"I Promessi Sposi"

Materie:Scheda libro
Categoria:Italiano

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Data:13.06.2006
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Testo

Relazione a cura di
Di Fabio Niki
1. L’analisi narratologica
a. La storia - Riassunto
CAPITOLO I
Il capitolo si apre con la descrizione dei luoghi dove si ambientano le prime fasi del romanzo: il lago, i monti che lo circondano, il fiume Adda, la città di Lecco, i paesini circostanti e le stradine che li collegano. Don Abbondio, il curato del paese, passeggia, come d'abitudine, leggendo il breviario, ma ad una biforcazione della strada, nei pressi di un tabernacolo dipinto, vede due loschi personaggi, dal loro aspetto e dal loro portamento, don Abbondio capisce subito che sono due bravi, guardie del corpo dei nobili, ma anche loro sicari. Comprendendo che i bravi stanno attendendo lui, don Abbondio cerca vie di fuga o eventuali testimoni, ma poi, vista l'assenza delle une e degli altri, si avvicina ai due fingendosi tranquillo. I bravi sbarrano la strada al curato e gli impongono, con le minacce, di non celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia. Don Abbondio, spaventato, si dichiara più volte disposto all'obbedienza, specie quando sente il nome di don Rodrigo, il padrone dei due bravi. Ancora spaventato dall'incontro, don Abbondio riprende la via di casa immaginando la reazione di Renzo quando gli avrebbe detto che non avrebbe più celebrato il matrimonio. Giunto a casa propria, il curato chiama Perpetua, la sua serva: una donna decisa, ma un pò bisbetica e pettegola. Dopo qualche esitazione don Abbondio si confida con lei, ma non accetta i suoi saggi consigli. Infine, stremato, va a dormire, raccomandando a Perpetua la massima segretezza.
CAPITOLO II
Don Abbondio passa una notte agitata tra ricerche di scuse per non celebrare il matrimonio e incubi popolati di bravi e di agguati. Tra il sogno e la veglia egli elabora un piano per superare le prevedibili obiezioni di Renzo e ritardare così le nozze. Renzo si reca da don Abbondio che finge di non ricordarsi del matrimonio, poi, utilizzando termini latini per confondere il giovane, lascia intendere che sono sopravvenuti degli impedimenti che obbligano a ritardare le nozze. Renzo accondiscende allo spostamento, ma rimane insospettito dal comportamento del parroco. Renzo si dirige allora verso casa di Lucia, ma, parlando con Perpetua, riceve conferma dei propri sospetti e capisce che don Abbondio è stato minacciato da qualcuno. Renzo torna velocemente da don Abbondio e dopo aver imprigionato il parroco nel suo stesso salotto, il giovane lo costringe a dirgli la verità. Perpetua rientra e don Abbondio l'accusa di aver infranto il giuramento del silenzio fatto la sera prima, dopo un acceso battibecco tra i due, don Abbondio si mette a letto vinto dalla febbre. Renzo si dirige nuovamente verso casa di Lucia, nella sua mente passano fieri propositi di vendetta, ma al pensiero di Lucia abbandona ogni ipotesi violenta. Giunto nel cortile della casa di Lucia, Renzo incarica una bambina di chiamare in disparte Lucia e di condurla da lui. Lucia scende al piano terreno e Renzo la mette al corrente dell'accaduto; Lucia mostra di essere al corrente della passione di don Rodrigo per lei: Ai due si aggiunge poi Agnese, la madre di Lucia, curiosa di sapere che cosa stessero dicendo i due giovani. Lucia sale a congedare le donne dicendo che il matrimonio è rimandato a causa di una malattia del parroco. Alcune donne si recano allora alla canonica per chiedere conferma della malattia del curato e Perpetua dice loro che don Abbondio ha un febbrone.
CAPITOLO III
Lucia mette al corrente Agnese e Renzo di quanto essi ancora non sanno: don Rodrigo aveva un giorno avvicinato la giovane per la strada e aveva scommesso con un altro nobile che la ragazza sarebbe stata sua. Lucia rivela poi di aver narrato l'accaduto a fra Cristoforo. Dopo che Lucia ha placato l'ira di Renzo, Agnese consiglia il giovane di recarsi a Lecco da un avvocato soprannominato Azzecca-garbugli e gli consegna quattro capponi da portare in dono al dottore. Il mattino seguente Renzo si reca dall'avvocato che lo scambia per un bravo e, per intimorirlo, legge confusamente una grida che annuncia pene severissime per chi impedisce un matrimonio. Renzo nega di essere un bravo, ma l'avvocato non gli crede e lo invita a fidarsi di lui, prospettando una linea di difesa; scoperto l'equivoco, Azzecca-garbugli si infuria e rifiuta ogni aiuto, mettendo infine Renzo alla porta. Frattanto Lucia e Agnese si consultano nuovamente tra loro e decidono di chiedere aiuto anche a fra Cristoforo. Alla casa delle due donne giunge fra Galdino, cercatore del convento dei cappuccini di Pescarenico che, come ogni anno, andava girando di casa in casa per la raccolta delle noci. Lucia dona al frate una grande quantità di noci affinché egli possa recarsi subito al convento ed esaudire la sua richiesta di inviare presso di loro fra Cristoforo. Renzo fa ritorno alla casa di Lucia e racconta il pessimo risultato del suo colloquio con Azzecca-garbugli. Tra Renzo e Agnese si accende una piccola discussione, subito placata da Lucia, circa la validità del consiglio di rivolgersi all'avvocato. Dopo alcuni sfoghi di Renzo ed altrettanti inviti alla calma da parte delle donne, il giovane torna a casa propria.
CAPITOLO IV
Quando fra Cristoforo esce dal convento per recarsi a casa di Lucia, il sole non è ancora apparso all'orizzonte; il convento è abbastanza lontano dalla casa e durante il cammino, il frate si chiede il motivo della chiamata di Lucia. Fra Cristoforo è un uomo vicino ai sessanta anni, con una lunga barba bianca che gli copre il volto. Il suo nome di battesimo era stato Lodovico, il padre era un ricco mercante che si vergognava del proprio mestiere e si comportava come un nobile. Il giovane Lodovico non venne accettato nella cerchia dei nobili, e, quasi per vendetta inizia a difendere gli umili contro i nobili oppressori. Un giorno per strada scoppiò una disputa per futili motivi tra Lodovico ed un nobile prepotente; nel corso della disputa che ne segue,Lodovico, vedendo vedendo gravemente ferito Cristoforo, il suo più fedele servitore, uccide il nobile prepotente. Lodovico viene condotto dalla folla nel vicino convento dei frati cappuccini, affinché possa trovare riparo dalla vendetta dei parenti dell'ucciso. questi intanto circondano il convento al fine di uccidere Lodovico alla sua uscita. Durante la sua permanenza in convento Lodovico matura la decisione di farsi frate. Dona tutti i suoi beni alla famiglia del servo Cristoforo che era morto per lui e assume il nome di fra Cristoforo. Intanto il padre guardiano del convento convince il fratello del nobile ucciso ad accettare come rivalsa la scelta monacale di Lodovico. Prima di partire per il luogo del suo noviziato, fra Cristoforo chiede ed ottiene di domandare scusa alla famiglia dell'ucciso; in casa del nobile vengono convocati tutti i parenti per assaporare la vendetta, ma con il suo contegno umile, fra Cristoforo ottiene un sincero perdono da tutti e induce i presenti a mitigare la loro superbia. Fra Cristoforo arriva a casa di Lucia e viene accolto con gioia da Lucia e da Agnese.
CAPITOLO V
Fra Cristoforo giunge a casa di Lucia e si fa raccontare dalle donne l'accaduto; esaminata la situazione decide di andare a parlare con don Rodrigo per distoglierlo dal suo proposito. Giunge frattanto anche Renzo, il quale rivela di aver tentato invano di organizzare un agguato contro don Rodrigo e per questo viene rimproverato da fra Cristoforo. Questi s'incammina verso il palazzotto di don Rodrigo, dopo aver parlato con due bravi e con un servitore, molto sorpreso di vederlo lì, fra Cristoforo viene introdotto nella stanza da pranzo. Attorno al tavolo alcuni personaggi discutono animatamente su una questione di cavalleria, fra Cristoforo è chiamato ad esprimere un giudizio, ma la sua sentenza viene scambiata per una battuta di spirito. La disputa cambia tema e volge poi sulla guerra per il ducato di Mantova e sulle relative manovre politiche di Spagna, Francia, Germania e papato. Le discussioni vengono abbandonate per un attimo per lasciare posto ad un brindisi, ma subito riprendono sul tema della carestia evocato da Azzecca-garbugli in un suo elogio al vino. E' don Rodrigo a porre fine al dibattito congedando i commensali. Don Rodrigo conduce fra Cristoforo in un'altra stanza per parlare.
CAPITOLO VI
Don Rodrigo e fra Cristoforo, iniziano il colloquio che si trasformerà ben presto in un duello verbale; al termine il frate viene cacciato, La sua missione è fallita, ma don Rodrigo rimane scosso dalle minacciose profezie del cappuccino. Uscendo il frate incontra il vecchio servitore che l' aveva accolto prima, quest'ultimo dice a fra Cristoforo di avere delle rivelazioni da fargli e gli dà appuntamento per l'indomani al convento. Fra Cristoforo abbandona il palazzotto e si incammina verso la casa di Lucia. Intanto in casa di Lucia, Agnese propone ai due promessi di effettuare il matrimonio di sorpresa, di presentarsi cioè davanti al parroco con due testimoni e di pronunciare la formula del matrimonio. Sebbene celebrato contro la volontà del parroco, questo matrimonio avrebbe valore a tutti gli effetti. Renzo si mostra entusiasta, ma Lucia è contraria al progetto poiché esso prevede dei sotterfugi. Renzo, in cerca di testimoni per il matrimonio di sorpresa, si reca a casa di Tonio, lo invita all'osteria e gli chiede di far da testimone al matrimonio. In cambio del favore, Renzo offre a Tonio il denaro per pagare un debito contratto con do Abbondio, Tonio accetta e propone suo fratello Gervaso come secondo testimone. Renzo torna alla casa di Lucia e tenta nuovamente di convincere quest'ultima ad accettare il "piano" della madre. Nel frattempo si odono i passi di fra Cristoforo, giunto per riferire gli esiti del colloquio con don Rodrigo.
CAPITOLO VII
Fra Cristoforo informa Agnese e i due promessi circa l'esito della propria missione, Renzo reagisce con rabbia; uscendo, il frate raccomanda di inviare qualcuno al convento il giorno successivo, per avere nuove informazioni. Renzo, irritato dal comportamento di don Rodrigo e dall'opposizione di Lucia al progetto di matrimonio a sorpresa, dà in escandescenze. Alla fine Lucia cede e accondiscende al piano della madre, Renzo rincasa perché si era fatto molto tardi ma ritorna di buon ora a casa delle due donne per stabilire i dettagli del matrimonio. Agnese invia al convento Menico, un ragazzino suo parente, al posto di Renzo. Per tutta la mattinata dei loschi figuri si aggirano nelle vicinanze della casa di Lucia, curiosando all'interno dell'abitazione. Il giorno precedente, dopo lo scontro con fra Cristoforo, don Rodrigo , furibondo per non essere riuscito ad intimorire il frate e turbato per quel "Verrà un giorno",cammina per il palazzo al cospetto dei ritratti dei suoi avi. Scortato dai bravi, don Rodrigo esce dal suo palazzotto per una passeggiata trionfale durante la quale viene ossequiato da tutti, tornato al palazzotto, viene deriso dal conte Attilio; risentito egli raddoppia allora la posta dell'infame scommessa. Il giorno dopo, don Rodrigo, dimenticati i timori suscitati in lui da fra Cristoforo, predispone con il capo dei suoi bravi, il Griso, un piano per rapire Lucia. I bravi, guidati dal Griso, cominciano le loro ricognizioni in casa di Lucia ( gli strani figuri visti nella casa sono i bravi travestiti). Tornati al palazzotto, il Griso dà le ultime istruzioni ai suoi compagni. Il vecchio servitore si avvia alla volta del convento per riferire al frate ciò che ha sentito. Nel frattempo alcuni bravi hanno già occupato le posizioni concordate ed altri si avviano a farlo. Tornando ora alle vicende di Lucia e Renzo, troviamo quest'ultimo che prende gli ultimi accordi con Agnese e Lucia. Renzo, Tonio e Gervaso si recano all'osteria e qui incontrano tre individui (sono tre bravi di don Rodrigo) dal comportamento minaccioso. Renzo, durante la cena, chiede all'oste informazioni sui tre, ma l'oste finge di non conoscerli; al contrario egli fornisce ai bravi diverse notizie su Renzo e sui suoi amici. Usciti dall'osteria Renzo, Tonio e Gervaso, vengono seguiti da due bravi, che si arrestano, però, vedendo arrivare gente di ritorno dai campi. I tre amici passano a chiamare Agnese e Lucia e insieme si recano alla canonica, dove Tonio bussa alla porta e dice a Perpetua di voler saldare un debito.
CAPITOLO VIII
Don Abbondio abbandona le letture in cui si era immerso e autorizza Perpetua a far salire Tonio. Perpetua scende in strada e lì inizia, con Agnese, una conversazione a proposito di alcune maldicenze sul suo conto. Tonio e Gervaso accedono allo studio del curato, mentre Renzo e Lucia, approfittando della distrazione di Perpetua raggiungono il pianerottolo della canonica. Tonio salda il suo debito, il curato esamina le monete, restituisce il pegno e inizia a compilare una ricevuta. A un segnale convenuto entrano anche i due promessi sposi, Renzo pronuncia l'intera formula del matrimonio, mentre Lucia viene interrotta dal curato, che si rifugia in una stanza attigua e chiede aiuto dalla finestra. Ambrogio, il sacrestano, suona allora le campane per richiamare la gente del paese, i rintocchi svegliano l'intero paese e qualcuno scende in strada per capire cosa sta succedendo. Frattanto, circa mezz'ora prima, i tre bravi che erano all'osteria, erano usciti per una ricognizione, poi avevano chiamato i compagni appostati al casolare e , agli ordini del Griso, erano penetrati in casa di Lucia, ma non avevano trovato la vittima. Menico, di ritorno dal convento, era entrato in casa di Lucia ed era subito stato afferrato dai bravi che però, spaventati dal suono delle campane, lo avevano lasciato andar via mentre essi stessi fuggivano disordinatamente, il Griso li richiamò all'ordine e la fuga proseguì a ranghi compatti. Prima che Ambrogio suonasse le campane, Agnese continuava a distrarre Perpetua, ma, sentite le grida di don Abbondio e i rintocchi delle campane, le due donne corrono verso la canonica. Renzo e Lucia si ricongiungono con Agnese e vengono raggiunti da Menico, che dice loro di fuggire verso il convento e li segue per un tratto. Intanto la gente si raduna in piazza e si reca da don Abbondio.Visto che quest'ultimo non è più in pericolo, la folla si sposta alla casa di Lucia e scopre che le due donne sono sparite. Dopo qualche progetto di inseguimento dei presunti rapitori, corre voce che le donne siano salve e tutti si ritirano. Il mattino successivo il console sarà minacciato da due bravi che gli intimano di non riferire al podestà i fatti della notte precedente. Renzo, Lucia e Agnese si sono intanto allontanati attraverso i campi, accompagnati da Menico che, raccontata la sua avventura, viene rimandato a casa. I tre fuggitivi giungono al convento di Pescarenico, dopo aver vinto le resistenze di fra Fazio, il sacrestano, fra Cristoforo li fa entrare nella chiesa del convento ed illustra i piani di fuga che ha predisposto per loro. Dopo aver pregato per don Rodrigo, i tre lasciano il convento e si dirigono verso il lago, qui salgono su di una barca che li attendeva, Lucia guarda il paesaggio così familiare mentre piange segretamente e da l'addio ai monti e ai luoghi natii.
CAPITOLO IX
I tre fuggitivi approdano sulla sponda del lago opposta a Pescarenico e si accomiatano dal barcaiolo che la aveva trasportati. Guidati da un barrocciaio, i tre giungono fino a Monza su di un carro, qui possono riposarsi e rifocillarsi in una locanda. Dopo un breve pasto Renzo da l'addio alle due donne. Sempre sotto la guida del barrocciaio, le due donne si recano prima al convento dei cappuccini e poi, accompagnate dal padre guardiano, al monastero di monache nel quale sperano di trovare ospitalità. Qui incontrano la monaca di Monza , la madre superiora del convento, che interroga le due donne e il padre guardiano a proposito delle vicende di Lucia, al termine del colloquio concede ospitalità ad Agnese e a Lucia. A questo punto l'autore inizia un flash-back sulla biografia di Gertrude, il vero nome della monaca di Monza. Viene descritta la famiglia di Gertrude e la regola in essa vigente, secondo la quale, tutti i figli, ad esclusione del primogenito dovevano entrare in convento; la prima infanzia di Gertrude e tutti gli espedienti adottati dai parenti per inculcarle l'idea della vita consacrata, l'infanzia e l'adolescenza di Gertrude, la sua educazione nel convento di Monza, i suoi rapporti con le compagne, i primi cenni di rifiuto della vita religiosa. Prima di prendere definitivamente i voti, Gertrude viene ricondotta nella casa paterna, qui viene trattata con indifferenza ed isolata al fine di metterla a disagio e di farle desiderare il convento. Scoperto il suo innamoramento per un paggio, Gertrude viene imprigionata in una stanza. Per uscire da quella segregazione, ella si dichiara disposta a scegliere la vita consacrata.
