo, erano quasi contemporanei del Poeta: figurano nel poema in quanto appartengono all’eterno presente ed illustrano il giudizio di Dio che è universalmente vero: de te fabula narratur".
Per quel che riguarda lo spunto che il Poeta può aver tratto, nell’immaginare il bosco dei suicidi, da Virgilio, già il De Sanctis aveva notato come la figurazione dantesca si origini in una disposizione di spirito che è agli antipodi di quella del suo modello latino. Nessun indugio, in Dante, nell’analisi delle proprie impressioni; nessuna concessione a quella levigatezza di trapassi che, in Virgilio, riesce a rendere "elegante anche l’orrore". Il motivo dell’albero che sanguina - pittoresco prima ancora che tragico nel terzo libro dell’Eneide, subordinato com’è al flusso ampio della narrazione, confinato nella funzione di illustrare il carattere di un paese inospite, dal quale gli dei vogliono che Enea si allontani al più presto - si isola, in Dante, come una delle espressioni più vigorose e coerenti di quella logica del male che è alla base delle figurazioni sia plastiche sia psicologiche dell’Inferno.
Nel bosco lacerato dalle Arpie, percorso dalla caccia furente e disumana in cui la preda è l’uomo (gli scialacquatori) e gli inseguitori sono animali, il discorso di Pier delle Vigne sembra riportare la misura dell’umano, creare come un’isola di tregua, trascendere l’orrore di questa condanna senza appello. Per un attimo dimentichiamo quasi che colui che parla è ridotto a un tronco inerte e trae faticosamente le sue parole da una sanguinante lacerazione. Ci chiediamo: "e dov’è più l’inferno? dov’è il tronco? noi siamo in Napoli, nella corte di re Federico, innanzi ad un cancelliere" (De Sanctis).
Ma, a guardar meglio, la rievocazione del sereno mondo dei vivi ad opera del protonotaro imperiale appare forzata e come costretta anch’essa in forme innaturali. La sua parola diventa schietta ed esprime una profonda emozione solo quando proclama la propria innocenza, e giura sulle sue radici. Ma proprio queste, legandolo alla terra - lui così eccitabile nei moti del suo animo (sì col dolce dir m’adeschi ... ), così lontano, nel suo parlare fiorito, da ogni forma di raccordo con il reale -appaiono come il simbolo supremo della sua estraneazione dall’umano. Il linguaggio di Pier delle Vigne riflette compiutamente - nel compiaciuto gioco di antitesi e parallelismi, nel gusto per la circonlocuzione studiata, nel "tragico e grottesco grandinar di metafore" (Apollonio) che lo caratterizza - da un lato quello che doveva essere stato il carattere di questo uomo di corte, tutto inteso, in vita, al suo glorioso offizio, dall’altro, per contrasto, l’innaturale coercizione della sua condizione attuale, il suo peccato irrigidito e reso eterno dalla sentenza di quel giudice che egli non seppe considerare come padre e fratello. Non è esatto scorgere, nel modo di parlare di Pier delle Vigne, soltanto la manifestazione di un carattere debole o vanitoso o insincero, secondo i punti di vista espressi dal De Sanctis e, recentemente, dall’ApolIonio, e neppure soltanto un ritratto "linguistico" dell’elegante stilista capuano, secondo la tesi del Novati.

INFERNO CANTO XV. Per evitare la pioggia di fiamme i due pellegrini avanzano su uno degli argini del fiumicello che attraversa il terzo girone e s’imbattono in una schiera di anime di dannati, uno dei quali afferra Dante per il lembo della veste e manifesta la propria meraviglia nel vederlo in quel luogo. Il Poeta lo riconosce, nonostante abbia il volto devastato dal fuoco: Brunetto Latini, il suo maestro, che esprime il desiderio di affiancarsi a lui nel cammino. Nessuno, infatti, dei violenti contro natura può interrompere il proprio andare: chi infrange questa legge è poi condannato a giacere cento anni sotto la pioggia di fuoco senza poter scuotere da sé le fiamme che lo colpiscono. Dante continua pertanto a camminare sull’argine e riceve da Brunetto la predizione della sorte che il futuro gli riserva: "Se rimani fedele ai principi che hanno fin qui ispirato le tue azioni, la tua opera ti darà la gloria ". Poi il discorso cade su Firenze e la faziosità dei Fiorentini, in massima parte discendenti dai rozzi abitanti di Fiesole, avari, invidiosi, superbi.
