Analisi del Cinque Maggio

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Testo

Il cinque maggio
Il 5 maggio del 1821 muore nell’isola di Sant’Elena Napoleone Bonaparte. La notizia della morte giunse a Milano solo il 16 luglio e in quella data venne pubblicata sulla “Gazzetta di Milano”.
Quando apprese la notizia della morte di Napoleone, il Manzoni si trovava in villeggiatura a Brusuglio, vicino a Milano e di getto abbozzò l’ode in soli tre giorni, tra il 18 e il 20 luglio 1821. Manzoni, che mai aveva manifestato sentimenti filo-napoleonici, viene straordinariamente colpito da questo avvenimento.
Per divulgarla, ben sapendo che la censura austriaca gliela avrebbe bocciata, presenta al censore due copie dell’ode: come previsto, una copia gli viene regolarmente restituita con il divieto di pubblicazione, l’altra, dopo essere passata clandestinamente di mano in mano all’interno dello stesso ufficio di polizia, si diffonde e varca le frontiere e inizia il suo giro per il mondo. Se ne conoscono ventisette traduzioni in altrettante lingue diverse.
La forma metrica adottata è l’ode: do origine greca, è un componimento poetico fatto di 18 strofe di sei versi (sestina) settenari.
Lo schema metrico si compone di strofe abbinate di settenari, di cui:
• il 1°, il 3° e il 5° sono sdruccioli, cioè portano l’accento sulla terzultima sillaba:
im/mò/bi/le; im/mè/mo/re; at/tò/ni/ta
• il 2° e il 4° terminano con una parola piana, che porta cioè l’accento sulla penultima sillaba:
so/spí/ro; spí/ro
• il 6° e l’ultimo verso della strofa successiva terminano con parole tronche che rimano fra loro:
sta/verrà.
L’ode si apre con due monosillabi che racchiudono in uno spazio brevissimo l’intero arco di un’esistenza eccezionale. Egli è morto: il pronome iniziale è giustificato dal fatto che si può dedurre dal titolo la persona di cui si parla, ma significa anche che Napoleone è così potente e vivo nei pensieri di ognuno che non è indispensabile nominarlo esplicitamente. Come il corpo di Napoleone che ormai dimentica le sue vicende terrene (“la spoglia immemore”) giacque immobile sul letto di morte, dopo aver esalato l’ultimo respiro (“dato il mortal sospiro”), privo di un così energico spirito vitale (“orba di tanto spiro”) allo stesso modo il mondo, all’annuncio di quella morte (“la terra al nunzio sta”), è colpito e stupefatto (“così percossa, attonita”) immaginando la probabile morte di quell’uomo che era stato certo uno strumento della volontà divina capace di sovvertire le sorti dell’umanità; nelle sue meditazioni si chiede quando mai un altro uomo altrettanto grande potrà lasciare impressa una traccia (“orma”) paragonabile a quella che egli ha lasciata sulla polvere sanguinosa (“cruenta polvere”). Ma l’espressione di Manzoni “piè mortale” vuole sottolineare che Napoleone era solo un uomo e quindi le sue imprese erano eccezionali, mentre con l’immagine della “cruenta polvere” ci fa intendere che la storia umana è sanguinosa e tragica. Poi il Manzoni spiega perché lo canti ora che è morto.
Il poeta (“il mio genio”) vide Napoleone trionfante sul trono (“lui folgorante in solio”) e lo vide poi, con alterna vicenda (“con vece assidua”) cadere (in seguito alla sconfitta di Lipsia e all’abdicazione di Fontainebleau, allorché Napoleone fu relegato sull’isola di Elba, nel 1814), risorgere (nel periodo dei Cento giorni, quando Napoleone sbarcato in Francia, recuperò gran parte del potere d’un tempo), ricadere (fu sconfitto definitivamente a Waterloo nel 1815 e relegato a Sant’Elena), eppure aveva sempre taciuto di lui, e non aveva mai mescolato la sua voce a quella dei tanti.
Il soggetto rimane il suo genio, il quale, conservatosi puro da adulazioni servili (“vergin di servo encomio”) come da offese vili (“codardo oltraggio”) ora che Napoleone è scomparso così improvvisamente (“subito sparir di tanto raggio”), manifesta la sua commozione (“sorge or commosso”) e sulla sua tomba innalza un canto solenne che forse resterà al tempo.
L’azione fulminea di quell’uomo deciso e geniale (“di quel securo il fulmine”) seguiva immediatamente il concepimento di un piano (“tenea dietro al baleno”); questo si verificò nelle Apli (la vittoriosa campagna d’Italia del 1797) alle Piramidi (la campagna d’Egitto del 1798-99) dal Manzanarre (il fiume che bagna Madrid e quindi la campagna di Spagna del 1808-9) al Reno (le campagne di Germania, dal 1805 al 1813). Questo fulmine lasciò il segno dallo stretto di Messina (Scilla si trova in Calabria) fino al Don in Russia (Tanai: nome classico del Don) da una sponda all’altra.
Colpito dall’eccezionalità di tante vicende, il Manzoni si chiede se quello di Napoleone è da reputarsi vera gloria. La difficile risposta (“ardua sentenza”) è lasciata ai posteri perché loro non possono che chinarsi riverenti di fronte alla volontà del Creatore (“nui chinina la fronte al Massimo Fattor”) che ha voluto imprimere in quell’uomo un così’ grande segno del suo potere (“che volle … stampar”).