CAPITOLO X
L' autore continua la narrazione della vita di Gertrude. Colta in un momento di debolezza, Gertrude, forzata dal padre, accetta di entrare in convento, viene così dato l'annuncio della decisione della ragazza ed iniziano i festeggiamenti. Dopo le ultime raccomandazioni sul contegno da tenere e sulle risposte da dare alla badessa, Gertrude viene condotta nel monastero per la presentazione della domanda di ammissione. In convento vengono organizzati grandi festeggiamenti.Tra il principe e la badessa avviene un colloquio molto formale volto a stabilire la sincerità della vocazione di Gertrude. Ritornata a casa, Gertrude sceglie la "madrina" che l'accompagnerà alla monacazione. il vicario incaricato di valutare la sincerità della vocazione di Gertrude interroga la fanciulla, la quale, per timore del padre, mente e dichiara di scegliere liberamente la vita claustrale. Gertrude diviene "monaca per sempre" e maestra delle educande. La vita del chiosco non allontana però la giovane dalle passioni terrene. i suoi primi anni in monastero sono dunque segnati dall'odio verso le altre suore e da improvvisi cambiamenti d'umore. La giovane donna si lascia sedurre da Egidio, un nobile che abita in un palazzo attiguo al monastero: sotto la sua nefasta influenza Gertrude si lascia trascinare dalle passioni più violente e giunge all'omicidio di una conversa. Qui termina la biografia di Gertrude e l'autore torna al colloquio con Lucia. Rimasta sola con Lucia, Gertrude le pone domande indiscrete sui suoi rapporti con Renzo e con don Rodrigo. Lucia confida alla madre la propria inquietudine per la stranezza della signora, ma Agnese tranquillizza la figlia. Le due donne vengono accolte nel convento, alloggiate nel quartiere della fattoressa attiguo al chiostro e trattate come se fossero addette al servizio del monastero.
CAPITOLO XI
Dopo la digressione rappresentata dalla storia di Gertrude, l’attenzione del Manzoni si rivolge a don Rodrigo, quasi per costituire un motivo di distensione dopo le losche vicende narrate. Al sicuro fra le robusta mura del suo palazzotto, ritroviamo il tiramelo che, dopo aver curato in tutti i suoi particolari il piano per soddisfare il suo puntiglio, attende con animo crucciato, in preda all’ansia, spaventato della sua stessa audacia, il ritorno dei bravi dalla spedizione. Appreso dal Griso, in un colloquio agitato, il fallimento di quella, impartisce ordini, perché si recuperi la bussola, si faccia una ambasciata intimidatoria al console del villaggio, si indaghi sugli strani avvenimenti di quella notte. Segue il dialogo con il cugino Attilio, che gli promette il suo interessamento presso il conte zio affinché padre Cristofaro sia allontanato da Pescarenico. Il Griso recatosi di buon mattino al paese apprende che i promessi sono fuggiti, che Lucia ha trovato ricovero in un convento di Monza. Al suo ritorno, don Rodrigo gli ordina di recarsi in quella città per studiare l’opportunità di un nuovo colpo. Le ultime pagine del capitolo sono per Renzo. In cammino verso la città tumultuosa, ha l’animo pieno di mestizia per la repentina separazione da Lucia, per aver dovuto abbandonare il paese, la casa. Solo il paesaggio attirando il suo sguardo, lo distrae di tanto in tanto dai tristi pensieri. Giunto a Milano, Renzo si trova di fronte ai primi segni dell’imminente rivolta, senza per altro sapersene rendere conto. La scena ci fa sorridere: la meraviglia del giovane di fronte ad un sacrilegio, per quei pani e per quella farina gettati per terra, la sua esitazione nel raccoglierli, la lentezza sospettosa dell’atto, il ragionamento ad alta voce ed infine la fame che prevale su ogni considerazione. Tra queste righe possiamo leggere la riprovazione di un animo profondamente cristiano per l’indegno sciupo di farina e di pane, simbolo della Provvidenza. Apprende poi dopo, che tale abbondanza non è altro che un momento che si fa spazio nella rivolta per prendere fiato. L’ordinamento sociale, la vita economica del paese erano ridotti in tale miserevole stato, per incapacità e cattiva volontà dei governatori e l’uomo onesto riconosceva necessario un mutamento, comunque avvenisse, anche con un atto di violenza. Vedremo che questo convincimento, frutto di un sordo rancore per tante ingiustizie, per tanti torti subiti, farà sì che Renzo, prenda parte ai tumulti: vuole anch’egli operare per una società migliore, per vivere fondato sulla giustizia.
CAPITOLO XII
Ha qui inizio un altro episodio che il Manzoni tratta con la sua abituale precisione, con il consueto movimento drammatico di fatti, di gesti, di figure e passione e senza risparmio di commenti di carattere morale. All’umile, singolare vicenda dei due promessi, alla semplice e monotona vita di un piccolo centro di campagna, si innesta e si intreccia la vita di tutto un popolo nella sua pluralità, avvenimenti di grande vastità e importanza storica, che travolgeranno con il loro “vortice”, umili, potenti, i quali sol nel pericolo si sentiranno pari agli altri fratelli. Di questi sconvolgimenti la divina Provvidenza si servirà per portare ad effetto i suoi disegni. Protagonista di questo capitolo è quindi la carestia. Il Manzoni aveva avuto modo di accennare alla disastrosa, causata dallo scarso raccolto dell’annata, adesso ne analizza le cause e le conseguenze sulla psicologia della fola, con un’acutezza degna di un trattato di economia. La guerra per il ducato di Mantova, i saccheggi, la contrarietà delle stagioni, il disinteresse del governatore don Gonzalo che, tutto ingolfato nelle operazioni militari, aveva delegato ogni potere a Ferrer, l’incompetenza di questi, avevano reso disastrosa la situazione alimentare del milanese. Imbestialito per la fame, il popolo si ribella, assalta il forno delle grucce, si impadronisce, facendone grande sperpero, della farina e del pane, poi, non contento si dirige verso la casa del vicario di provvisione per fare giustizia sommaria. In mezzo a questi burrascosi avvenimenti viene a trovarsi il nostro Renzo, dapprima come spettatore, poi, da protagonista.
CAPITOLO XIII
Abbiamo lasciato Renzo in mezzo a burrascosi avvenimenti come innocente spettatore, adesso lo ritroviamo da protagonista in mezzo alla folla che giunge alla casa del vicario, mentre questi, preoccupato per le vicende accadute, stava facendo un chilo agro e stentato. La descrizione del vicario è sottolineata da un sorriso tra il malizioso e il compassionevole. E’ il ritratto di un uomo mediocre e pauroso, sopraffatto da avvenimenti più grandi di lui, che ora gli disturbano la digestione, ma che ben presto gli procureranno guai tanto spiacevoli quanto inaspettati. E ciò è provato dalla sua reazione in questa situazione, quel turarsi le orecchie per non sentire il rumore, quel protendere le mani, quasi a sostenere la porta, sono gesti di un fanciullo, non di uomo, tanto meno poi di un uomo vestito di pubblici poteri. Ben presto dagli urti e dalle imprecazioni si passa all’azione: cento mani picchiano contro la porta nel tentativo di abbatterla, il vicario corre a nascondersi tutto tremante in soffitta. Tra la folla si distinguono delle voci che invocano la morte del vicario, tra questi ve n’è uno proprio accanto a Renzo: un vecchio mal vissuto e sanguinario, da cui occhi infossati, dalle canizie vituperose traspare un che di lugubre e truculento. C’è dell’atroce in quel sogghigno, nel gesto con cui sono agitati e mostrati gli arnesi del delitto. A questo punto interviene Renzo a difesa di un comportamento più cristiano da parte di coloro che aspettano una grazia. Ma come sempre quando si prendono le difese, anche e giuste, della vittima designata dal furore comune si rischia di passare per dei fautori. L’accusa scagliata contro Renzo, passando bocca in bocca, raggiunge dimensioni impensate. In aiuto del povero Renzo, giunge una scala che, accentrando su di se l’attenzione, diventa di colpo la protagonista della scena drammatica. Proprio mentre la situazione si fa più critica, arriva Ferrer, il quale, con il pretesto di portare in prigione il vicario, vuole sottrarlo alla ferocia popolare e la folla è tanto ingenua quanto crudele. Il pensiero che Ferrer sia venuto per aiutare il vicario, ma amante della legalità si adopera con grande zelo perché la carrozza del gran cancelliere possa attraversare la folla e arrivare davanti al portone. La cosa riesce. Ferrer entra in casa e ne esce dopo con il vicario terrorizzato attaccato alla sua toga; salgono ambedue in carrozza e riescono ad allontanarsi. Sebbene personaggio secondario, privo, a differenza di altri personaggi manzoniani di una sua storia interna, il gran cavaliere spagnolo, che è stato la causa principale della carestia e dei tumulti, acquista rilievo e validità artistica in queste pagine, in cui lo troviamo al centro degli avvenimenti da lui provocati. Nella scena che ce la presenta quando va in carrozza a salvare il vicario di provvisione, mentre questi sta per cadere nelle mani del popolo eccitato, risulta tutto il suo carattere. Creatura, tutta furbizia e diplomazia, che sa sfruttare la sua popolarità. C’è nel personaggio di Ferrer il peso di un’evidentissima bivalenza: figura autonoma, inventata con estrema acutezza e, insieme, pretesto per arricchire il contorno di nuovi e più complessi riferimenti umani e psicologici.
CAPITOLO XIV
Nelle prime pagine di questo capitolo, il Manzoni, con fine intuito e psicologico, disegna varie figure di birboni e di istigatori. Rimasti, dopo essersi tanto adoperati, delusi perché il tumulto si è risolto senza spargimento di sangue, non sanno e non vogliono rassegnarsi, tentano ancora sino a quando, sopravvenuti i soldati, vedendosi in troppo pochi per fare qualcosa, se ne vanno, o dritti dritti senza pensarci un momento, perché la paura è grande, oppure, più furbi, con tutta calma, facendo finta di nulla. L’analisi manzoniana sottolinea gli umori vari dei popolani, si susseguono, si infittiscono i discorsi che traducono l’intimo sentire, il carattere di ciascuno; del generoso, di colui che si autoloda compiaciuto di se stesso, della sua azione che travisa gonfiandola, del semplicione, dl furbo, che intuisce come terminano certe cose e finisce per cogliere nel segno dell’insoddisfatto. L’attenzione del Manzoni torna poi ad appuntarsi su Renzo per presentarlo, in un atteggiamento del tutto nuovo, fonte di situazioni imprevedibili, trattate con raffinato senso dell’umorismo. Dopo aver esposto le proprie idee sulla rivolta, sulla giustizia,ecc.., Renzo, scambiato per uno dei capi della rivolta, cade tra le grinfie di uno sbirro travestito, il quale, approfittando della sua scarsa conoscenza della città, vorrebbe portarlo caldo caldo in prigione, con il pretesto di trovargli un alloggio per la notte. Per fortuna preferisce entrare nella prima taverna che incontra, sempre seguito però dal suo pericoloso accompagnatore. Gli avvenimenti così densi e vari, che il giovane non era abituato a vivere nella sua semplice e modesta giornata di contadino, producono nel suo animo un’insolita agitazione, creano uno stato d’animo d’esaltazione, di ebbrezza. Tornando un po’ a ritroso nelle pagine del capitolo, ricordiamo Renzo, mentre osserva la folla in tumulto ripercorre con la mente la sua vicenda, la tragedia di un’intera popolazione, diventa la sua personale tragedia; rivede il suo piccolo, chiuso mondo, ripensa a don Abbondio, a don Rodrigo, al dottor Azzecca-garbugli, ai bravi, il core gli balza in petto al ricordo di tutte le ingiustizie patite, che lo hanno così improvvisamente e dolorosamente allontanato dalla sua Lucia. Nell’atto di forza, con , il quale la rivolta si esprime, il giovane intravede la possibilità di tagliare il male alla radice, di cambiare il sistema perché cambino gli uomini, ponendo così fine ad ogni tipo di prepotenza, instaurando un mondo migliore, un mondo un po’ più da cristiani, com’egli lo definisce nella sua ingenuità, e semplicità di montanaro. Allora da spettatore diviene attore: aiuta Ferrer, interviene nei discorsi della folla con l’ansia di chi soffre, l’ardore di che spera e crede con animo puro. Ed è per questa sua fervente partecipazione che viene scambiato per uno dei capi della rivolta e condotto nell’osteria dove il suo accompagnatore traditore suscita grande preoccupazione nell’oste. Dopo aver bevuto diversi bicchieri di un vinello traditore, Renzo si ubriaca ed imbastisce un gustoso dialogo con gli altri avventori. Non ragiona e quando vuol farlo sragiona, ripete i medesimi concetti con parlare confuso, da balbuziente. I movimenti sono pesanti e incontrollati, si immalinconisce, rimane assorto, chiuso in un silenzio tragico. A questo punto il pensiero, tra i fiumi di vino e l’innalzare dei ricordi, gli è corso a Lucia, e la commozione è naturale; ma l’ebbrezza ne deforma e ne fa degenerare la muta manifestazione, così da renderla svenevole e sguaiata. Ad approfittare della situazione giunge lo sbirro che coglie l’occasione per strappargli nome e cognome.
CAPITOLO XV
E’ questo il capitolo della furberia: furbo l’oste nel proteggere i propri interessi, furbo il notaio criminale nel suo tentativo di cavarsi d’impiccio e di mettere in trappola Renzo. Alla fine chi esce vincitore è proprio il meno esperto, il più ingenuo dei tre. Dopo aver portato a letto Renzo con gran fatica, l’oste lascia la moglie a cura degli affari, non senza prima averle dato tutti i suggerimenti e i consigli sul modo di comportarsi con gli avventori. Il discorso dell’oste alla moglie è frutto di amara esperienza, di scetticismo, di una particolare, amara filosofia della vita, che egli si è formato con gli anni. La dominazione straniera, i capovolgimenti politici hanno tolto all’oste ogni coraggio di affermare le proprie idee, di lottare per la verità e per la giustizia. Quel che conta per lui è il denaro, il resto non sono che >, dinanzi alle quali, chiuso nel suo egoismo, rimane impassibile, indifferente. Si avvia un poi difilato al palazzo di giustizia, ripensando al guaio che gli è capitato proprio quando meno se lo aspettava, e in un giorno come quello. C’è nella figura dell’oste preoccupato, il rimpianto, un poco astioso, che tutta la sua politica e il suo giudizio non siano valsi a fargli finire in pace quella maledetta giornata, e d’altro lato affiora sempre una certa compassione per il povero giovine e una viva irritazione per quel malaugurato avvenimento. Al notaio criminale denuncia il rifiuto a declinare le generalità, in un colloquio dalle battute gustose, in cui alle intimidazioni e alle insinuazioni dell’uomo ella legge contrappone la sagacia, l’ironia, il coraggio dell’uomo del popolo che difende la propria onestà. Il tono tra serio, stizzoso, burlesco e umoristico dell’oste, dà a tutto il discorso un carattere e un sapore inconfondibile;l’oste rivela la sua anima, certo non proprio eccelsa, né troppo generosa, ma nemmeno del tutto egoistica e, in fondo, non malvagia. Al mattino Renzo ha la sgradita sorpresa d’essere svegliato dai birri. S’ingaggia una battaglia d’astuzie tra il notaio, il quale avendo fiutato il vento infido, vorrebbe portare in prigione il suo uomo senza far troppo chiasso e per questo lo prende con le buone e Renzo che, compresa la particolare situazione, con intraprendenza e decisione, non solo si fa restituire la lettera di fra Cristofaro e il denaro, ma giunge sino ad insultare i birri, i quali non reagiscono perché trattenuti dalle eloquenti occhiate del notaio. Ammanettato di sorpresa il giovane, si avviano. L’astuzia nascosta dalle lusinghe sarebbe andata bene per il Renzo ingenuo che abbiamo conosciuto fin qui; adesso il pericolo ha risvegliato in lui la sopita furbizia contadina e il notaio rimarrà battuto e deluso. Lungo la strada Renzo infatti spia l’occasione buona per fuggire. Quando si accorge che la folla, ancora in fermento per gli avvenimenti del giorno precedente, s’è infittita, si rivolge ad essa: questa si stringe minacciosa intorno agli sbirri e al notaio, i quali, sentendosi in pericolo, lasciano i manichini che stringevano i polsi di Renzo; il giovane può così rapidamente allontanarsi.
CAPITOLO XVI
Renzo sfugge agli sbirri e , rifiutando l'ipotesi di chiedere asilo in un convento, corre via cercando di uscire dalla città e dallo stato. non sapendo orientarsi nella città, Renzo, dopo aver esaminato attentamente alcuni passanti, chiede informazioni ad uno di essi che gli ispira fiducia. Il giovane attraversa la città e, superando con indifferenza un presidio di soldati, esce dalle mura diretto a Bergamo. Renzo si allontana da Milano, ma, per il timore di percorrere strade principali, e per il desiderio di non attirare su di sé sospetti chiedendo informazioni, sbaglia più volte direzione. Durante il suo cammino egli ripensa ai fatti del giorno precedente ed esamina la sua situazione. Giunto ad un'osteria isolata, il giovane pranza. Con uno stratagemma, egli riesce poi a farsi indicare dalla vecchia ostessa la strada per il confine. Verso sera, Renzo arriva nel paese di Gorgonzola, vicino al confine, e qui cena in un'osteria. Cerca, senza esito, di ottenere dall'oste delle indicazioni sul percorso da seguire per attraversare l'Adda, e passare nella Repubblica veneta. Viene poi avvicinato da un cliente che gli chiede se egli venga da Milano e se abbia informazioni sulla rivolta: Renzo fornisce risposte evasive. Al gruppo degli avventori si aggiunge poi un mercante milanese. Si tratta di un conservatore, metodico e nemico di ogni disordine, che dà una propria personale versione degli avvenimenti. In particolare, egli dice che i capi della rivolta sono stati tutti arrestati, tranne uno che, fermato in un'osteria, è riuscito a fuggire. Il riferimento alla vicenda di Renzo è evidente. Temendo di cadere nuovamente nelle mani della giustizia, Renzo lascia l'osteria e va, quasi istintivamente, verso l'Adda.