Sia l’uno sia l’altro Partito in cui la città è divisa - aggiunge Brunetto - cercherà di avere Dante in suo potere, ma non riuscirà in questo intento. Il Poeta a sua volta tesse l’elogio del suo maestro, dal quale ha appreso come l’uomo ottiene gloria fra i posteri, e dichiara che questa profezia, come quella di un altro spirito, Farinata, verrà sottoposta all’interpretazione di Beatrice. Per il resto si dice pronto a far fronte ai colpi del destino. Pregato dal Poeta, Brunetto nomina alcuni fra gli spiriti condannati alla sua stessa pena, quindi si accommiata, raccomandandogli la sua opera maggiore, il Tesoro, attraverso la quale sopravviverà nel ricordo degli uomini.

Introduzione critica
Nel colloquio di Dante con Ciacco il tema di Firenze si affaccia per la prima volta nella Commedia accentrato intorno a quelli che ne saranno poi i motivi fondamentali: la discordia fra i cittadini, il prevalere della faziosità sulla giustizia, dell’affarismo sull’onestà sobria delle antiche generazioni. Ivi è proposto anche il tema, ad esso complementare, del contrasto fra valutazione " laica " della figura dell’uomo politico e valutazione del credente. Da Ciacco Dante apprende che Farinata, il Tegghiaio, Jacopo Rusticucci e gli altri Fiorentini che operarono per il bene della patria si trovano tra l’anime più nere. Agli occhi di Dio l’uomo non si identifica quindi con il cittadino: le sole virtù civiche sono insufficienti a redimerlo. Il tema politico si ripropone nell’episodio di Farinata e in quello di Pier delle Vigne: uomini politici entrambi, entrambi ghibellini, essi riscuotono l’ammirata approvazione del Poeta per il disinteresse con cui hanno servito i loro ideali in terra, ma lo lasciano dolorosamente perplesso a causa della loro insensibilità ai valori proposti all’uomo da Dio. Il tema politico e quello del dissidio fra agire umano e sua insufficiente legittimazione etico-religiosa culminano nei canti quindicesimo e sedicesimo dell’Inferno. Qui la parola del Poeta investe in pieno gli eventi della storia di Firenze che lo hanno veduto testimone e protagonista, trasfigurandoli in una sorta di appassionata e simbolica autobiografia, mentre propone, al tempo stesso, alla nostra meditazione il dolore dei dannati, l’esempio di uomini illustri resi irriconoscibili dai segni della collera divina. Se infatti lo sfondo ideale, nostalgico, lancinante nel ricordo, degli incontri di Dante con Brunetto Latini e con alcuni dei più cospicui esponenti del partito guelfo in Firenze è Firenze stessa - la terra prava che induce il Poeta ad esprimersi nei modi immaginosi e solenni dei profeti d’Israele - lo sfondo reale, testimonianza incontrovertibile della miseria di queste grandi anime, è il sabbione infuocato, la pioggia sterile che le percuote. Al motivo profetico e a quello della gloria terrena dell’uomo che s’etterna attraverso il ben far e sopravvive oltre la morte, nella propria opera - sieti raccomandato il mio Tesoro - si accompagna come costante sottinteso quello della colpa umana, che solo la fede e il rispetto, ad essa conseguente, dell’ordine naturale, possono riscattare. I critici hanno variamente cercato di interpretare la contraddizione, così stridente per noi nel canto quindicesimo dell’Inferno, fra la condanna che Dante, in veste di teologo e di moralista, infligge al suo vecchio maestro Brunetto Latini e l’aureola di dignitosa fermezza di cui la sua poesia circonda questa figura. Il Pézard, ad esempio, ha creduto di eliminare le ragioni del nostro disagio avanzando addirittura l’ipotesi, sostenuta da una ricca documentazione, che nel terzo girone le anime condannate a camminare eternamente sotto la pioggia di fuoco non siano quelle dei sodomiti, ma quelle dei "violenti contro le arti liberali". Altri, come il Pasquazi, hanno cercato di cogliere il rapporto che legherebbe, nell’episodio di Brunetto e in quello dei tre Fiorentini del canto successivo, lo splendore delle virtù civili di queste anime al vizio che alimentarono in segreto. I termini di questa contrapposizione sembrano inconciliabili, ma il Pasquazi ritiene che, nella visione rigorosamente orientata verso la trascendenza che fu quella del Poeta dopo il momento "laico" rappresentato dal Convivio e dalla sua partecipazione alla vita politica di Firenze, "autosufficienza civile e sodomia