Egli provò (“ei provò”) la gioia tempestosa e trepidante di chi progetta grandi disegni, l’emozione di un cuore che si acconcia, sia pur controvoglia, a servire meditando già la conquista del potere (si riferisce evidentemente agli inizi della carriera di Napoleone che si appoggiò ai membri del Direttorio). Ed ecco che lo ottiene (“il giunge”) e anzi ottiene alle proprie aspirazioni un premio tale che sarebbe folle sperar (“e tiene un premio che era follia sperar”). Provò anche la gloria, che è tanto maggiore quanto più grandi sono i pericoli superati, la sconfitta e la vittoria, la reggia e la tristezza dell’esilio. Il Manzoni vuole mettere in evidenza l’importanza storica di Napoleone, che segnò, con la sua opera, il punto di congiunzione tra due secoli, il ‘700 e l’800, diversi e discordanti per caratteri e ideali. Basta pensare che il ‘700 fu caratterizzato dall’Illuminismo ateo e materialista, mentre l’800 dal Romanticismo spiritualista.
Bastò che egli si presentasse sulla scena della storia e pronunciasse il suo nome (“ei si nomò”), ed ecco che le generazioni di prima e dopo la Rivoluzione francese, si rivolsero a lui rispettose (“sommessi a lui si volsero”), aspettando dal suo genio un arbitrato definitivo che segnasse il loro destino. E si sedette in mezzo a loro (“s’assise”).
Sorvolando molte parti, il poeta si trasferisce ora con la fantasia all’ultimo momento della prodigiosa carriera di Napoleone, al tempo dell’esilio di Sant’Elena. Dice che nonostante tutta questa grandezza, egli scomparve e concluse i suoi giorni nella più totale inattività (“nell’ozio”).
Anche quando era sul punto di abbandonare il mondo, rimaneva al centro di passioni più contrastanti dagli uomini: immensa invidia da parte dei rivali, pietà profonda dagli uomini che riuscivano a captare il dramma della sua vita, inestinguibile odio dai nemici e indomato amor (cioè amore eterno) dai fedeli.
Comincia adesso un lungo ed elaborato paragone: come sul capo del naufrago s’avvolge e piomba l’onda sulla quale fino a poco prima spingeva la sua vista nella vana speranza di scorgere in lontananza la costa, allo stesso modo su quell’anima scese il peso troppo grave delle memorie. Napoleone in esilio è qui paragonato a un naufrago che cerca inutilmente una via di scampo, ma alla fine si lascia sommergere dal mare in tempesta; così egli, dopo aver lottato tanto, quasi schiacciato dal peso dei ricordi e delle responsabilità, s’abbandona alla disperazione.
Inutilmente l’esule s’accinse più volte a scrivere le sue memorie per i posteri: la mano gli cadeva scoraggiata di fronte a quelle pagine interminabili (“eterne”) e a quelle vicende che ora non capiva più. In questa strofa emerge un senso di desolazione: quell’uomo che in vita era stato famoso e aveva lottato molto, ricordando il suo passato ora lo vede futile.
Manzoni continua a descrivere la vita dell’esule a Sant’Elena. Quante volte al silenzioso tramonto di un giorno trascorso in una forzata inattività, con gli occhi fissi a terra (i rai fulminei rappresentano i suoi occhi che sembrano mandare bagliori) e le braccia conserte, egli rimase immobile ed era assalito dal ricordo del passato.
Segue poi l’elenco di quei ricordi, rappresentati per lo più da guerre e battaglie: il continuo spostarsi degli accampamenti (“le mobili tende”), i colpi alle fortificazioni nemiche (“i percossi valli”), lo scintillare delle armi dei plotoni (“il lampo dè manipoli”), i comandi veloci (“concitato imperio”), l’esecuzione altrettanto rapida degli ordini (“celere ubbidir”).
Il poeta immagina che forse davanti al contrasto straziante tra il passato tumultuoso e il presente così inerte, quell’animo affannato fu preso dalla disperazione.
Qui comincia l’ultimo tema dell’ode, la fiducia in Dio, che è speranza per tutti quelli che soffrono. Così anche Napoleone, caduto nella disperazione, trova rifugio e conforto nella mano di Dio, che pietosamente lo trasporta “in più spirabil aere” e lo avvia per i sentieri fioriti della speranza, verso orizzonti infiniti, verso una meta che è più radiosa di ogni desiderio, in un regno dove tutto è pace, dove non giunge più l’eco della gloria fragile e debole degli uomini. A questa gloria il cristiano Manzoni contrappone l’altra gloria effimera della potenza e della fama.
Il poeta celebra questa nuova vittoria della Fede benefica e immortale. Registri la fede anche questo trionfo: mai un uomo più potente di Napoleone si chinò dalla sua altezza per rendere onore alla croce della passione di Cristo, quella croce eretta sul colle del Golgota, che doveva essere nell’intenzione dei carnefici una pena disonorante (“disonor del Golgota”) e fu invece un simbolo di sublimazione.
A conclusione dell’ode invita la Fede a fare il silenzio intorno alla spoglia (“stanche ceneri”) di Napoleone morente e a disperdere ogni parola irriverente nel momento solenne della morte: perché accanto a quell’uomo, sul suo letto di morte abbandonato da tutti (“deserta coltrice”), venne Dio stesso, quel Dio che atterra e suscita, che può abbattere gli uomini superbi e risollevare coloro che si umiliano, che può punire con la disperazione, ma anche concedere la serenità che consola.
Divisione in sequenze
1-12 descrittiva
13-24 riflessiva
25-30 narrativa
31-36 riflessiva
37-60 narrativa
61-108 riflessiva

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