CAPITOLO XVII
Uscito dall'osteria di Gorgonzola, Renzo prosegue il suo cammino nell'oscurità, lungo le strade che, secondo il suo senso dell'orientamento, dovrebbero condurlo all'Adda. Durante il tragitto, i suoi pensieri vanno al mercante e al suo resoconto distorto e calunnioso. Dopo aver oltrepassato alcuni paesi ed aver scartato l'ipotesi di chiedere ospitalità, Renzo si inoltra in una zona non coltivata e poi in un bosco. Qui viene colto da uno oscuro timore, ma, proprio quando sta per tornare sui suoi passi, sente il rumore dell'Adda e si precipita verso il fiume. Non potendo attraversare il fiume, né potendo passare la notte all'aperto, a causa del freddo, Renzo si rifugia in una capanna abbandonata. Dopo aver recitato le preghiere della sera, il giovane tenta di addormentarsi ma alla sua mente si affacciano ricordi dolorosi. Verso le sei del mattino successivo, sullo sfondo di una magnifica aurora, riprende il cammino verso l'Adda. Un pescatore traghetta Renzo sulla sponda bergamasca dell'Adda, di qui in poi il giovane prosegue a piedi verso il paese del cugino. Renzo pranza all'osteria; terminato il pasta, dona le ultime monete che gli sono rimaste ad una famiglia ridotta, dalla fame, a mendicare. Giunto nel paese di Bortolo, Renzo individua immediatamente il filatoio e lì trova il cugino, il quale lo accoglie festosamente, dichiarandosi disposto ad aiutarlo,sebbene i tempi non siano dei più propizi. I due cugini si informano reciprocamente sulla rispettiva situazione e sulle vicende politiche dei propri paesi. Dopo essere stato avvertito dell'uso bergamasco di chiamare "baggiani" i milanesi, Renzo viene presentato al padrone del filatoio e assunto come lavorante.
CAPITOLO XVIII
La giustizia compie una perquisizione a casa di Renzo e interroga i suoi compaesani. Don Rodrigo, intanto si compiace dei provvedimenti contro Renzo e dal conte Attilio riceve nuovi incoraggiamenti e stimoli a proseguire nel suo proposito. Ma il suo compiacimento è turbato dalle notizie su Agnese e Lucia, riferitegli dal Griso. Egli è dunque sul punto di abbandonare l'impresa poiché il monastero e la presenza in esso della potente Gertrude costituiscono per lui un ostacolo insormontabile. Prevale però il timore dell'onta per la sconfitta, e Don Rodrigo decide così di tentare nuovamente il rapimento di Lucia, avvalendosi dell'aiuto di un nobile tristemente noto per le sue imprese criminali: l'Innominato. Intanto Lucia e Agnese vengono informate dalla fattoressa che Renzo è ricercato per i fatti del tumulto, mentre un pescatore, incaricato de fra Cristoforo, nel confermare la notizia, aggiunge che il giovane ha trovato riparo nel Bergamasco. Le due donne continuano la loro vita nel monastero, confortate dalle notizie rassicuranti su Renzo, che fra Cristoforo invia loro tramite i suoi messaggeri. Lucia è entrata in maggior confidenza con Gertrude e passa con lei molto del suo tempo. Non avendo più ricevuto notizie da fra Cristoforo, Agnese decide di abbandonare il convento e di passare da Pescarenico prima di tornare a casa. Nel suo viaggio è aiutata dal pescatore che aveva portato le prime notizie certe di Renzo. Giunta a Pescarenico, Agnese apprende da fra Galdino che padre Cristoforo è stato trasferito a Rimini; la donna torna così al proprio paese in preda allo sconforto. Qualche giorno prima il conte Attilio si era rivolto ad uno zio, membro del Consiglio segreto, perché questi, che è in confidenza con il padre provinciale dei cappuccini,intervenga per far trasferire padre Cristoforo. Per convincerlo, Attilio espone una propria versione dei fatti, menzognera e calunniosa.
CAPITOLO XVIII
La giustizia compie una perquisizione a casa di Renzo e interroga i suoi compaesani. Don Rodrigo, intanto si compiace dei provvedimenti contro Renzo e dal conte Attilio riceve nuovi incoraggiamenti e stimoli a proseguire nel suo proposito. Ma il suo compiacimento è turbato dalle notizie su Agnese e Lucia, riferitegli dal Griso. Egli è dunque sul punto di abbandonare l'impresa poiché il monastero e la presenza in esso della potente Gertrude costituiscono per lui un ostacolo insormontabile. Prevale però il timore dell'onta per la sconfitta, e Don Rodrigo decide così di tentare nuovamente il rapimento di Lucia, avvalendosi dell'aiuto di un nobile tristemente noto per le sue imprese criminali: l'Innominato. Intanto Lucia e Agnese vengono informate dalla fattoressa che Renzo è ricercato per i fatti del tumulto, mentre un pescatore, incaricato de fra Cristoforo, nel confermare la notizia, aggiunge che il giovane ha trovato riparo nel Bergamasco. Le due donne continuano la loro vita nel monastero, confortate dalle notizie rassicuranti su Renzo, che fra Cristoforo invia loro tramite i suoi messaggeri. Lucia è entrata in maggior confidenza con Gertrude e passa con lei molto del suo tempo. Non avendo più ricevuto notizie da fra Cristoforo, Agnese decide di abbandonare il convento e di passare da Pescarenico prima di tornare a casa. nel suo viaggio è aiutata dal pescatore che aveva portato le prime notizie certe di Renzo. Giunta a Pescarenico, Agnese apprende da fra Galdino che padre Cristoforo è stato trasferito a Rimini; la donna torna così al proprio paese in preda allo sconforto. Qualche giorno prima il conte Attilio si era rivolto ad uno zio, membro del Consiglio segreto, perché questi, che è in confidenza con il padre provinciale dei cappuccini,intervenga per far trasferire padre Cristoforo. Per convincerlo, Attilio espone una propria versione dei fatti, menzognera e calunniosa.
CAPITOLO XX
Il castello dove l'Innominato conduce la sua vita solitaria è posto in un luogo elevato, selvaggio e aspro dove solo gli amici e gli uomini dell'Innominato osano avventurarsi. Al castello si accede attraverso una ripida strada in salita, all'inizio della quale, quasi fosse un posto di guardia, si trova la taverna della Malanotte.Qui giunge don Rodrigo e viene accolto da un ragazzaccio armato di tutto punto. Dopo aver deposto le armi, il signorotto viene accompagnato al castello dai bravi dell'Innominato, mentre i suoi accompagnatori, ad eccezione del Griso, devono rimanere alla taverna. L'Innominato è un uomo sulla sessantina, dalla forza straordinaria, don Rodrigo gli chiede di far rapire Lucia e, seppure a malincuore, l'Innominato accetta, sapendo di poter contare sull'aiuto di Egidio, l'amante di Gertrude. Licenziato don Rodrigo, l'Innominato ripensa ai suoi crimini a appare terrorizzato dall'idea della morte e del giudizio divino. Anche il pensiero del rapimento di Lucia lo turba; ma per non ascoltare la voce della propria coscienza, egli invia subito il Nibbio, il capo dei suoi bravi, da Egidio per predisporre il piano criminoso. Convinta da Egidio a farsi complice del rapimento, Gertrude, nonostante le resistenze della ragazza, riesce ad inviare Lucia fuori dal convento con il pretesto di portare un messaggio al padre guardiano dei cappuccini. Giunta in una strada solitaria, Lucia viene avvicinata con l'inganno dai bravi dell'Innominato e caricata a forza su una carrozza. Durante il viaggio verso il castello dell'Innominato, il Nibbio, pur bloccando con la forza i suoi tentativi di fuga, cerca di rassicurare la ragazza. Lucia prega i suoi rapitori che la lascino andare, vista poi l'inutilità delle sue richieste, rivolge le sue preghiere a Dio. Nel vedere la carrozza che si avvicina alla Malanotte, l'Innominato è tentato di sbarazzarsi rapidamente di Lucia e di farla condurre direttamente da don Rodrigo. Ma la sua coscienza gli consiglia di tenere ancora la fanciulla presso di sé. Il nobile manda dunque a chiamare una vecchia serva e le ordina di raggiungere la carrozza e di fare coraggio a Lucia.
CAPITOLO XX
Il castello dove l'Innominato conduce la sua vita solitaria è posto in un luogo elevato, selvaggio e aspro dove solo gli amici e gli uomini dell'Innominato osano avventurarsi. Al castello si accede attraverso una ripida strada in salita, all'inizio della quale, quasi fosse un posto di guardia, si trova la taverna della Malanotte. Qui giunge don Rodrigo e viene accolto da un ragazzaccio armato di tutto punto. Dopo aver deposto le armi, il signorotto viene accompagnato al castello dai bravi dell'Innominato, mentre i suoi accompagnatori, ad eccezione del Griso, devono rimanere alla taverna. L'Innominato è un uomo sulla sessantina, dalla forza straordinaria, don Rodrigo gli chiede di far rapire Lucia e, seppure a malincuore, l'Innominato accetta, sapendo di poter contare sull'aiuto di Egidio, l'amante di Gertrude. Licenziato don Rodrigo, l'Innominato ripensa ai suoi crimini a appare terrorizzato dall'idea della morte e del giudizio divino. Anche il pensiero del rapimento di Lucia lo turba; ma per non ascoltare la voce della propria coscienza, egli invia subito il Nibbio, il capo dei suoi bravi, da Egidio per predisporre il piano criminoso. Convinta da Egidio a farsi complice del rapimento, Gertrude, nonostante le resistenze della ragazza, riesce ad inviare Lucia fuori dal convento con il pretesto di portare un messaggio al padre guardiano dei cappuccini. Giunta in una strada solitaria, Lucia viene avvicinata con l'inganno dai bravi dell'Innominato e caricata a forza su una carrozza. Durante il viaggio verso il castello dell'Innominato, il Nibbio, pur bloccando con la forza i suoi tentativi di fuga, cerca di rassicurare la ragazza. Lucia prega i suoi rapitori che la lascino andare, vista poi l'inutilità delle sue richieste, rivolge le sue preghiere a Dio. Nel vedere la carrozza che si avvicina alla Malanotte, l'Innominato è tentato di sbarazzarsi rapidamente di Lucia e di farla condurre direttamente da don Rodrigo. Ma la sua coscienza gli consiglia di tenere ancora la fanciulla presso di sé. Il nobile manda dunque a chiamare una vecchia serva e le ordina di raggiungere la carrozza e di fare coraggio a Lucia.
CAPITOLO XXII
Un bravo informa l’Innominato che i villaggi vicini sono in festa per la visita del vescovo. Rimasto solo, l’Innominato si interroga sui motivi che spingono a festeggiare l’arrivo di quell’uomo. Poi, mosso dal desiderio di ascoltare parole di consolazione, decide di recarsi a colloquio dal vescovo. Prima di scendere in paese l’Innominato passa a far visita a Lucia. Trovandola addormentata, ordina alla vecchia di far nuovamente coraggio alla fanciulla, poiché egli farà tutto ciò che ella vorrà. L’Innominato giunge in paese tra lo stupore tra lo stupore e il timore della gente, che mai lo aveva visto senza un seguito di bravi. Fattosi indicare il luogo ove poter trovare il cardinale, vi si reca, seminando inquietudine tra i sacerdoti lì raccolti e nell’animo del cappellano crocifero al quale egli chiede di poter vedere il vescovo. Comincia qui la biografia del cardinale Federigo Borromeo. Federigo nasce da una delle più illustri famiglie lombarde, della quale fa parte anche il vescovo di Milano, Carlo Borromeo, beatificato pochi anni dopo. Fin dall’infanzia pone attenzione al rispetto dei principi cristiani. Adolescente, Federigo sceglie la vita consacrata e, nel collegio di Pavia, si dedica allo studio, alla catechesi e ad opere di carità. La sua vita è un esempio di fede e di profonda umiltà. Nominato vescovo di Milano, egli continua, malgrado la prestigiosa carica, la sua scelta di vivere all’insegna della povertà e della carità. All’impegno pastorale aggiunge quello culturale, fondando la biblioteca Ambrosiana: un’istituzione innovativa che fa del suo fondatore un precursore dei moderni uomini di cultura. Il carattere mite e affabile completa poi il ritratto morale di Federigo, facendone un esempio di vita cristiana, pur non privo di difetti sotto il profilo delle opinioni in materia di scienza e di cultura. L’autore completa il capitolo parlando delle opere letterarie e saggistiche del cardinale.
CAPITOLO XXIII
Il cappellano crocifero avverte il cardinale Federigo della visita dell’Innominato, e, nel contempo, lo invita a non riceverlo perché si tratta di un uomo pericoloso. Federigo invece insiste per vederlo immediatamente. Borbottando tra sé, il cappellano introduce l’Innominato presso il vescovo, il quale lo accoglie a braccia aperte. Con un fare cortese e con parole amichevoli, Federigo mette l’Innominato a proprio agio e lo induce a rivelare i suoi turbamenti. Gli parla poi del perdono divino e a quelle parole, l’Innominato scoppia in pianto: la sua conversione è avvenuta e i due possono abbracciarsi. L’Innominato racconta poi al vescovo la vicenda di Lucia e dichiara di volerla liberare subito. Federigo manda a chiamare il cappellano, il parroco del paese e don Abbondio, affinché si possa organizzare la liberazione di Lucia. Il cappellano annuncia la conversione dell’innominato ai sacerdoti riuniti, poi chiama il parroco e don Abbondio, quest’ultimo si fa avanti svogliatamente e dopo alcuni tentennamenti. Al parroco del paese il cardinale ordina di trovare una donna che faccia coraggio a Lucia durante la sua liberazione. A don Abbondio chiede invece di accompagnare l’innominato fino al castello per prendersi poi cura della fanciulla: il curato accampa scuse per evitare di viaggiare con quell’uomo che lo spaventa, ma alla fine è costretto ad eseguire gli ordini. L’Innominato e don Abbondio si apprestano ad iniziare il viaggio assieme al lettighiero e alla donna incaricata dal parroco. Nell’attraversare la piazza gremita di gente l’Innominato è guardato con ammirazione dalla folla che ha già saputo della sua conversione. Usciti dall’abitato, don Abbondio, ancora dubbioso circa il reale pentimento dell’Innominato, comincia un lungo soliloquio, nel quale se la prende con coloro che hanno minacciato il suo quieto vivere. Accusa don Rodrigo di cercare sempre guai e di coinvolgervi anche gli altri. All’Innominato rimprovera il troppo clamore suscitato dalla sua conversione; e al cardinale, la precipitazione nel fidarsi ?????????????????>? di quell’uomo e, soprattutto, nell’affidargli il destino di un sacerdote. L’Innominato intanto appare turbato dai rimorsi e dalle preoccupazioni per la nuova vita. Il gruppo oltrepassa la Malanotte e giunge nei pressi del castello, dove i bravi guardano con rispetto e perplessità il loro signore. Una volta arrivati sulla spianata antistante il castello, l’Innominato prega la donna di far subito coraggio a Lucia; poi l’accompagna, assieme a don Abbondio, nella stanza dove è rinchiusa la ragazza.