dovettero apparire a Dante come aspetti... di una medesima realtà", in quanto espressioni, sia l’una che l’altra, del peccato di superbia. "Proprio perché il suo viaggio doveva servire a collocare lui nella verità, e ogni uomo con lui, era necessario che quel fallace modo di virtù civile, di autosufficienza morale e di perfezione culturale fosse condotto alle... forme del suo più profondo squallore, della sua più significativa deformità. La superbia poteva piacergli; ma la constatata riduzione della superbia alla sodomia lo doveva guarire." In altre parole: al fondo del peccato dei grandi guelfi fiorentini che incontra in questo girone, Dante intravede, portata all’assurdo e rovesciata nel grottesco, la stessa sprezzante affermazione di autosufficienza che aveva indotto Farinata nel peccato di eresia. Nella misura in cui oltrepassano l’ambito delle interpretazioni tradizionali e ci suggeriscono un modo più approfondito di interrogare il testo del poema, le tesi del Pézard e del Pasquazi sono ricche d’interesse, ma non appaiono senz’altro determinanti ai fini di un giudizio sulla poesia dei canti quindicesimo e sedicesimo nel loro complesso, e dell’episodio di Brunetto Latini in particolare. Essa, come ha rilevato il Bosco, consiste proprio "nel contrasto tra l’austerità morale di Brunetto e la miseria del suo peccato, tra la debolezza di cui questo è testimonianza, e la fortezza d’animo che il suo discorso e quello tonalmente concorde del suo discepolo rivelano" Brunetto Latini non è un personaggio complesso come Francesca o Farinata; in lui questo contrasto si manifesta nei modi di un delicato riserbo, senza mai prorompere in una formulazione esplicita. Dante ce lo presenta come un maestro e con l’altro maestro, Virgilio, Brunetto ha in comune la fondamentale mestízia, il tono elegiaco di chi, avendo sempre perseguito la verità e il bene, sa di esserne rimasto lontano, non meno che la nobile fermezza nell’additare al discepolo il doloroso cammino della rettitudine. Ma, mentre nel personaggio di Virgilio questi sentimenti si caricano sempre delle allusioni simboliche richieste dalla sua funzione di guida razionale, in Brunetto essi sono rappresentati nella loro più viva immediatezza. Lo splendore della profezia basata qui, più che negli episodi di Ciacco e di Farinata, su un fitto intrecciarsi di metafore, non riesce ad offuscare la cordiale familiarità, la nostalgia semplice delle sue parole.

INFERNO CANTO XIX. La terza bolgia, dall’alto del ponte che la sovrasta, appare. interamente disseminata di buche circolari. Da ciascuna di queste spuntano le gambe di un dannato confitto in essa a testa in giù e con le piante dei piedi lambite dalle fiamme. I peccatori che la giustizia divina cosi punisce sono i simoniaci, coloro cioè che hanno fatto commercio delle cose sacre. Dante ferma la sua attenzione su di uno che agita le gambe con impeto più disperato degli altri e che è tormentato da un fuoco più doloroso. Perché il suo discepolo possa apprendere da questo dannato i motivi che lo indussero ad infrangere la legge di Dio, Virgilio lo porta sul fondo della bolgia. Invitato a parlare, il peccatore apostrofa Dante chiedendogli il motivo del suo arrivo nel regno dell’eterno dolore prima del termine a lui prescritto lo ha infatti scambiato per Bonifacio VIII, destinato a prendere il suo posto all’apertura della buca dei papi simoniaci. Dopo aver compreso il suo errore, rivela la propria identità: fu Niccolò III, della stirpe rapace degli Orsini; E’ dannato per aver favorito in modo fraudolento i propri familiari. Il posto di Bonifacio VIII sarà poi occupato da un altro pontefice, ancora più scellerato, Clemente V. Travolto dall’indignazione, Dante prorompe i n una violenta invettiva contro la sete di beni materiali che ha allontanato i vicari di Cristo dai compiti che loro assegnò il divino Maestro e ravvisa nella Chiesa avida di potere e di ricchezze il mostro dalle sette teste e dalle dieci corna di cui parla l’Apocalisse. Ricorda quindi con dolore la donazione di alcuni territori che l’imperatore Costantino fece a papa Silvestro, origine prima del potere temporale dei pontefici e delle discordie che travagliano l’umanità. Poi Virgilio lo riporta sull’argine che separa la terza bolgia dalla quarta e di lì sul ponte che scavalca quest’ultima.

Introduzione critica
Nella prima parte dell’Inferno la polemica politica di Dante ha per oggetto la storia di Firenze a partire dal 1215, l’anno fatale in cui l’offesa arrecata da Buondelmonte dei Buondelmonti alla famiglia degli Amidei portò alla divisione degli abitanti della città in Guelfi e Ghibellini. E’ storia recente, rispetto ai tempi del Poeta, sono episodi di sangue, odi covati e trasmessi di generazione in generazione nell’isolamento delle mura cittadine. E’ stato osservato che Dante ha spesso delle vicende della sua città una visione angusta e municipalistica e che, ad esempio, nel canto quindicesimo, "le puntate cittadinesche contro Fiesole, il frizzo sulla cecità dei Fiorentini, i proverbi" delineano una Firenze minore, stretta nelle sue mura, rievocata anche nel linguaggio casalingo" (Bosco). Ma Dante non si limita - e in ciò è la grandezza dei suo messaggio, anche quando le soluzioni da lui additate appaiono, sul terreno dei fatti, utopistiche o semplicemente irrealizzabili perché tendenti a ripristinare il passato - a dar sfogo ai suoi risentimenti di uomo di parte e di esule, né, d’altra parte, intende fare opera di cronista. L’indagine cui egli sottopone gli eventi politici mira a ricondurli, non diversamente da ogni altra forma di agire umano, in uno spazio etico, in una regione di norme inaccessibili all’errore. La politica in quanto sfera autosufficiente e chiusa in se stessa è una creazione del Rinascimento. Per il pensiero medievale essa non può essere scissa dalla totalità dell’agire umano: nell’operare politico, come in qualsiasi accadimento che ha la sua radice nella libertà del nostro volere, si svela un’intenzione volta ad affermare o a negare Dio e il mondo che in Dio, trascendendosi, si afferma e si ordina. Per questo. Dante può trascurare l’analisi dei moventi esclusivamente pratici, circoscritti nel tempo al conseguimento di fini particolari, che determinano l’azione politica per questo, nella sua visione degli eventi, sorretta da una fede sempre più salda a mano a mano che l’avverarsi del suo ideale di giustizia sembra farsi più improbabile e remoto, egli non riesce a definire altrimenti che come decadimento e corruzione radicati nell’avarizia il faticoso emergere, tra la fine del secolo XIII e il principio del XIV, di nuove strutture economiche e sociali e di nuovi istituti politici. Nel canto diciannovesimo per la prima volta la visione di Dante abbraccia il destino dell’umanità intera, preda dell’anarchia in seguito all’abuso che la Chiesa ha fatto della dote di Costantino. La donazione di Costantino, sulla quale appariva nel Medioevo legittimamente fondato il potere temporale dei papi, era, ai tempi del Poeta, al centro delle discussioni che vedevano schierati in campi opposti giuristi guelfi e ghibellini. Nella Monarchia Dante interpreta questa donazione, del cui testo pare non abbia avuto conoscenza diretta, nel senso che Costantino si limitò a "costituire un patrimonio ecclesiastico per sovvenire ai bisogni dei clero e dei poveri, fermo restando il superiore dominio dell’impero sui beni assegnati alla Chiesa" (Nardi). Ma, secondo Dante, il bene operar dell’imperatore romano fe’ mal frutto, poiché "nonostante l’intenzione sacra e benigna del donatore, la donazione costantiniana, così come venne interpretata da chi l’accettò, fu cagione di grave danno alla Chiesa e all’umanità" (Nardi). Il peccato di simonia colpito nella terza bolgia ha quindi un’origine storica: l’umanità redenta dal sacrificio del Cristo si è nuovamente allontanata dal suo Fattore e ha cominciato, dietro l’esempio di coloro che avrebbero dovuto guidarla a Lui, a fare oggetto della propria adorazione non il principio della vita, il Verbo, ma pezzi di materia lucente: fatto v’avete Dio d’oro