CAPITOLO XXIV
Lucia sente l’Innominato bussare alla porta e, subito dopo, vede entrare nella stanza una donna e don Abbondio; la fanciulla, sbalordita, è rincuorata dalle buone parole della donna e dalle rassicurazioni del curato. Nell’uscire, Lucia incontra poi l’Innominato e, dopo un primo moto di paura, trova la forza per ringraziarlo. Lucia e la donna salgono infine sulla lettiga e il gruppo si avvia verso il villaggio. Sulla lettiga, la donna continua a rassicurare Lucia e la informa sull’identità dell’Innominato, a quella rivelazione la ragazza ha un nuovo sussulto e grida al miracolo. Intanto don Abbondio è colto da nuove paure: teme che la mula che sta cavalcando lo getti nel precipizio, che i bravi dell’Innominato lo “martirizzino”, e che don Rodrigo possa incolparlo del fallimento dei suoi piani. Il curato, sempre parlando con se stesso, se la prende dunque con il vescovo, infine stabilisce di affidare alle chiacchiere di Perpetua il compito di riferire a don Rodrigo la propria estraneità ai fatti. Giunto in paese, si avvia poi verso la sua parrocchia senza neppure salutare il cardinale. Appena arrivata a casa, la donna che è la moglie del sarto del paese, fa accomodare Lucia in cucina e incomincia a preparare il pranzo. La fanciulla intanto, ripensando al voto di castità pronunciato la notte precedente, si pente di ciò che ha fatto, ma subito dopo rinnega quel pentimento momentaneo. Nella casa fanno il loro ingresso il sarto e i figli; l’uomo, un popolano amante della lettura, parla diffusamente della predica del cardinale e dell’obbligo alla carità. Poi, per mettere in pratica quelle parole, fa portare da una delle figlie,del cibo a una famiglia povera del vicinato. Intanto Agnese, condotta verso la casa del sarto, incontra don Abbondio che le raccomanda di tacere a proposito del mancato matrimonio; arrivata a destinazione, Agnese riabbraccia la figlia e le due donne possono scambiarsi notizie sugli ultimi avvenimenti. Agnese e Lucia ricevono poi la visita del vescovo e Agnese svela i particolari della vicenda, mettendo l’accento sulle colpe di don Abbondio e omettendo ogni riferimento al matrimonio di sorpresa. Ma Lucia, per amore di verità, rivela anche quell’aspetto. Al termine del colloquio, Federigo sene va promettendo di cercare notizie di Renzo. Parlando poi con il parroco, Federigo decide che, per ricompensare il sarto, pagherà i debiti che gli abitanti del villaggio hanno contratto con lui. Rientrato al castello, l’Innominato convoca i suoi bravi e comunica loro la sua conversione dando nuove disposizioni affinché nei suoi territori non si commettano più violenze e iniquità. I bravi accolgono il cambiamento con atteggiamenti diversi, ma nessuno osa replicare. Infine, dopo aver ritrovato la forza e le parole per pregare, l’Innominato si addormenta.
CAPITOLO XXV
Nel paesello di Renzo e Lucia, giunge la notizia del rapimento e della successiva liberazione, da parte dell’Innominato, di Lucia. All’udire il racconto di quei fatti, la gente trova il coraggio per manifestare il suo odio verso don Rodrigo, il potestà, Azzeccagarbugli e tutti gli altri amici del signorotto. Il cardinale Federigo annuncia una visita al paesello e don Rodrigo, per non dovergli rispondere del rapimento di Lucia, parte alla volta di Milano accompagnato dal Griso e dagli altri bravi. Gli abitanti del villaggio di Renzo e Lucia accolgono festosamente il vescovo in visita; solo don Abbondio, infastidito da tutta quell’animazione e preoccupato per i possibili rimproveri di Federigo, non condivide la gioia generale. Dopo un primo colloquio tra il cardinale e il curato, viene inviata una lettiga alla casa del sarto per riportare Agnese e Lucia al paese, onde discutere con loro di una futura sistemazione. Durante la loro permanenza presso la casa del sarto, Agnese e Lucia ritrovano una certa serenità, sebbene i discorsi su Renzo restino molto tristi. Lucia rimane sempre al riparo da sguardi indiscreti, ma, cedendo alle insistenze dell’aristocratica donna Prassede, è costretta a recarsi nella villa di quest’ultima per un incontro. Donna Prassede, incuriosita dalla vicenda di Lucia, offre ospitalità e riparo alla giovane. L’intento però della nobildonna non è però solo quello di proteggere la ragazza, ma anche quello di indurla a dimenticare quel Renzo che, secondo donna Prassede è un poco di buono. Scopriamo così che donna Prassede è una superficiale che esercita la carità senza realmente volere il bene del prossimo. Ottenuto l’assenso da parte di Lucia, la nobildonna fa redigere dal marito, don Ferrante, una lettera indirizzata al vescovo, nella quale si comunica la soluzione adottata per la protezione di Lucia. Tornate al paese, Lucia e Agnese incontrano immediatamente il vescovo, il quale, letta la missiva di donna Prassede, accetta quella soluzione. Uscite dalla canonica le due donne vengono accolte con gioia dai compaesani. Inizia un nuovo colloquio tra don Abbondio e Federigo durante il quale quest’ultimo chiede al curato spiegazioni del rifiuto di celebrare il matrimonio. Don Abbondio cerca di mentire, di eludere la domanda, ma alla fine rivela quasi tutto. Il vescovo rimprovera duramente don Abbondio per aver anteposto la paura per la propria vita ai doveri sacerdotali, ma il parroco sembra incapace di comprendere il vero significato delle parole di Federigo.
CAPITOLO XXVI
Continua il dialogo tra don Abbondio e il cardinale, Federigo prosegue nei suoi rimproveri, don Abbondio trova però, in due occasioni, il coraggio di replicare in modo irriguardoso. Alla fine però, il curato è indotto, dalle parole del vescovo, a ripensare criticamente alle proprie azioni. Donna Prassede, dopo aver riverito il cardinale, prende con sé Lucia, la quale dice per la seconda volta addio alla madre e al proprio paese. Il cardinale consegna ad Agnese una somma di denaro inviatale dall’Innominato, la donna accoglie il dono con gioia, ma anche con grande agitazione. Agnese si reca presso la villa di donna Prassede per parlare con la figlia prima che questa parta per Milano. La madre comunica alla figlia la notizia del dono ricevuto e le parla di nuovi progetti di trasferimento assieme a Renzo. Lucia si trova così costretta a confessare la questione del voto di castità; le due donne rimangono incerte su quello che si dovrà fare e convengono solo di inviare a Renzo del danaro una volta avute sue notizie. Al termine del colloquio esse si separano con grande tristezza. Tanto Agnese quanto il cardinale cercano di ottenere notizie di Renzo, ma quelle che ricevono sono vaghe e contraddittorie. A questo punto l’autore torna indietro di qualche tempo per spiegare il motivo di quelle notizie contraddittorie. Saputo che la giustizia ricercava Renzo anche in territorio bergamasco, Bortolo fa trasferire il cugino in un paese limitrofo e lo fa assumere in una filatura sotto il falso nome di Antonio Rivolta. La vicenda al narratore l’occasione per ironizzare sui meccanismi della burocrazia e della giustizia.
CAPITOLO XXVII
Si dà al lettore un quadro più preciso della guerra per il ducato di Mantova e dell’assedio di Casale, vengono descritte le cause, le alleanze e le mosse dei due opposti schieramenti; tutto ciò offre l’occasione per una critica antispagnola e per ripetuti attacchi al personaggio di don Ponzalo. Emergono i motivi che hanno indotto quest’ultimo a protestare con l’ambasciatore veneziano per il ricovero offerto da Venezia a Renzo: nessun interesse particolare per il giovane fuggitivo, ma piuttosto il desiderio di mostrare aggressività verso i “nemici” veneziani. Inizia, tra Renzo e Agnese una corrispondenza epistolare resa difficoltosa dal fatto che i due sono analfabeti; il giovane è costretto ad appoggiarsi ad uno scrivano del paese dove ha trovato rifugio, mentre Agnese si avvale dell’aiuto del cugino Alessio di Maggianico. La donna riesce ad inviare a Renzo parte del denaro donatole dall’Innominato e a fargli sapere del voto di Lucia, Renzo rimane sconvolto dalla notizia, ma, per il momento, egli non può far nulla. Lucia intanto è a Milano nella casa di donna Prassede, la sua ospite, nell’intento di “raddrizzarle il cervello”, continua a denigrare Renzo, ottenendo però l’effetto di risvegliare in Lucia l’amore per il suo promesso. L’attenzione del narratore si sposta su don Ferrante, con molta ironia vengono descritti i suoi libri e i suoi studi riguardanti l’astrologia, la magia, la politica e le regole cavalleresche. Si danno al lettore anticipazioni circa gli eventi ( guerra e peste) che contribuiranno a tenere lontani i protagonisti della vicenda.
CAPITOLO XXVIII
L’autore descrive la situazione a Milano dopo il tumulto di S.Martino: la falsa abbondanza, l’incetta del pane, i tentativi di trovare cereali sostitutivi del grano, in questa occasione il Manzoni torna a criticare i provvedimenti economici presi dagli amministratori milanesi. Vengono descritte le penose conseguenze della carestia: mendicanti ovunque e tra loro anche gente operosa e persino bravi, poi dalle campagne l’arrivo dei contadini in cerca di elemosina, per le strade solo miseria, fame e cadaveri di persone uccise dagli stenti. Di fronte all’inefficienza delle istituzioni, solo l’azione caritativa del cardinale Federigo Borromeo porta un po’ di sollievo ai poveri, ma si tratta pur sempre di un intervento insufficiente. La situazione precipita: anche alcune famiglie potenti perdono le loro ricchezze, mentre cessa del tutto ogni ostentazione di lusso. Intanto, lungo le strade si moltiplicano i morti e i mendicanti ridotti allo stremo. Le autorità invitano i mendicanti a ricoverarsi nel lazzaretto e vi rinchiudono con la forza quelli che non vi si recano spontaneamente. Tra quella moltitudine costretta in poco spazio e in precarie condizioni igieniche scoppiano ben presto epidemie: gli amministratori annullano allora i precedenti decreti e aprono le porte del lazzaretto. Fortunatamente, con l’arrivo della primavera, i contadini tornano alla campagna per la mietitura; le epidemie però continueranno a fare vittime per lungo tempo. Si descrive rapidamente la discesa delle truppe francesi e la sconfitta dello spagnolo don Gonzalo nell’assedio di Casale, si accenna poi alla discesa delle truppe imperiali attraverso la Valtellina. I medici del tribunale di sanità avvertono le autorità del rischio di peste connesso con il passaggio di queste truppe, ma i loro appelli rimangono inascoltati. Intanto don Gonzalo viene rimosso dall’incarico di governatore di Milano e lascia la città tra lo scherno della folla. Comincia il passaggio delle truppe imperiali attraverso il milanese, questo esercito, composto di mercenari interessati solo al saccheggio,provoca distruzione e violenze in tutti i territori attraversati, seminando così il panico tra le popolazioni locali.
CAPITOLO XXIX
Giunge l’annunzio dell’imminente discesa dei lanzichenecchi, e don Abbondio, pur deciso a fuggire, appare disorientato e indeciso tra la fuga sui monti,quella attraverso il lago e quella in territorio bergamasco. Mentre Perpetua si dà da fare per nascondere e salvare i beni di casa, il curato chiede invano aiuto ai compaesani. Agnese, preoccupata di salvare se stessa e il danaro ricevuto in dono, decide di cercar rifugio presso il castello dell’Innominato e propone quella soluzione anche a Perpetua e don Abbondio. La prima accetta entusiasticamente, mentre il secondo avanza dei dubbi. Infine, i tre partono alla volta del loro rifugio, decidendo di fare tappa presso la casa del sarto. Il sarto e la sua famiglia accolgono festosamente i visitatori e dividono con loro i pochi viveri a disposizione. Nel corso del pranzo, il sarto cerca di avviare con don Abbondio un discorso su temi letterari, ma il curato è molto più interessato a chiedere conferme circa l’effettiva conversione dell’Innominato. Con un carro procurato dal sarto, i tre proseguono poi la loro strada verso il castello. Viene quindi descritta la nuova vita dell’Innominato:la sua rinuncia alle armi e ad ogni protezione, il nuovo rispetto della gente, della giustizia e perfino dei vecchi nemici, il disappunto degli ex complici. Si parla infine delle disposizioni date dall’Innominato per la difesa dai lanzichenecchi del suo castello e di tutti coloro che vi hanno trovato rifugio.
CAPITOLO XXX
Don Abbondio, Agnese e Perpetua giungono in prossimità del castello, vedendo il gran numero di persone che cercano rifugio là, il curato comincia a temere che tutta quella folla di rifugiati richiami lassù i lanzichenecchi. Ancora più contrariato si mostra nel vedere gli uomini armati a difesa del castello; don Abbondio sfoga il malumore con le due donne e ne escono alcuni battibecchi. L’Innominato riceve calorosamente i tre fuggitivi e, dopo aver chiesto notizie di Lucia, li guida verso gli alloggiamenti a loro destinati. Viene descritta la vita dei rifugiati al castello: gli allarmi, le spedizioni difensive dell’Innominato e dei suoi armati, l’organizzazione e la distribuzione dei compiti. Si parla poi del lavoro di Agnese e di Perpetua a servizio della comunità e dell’inattività di don Abbondio. Al castello giungono infine notizie sul passaggio delle truppe e dei vari condottieri. Cessato il pericolo i fuggitivi tornano alle loro abitazioni e, ultimi, partono anche Agnese, Perpetua e don Abbondio. Dopo essersi accomiatati dall’Innominato e dal sarto, i tre attraversano in carrozza la campagna e ovunque vedono la devastazione lasciata dai lanzichenecchi. Giunti al paese, i tre trovano le loro case saccheggiate e imbrattate; i beni di don Abbondio, sepolti da Perpetua in giardino, sono stati rubati: ciò provoca dei nuovi battibecchi tra i due. Perpetua scopre poi che alcuni oggetti del curato sono stati rubati da gente del paese; don Abbondio però si rifiuta di chiederli indietro, suscitando le ire della governante.
CAPITOLO XXXI
Il Manzoni spiega i motivi che lo inducono ad aprire una lunga pagina storica sulla peste: il suo scopo è di ricostruire quell’evento, ovviando alla mancanza di sistematicità tipica dei cronisti secenteschi. Dai paesi che circondano Milano giungono le notizie delle prime morti. Inizialmente la causa dei decessi non viene attribuita al contagio, ma dopo una visita sui luoghi della malattia, il Tadino conclude che si tratta di peste . Le autorità e in particolare il governatore Ambrogio Spinola rimangono piuttosto indifferenti al problema; ma anche la popolazione rifiuta l’idea del contagio. Finalmente, il 29 novembre 1629 viene pubblicata una grida che vieta l’ingresso in città di coloro che provengono da paesi ove si è verificato il contagio: ma ormai la peste è già entrata in Milano. E’ descritto ora il primo caso di peste verificatosi in Milano. Vengono prese misure per evitare il contagio, ma la gente, per avidità e paura, riesce ad eluderle. Il contagio si diffonde ma in modo non rapido: la gente rimane scettica e si scaglia contro i medici che mettono in guardia contro la peste, giungendo ad aggredire il medico Lodovico Settala. Si moltiplicano le morti e diviene impossibile negare l’esistenza del morbo; invece di dichiarare la presenza della peste, si parla però di febbri pestilenti : ciò induce a trascurare i pericoli del contagio. I malati portati al lazzaretto si fanno sempre più numerosi, tanto che il lazzaretto stesso diviene ingovernabile: solo l’intervento e il sacrificio di alcuni frati riuscirà a riportare l’ordine in quel luogo. Si parla finalmente di peste, ma si diffonde al tempo stesso l’idea che all’origine del male non vi sia il contatto con gli ammalati, bensì quello con unguenti velenosi. A rafforzare la psicosi dell’untore concorrono due episodi di presunta unzione: l’uno verificatosi in duomo, l’altro lungo le strade cittadine. Malgrado il tribunale di Sanità non creda allo spargimento di veleni, le autorità non smentiscono pubblicamente l’esistenza delle unzioni; mentre vi è addirittura chi continua a negare la pestilenza: l’esposizione di alcuni cadaveri durante una processione convincerà tutti del contrario. In conclusione, il Manzoni riflette sulle mistificazioni di fatti e di parole che hanno condotto ad uno sviluppo così ampio del contagio.
CAPITOLO XXXII
L’Autorità cittadina si rivolge nuovamente al governatore Ambrogio Spinola, ma questi, impegnato nell’assedio della città di Casale, nega ogni aiuto. Si anticipano notizie circa l’esito della guerra: il duca di Nevers rimane signore di Mantova, ma la città viene saccheggiata dai lanzichenecchi. I decurioni chiedono al cardinale Federigo di far svolgere una processione per assicurarsi la protezione divina, ma Federigo rifiuta. Intanto crescono i sospetti delle unzioni e si verificano episodi di linciaggio come quelli ai danni di un vecchio e di tre francesi. Dopo nuove pressioni dei decurioni, Federigo acconsente a far svolgere la processione e a far venerare la reliquia di San Carlo; il lungo corteo vede la partecipazione di popolani, di borghesi, di nobili e di ecclesiastici. Il giorno successivo alla processione si moltiplicano i casi di peste, ma invece di cercare la causa nel contatto fra tanta gente, si dà la colpa agli untori. I lazzaretti si affollano al limite della loro capacità e cominciano a fare la loro comparsa i monatti ( il Manzoni apre una parentesi etimologica sul termine monatto ). Solo con l’opera dei cappuccini, dei sacerdoti, del vescovo e delle poche persone di buona volontà, si riesce a far fronte, fuori e dentro i lazzaretti, alla terribile situazione sanitaria. Nella confusione generale si moltiplicano le violenze commesse dai birri e dai monatti. Cresce anche la pazzia generale e la psicosi dell’unzione; si sospetta di tutti, e vi è persino chi, magari delirando, si accusa delle unzioni. Vengono inventate storie diaboliche e fantasiose, cui persino il Tadino sembra dare credito, i dotti chiamano poi in causa congiunzioni di astri ed altre teorie pseudo-scientifiche. Anche il cardinale comincia a credere agli untori, e gli scettici sono ormai pochi e silenziosi; i magistrati cominciano a cercare e processare i presunti untori: si eseguiranno molte condanne atroci e ingiuste.