e d’argento. Non diversamente, nel racconto biblico, gli Ebrei, perduta la fede nel ritorno di Mosè dal monte Sinai, si erano lasciati persuadere a fare oggetto delle loro preghiere e dei loro sacrifici un vitello d’oro. Le affinità fra lo stile dell’episodio dei simoniaci, basato sull’invettiva e sulla visione profetica, e quello biblico, sono molteplici ed evidenti, ma occorre anzitutto cogliere la disposizione d’animo rigorosa ed intransigente, comune sia a Dante che agli agiografi, nei confronti di chi subordina le ragioni dell’eterno a quelle del contingente. L’Indignazione di Dante prorompe in questo canto in accenti di inusitata asprezza proprio perché a promuovere in terra la religione dei beni materiali e la corruzione che ne è derivata sono stati coloro ai quali Cristo ha affidato il compito di custodire la sua Parola. La simbologia complessa che percorre il canto è di derivazione biblica, ma non resta lettera morta, semplice imitazione o parodia, secondo quanto ritiene il D’Ovidio, del modo di parlare degli ecclesiastici che hanno agito in modo contrario ai dettami della fede. Essa commuove il Poeta fin nel profondo, carica com’è di allusioni ad una vicenda sovrannaturale, per cui le singole immagini (spose... avolterate... matre... patre ... ), nel tradurre in termini di consanguineità i rapporti stabilitisi fra una realtà umana e Dio, riflettono la stessa immediatezza aspra e solenne che caratterizza le immagini bibliche. Ma in Dante rivive non soltanto l’accesa religiosità dei profeti d’Israele, ma anche il severo metodo della Scolastica, poco propizio all’amplificazione dei sentimenti quanto portato ad estendere a tutti gli aspetti del reale il rigore del procedimento deduttivo. La su poesia nasce proprio dal contrapporsi dialettico di un fortissima istanza passionale e di una non meno forte esigenza di ordine e di logicità. Di qui deriva, nel canto diciannovesimo, che le singole immagini appaiono legate fra loro da i lessi di pensiero oltre che di sentimento. Il Sanguineti ha parlato in proposito di "un puntualissimo immaginare deduttivo", di un "sillogizzare... che non viene già traducendosi, di momento in momento, in immagine, ma in immagine appunto, in figura originariamente germina, in figurati emblemi viene immediatamente disviluppando la propria trama".

INFERNO CANTO XXI. I due pellegrini giungono sul ponte che scavalca la quinta bolgia, straordinariamente buia a causa della pece bollente che ne occupa il fondo e nella quale sono immersi i barattieri, coloro cioè che fecero commercio dei pubblici uffici. Mentre Dante è intento a guardare in basso, sopraggiunge veloce un diavolo e, dall’alto del ponte, getta nella pece uno degli «anziani» di Lucca, città nella quale, a suo dire, tutti sono barattieri. Il dannato, dopo il tuffo violento, viene a galla, ma i custodi della bolgia, i Malebranche, lo costringono ad immergersi nuovamente. A questo punto Virgilio, dopo aver fatto nascondere Dante dietro uno spuntone roccioso, si dirige verso i diavoli e fa presente al loro capo, Malacoda, che il viaggio intrapreso da lui e dal suo discepolo è voluto dal cielo; poi invita Dante ad uscire dal suo nascondiglio. Alla sua vista i Malebranche tentano di uncinarlo; occorre che Malacoda faccia ricorso a tutta la sua autorità perché desistano dal loro proposito. Malacoda fornisce quindi a Virgilio indicazioni riguardo allo scoglio che porta alla sesta bolgia, essendo crollato, su quest’ultima, il ponte posto in continuazione di quelli che i due poeti hanno fino a questo punto percorso. Dà poi loro come scorta un gruppo di dieci suoi sottoposti, comandati da Barbariccia. I dieci diavoli si mettono in fila e Barbariccia, attraverso uno sconcio segnale, impartisce loro l’ordine della partenza.