CAPITOLO XXXIII
Don Rodrigo, rientrando da una serata con gli amici comincia ad avvertire uno strano malessere, ma nega che si tratti di peste. Il Griso finge di credere alle parole del padrone, ma sta in guardia per evitare il contagio ed approfittare della situazione. Dopo essersi addormentato con fatica, don Rodrigo sogna di trovarsi in una chiesa piena di appestati e di provare, per la pressione della folla, un dolore al fianco sinistro. Sempre in sogno, egli vede fra Cristoforo indicarlo con mano minacciosa. Risvegliatosi, il nobile vede sparire tutte le funeste visioni del sogno, ma non il dolore al fianco: guardandosi quella parte egli scopre un bubbone. Sperando di evitare il lazzaretto, don Rodrigo incarica il Griso di avvertire un chirurgo che ha l’abitudine di tenere nascosti gli ammalati. Il bravo parte, ma invece di ripresentarsi assieme al chirurgo, torna accompagnato dai monatti, i quali immobilizzano don Rodrigo, lo derubano e spartiscono il bottino col Griso. Il traditore inizia a godersi i frutti della rapina, ma, ad un certo punto, si ricorda di aver toccato gli abiti infetti del padrone: la peste lo ucciderà rapidamente, mentre don Rodrigo giungerà ancora vivo al lazzaretto. L’autore ritorna ai primi mesi del 1630 per riassumere le vicende di Renzo. Dopo aver lavorato sotto falso nome, Renzo, non più ricercato dalla giustizia, torna a lavorare con Bortolo, il quale lo dissuade dai suoi propositi di arruolarsi nell’esercito o di ritornare al suo paese. In seguito alla diffusione del contagio anche nel Bergamasco, Renzo si ammala di peste, ma ne guarisce e decide di cogliere l’occasione per ritrovare Lucia. Salutato Bortolo, che dalla peste non è stato colpito, il giovane si avvia alla volta del suo paesello. Ormai immunizzato contro la peste, Renzo attraversa senza timore il paese deserto e desolato, giungendo infine al proprio villaggio. Qui, i ricordi lo assalgono rendendogli triste il ritorno. Procedendo nel villaggio, Renzo incontra Tonio, il quale, ormai vinto dalla peste, non lo riconosce e si limita a ripetere parole insensate. Il secondo incontro è quello con don Abbondio. Il curato, che la peste ha lasciato vivo, ma debole e dimagrito, non appare affatto lieto del ritorno di Renzo, e cerca di indurlo a tornare nel Bergamasco. Ottenuta qualche notizia su Agnese e sulle persone uccise dal contagio (tra le quali c’è Perpetua), Renzo si separa dal parroco. Proseguendo nel suo cammino, Renzo passa accanto alla sua vigna e la vede invasa dalle piante selvatiche, la sua casa non offrirà poi a Renzo uno spettacolo migliore. Renzo decide di chiedere ospitalità per la notte ad un amico, e trova quest’ultimo sano, ma sconvolto dai lutti e dalla solitudine. Il tempo trascorso insieme fa però ritrovare ai due giovani un po’ di serenità. Renzo, sempre alla ricerca di Lucia, si mette nuovamente in marcia alla volta di Milano. Dopo aver camminato tutto il giorno, il giovane trova rifugio in un casolare nel paese di Greco, alle porte della città.
CAPITOLO XXXIV
Renzo entra in Milano corrompendo le guardie dopo che il capo di queste è stato condotto via dai monatti. Camminando per le vie deserte Renzo incontra finalmente un viandante a cui chiedere informazioni, ma l’uomo lo scaccia credendolo un untore. Procedendo, il giovane si sente chiamare da una donna rinchiusa in casa perché sospettata di essere contagiata, e lì dimenticata dalle autorità. Renzo le dona due pani e si incarica di avvertire qualcuno che possa provvedere a lei. Il giovane prosegue lungo la strada e, dopo aver visto una macchina della tortura, assiste al triste spettacolo dei monatti che trasportano i cadaveri su alcuni carri; a quella vista è preso dal timore che tra quei morti possa esservi Lucia. Scorgendo un prete che ha appena finito di confessare un moribondo, Renzo chiede ed ottiene indicazioni sull’ubicazione della casa di don Ferrante, egli comunica inoltre la situazione della donna segregata in casa, per cui il sacerdote si incarica di avvertire chi di dovere. Renzo si inoltra nella città desolata le cui strade sono ingombre di cadaveri e di resti infetti di appestati; i pochi superstiti si aggirano con aria guardinga evitando qualsiasi contatto. Gli unici rumori che risuonano sono i tintinnii dei campanelli e le urla dei malati e dei monatti, continuamente impegnati a trasportare infermi e cadaveri. Solo il suono delle campane rasserena, di tanto in tanto, gli animi. Da una delle case, Renzo vede uscire una donna con in braccio una bambina, Cecilia, morta, ma vestita a festa. La giovane madre dona del danaro ad un monatto e gli fa promettere di non spogliare il cadavere della figlia; poi, adagiato il corpicino sul carro, si ritira in casa e dalla finestra, con un’altra figlia malata in braccio, guarda la partenza del convoglio attendendo la morte. Dopo aver assistito ad alcune scene di ammalati inviati al lazzaretto, Renzo giunge finalmente alla casa di don Ferrante, dove una donna gli dice in malo modo che Lucia è anch’essa al lazzaretto. Renzo si sofferma esitante davanti alla casa di don Ferrante, e una donna, ritenendo il suo atteggiamento sospetto, lo accusa a gran voce di essere un untore. I passanti iniziano ad inseguirlo, ma il giovane trova rifugio su un carro di cadaveri. I monatti alla guida del carro lo accolgono con giubilo, ed assieme alla loro turpe ma festante compagnia Renzo percorre la strada fino al lazzaretto. Giunto davanti al lazzaretto, Renzo vede davanti a sé la scena allucinante degli ammalati ormai deliranti. Uno di questi ruba ai monatti un cavallo e vi monta in groppa lanciandolo al galoppo. Tra la confusione generale il giovane entra al lazzaretto.
CAPITOLO XXXV
Renzo entra nella sezione maschile del lazzaretto e rimane sopraffatto dalla visione apocalittica di ammalati e di cadaveri. Vede cappuccini e monatti, ma non chiede informazioni a nessuno. Prosegue nella sua ricerca sotto un cielo nuvoloso e in un calore afoso che accresca il dolore di quel luogo. Nel suo peregrinare, Renzo giunge ad uno steccato e, al di là di quello, vede il reparto infantile del lazzaretto, dove alcune balie allattano e curano i piccoli orfani, aiutate in questo da alcune capre. Girando ancora per il lazzaretto, Renzo scorge con sorpresa fra Cristoforo, che ha ottenuto di farsi trasferire da Rimini a Milano per curare gli appestati. Il frate ha in volto i segni della peste,ma il suo fervore caritativo non è diminuito. I due si siedono insieme a mangiare e il giovane mette fra Cristoforo al corrente delle varie vicende senza però informarlo del voto di Lucia. Da lui, Renzo ottiene poi il permesso di visitare la sezione femminile, ma non prima di aver guardato se la fanciulla si trova tra i convalescenti che stanno per radunarsi e lasciare il lazzaretto. Padre Cristoforo esorta Renzo alla rassegnazione nel caso Lucia fosse morta, ma il giovane reagisce dando in escandescenze e minacciando vendette contro don Rodrigo. La replica del frate è durissima: egli chiama Renzo scellerato e gli ricorda che solo Dio può premiare e punire. Vedendo che il giovane è tornato a più miti consigli, fra Cristoforo, facendo alcuni riferimenti alla propria vicenda personale, lo invita a riflettere sul perdono cristiano, che deve essere sincero e definitivo. Dopo che Renzo ha espresso il suo perdono per don Rodrigo, il frate lo conduce in una capanna dove giacciono alcuni ammalati. Uno di questi è proprio don Rodrigo, il quale, privo di conoscenza e scosso da violente contrazioni, è ormai moribondo; dopo una prima istintiva reazione di rifiuto, Renzo si associa a fra Cristoforo nella preghiera per la salvezza del nobile. Infine, accomiatatosi dal frate e con l’animo più disposto alla rassegnazione, Renzo riprende la ricerca di Lucia.
CAPITOLO XXXVI
Renzo, pregando per la salute di Lucia e la salvezza di don Rodrigo, si avvia verso la cappella del lazzaretto per cercare la fanciulla tra i convalescenti che stanno per lasciare il campo. Padre Felice, nella sua predica ai convalescenti, raccomanda loro l’aiuto reciproco e la sobrietà nella gioia per la guarigione; egli chiede poi perdono ai presenti per le mancanze sue e dei suoi confratelli. Renzo assiste alla processione dei convalescenti che si avviano all’uscita, ma tra essi non vede Lucia e svanisce così la speranza di trovarla completamente guarita. Entrato nella sezione femminile, Renzo si lega al piede un campanello da monatto per giustificare la sua presenza lì, ma quell’espediente si rivela subito fonte di guai e il giovane si nasconde tra due capanne per togliersi il campanello. Durante quell’operazione il giovane sente la voce di Lucia provenire da una delle due capanne, entrato nella capanna, Renzo vede Lucia, ormai guarita, nell’atto di assistere un’altra donna. Dopo i primi istanti di emozione, la giovane si mostra dura con Renzo e ribadisce la propria fedeltà al voto di castità. Tra i due promessi sposi si accende una disputa, ma né le parole di Renzo, né il riferimento al precedente colloquio con fra Cristoforo, né la necessità di pregare insieme per don Rodrigo, valgono a smuovere Lucia dai suoi propositi. Il giovane si allontana dunque in cerca del frate, mentre la fanciulla rimane con la sua compagna, un’agiata mercantessa. Renzo fa ritorno alla capanna di Lucia accompagnato da fra Cristoforo. Il cappuccino fa notare alla fanciulla il tradimento della promessa di matrimonio operato attraverso il voto alla Madonna; egli la scioglie quindi dal voto stesso e la invita a tornare ai pensieri di una volta, quelli del matrimonio con Renzo. Fra Cristoforo rivolge poi ai due promessi un discorso in cui richiama agli obblighi fondamentali degli sposi cristiani; in conclusione egli dona a Lucia, quale ricordo e monito, il pane ricevuto dal fratello del nobile da lui ucciso trent’ anni prima. Dopo essersi preoccupato della sistemazione in Milano di Lucia, e dopo aver ricevuto dalla mercantessa assicurazioni in proposito, padre Cristoforo abbandona la capanna e porta con sé Renzo. Per Renzo giunge quindi il momento di lasciare il lazzaretto, e il frate si accomiata da lui con parole che lasciano intendere la sua prossima fine e la sua speranza nella vita eterna.
CAPITOLO XXXVII
Uscito dal lazzaretto, Renzo si incammina verso il proprio paese, mentre dal cielo cominciano a cadere le prime gocce di pioggia; ma niente può turbare la sua gioia: durante il cammino non fa che compiacersi della risoluzione dei problemi e dei lieti progetti per il futuro. Incurante dell’acquazzone e della stanchezza, il giovane prosegue il suo viaggio per tutta la notte; il mattino successivo è in casa dell’amico che lo aveva ospitato in precedenza. A questi, Renzo offre il suo aiuto in alcuni lavori e racconta le sue molte peripezie. Il giorno successivo al suo ritorno in paese, Renzo si reca a Pasturo. Là trova Agnese in salute e la informa degli ultimi avvenimenti, insieme decidono che, a matrimonio avvenuto, la famiglia si trasferirà nel Bergamasco. Renzo torna per alcuni giorni nel paese del cugino Bartolo, dopo aver constatato che anche questi ha evitato la peste, il giovane prende accordi per tornare al lavoro e trova la casa nella quale trasferirsi dopo il matrimonio. Renzo e Agnese, tornati entrambi al paese, attendono ansiosamente l’arrivo di Lucia. La donna riprende le sue solite occupazioni, mentre il giovane aiuta l’amico e la futura suocera a lavorare la terra. Renzo, che ormai non teme più la giustizia, racconta la sua storia ai compaesani, ma evita di parlare con don Abbondio per non inimicarselo ulteriormente. Frattanto Lucia e la mercantessa trascorrono il periodo di quarantena in casa di quest’ultima, occupate nella realizzazione del corredo della giovane. Dalla mercantessa, Lucia viene informata della condanna e del pentimento di Gertrude, dai cappuccini invece riceve la notizia della morte di fra Cristoforo. Si parla poi della morte di donna Prassede e di don Ferrante. Quest’ultimo, con sottili quanto errati discorsi filosofici, ha negato fino alla fine l’esistenza del contagio; fedele ai suoi principi, l’uomo ha rifiutato di prendere precauzioni e si è quindi ammalato.
CAPITOLO XXXVIII
Agnese e Renzo possono finalmente rivedere Lucia, giunta in paese assieme alla mercantessa; pur senza grandi effusioni, i due giovani si scambiano parole piene d’affetto. Renzo cerca di fissare una nuova data per le nozze, ma don Abondio, che ancora teme don Rodrigo, sostiene che è più prudente rimandare fino a che non sia stato annullato l’ordine di cattura emesso contro il giovane. Dopo aver riferito alle due donne l’esito del colloquio con il parroco e dopo aver accompagnato Lucia e la mercantessa in una passeggiata, Renzo se ne va senza dire dove. Le tre donne si recano da don Abbondio per cercare a loro volta di smuoverlo, ma anche i loro tentativi sono vani. Il curato cambia però opinione quando Renzo giunge in canonica, assieme al sacrestano Ambrogio, portando la notizia della morte certa di don Rodrigo e dell’arrivo del suo erede. Dopo aver manifestato il suo sollievo per quella morte, don Abbondio, colto da improvvisa allegria, si abbandona a chiacchiere e a battute scherzose. Don Abbondio riceve la visita del marchese erede di don Rodrigo; l’uomo si mostra affabile e generoso, e, avendo saputo dal cardinale Federigo della persecuzione di don Rodrigo ai danni di Renzo e di Lucia, chiede il modo per riparare ai torti subiti dai due giovani. Il curato gli suggerisce di acquistare i loro beni ad un prezzo equo. Mentre si recano in casa di Lucia per proporre l’affare, don Abbondio chiede al marchese di far cancellare la cattura contro Renzo. Giunto a casa di Lucia, dove si trova anche Renzo, il marchese concorda un prezzo molto elevato per l’acquisto dei beni dei due sposi, poi invita la compagnia a festeggiare le nozze con un pranzo nel suo palazzotto. Celebrate finalmente le nozze, gli sposi, con Agnese e la mercantessa, si recano nel palazzotto per il pranzo: il marchese li accoglie affabilmente, ma non pranza con loro. Al termine del banchetto nuziale, viene stipulato, davanti al notaio che ha sostituito il defunto Azzecca-garbugli, l’atto di vendita delle proprietà di Renzo, Lucia ed Agnese. Renzo già pensa a come investire i denari ricevuti. Dopo aver salutato affettuosamente tutte le persone care, Agnese, Renzo e Lucia si trasferiscono al paese di Bortolo. Qui però, cominciano a moltiplicarsi le critiche su Lucia e Renzo entra in contrasto con la gente del luogo. Renzo e Bortolo acquistano un filatoio in un altro paese del bergamasco e vi si trasferiscono. Qui, invece delle critiche, Lucia riceve complimenti; anche l’attività economica, iniziata in modo un po’ stentato, diventa florida e per Renzo e Lucia si prepara una vita serena allietata dalla nascita di numerosi figli. Meditando sulle loro vicissitudini, Renzo e Lucia comprendono di aver imparato ad accettare le disavventure e a confidare nell’aiuto di Dio.
b. Il discorso narrativo
Potremmo definire "a cannocchiale" la struttura dei Promessi Sposi, per l'ampliamento della prospettive che, dai primi capitoli chiusi nell'ambito ristretto del paese dei protagonisti, coinvolge spazi sempre più ampi e fatti storici di portata europea.
• I primi otto capitoli (I-VIII) costituiscono la sezione borghigiana, perché luogo dell'azione è il borgo dove vivono Renzo e Lucia. Qui la storia prende inizio con la mancata celebrazione delle nozze, qui risiedono i personaggi d'invenzione, che sono presenti per tutto lo svolgimento della storia: i promessi sposi, la madre della ragazza, Agnese, il parroco del paese, don Abbondio e, naturalmente, il persecutore don Rodrigo, che vive in un palazzotto poco distante. Cronologicamente la sezione borghigiana presenta una narrazione molto lenta e un numero assai elevato di fatti, concentrati in quattro giorni, dal 7 al 10 novembre 1628.
• La seconda sezione e la terza sezione del romanzo comprendono rispettivamente i capitoli IX-XVII e XVIII-XXVI. Le storie dei fidanzati divergono: Lucia viene a contatto con i personaggi "storici" (la monaca di Monza, l'innominato, il cardinal Borromeo, dopo la sua liberazione). La ragazza svolge, del tutto inconsapevolmente, il ruolo di strumento della Provvidenza, perché ha una parte significativa nella conversione dell'innominato. Le scene che la vedono protagonista si svolgono in spazi chiusi (il convento, il castello, la casa del sarto dove viene ospitata dopo la liberazione). Il tempo in cui vive le sue avventure è decisamente indeterminato. Renzo, invece, si muove in spazi aperti: Milano, la campagna lombarda, l'Adda, il territorio di Bergamo. Egli rimane coinvolto nei tumulti contro il carovita nel capoluogo lombardo, dove, nell'arco di due giorni (11 e 12 novembre) partecipa alla rivolta, si ubriaca, litiga con un ospite, si fa credere un rivoltoso, cade nella trappola di una spia, si fa arrestare, ma riesce a scappare. Il 13 novembre eccolo libero in territorio bergamasco, alla volta del cugino Bortolo, presso cui si ferma una quantità di tempo non specificata.