Introduzione critica
Il problema del comico in Dante, impostato dal De Sanctis nei suoi termini essenziali, è stato variamente studiato dai critici. Alcuni hanno preteso - riallacciandolo al modo in cui il Poeta raffigura se stesso in balìa, in un mondo di mostri e di orrori, della propria paura - di individuare nel comico una tonalità di non trascurabile rilievo nell’ordito complessivo del poema. Dante ritrae se stesso in quanto protagonista della Commedia e personaggio tipico (non dunque nei momenti di maggiore accensione, allorché la passione lo porta ad identificare la propria proiezione nel narrato con la propria realtà di autore) come "un uomo di media umanità, rifuggente da ogni atteggiamento eroico, con l’animo aperto ai sentimenti che normalmente commuoverebbero il petto dell’uomo, in quelle circostanze; fra i quali sentimenti deve trovar posto... anche la paura" (Frascino). Nelle forme in cui questa paura si viene atteggiando è stata riscontrata una comicità affine, per alcuni versi, a quella che il Manzoni fa scaturire dal personaggio di Don Abbondio. In questo senso si esprime ad esempio il Torraca nel commentare un passo del canto ventunesimo dell’Inferno. Altri critici, più aderenti alla tesi del De Sanctis, hanno fortemente limitato la presenza del comico nel poema. Per il Parodi Dante è troppo seriamente impegnato in quello che dice per potersi concedere una pausa di disinteressata, serena contemplazione delle umane debolezze; carattere fondamentale del poema è la tensione; più che di tonalità comica occorre parlare di realismo, satira, sarcasmo. Il Pirandello, in un’analisi del primo canto dei barattieri, attira l’attenzione sul fatto che "Dante non può far che Dio scherzi punendo", ed aggiunge: "Non bisogna confondere il sarcasmo, l’ironia, lo scherno, col comico. Che se talvolta comica appare esteriormente la frase, non ne è mai comico il sapore, perché non è mai comica l’intenzione del poeta; e perciò non fa ridere. La frase comica sarà messa lì per ottenere un effetto di più cruda ripugnanza". Il Vossler infine ritiene che, ove Dante avesse, nel regno della malizia, fatto luogo "ad una comicità bonaria e spensierata", sarebbe andato contro quella che è "l’intonazione fondamentale della Commedia, che per tutti i cento canti rimane sempre saldamente etica". Ora appare evidente - per poco che si abbia dimestichezza con il poema - che le formulazioni del De Sanctis sono in linea di massima esatte, che il riso di Dante è quasi ovunque amaro, si apparenta al ghigno, alla smorfia di dolore, al disgusto, trova la sua espressione nell’ironia crudele, sfocia, in modo ora più ora meno esplicito, nell’invettiva. Ma, per alcuni dei luoghi del poema dove Dante mostra se stesso alle prese con la paura e in particolare per i canti dei barattieri, è altrettanto evidente che la tonalità che prevale è il comico, mentre le forme appassionate e moralmente definite dell’ironia, del sarcasmo, dello scherno sono come messe in ombra. Naturalmente, nel fare menzione del comico a proposito di Dante, non dobbiamo intendere questa categoria nei significati che è venuta assumendo in tempi diversi da quelli del Poeta. Il comico in Dante ha una carica di immediatezza ed una violenza di contorni quali non è dato riscontrare in secoli che hanno sostituito all’interrogazione diretta del reale un gioco di schermi e finzioni, alla ferma constatazione del negativo la fuga in un eliso di armoniche parvenze. Il Sapegno colloca la comicità dell’episodio dei barattieri nella cornice di un "gusto schiettamente romanico", il Sozzi scorge in essa "un’attenzione piena di curiosità di fronte a quello che sotto l’aspetto filosofico è il mondo della naturalità e della vitalità pura e fine a se stessa, il mondo « politico » nel senso crociano del termine", nel quale i valori non riducibili all’utile individuale sono del tutto ignorati e spietata si afferma la lotta per la sopravvivenza e il successo. Il Del Beccaro, a sua volta, vede nella quinta bolgia, come del resto nel cerchio ottavo preso nel suo complesso, l’antitesi di quel "passato sereno, di patriarcali virtù", verso il quale Dante nostalgicamente si protende e che aspira a veder ripristinato: "La fisionomia del mondo, dei viventi, il mondo del « negozio », è qui più corrente che altrove, quasi che Dante abbia voluto sottintendere una condanna di principio alla preponderante attività degli uomini del suo tempo, al sempre più libero e disinvolto commercio d’una società in fase di espansione". La città della frode, agli antipodi della Gerusalemme celeste, è quindi anche la città dei traffici, dell’attivismo senza scrupoli che ha per fine il guadagno, di quella borghesia razionalisticamente orientata che sarà, alcuni decenni dopo la morte dell’Alighieri, la protagonista del Decamerone. Il quadro dell’arzanà de’ Viniziani (versi 7-15) non è soltanto una miniatura esuberante o meno - a seconda dello schema critico cui viene commisurata - rispetto all’insieme del canto, del quale costituisce il prologo. Esso ha un valore emblematico, rappresentativo dell’intero clima di Malebolge, e dell’episodio dei barattieri in particolare: un operare fervido, disgiunto dalla considerazione di finalità fondate in un ambito morale, ha condotto questi peccatori non a costruire, restaurando il distrutto, ma a distruggere, a perdersi. Quello che per il De Sanctis è lo stile di Malebolge, la sua «prosa», la sua comicità densa e plebea, scaturisce dalla natura stessa del peccato di frode, radicato, assai più di quelli di incontinenza o di violenza, nell’intersoggettività del vivere sociale: di qui il prevalere dei gruppi sulle grandi individualità isolate e quello della rappresentazione dinamica sulla presentazione statuaria dei personaggi. Tra le specificazioni della frode la baratteria rappresenta, in modo più esplicito delle altre, il principio eversore di ogni ordinamento civile, un germe di anarchia che trova, nell’individualismo indocile dei dieci demoni, la propria persuasiva e sicura misura poetica.