• La quarta e quinta sezione sono costituite rispettivamente dai capitoli XXVII-XXXII e XXXIII-XXXVIII. Vi sono descritte, seguendo le cronache del tempo, senza risparmiare dettagli e particolari, la carestia nel Milanese, la guerra per il possesso di Mantova (episodio "italiano" della guerra dei trent'anni che insanguina l'Europa) e la peste che i soldati imperiali (i famigerati lanzichenecchi) diffondono nel ducato e nelle zone circostanti. Renzo guarisce dalla malattia e torna a Milano in cerca di Lucia. Dopo che l'ha trovata , si reca al paese. I loro destini si ricongiungono e finalmente ecco celebrate le nozze. I personaggi essenziali alla storia ci sono tutti: i fidanzati, in primo luogo, la madre Agnese e poi don Abbondio. Il respiro narrativo si fa ampio e compare anche una lunga ellissi (infatti non viene raccontato nulla di ciò che accade ai nostri eroi nell'anno 1629) che fa scorrere velocemente il racconto. Però le parti in cui vengono illustrate le cause dei tre flagelli sono molto dense e asciutte, veri resoconti storiografici che appesantiscono il ritmo e hanno indotto il critico e filosofo Benedetto Croce (1866-1952) a considerarle pagine assolutamente prive di poesia, se non addirittura superflue (Benedetto Croce che, in un saggio del 1952, nega decisamente il carattere poetico del romanzo, sostenendo che troppo rigido e intransigente è il moralismo manzoniano, mentre lo stile indulge all'oratoria e le parti storiche risultano pesanti).
Potremmo aggiungere che la struttura a cannocchiale implica anche una struttura "ad anello", poiché la storia parte dal borgo, si snoda lungo una serie di direttrici spaziali che coinvolgono l'intero ducato di Milano, ma ritorna al borgo‚ dove le nozze vengono finalmente celebrate, con due anni di ritardo sul programma iniziale. Proviamo a visualizzare il percorso:
Capitoli
I-VIII
IX-XVII
XVIII-XXXVI
XXXVII-XXXVIII
Avvenimenti di Renzo
Nozze mancate al borgo
Renzo: Milano e poi Bergamo
Guerra - Carestia - Peste
ritorno al borgo
Avvenimenti di Lucia
Lucia a Monza
Lucia al castello dell'innominato
Lucia a Milano e al lazzaretto
nozze al borgo
Come si può notare l'intreccio‚ (ossia la disposizione degli avvenimenti scelta dall'autore) è piuttosto complesso, perché tiene conto della necessità di elaborare flash-back che illustrino al lettore alcuni antefatti. Perciò non sempre coincide con la naturale sequenza dei fatti, che si chiama fabula. Lo vediamo, ad esempio, nei punti in cui l'autore racconta la vita di alcuni personaggi. Nel IV capitolo viene illustrata la giovinezza di padre Cristoforo e un tragico episodio, fondamentali per comprenderne il carattere e le scelte importanti che stanno alla base del suo atteggiamento in difesa degli umili. Allo stesso modo due capitoli (il X e l'XI) raccontano la lunga serie di maneggi che riescono a costringere Gertrude alla clausura nel convento di Monza; la storia dell'innominato viene sintetizzata (cap. XIX) per meglio illustrare la portata della sua "conversione", mentre la vita del cardinal Borromeo viene proposta (cap. XXII) quasi come il modello di comportamento cristiano. Si aggiungono le digressioni circa le condizioni del Milanese nel Seicento, la situazione sociale, le classi e il sistema di governo. Ancora la narrazione viene interrotta per spiegare la causa dei tumulti per il caro-pane, la causa della calata dei lanzichenecchi, il diffondersi della peste tra l'ignoranza, l'incompetenza e la superstizione sia della popolazione che degli addetti alla tutela della salute pubblica. Nei confronti della vicenda l'autore si propone come narratore onnisciente, ossia al di sopra della storia, già al corrente di "come andrà a finire" e quindi in grado di formulare giudizi, sdrammatizzare con toni pacati, intervenire ironizzando sulle reazioni emotive dei personaggi. La sua è una focalizzazione zero, in quanto, essendo al di fuori degli avvenimenti, e osservandoli criticamente, come un regista che dirige l'allestimento di una scena, non assume il punto di vista di alcun personaggio, ma valuta con imparzialità. Talvolta l'autore interviene direttamente, apostrofando il pubblico: "Pensino ora i miei venticinque lettori..." (cap. I) oppure esprimendo un chiaro giudizio morale: "Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre)...". (cap. X); o ancora come quando introduce l'ironia (che corrisponde a un giudizio, pur sfumato e temperato) per sottolineare la denuncia di Agnese all'arcivescovo delle scuse addotte da don Abbondio per rimandare le nozze: "non lasciò fuori il pretesto de' superiori che lui aveva messo in campo (ah, Agnese!)" (cap. XXIV). Quella dell'autore però, non è l'unica voce narrante del romanzo: non dimentichiamo la finzione del manoscritto. Infatti Manzoni immagina di trascrivere un libro elaborato da un Anonimo e, all'occasione, si trincera dietro le responsabilità di quello. Per esempio, quando non vuole rivelare il nome dell'innominato (che, in tal modo, risulta più misterioso e suggestivo), dice, riferendosi anche alla località in cui sorge il castello: "Tale è la descrizione che l'anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo...". Infatti il signorotto sta recandosi dall'innominato per chiedergli di rapire Lucia dal convento di Monza. Capita, però, che l'autore si cali nei personaggi, assumendone il punto di vista: non è la posizione prevalente, ma ogni tanto succede che il narratore adotti una focalizzazione interna. Lo notiamo nei monologhi di Renzo in fuga: "Io fare il diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io!..." (cap. XVII).
c. Il sistema dei personaggi
DON ABBONDIO
Don Abbondio non era nato con un cuore di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato". "... non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto... d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro". Don Abbondio è senz'altro il personaggio più popolare dei Promessi Sposi. E' la figura con cui il Manzoni ha dispiegato, nelle forme più varie, tutta la sua virtù comica, la sua capacità ritrattistica, le sue doti fantastiche ed umane.Trovatosi a vivere in una società retta da prepotenti, don Abbondio si è fatto prete senza riflettere sugli obblighi e sugli scopi della missione sacerdotale, badando soltanto a procurarsi una vita agiata e tranquilla. Ciò che governa la sua condotta è la paura, che, unita alla coscienza della propria debolezza e ad un morboso attaccamento alla vita, lo rende egoista ed irragionevole. Per la paura non vede più la luce della verità, non ode più la voce del cuore e della mente, non segue la via del dovere. Uomo angusto, soggiogato dal terrore e dal sospetto, vive schiavo delle minuzie della vita; privo di volontà, cede a tutti, dopo breve resistenza; incapace per natura a compiere il male, per viltà si fa complice e strumento dei violenti. E' privo di cultura, è attaccato al denaro, è diffidente di tutti..... Eppure, da questo spirito così meschino, il Manzoni ha ricavato il suo personaggio più attraente. Il ritratto sapiente ed arguto è splendido di note fisiche e spirituali, di colori etici e storici, sicchè, per mezzo di don Abbondio, non solo l'autore delinea con profonda psicologia una figura eterna di uomo, ma penetra ad indagare gli aspetti più vari di un'età perversa e violenta.
RENZO
Renzo "era, fin dall'adolescenza, rimasto privo de' parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta"; possedeva inoltre "un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato". "Era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d'ogni insidia; ma, in que' momenti, si figurava di prendere il suo schioppo, d'appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai don Rodrigo venisse a passar solo". Anima semplice ed ottimista, Renzo conosce il male del mondo nei soprusi degli uomini potenti, ma non è disposto a lasciarsi piegare da loro. Di fronte alle sopraffazioni e alle violenze, il suo animo pacifico non pensa che alla vendetta e all'omicidio. Ma da questo lo terranno sempre lontano la sua innata onestà ed il forte sentimento religioso. Anch'egli, infatti, come Lucia, trova nella fede la guida della vita ed il conforto della sventura. Renzo è un ingenuo che conosce poco del mondo e quindi facile ad esser preso dagli avvenimenti esterni, ma nello stesso tempo è abbastanza accorto ed intelligente per cavarsi d'impaccio o mettersi in salvo. Ma ciò che colpisce è la sua bontà e la sua generosità. Egli, infatti, si commuove davanti ai poveri e dà loro quello che ha; si commuove e prega di fronte alla madre di Cecilia e davanti a don Rodrigo agonizzante, perdonandogli tutto il male ricevuto. Magistralmente Renzo è anche ritratto nel suo amore per Lucia, a cui è legato da una fedeltà assoluta, da una dedizione totale. E proprio nel dipingere quest'amore, il Manzoni raggiunge alcune delle espressioni più alte della sua poesia. L'autore ama il suo Renzo, si immedesima in lui e ne fa una delle creazioni più grandi della nostra letteratura per il candore e la fede, per la semplicità e la bontà, per il cuore giovanile e ardente.
LUCIA
"Lucia s'andava schermendo, con quella modestia un po' guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi neri sopraccigli, mentre però la bocca s'apriva al sorriso". Oltre all'ornamento particolare del giorno delle nozze, "Lucia aveva quello quotidiano d'una modesta bellezza, rilevato allora e accresciuto dalle varie affezioni che le si dipingevano sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quando in quando sul volto della sposa, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare": Lucia è il personaggio più amato dal Manzoni, quello per cui l'autore dice di sentire "un po' di affetto e di reverenza". Una creatura, quindi, che il poeta ha voluto presentarci sotto una luce ideale, pur mantenendola nella realtà dei sentimenti e degli atteggiamenti di una giovane contadina, semplice ed intelligente, religiosa ed innamorata. Il lavoro, la preghiera ed il pianto sono gli atteggiamenti più poetici di Lucia. Lavora nel suo paese, lavora nel monastero a Monza, lavora nel palazzo di donna Prassede. Prega assiduamente ed intensamente, quando ogni speranza terrena sembra crollare, ogni aiuto umano scomparire; la preghiera è il porto sicuro, è la riconquista della calma e della fiducia. Piange, ed il pianto è la sua arma, e le sue lacrime sono più eloquenti di ogni parola. C'è in Lucia anche un altro motivo stupendamente umano e poetico: la lotta, o meglio l'accordo, fra il dovere religioso ed il legittimo sentimento d'amore. Ella ama il suo promesso sposo con amore intenso, vivissimo. Un amore che dopo il voto si rivela ancor più insopprimibile, quando la volontà vorrebbe dimenticare ed il cuore corre alla persona amata.
PERPETUA
"Era Perpetua la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolio e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerare le proprie, che divenivano di giorno in giorno più frequenti. Aveva da tempo passata l'età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche". Perpetua rappresenta un complemento indispensabile del più attraente dei personaggi maggiori: don Abbondio. Perpetua, la governante, è davvero la protettrice del curato. Quanto più egli rivela la sua nullità, tanto più pronta, decisa, sicura è lei. Ma la serva non è solo il sostegno morale del suo padrone. Lo è anche artisticamente, perchè le tonalità della figura di don Abbondio sono sempre sottolineate, accentuate dall'ombra costante, dall'antitesi sicura di Perpetua: lui discute e lei agisce; lui non sa a che santo rivolgersi e lei ha pronti i suoi pareri; lui è sempre disposto alla soggezione e lei, nel buon senso di popolana, è ribelle, energica, sbrigativa
AGNESE
"Agnese, co' i suoi difettucci, era una gran brava donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell'unica figlia, Lucia, in cui aveva riposta la sua compiacenza". Al nome riverito del Padre Cristoforo, lo sdegno d'Agnese si raddolcì. "Hai fatto bene", disse, "ma perchè non raccontar tutto anche a tua madre?". Lucia aveva avute due buone ragioni: l'una, di non contristare nè spaventare la buona donna...; l'altra, di non mettere a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta". Agnese viene rappresentata dal Manzoni come un'esperta conoscitrice del mondo e del genere umano. E' lei, infatti, che escogita alcune delle soluzioni più ingegnose, come quella di mandare Renzo da Azzeccagarbugli, o di celebrare il matrimonio clandestino. Accorta e giudiziosa, pronta e sicura, sa dare giuste risposte a tutti. Agnese è ben lontana dai sentimenti delicati e dalla rettitudine della figlia, ed il Manzoni è attento ed abilissimo nel creare giochi di contrasto fra la madre impulsiva e pratica e la figlia delicata e piena di timor di Dio. Eppure sono quegli umani difetti che fanno Agnese vicina a noi, attraente e simpatica: la sua incapacità di tacere, la superficialità di certe valutazioni morali, l'impulsività nel risentimento e nella stizza, la vanità e la testardaggine. E' un personaggio amabile proprio perchè ritratta dal Manzoni con i colori più attraenti e simpatici nella sua spontaneità comaresca e popolana.
DON RODRIGO
"Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito, don Rodrigo uscì, e andò passeggiando verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan rasente al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non rispondeva". Don Rodrigo è il tipo comune del signorotto prepotente e spregiudicato che, pur di soddisfare puntigli e passioni, si considera padrone di far tutto ciò che vuole e giudica tutti a sè sottoposti. Un tipo di uomo di ogni tempo, ma che in quel secolo, quando la legge era incapace di proteggere l'oppresso e di colpire l'oppressore, circondato di bravi, adulato e riverito da coloro che avrebbero dovuto essere i naturali esecutori della legge, cinico e volgare, privo di ogni freno morale e religioso, poteva commettere le violenze che voleva. Ha gli stessi difetti della gente del suo rango: l'orgoglio smisurato, l'ozio, la mania dei banchetti, della caccia e delle passeggiate, il gusto delle avventure galanti, preferibilmente nel proprio ambiente, ma con qualche escursione nell'ambiente plebeo, per ammazzare la noia. Tuttavia il comportamento di don Rodrigo, se può trovare una giustificazione storica, non merita nessuna scusa sul piano morale. Eppure, forse per i buoni sentimenti che esistono naturalmente in ogni uomo e che, nel caso del signorotto, erano sedimentati nel fondo della sua coscienza, quando è colpito a morte dalla peste, il Manzoni lo fa ricoverare sotto le grandi ali del perdono di Dio, perdonato da Renzo e assolto da chi era stato da lui chiamato "villano temerario, poltrone incappucciato".
PADRE CRISTOFORO
"Il Padre Cristoforo era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant'anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava attorno, secondo il rito cappuccino, s'alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d'altero e d'inquieto; e subito s'abbassava, per riflessione d'umiltà". Padre Cristoforo è la figura che personifica l'ideale cristiano della carità e del sacrificio. Tutta la sua esistenza è dominata dall'amore, che lo fa sollecito verso gli umili, ardimentoso di fronte ai violenti, vedendo, negli uni e negli altri, creature da avviare a vita eterna dopo il breve cammino terreno. Per il trionfo della giustizia, Padre Cristoforo non si limita a dare consigli, ma agisce continuamente. Per questo motivo è uno dei personaggi più ricchi di vicende e di atteggiamenti. Dal duello alla conversione, dalla protezione di Lucia all'affronto di don Rodrigo, dall'ubbidienza ai superiori alla missione nel lazzaretto, fra Cristoforo è al centro del grande motivo della lotta fra il bene e il male, e più di ogni altro agisce per avviarlo a soluzione. Il messaggio di perdono e di amore del cristianesimo, accompagnato dalla fede nell'opera assidua della Provvidenza, non poteva trovare banditore più eloquente, convincente ed efficace.
GERTRUDE
"Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita, direi quasi scomposta... Due occhi neri... si fissavano talora in viso alle persone, con un'investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d'un odio inveteraro e compresso". Gertrude è vista dal Manzoni in un'acuta indagine psicologica, che penetra nelle pieghe più segrete del cuore, con profondo e pensoso atteggiamento morale, sdegnoso di fronte alla violenza compiuta sui diritti della natura e sulla fragilità di una creatura umana. La cupa realtà del maggiorasco, l'insensibilità degli uomini di fronte all'interesse della classe, l'assolutismo di un padre sordo alle voci più umane, la debolezza di una creatura incapace di affermare fino al sacrificio l'inviolabilità dei suoi diritti e dei suoi doveri, sono tratteggiati con sapienza profonda di psicologo e mano leggera d'artista. Nata per la libertà, per l'amore, per la gioia di vivere, Gertrude viene costretta a chiudersi in un mondo che è l'opposto di quello sognato, con un rancore che si fa odio verso tutti, con un rimpianto che diviene assillante tormento, con un cuore refrattario ad ogni voce di rassegnazione e di benefica fede.
IL DOTTOR AZZECAGARBUGLI
"Non facciam niente", rispose il dottore, scotendo il capo". "Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle". Il dottor Azzeccagarbugli è un uomo servile, corrotto, ipocrita, "è la mente che serve di potere" a don Rodrigo e ai suoi bravi. Il suo studio è una cornice degna del decadimento fisico e morale del personaggio: è uno stanzone, su tre pareti del quale sono appesi i ritratti dei dodici Cesari, tutti rappresentanti del potere assoluto, considerato sacro e inviolabile nel '600; sulla quarta parete è appoggiato un grande scaffale di libri vecchi e polverosi; nel mezzo è una tavole gremita di carte alla rinfusa, con tre o quattro seggiole all'intorno, e da una parte un soggiolone a braccioli piuttosto malandato. Esaminando il comportamento del dottore nell'esercizio della sua professione, si ha ben chiara l'idea di come funzionava la giustizia nel '600, in pieno regime feudale. Le "gride" erano tante e tutte comminavano pene severissime, per qualsiasi infrazione. Ma esse valevano per i poveri diavoli, senza protettore. I signorotti e gli uomini a loro servizio potevano "ridersi" delle leggi, perchè, col terrore o la corruzione, e con l'aiuto di avvocati senza scrupoli al loro servizio, riuscivano ad eluderle e a farla franca.