INFERNO CANTO XXV. Dopo aver predetto a Dante la sconfitta dei Bianchi ad opera di Moroello Malaspina, Vanni Fucci alza le mani in un gesto osceno contro Dio, ma due serpenti si avventano immediatamente contro di lui, ponendo termine all’ostentazione di tanta superbia. Il ladro pistoiese, con le braccia e il collo chiusi, nelle loro spire, fugge inseguito dal centauro Caco, colpevole anche quest’ultimo di furto eseguito con frode. Tre dannati vengono nel frattempo a fermarsi sotto l’argine roccioso dal quale i due pellegrini hanno assistito alla trasformazione di Vanni Fucci in cenere, alla sua riconversione in figura di uomo, alla sua punizione ad opera dei serpenti. Nuove, più allucinanti metamorfosi si svolgono sotto i loro occhi. Un serpente munito di sei piedi si lancia contro uno di questi ladri e si abbarbica al suo corpo come l’edera ad un albero. Come se fosse di cera la forma umana si trasferisce in quella del serpente, mentre questa, a sua volta, si perde in quella dell’uomo. Il risultato di questa innaturale fusione è un mostro dall’aspetto indefinibile, che incomincia a percorrere in silenzio, con lento passo, il fondo della bolgia. Non appena questa metamorfosi si è compiuta, un serpentello - che è uno dei peccatori già trasformati - con la velocità di un fulmine trafigge l’ombelico ad un altro dei tre ladri, ricadendo poi a terra davanti a lui come privo di forze, stregato. Mentre il serpente e l’uomo si guardano negli occhi attraverso il fumo che, uscendo dalla bocca del rettile si scontra con quello che si sprigiona dalla ferita dell’uomo, avviene la terza delle trasformazioni della settima bolgia, quella che nessuno dei poeti antichi è riuscito ad immaginare: l’uomo assume a poco a poco le fattezze del serpente che gli sta davanti, questo si . trasforma nel dannato che ha ferito. La pena di coloro che in vita privarono il prossimo di beni materiali sui quali non potevano accampare alcun diritto, è di essere privati del solo bene inalienabile di cui, per legge di natura, un uomo può disporre: la propria figura umana.

Introduzione critica
Il tratto più saliente della figura di Vanni Fucci non è, come vorrebbero alcuni studiosi, la bestialità allo stato puro (in altre parole: l’assenza in lui di qualsiasi sensibilità morale) quanto piuttosto la consapevolezza esasperata di questa bestialità, un dolore che non trova misure umane cui adeguarsi, una disperazione che arriva a prescindere dal mondo, dagli esseri, dai valori, per negare direttamente, in Dio, il loro principio. Poiché la superbia del ladro pistoiese ricorda al Poeta quella di Capaneo, il parallelo tra il personaggio di Vanni Fucci e quello del grande che cadde a Tebe giù da’ muri è divenuto un luogo comune della critica dantesca. Ciò che occorre tuttavia rilevare non sono tanto gli aspetti che accomunano queste due figure di dannati, quanto i tratti che li distinguono. Capaneo esprime una concezione ancora fondamentalmente precristiana del senso della nostra presenza nel mondo. Sulla base delle suggestioni classiche (Stazio), Dante propone nell’episodio del canto XIV, la contrapposizione, tipica della tragedia antica, dell’eroe al fato, della volontà cosciente (qual io fui vivo, tal son morto) - che in sé sola trova il proprio sostegno, la propria legittimazione ultima - all’arbitrio del mondo, e degli eventi. Questa contrapposizione, mentre esalta al massimo la grandezza dell’uomo, finisce col separarlo dal senso dell’essere in generale, ne rende incomprensibíli, assurde, l’origine e la destinazione: tra uomo e mondo, nella concezione tragica del paganesimo, esiste un divario incolmabile. Capaneo dipinge Giove, Vulcano, i Ciclopi, in chiave ironica: l’universo intero, campo nel quale agiscono forze smisurate ma cieche, volte alla sopraffazione reciproca più che ad un armonico coesistere (l’Olimpo, come lo vede il grande vinto, somiglia più ad un caos che ad un cosmo), è colto dal panico, esita, rivela la propria insufficienza (non ne potrebbe aver vendetta allegra) di fronte alla razionalità che nell’eroe si manifesta e lo sottopone a giudizio. In Capaneo non c’è scissione interiore, ma limpida coerenza. La sua colpevolezza è tale soltanto agli occhi di Dante, il quale, dopo essere stato colpito dalla sua statura morale (l’essere indomabile, il grande, colui che non si piega), la nega violentemente, attraverso le parole di Virgilio, in nome di una concezione superiore. Un cristiano non può vedere infatti nel mondo solo il dispiegarsi dell’irrazionale e nell’uomo la negazione, intransigente ed astratta, di questo irrazionale, ma considera mondo e uomo radicati in una stessa sapienza che li trascende e volti a recuperare, attraverso l’errore e il dolore, il senso della loro perfezione originaria. Ciò che distingue in primo luogo Vanni Fucci da Capaneo è la piena consapevolezza che il primo ha della propria miseria morale: in lui la giustizia divina opera anzitutto dall’interno, come incancellabile rimprovero della coscienza. La sua sfrontata autoglorificazione iniziale (son Vanni Fucci bestia..) non è in alcun modo contraddetta dalla vergogna (e di trista vergogna si dipinse) che lo coglie in un secondo tempo, originandosi entrambe entro uno stesso abisso di disperazione, nel consenso, che il dannato non può rifiutare (se non, per un attimo - sfuggendo a se stesso - attraverso l’irrazionalità della bestemmia), alla giustizia della condanna infertagli da Dio. Vanni Fucci cerca di evadere dalla prigione della propria coscienza prima attraverso il male che la sua profezia è destinata ad arrecare a Dante (e detto l’ho perché doler ti debbia!), poi, con scatto imprevedibile e assurdo, attraverso il gesto sacrilego delle fiche, accompagnato dalla sua apostrofe a Dio. Se proprio nell’affermazione che, con parole e con atti, Vanni Fucci fa della propria natura inumana, lo spirito è continuamente presente a se stesso e i valori etici dolorosamente illuminano la coscienza di questo peccatore, ai ladri fiorentini, protagonisti del canto XXV, «l’arte del poeta ha negato qualsiasi tratto di individuazione umana». Nel ladro pistoiese "lo spirito muore nell’abbrutimento dopo essersi esaltato; qui lo spirito è morto non rimane se non la materia eternamente affaticata da una necessità che pare meccanica" (Rossì-Frascino). La tonalità del canto XXV è stata magistralmente additata dal Momigliano - in un suo saggio del 1916 nello smarrimento del Poeta di fronte al perdersi di ciò che è peculiarmente umano (forma del corpo, capacità di esprimersi, coscienza) nella materia. "Sotto la fredda malia della nitida metamorfosi palpita, muto, tremendo, religioso, il dramma dell’anima che si smarrisce nel corpo bruto. La precisa materialità di quelle descrizioni, la mancanza di ogni suggestione sentimentale, non sono che il mezzo onde si rileva la silenziosa morte dello spirito." Ma la religiosità dantesca non è mai disgiunta dalla fermezza di un lucido possesso intellettuale. Il tema delle metamorfosi cantate da Ovidio e Lucano acquista, nel canto dei ladri, una dimensione ignorata dagli antichi, non solo per la presenza in esso degli elementi religioso e morale, ma anche per il fatto di essere ripensato in chiave scientifico-dottrinale. La favola antica perde ogni vaghezza di contorni, per essere sottoposta al vaglio di una mentalità logica, incurante dello scintillio delle apparenze. Tradotto nei termini della filosofia aristotelica, il mito si rivela incredibile, fallace (cfr. in particolare i versi 100-102), ma il Poeta - secondo quanto ha chiaramente mostrato il Mattalia - lo correda "di un nuovo attributo di credibilità o verosimiglianza dedotto dal postulato teologico che Dio, quei che puote, può realmente, con la sua divina arte, operare infrangendo le barriere delle leggi naturali. Restando cosi salvo... il valore divinatorio che la cultura medievale... riconosceva alle favole dei grandi poeti pagani".

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