L’INNOMINATO
Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de' sessant'anni che aveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita de' lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e d'animo, che sarebbe stata straordinaria in un giovine". Fin dalla sua prima presentazione, l'Innominato appare subito come una figura misteriosa.Temperamento volitivo fin dall'adolescenza, con l'ansia di esser superiore a tutti d'ardire e di costanza, le parole e le frasi che ne ritraggono l'esistenza hanno tutte una forza e un colorito fantastico particolare. Nel momento in cui fa rapire Lucia, egli attraversa una profonda crisi interiore. Disgustato dai passati delitti, incerto del futuro, comincia a porsi delle domande sul giudizio divino. Al vedere la carrozza che trasporta la ragazza rapita mentre sale verso il castello, avverte un oscuro presentimento, quasi una premonizione. Il suo bravo più spietato poi, gli rivela di aver avuto compassione della rapita, ed il fatto gli pare strano, incredibile.Ma l'Innominato è curioso di vedere la giovane in grado di suscitare tali sentimenti. Le parole sulla misericordia divina che la prigioniera gli dice rimangono impresse nella sua memoria. Trascorre la notte nel tormento, angosciato dal male fatto, dall'idea del suicidio, dal timore di essere giudicato da Dio, poi l'alba lo trova affacciato alla finestra, a guardare il risvegliarsi della gente... Egli scende in paese solo e disarmato e si reca alla canonica, dove è ricevuto con timore e titubanza, poi avviene l'incontro memorabile che vede la conversione del potente signore. Sono queste le pagine del romanzo in cui la poesia dell'anima, segnata in tutte le sue sfumature, raggiunge l'espressione più alta. E' il motivo della voce del bene che parla nel cuore dell'uomo.L'Innominato sarà forte e determinato nella sua vita di benefattore come lo è stato nei suoi trascorsi di criminale.
IL CARDINALE FEDERIGO BORROMEO
"Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu uno degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una grand'opulenza, tutti i vantaggi d'una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell'esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, va limpido a gettarsi nel fiume". Il Cardinale Federigo Borromeo è l'uomo che la Provvidenza ha scelto per avviare a lieta conclusione le vicende del romanzo e per portare ovunque il calore di un mondo migliore. Sullo sfondo di una umanità perversa e meschina, Federigo si eleva con la calma che nasce dalla consapevolezza dell'unica vera norma della vita e con la risolutezza dell'uomo che intende veramente lo scopo della sua esistenza. La sua condotta è sempre determinata dalla carità, che lo fa franco nell'azione, eloquente nella parola, grave nell'ammonimento, umano nella comprensione.
IL GRISO
"L'uomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo de' bravi, quello a cui si imponevano le imprese più rischiose e più inique, il fidatissimo del padrone, l'uomo tutto suo, per gratitudine e per interesse". Il Griso è uno dei personaggi più spietati dell'opera. A lui don Rodrigo ordina di rapire Lucia, ed è su di lui che si riversa la furia del signorotto quando la carrozza torna senza la ragazza.Altezzoso e spavaldo, ha solo un attimo di debolezza: quando il suo padrone gli ordina di recarsi a Monza dove è ricercato dalla giustizia. La sua crudeltà viene particolarmente evidenziata dal Manzoni verso la fine del romanzo, quando si accorge che don Rodrigo ha contratto la peste e, anzichè recarsi con urgenza da un medico, corre invece dai monatti. Non contento, alla presenza del padrone febbricitante si fa aiutare da uno di questi a scassinare lo scrigno e trae dalla tasca del signorotto, che ormai ritiene spacciato, anche gli ultimi spiccioli. Ma la giustizia divina si abbatte su questo personaggio tanto oscuro: anch'egli colpito dalla peste morirà il giorno seguente.
IL NIBBIO
"Ma... dico il vero, che avrei avuto piú piacere che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso." "Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M'ha fatto troppa compassione.". "Non l'ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è piú uomo.". Il Nibbio è il bravo di fiducia dell'Innominato. Uomo crudele e votato al compimento di misfatti, dopo il rapimento di Lucia non ha l'aria trionfale delle altre volte, è turbato, nientemeno ha avuto compassione. Lui, l'uomo delle mille imprese spietate questa volta ha avuto compassione, ed egli stesso dice che la compassione è come la paura: quando si impadronisce di un uomo, uno non è più un uomo. Il Nibbio, pertanto, contribuisce con le sue parole a demolire l'estrema ostinazione del suo signore, ponendo le basi per la sua conversione.
LA MADRE DI CECILIA
"Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio". "No!" disse: "Non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete." Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: "Promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così." La madre di Cecilia è un personaggio ricco di spiritualità, che la sventura ha separato dalla sua bambina. La sua bellezza velata ed offuscata, l'andatura stanca, gli occhi che non danno più lacrime, ma dimostrano di averne sparse tante; e quella bambina sorretta, seduta sulle braccia, con la manina bianca che penzola ed il capo posato sull'omero della mamma: sono questi tratti, accuratamente dipinti dal Manzoni, a fare in modo che la figura della donna si imprima indelebilmente nella nostra mente. Pur fra gli orrori della peste, l'autore riesce a comunicare un senso di armoniosa, composta e spirituale bellezza.
DONNA PRASSEDE
Aveva cinque figlie. Tre eran monache, due maritate; e si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: l'impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da altre monache, non volevano accettare la sua soprintendenza". Donna Prassede, una nobildonna d'alto affare, viene presentata dal Manzoni come una donna invadente, che vuol fare del bene ad ogni costo, senza discernimento, senza umiltà, con la gretta presunzione dell'infallibilità: il tipo eterno della filantropa per ozio e per professione, la donna dal cervello limitato e dalla caparbietà opprimente. Il suo carattere presuntuoso ed opprimente si rivela soprattutto quando ritiene di far del bene a Lucia non soltanto ospitandola, ma quando intende "di raddrizzare un cervello, di metter sulla buona strada che n'aveva gran bisogno". Feroce, infine, è la commemorazione che l'autore fa a proposito della morte della donna: "Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto".
DON FERRANTE
"Uomo di studio, non gli piaceva nè di comandare nè di ubbidire. Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon'ora; ma lui servo, no.... Don Ferrante passava di grand'ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o meno versato". Don Ferrante, marito di Donna Prassede, può definirsi un "addottrinato" in molte scienze e addirittura "professore" nella scienza cavalleresca. La sua biblioteca è vista dal Manzoni nelle varie materie che la compongono, nei diversi volumi che rappresentano quelle materie: i volumi sono osservati, i nomi degli autori e i titoli sono letti, le loro pagine sono sfogliate; e ne vien fuori l'immagine di una cultura particolare, della parte deteriore della cultura di un secolo, con accanto, quale interprete, don Ferrante, che è soltanto un letterato, tutto lettura e scrittura, tutto libri. Eppure da questo ironico quadro non manca di sprigionarsi un fascino segreto, il fascino di un ambiente raccolto, arredato di libri, immerso nel silenzio, segnato dal trascorrere di lunghe ore di studio.
2. L’individuazione dei temi
LA FEDE - L’IDEALE RELIGIOSO-MORALE DEL MANZONI
L’ideale religioso di Manzoni è rappresentato dal cattolicesimo, e l’ideale morale è quello predicato dalla religione cattolica, perché quest’ultima è per lui l’unica dottrina che salvi la libertà e la dignità umana. Gli Inni sacri sono i primi componimenti poetici in cui sono presenti i motivi che si agitavano nella coscienza del Manzoni giovane, ma ormai rischiarati e spiegati alla luce della fede. Ciò che colpisce la mente del Manzoni, in ogni caso, è la presenza in questo mondo del male e dell’ingiustizia, e della sofferenza che spesso travaglia gli innocenti. Tuttavia ci troviamo ancora in una fase pessimistica del pensiero religioso di Manzoni, in cui sembra che Dio aspetti le sue creature di là della vita; l’uomo deve quindi vivere nella speranza di una giustizia ultraterrena. Questo concetto trascendente della divinità viene decisamente superato nel romanzo, che racchiude, nella forma più completa, tutto il pensiero religioso e morale dell’autore. Non sono mai descritte funzioni religiose: questo è da attribuire alla concezione religiosa personale di Manzoni: è una religione INTRINSECA, fondata su ideali e sentimenti interni, ben diversa dalla religione “che bada all’apparenza” di don Abbondio o di donna Prassede.
La giustizia divina si rivela nel mondo per opera della Provvidenza, mirabile, delicato strumento di Dio, per alimentare negli uomini la fiducia nel trionfo finale del bene. Anche se talvolta sembra che predomini il male e l’ingiustizia, l’uomo, guidato dalla fede che illumina, sa che tutto si compie per un fine di maggior edificazione. È da notare però che l’interpretazione provvidenziale della realtà, nel romanzo, non è enunciata in prima persona dal narratore, ma è affidata sistematicamente ai soli personaggi. Ciò non significa che Manzoni non creda alla Provvidenza nel mondo, perché sarebbe in antitesi con quanto affermato sopra; semplicemente, la sua concezione è diversa da quella dei suoi umili protagonisti, estremamente più problematica e complessa. Renzo e Lucia hanno una concezione elementare e ingenua della Provvidenza, identificata in virtù e felicità: per loro Dio interviene infallibilmente a difendere e a premiare i buoni e a garantire il trionfo della giustizia. Nella superiore visione di Manzoni, al contrario, virtù e felicità coincidono solo nella prospettiva dell’eterno. Le abili mani di Manzoni riescono a trasformare in strumenti di Dio alcuni personaggi del romanzo, tra cui padre Cristoforo che, morente, scoglie Lucia dal voto e ricongiunge i due promessi, e il cardinal Federigo che è l’ultimo atto della conversione di un'altra figura essenziale, quella dell’Innominato. D’altra parte, però, alcuni personaggi si dimostrano completamente impermeabili all’azione divina. Tra quelli aspramente criticati dall’ironia, forse l’esempio più espressivo è quello di Don Rodrigo: nemmeno dopo il colloquio con padre Cristoforo (cap. VI) e dopo la profezia «verrà un giorno…», la sua coscienza sembra dare segni di pentimento.
L’IRONIA MANZONIANA
L’ironia del Manzoni ci aiuta a comprendere più di ogni altro elemento, la personalità dell’autore e il suo modo di valutare gli uomini e la vita.
Seguendo il filo dell’ironia, possiamo ricostruire tutto il mondo manzoniano, perché l’ironia è per il Manzoni uno strumento per dare un’impronta personale alla narrazione o, in altre parole, di intervenire senza che il peso dell’opinione personale possa nuocere al libero svolgimento dell’azione. L’ironia trae origine sempre da un dissidio interiore, prodotto dalla discordanza tra ideale e realtà. L’ironia del Manzoni, che non ha mai la violenza e la crudezza della satira, ha origine da una visione pessimistica della vita. Soprattutto la “giustizia” del mondo offre inesauribili spunti all’ironia del Manzoni. Nel cap. III, Renzo, riuscita vana la sua spedizione dal dottor Azzeccagarbugli, in un momento di furore, pensa a farsi giustizia da sé, ed esclama più volte: «A questo mondo c’è giustizia finalmente!». L’assurdità di una simile affermazione dell’ingenuo contadino è messa poi in luce dall’autore con una frase, che sarebbe colma di pessimismo se non presupponesse la fiducia in Dio: «…Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica». Nel cap. VII, gettando il suo sguardo nell’interno della stanza di don Abbondio, il Manzoni dice che, a giudicare dall’apparenza, Renzo sembrava l’oppressore e il curato la vittima, eppure in realtà era tutto il contrario. Aggiunge: «…Così va spesso il mondo…voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo», intendendo dire che il mondo è sempre uguale e non accenna a migliorare. Nel cap. XI, a proposito del Griso, che Don Rodrigo dopo molti rimproveri per il fallito rapimento di Lucia congeda con molte lodi, il Manzoni afferma sarcasticamente: «qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi, anche in questo mondo». Ma sferzate più violente nei riguardi della giustizia umana le troviamo quando sono di scena i politici. Pieni di vanità ed errori, ingranditi dalla loro posizione, sono sempre colti in fallo e aspramente criticati. Dopo un’analisi iniziale al governo spagnolo, dove è giudicata “onore” e “vantaggio” la presenza di soldataglie straniere del territorio di Lecco, troviamo i personaggi più autorevoli di questo governo come coloro che «hanno sempre ragione». (cap XI). Il nome del gran cancelliere Ferrer è associato all’errato suo provvedimento sul prezzo del pane: la stoltezza e l’ignoranza del cancelliere sono messe argutamente in rilievo in ogni riga a lui dedicata. (cap. XII). Neppure il Vicario viene risparmiato dall’ironia, e la sua figura, anche se appena intravista, è irrimediabilmente associata a quel «chilo agro e stentato d’un desinare biascicato senza appetito, e senza pan fresco», e soprattutto, dalla paura della folla. (cap. XIII). Poi c’è il notaio criminale, colui che va all’osteria ad arrestare Renzo, o la vanità del conte Zio, e soprattutto Don Rodrigo. Non contento di tenere ottime relazioni con i grandi fuorilegge, vuole assicurarsi anche «una mano sulle bilance della giustizia, per farle traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più facilmente che con le armi della violenza privata». Che giustizia poteva essere quella affidata a un podestà cortigiano, ad un Azzeccagarbugli adulatore e parassita, ad un conte Zio nepotista ed ambizioso? Non per nulla Bortolo, a Renzo che si preparava ad andare al suo paese, dirà: «…cerca di schivar la giustizia, com’io cercherò di schivare il contagio.». Il Manzoni non risparmia nessuno dei suoi personaggi, tranne Federigo e l’Innominato, tra i personaggi maggiori, e padre Felice in quelli minori. Persino Lucia, in alcuni punti, non si rivela sicura dei suoi sentimenti; e anche padre Cristoforo, indirettamente, offre l’occasione per marchiare la tendenza degli uomini a giudicare dalle apparenze, mettendo in bocca a fra Galdino l’elogio di padre Zaccaria, che sarebbe stato in grado di aiutare ugualmente Agnese e consigliarla per il meglio, nonostante la sua magrezza, la vocina rotta e una barbetta misera misera… (cap. XVIII). Ipocrisia e opportunismo si rivelano anche negli ecclesiastici, che cercano di moderare l’impulso di carità del Cardinale, appoggiati dalla teoria del giusto mezzo, che poi ritengono «giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi» (cap. XXII). Alcuni personaggi vivono nella nostra memoria grazie a un piccolo particolare “umoristico”, come il sarto del villaggio che pronuncia quell’insulso «si figuri!», che gli rovinerà il ricordo dell’incontro, ma che non gli impedisce comunque di vantarsi per aver visto di persona il Cardinale. Per non dimenticare donna Prassede, la cui comparsa nel romanzo è tutta intessuta di ironia non sempre benevola, e che, convinta di assecondare i voleri del cielo, «faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello». Anche i personaggi secondari sono segnati da una nota d’arguzia. Per esempio Menico, cui piaceva giocare a rimbalzello, perché in esso era abilissimo, «e si sa che tutti, grandi e piccoli, facciam volentieri le cose alle quali abbiamo abilità: non divo quelle sole» (cap. VII).
L’IDILLIO1 IMPOSSIBILE
«… «Tornate, con sicurezza e con pace, ai pensieri di una volta», seguì a dirle il cappuccino: chiedete di nuovo al Signore le grazie che Gli chiedevate, per essere una moglie danta; e confidate che ve le concederà più abbondanti, dopo tanti guai. E tu», disse voltandosi a Renzo «ricordati, figliuolo, che se la Chiesa ti rende questa compagna, non lo fa per procurarsi una consolazione temporale e mondana, la quale, se anche potesse essere intera, e senza mistura da alcun dispiacere, dovrebbe finire in un gran dolore, al momento di lasciarvi; ma lo fa per avviarvi tutt’e due sulla strada della consolazione che non avrà fine. Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d’avere e lasciarvi, e con la speranza di ritrovarvi per sempre. Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggiere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi a una allegrezza raccolta e tranquilla. Se Dio vi concede figliuoli, abbiate in mira d’allevarli per Lui, d’istillar loro l’amor di Lui e di tutti gli uomini; e allora li guiderete bene in tutto il resto. Lucia! V’ha detto,» e accennava Renzo, «chi ha visto qui?»
«Oh, padre, me l’ha detto!»
«Voi pregherete per lui! Non ve ne stancate. E anche per me pregherete!… Figliuoli! Voglio che abbiate un ricordo del povero frate». E qui levò dalla sporta una scatola d’un legno ordinario, ma tornita e lustrata con una certa finitezza cappuccinesca; e proseguì: «qui dentro c’è il resto di quel pane… Il primo che ho chiesto per carità; quel pane, di cui avete sentito parlare! Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! Tutto, tutto! E che preghino, anche loro, per il povero frate!»…». Ecco il discorso pronunciato da padre Cristoforo ai de promessi, ritrovati al lazzaretto. Il cappuccino li esorta a continuare il loro cammino insieme, nella grazia di Dio e con l’amore che dall’inizio li lega. Per il padre tutto ciò che si ottiene si conquista solo attraverso il dolore, e con la rinuncia alle gioie “turbolente e passeggiere”. Il frate dimostra in questo suo ultimo discorso una grandissima forza e una fede dalle profonde radici; con i segni della fine imminente sul volto, trova ancora in sé la forza di essere d’aiuto al suo prossimo. E le parole, che pronuncia, sono il riepilogo di tutta una vita tesa alla riflessione sulle grandi verità della fede, e tutta ispirata dalla consapevolezza di un Dio giusto e misericordioso. Come ultimo dono, il pane del perdono, che ci ricorda tutta la storia del frate. Ora vuole che quelle sue due creature lo conservino e lo facciano vedere ai propri figli. Per questo aveva portato con sé la sua sporta… È il testamento del frate, ma anche l’insegnamento di Gesù, che non ci dà eccezioni, “perdona a noi, come noi perdoniamo a chi ci ha offesi”; insegnamento importante per l’autore che qui ha fatto trasparire completamente. Nella conclusione trovata dai due umili giovani, sono presenti i cardini della visione manzoniana; il più importante è il rifiuto dell’idillio, inteso come rappresentazione di una vita quieta e senza scosse, nell’ambito ristretto della sfera domestica, lontana dai tumulti della storia, ignara del male che è inevitabilmente presente. Manzoni ha una visione tragica della realtà, scaturita dal suo pessimismo religioso. Ma se la vita, in conseguenza della caduta dell’uomo, è inquinata dal male e dalla sofferenza, ogni rappresentazione idillica della realtà, che raffiguri quiete e serenità perfette, è assolutamente contrastante con la verità. Al termine del romanzo, a Renzo e a Lucia tocca una vita tranquilla, prospera e serena: però è lontana dall’idillio. La vita dei due sposi è sostanzialmente felice, ma non è sottovalutata l’esistenza del male e della tragicità, che può colpire anche i più innocenti. È da qui che matura la nuova concezione religiosa dei protagonisti: il dolore viene anche se non si ha colpa.
IL SUGO DI TUTTA LA STORIA
«…Qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi, anche in questo mondo…», troviamo al cap. XI; e, per gli umili protagonisti della vicenda, la giustizia è arrivata al gusto momento. Renzo e Lucia, finalmente sposi, possono ora concedersi la tranquillità di ripensare alle loro vicende, e di trarne una morale. La conclusione del romanzo, “il sugo di tutta la storia”, è proprio posta in bocca ai due protagonisti:
«…I guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e quando vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore…». Questa conclusione è veramente lineare, eppure contiene, nella sua semplicità, la soluzione del problema più grave della vita umana: l’esistenza del male e del dolore. Il mondo è tutto una fitta selva di errori, di dolori, di ingiustizie, che originano con l’uomo stesso e con la sua colpa. Eredità inevitabile dell’uomo è il dolore, aggravato dall’ignoranza, dalla cattiveria e dalla superbia dei potenti, dalla debolezza dei soggetti, da uno scarso senso di solidarietà e di fratellanza umana. Su questa strada facilmente si arriva a conclusioni pessimistiche, se non si ammette l’esistenza della divina Provvidenza, che ordina le cose del mondo secondo un fine certo di giustizia, traendo il bene anche dal male. Il vero cristiano deve quindi vivere in questa fiducia, e da essa trarre la forza che gli permetta di non lasciarsi travolgere dalle burrasche della vita, al contrario, di superare con animo fermo anche le più dure prove, tenendo ben presente «che Dio non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande». Se al male si è data fonte, se ne devono sopportare le conseguenze come “espiazione”; ma se viene inaspettato e immeritato, come alla buona Lucia, è sufficiente difesa sopportarlo con rassegnazione e con spirito cristiano, perché «la fiducia in Dio lo raddolcisce, e lo rende utile per una vita migliore».
3. La contestualizzazione
a. L’autore, la sua epoca, la sua produzione
Nasce a Milano nel 1785 da un padre di recente nobiltà, Pietro Manzoni, e da Giulia Beccaria (figlia del celebre Cesare Beccaria, autore Dei delitti e delle pene, contro la pena di morte e le torture). Il matrimonio era stato d'interesse, in quanto il patrimonio dei Beccaria era in dissesto. Peraltro Giulia non solo era più giovane di 26 anni, ma nutriva anche idee borghesi, più progressiste di quelle aristocratiche del marito, dal quale infatti si separerà nel 1792, unendosi a Carlo Imbonati e trasferendosi a Parigi. Il figlio Alessandro iniziò a studiare presso collegi religiosi (somaschi e barnabiti), ma a 16 anni scrive un poemetto, di ispirazione giacobina, Il trionfo della libertà, dimostrando che l'educazione religiosa ricevuta in quei collegi non aveva avuto alcun effetto su di lui. La sua prima formazione intellettuale fu piuttosto razionalistica e illuministica, anticlericale e antidispotica, influenzata dalle idee che l'impresa napoleonica trapiantò in Italia. In particolare, egli ha ben chiaro, sin dall'inizio, che il poeta deve avere una funzione pedagogica o educativa, pratica e moralizzatrice, strettamente legata alle vicende storiche. Morto l'Imbonati, Giulia torna in Italia nel 1805 e propone al figlio, che accetta, di seguirla a Parigi. In questo periodo, l'opera più significativa del Manzoni è il Carme in morte di Carlo Imbonati, ove si esalta la funzione dell'arte volta alla formazione dell'uomo morale (disposto al sacrificio, interiormente libero, virtuoso, ecc.) e dove si rifiuta nettamente la mitologia in uso in molta poesia del suo tempo. A Parigi, dal 1805 al 1810, Manzoni frequenta i circoli letterari e culturali in cui domina la filosofia razionalista e materialista del Settecento, stringe amicizia con Fauriel (uno dei promotori del Romanticismo in Francia) che lo avvia allo studio della storia, e sposa nel 1808 Enrichetta Blondel, di religione calvinista, che lo porterà, in seguito, a rivedere i suoi giudizi critici verso la religione, tanto che (aiutato anche dalle conversazioni con due insigni religiosi giansenisti dell'epoca), nel 1810 il Manzoni decide di convertirsi al cattolicesimo, coinvolgendo in questa decisione anche la moglie. Appena convertito, il Manzoni decide di lasciare per sempre Parigi (vi ritornerà per alcuni mesi, per curarsi da una forma di esaurimento nervoso) e, rientrato a Milano, vi rimane quasi ininterrottamente dal 1810 alla morte. Il padre, morto nel 1807, gli aveva lasciato in eredità tutti i suoi beni. Praticamente la sua vita non ha più date importanti che non siano quelle della pubblicazione delle sue opere. Tutti gli scritti giovanili precedenti alla conversione vengono da lui rifiutati. A Milano il Manzoni si pone dalla parte del Romanticismo e della corrente politica liberale favorevole all'unificazione nazionale. Nel 1815 scrive Il Proclama di Rimini, esaltando l'iniziativa di Gioacchino Murat che da Napoli aveva risalito col suo esercito la penisola invitando gli italiani (che però non risposero) a combattere contro gli austriaci per l'indipendenza nazionale (il tentativo poi fallì miseramente). Alla caduta di Napoleone rifiuta di rendere omaggio agli austriaci, rientrati a Milano. Anzi, nel 1821, quando si sparge la notizia dei moti rivoluzionari piemontesi (cosa che per un momento fece credere che il principe sabaudo Carlo Alberto fosse sul punto di liberare la Lombardia dagli austriaci), il Manzoni compose l'ode Marzo 1821, interpretando il sentimento patriottico dei lombardi; e nello stesso anno, appresa la notizia della morte di Napoleone, scrive l'ode Il Cinque Maggio, in cui rievoca i trionfi, le sconfitte, l'esilio e la morte del Bonaparte, alla luce della provvidenza cristiana, lasciando alla storia il diritto di giudicare. La maggior parte delle opere del Manzoni viene scritta nel giro di 15 anni: dal 1812 (in cui inizia la composizione degli Inni sacri: La resurrezione, Il nome di Maria, Il natale, La passione e La pentecoste [quest'ultima è la più importante]), al 1827 (in cui conclude la stesura dei Promessi sposi). Oltre alle due liriche politiche suddette del 1821, scrive due tragedie: Il conte di Carmagnola (dedicato al Fauriel): protagonista di questa tragedia è Francesco Bussone, conte di Carmagnola, condottiero di ventura del primo Quattrocento. Dopo aver servito Filippo Visconti, signore di Milano, egli passò al servizio di Venezia, rivale di Milano, non sentendosi sufficientemente ricompensato. Inflisse al Visconti una dura sconfitta, ma la sua generosità verso i vinti lo rese sospetto ai veneziani che con l'accusa di tradimento lo giustiziarono. Il Manzoni è convinto che il Carmagnola fosse innocente e vittima di una congiura. Ma il senso della tragedia sta piuttosto nel giudizio negativo su quella "politica" che non tiene conto dei valori etici, e su quella "politica" municipalistica e regionale in nome della quale gli italiani da secoli avevano rinunciato all'unificazione nazionale. L'altra tragedia è l'Adelchi (dedicata alla moglie Enrichetta): essa ha per oggetto l'ultimo periodo della dominazione longobarda in Italia, dal ripudio che il franco Carlo Magno fece della moglie Ermengarda (figlia del re longobardo Desiderio) alla resa longobarda di Verona, dove si era rifugiato Adelchi, fratello di Ermengarda. Secondo la storia Desiderio fu deportato in Francia, mentre Adelchi fuggì a Costantinopoli: il Manzoni invece li fa morire entrambi). I protagonisti della tragedia sono Ermengarda, che, vittima innocente di manovre politiche, non si rassegna al divorzio, essendo ancora innamorata del marito, e che muore di consunzione nel monastero in cui era stata reclusa; e Adelchi, il cui dramma interiore è completamente inventato dal Manzoni: Adelchi infatti si dibatte fra le sue aspirazioni ideali alla giustizia (non sopporta l'offesa arrecata alla sorella), le sue aspirazioni alla pace (è contrario alla politica di conquista del padre, anche se per obbedienza lo asseconda), e le sue convinzioni religiose (essendo cristiano, nella tragedia, non vuole combattere contro i Franchi, anch'essi cristiani). Nella tragedia Adelchi muore perché si rende conto che nella storia c'è poco spazio per i sentimenti/desideri/valori umani. L'eroe cristiano deve resistere con l'esempio personale e la sua forza morale agli attacchi del "male" (ingiustizia, oppressione, ecc.), ma può sperare che il suo eroismo gli venga riconosciuto solo al cospetto di Dio. Nell'importante coro Dagli atri muscosi, dai Fori cadenti, Manzoni esprime un giudizio fortemente negativo su quegli italiani che si lasciano dominare dagli stranieri senza reagire o che sperano d'essere liberati da uno straniero con un altro straniero (il riferimento agli austriaci e borboni del suo tempo era evidente). Oltre a queste due tragedie si devono ricordare le due importanti Lettere sul Romanticismo indirizzate a Chauvet e a Massimo d'Azeglio (vedi più avanti) e le Osservazioni sulla morale cattolica, in cui vengono esaltati i principi e il valore della morale evangelica, contro la tesi del Sismondi che riteneva la religione cattolica fonte di molti mali della società moderna. Nel 1827, dopo la prima edizione dei Promessi sposi, il Manzoni per qualche tempo con la famiglia si reca a Firenze, allo scopo di correggere secondo l'uso toscano la lingua usata per il romanzo. In effetti, finché scriveva liriche e tragedie, rivolgendosi a un pubblico molto colto, il Manzoni aveva potuto usare il linguaggio tradizionale senza porsi particolari problemi (se non quello della chiarezza e dell'aggancio alla realtà). Ma quando intraprende la stesura del romanzo, destinato al vasto pubblico, il problema della lingua diventa subito fondamentale. Egli aveva bisogno di una prosa narrativa facilmente comprensibile, in grado di superare il distacco tra lingua parlata e scritta. La tradizione però non gli offriva alcun valido aiuto. Nel caso della Francia, ad es., il dialetto di Parigi si era imposto a tutta la nazione. L'Italia invece non aveva una capitale e Roma era la patria del latino. Di qui l'esigenza di ricercare quella città che con la sua lingua (parlata e scritta) avesse esercitato almeno per alcuni secoli una specie di "egemonia culturale" sul resto della nazione. La sua scelta cadde su Firenze, cioè sul fiorentino usato dalle persone colte. Ed è così che nasce con i Promessi sposi la prosa narrativa moderna dell'Italia. La prima versione del romanzo s'intitolava Fermo e Lucia (1812) ed è molto diversa dalla seconda e definitiva edizione, pubblicata tra il 1840 e il '42. Vi è una certa differenza di contenuto (oltre che ovviamente di stile) persino tra la prima edizione del 1827 e la seconda: in quest'ultima la severità morale e religiosa è attenuata (ad es, le due figure di don Rodrigo e della monaca di Monza sono descritte con colori meno accesi). Nell'ultima edizione apparve in appendice la Storia della colonna infame, un racconto ambientato nello stesso periodo storico del romanzo. Si tratta di una specie di requisitoria contro i giudici che condannarono a terribili torture i presunti untori della peste di Milano nel 1630. "Colonna infame" era appunto chiamata la colonna che venne eretta nello spazio della casa abbattuta di uno dei due, a perenne ricordo dell'infamia e dell'esemplare condanna. Manzoni cercò di dimostrare, con l'esame degli atti del processo, l'innocenza dei due imputati, vittime soltanto della superstizione, della collera popolare e della debolezza dei giudici e delle autorità. Dopo il 1827 l'attenzione del Manzoni si rivolge prevalentemente a questioni di carattere culturale, storico e linguistico. A partire dal 1833 una serie di disgrazie familiari colpisce la sua casa. Gli muore la moglie, nel '34 la primogenita (appena sposata con D'Azeglio), nel '41 la madre, nel '61 la seconda moglie, che aveva sposato nel '37 e con cui aveva vissuto un matrimonio poco felice; in varie date perde 6 figli su 8. Nel 1848, scoppiata la rivoluzione delle Cinque giornate di Milano, incita i tre figli maschi a prendervi parte e benché uno di essi fosse caduto prigioniero e ostaggio degli austriaci, firma un appello a tutti i popoli e principi italiani perché aiutino i milanesi. Gli austriaci poi rioccupano la città e per quanto cercassero di inaugurare un governo più mite (ad es. speravano che il Manzoni accettasse una loro decorazione), il suo atteggiamento di aperta opposizione non venne mai meno. Nel 1849 viene eletto deputato nel collegio di Arona in Piemonte, ma rifiuta il seggio perché non si sentiva tagliato per la politica. Nel 1859, liberata la Lombardia, Vittorio Emanuele II, considerando il suo patriottismo e le sue difficoltà economiche, gli conferisce una pensione annua di 12.000 lire; nel 1861 lo nomina senatore. Nello stesso anno egli si reca a Torino per votare la proclamazione del Regno d'Italia. Nel '64 si reca nuovamente a Torino per votare il trasferimento della capitale a Firenze. Nel '70 saluta con gioia l'entrata delle truppe italiane a Roma (breccia di porta Pia, fine dello Stato della Chiesa), venendo a contrasto col movimento neoguelfo, che già dal '48 si era ritirato dalla causa nazionale, temendo il peggio per la Chiesa. Nel '72 viene nominato cittadino onorario di Roma. Muore l'anno dopo per meningite cerebrale a Milano, in seguito ad una caduta dalle scale.
Opere principali
• In morte di Carlo Imbonati (carme, 1805);
• Inni sacri: La Resurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale (1812-13), La Passione (1815), La Pentecoste (1822);
• Osservazioni sulla morale cattolica (1819);
• Lettre à M. Chauvet (1820);
• Il Conte di Carmagnola (tragedia, 1820);
• Il cinque maggio (ode, 1821);
• Adelchi (tragedia, 1822);
• Lettera sul romanticismo (1823);
• I promessi sposi (1825-27 e 1840-42);
• Storia della colonna infame (1842);
• Del romanzo storico (1845);
• Marzo 1821 (ode, 1848);
• Dell'unità della lingua (1868).
Le opere minori
Nei quattro Sermoni il poeta satireggia la corruzione dei costumi familiari, la sfrontatezza delle persone arricchite, la facile e ambigua fortuna degli ambiziosi favoriti dalla corrotta vita politica. In morte di Carlo Imbonati il poeta immagina apparirgli in sogno il conte il quale dopo aver parlato del mondo pieno di malvagità ed aver dichiarato il suo amore per Giulia Beccaria indica al giovane quali norme di vita deve tenere sempre presenti: modestia, dignità, e possesso della virtù. Gli Inni Sacri del Manzoni sono in totale cinque più un piccolo frammento, essi sono: La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione e la Pentecoste. In essi il poeta celebra la recuperata fede, la pietà umana la carità e l'uguaglianza.
Le tragedie
Il Conte di Carmagnola, la vicenda è posta nel '400 all'epoca delle contese tra Venezia e Milano e s'incentra sulla figura di un capitano di ventura del tempo Francesco Bussone, conte di Carmagnola, già a servizio dei visconti di Milano e passato poi alle dipendenze della repubblica di Venezia. La tragedia inizia appunto con l'elezione del Carmagnola a condottiero delle forze venete non senza contrasti e sospetti da parte del Senato che anzi li acuiscono dopo la vittoria ottenuta nella battaglia di Maclodio contro i milanesi per l'eccessiva generosità mostrata dal condottiero verso i prigionieri tanto che il Carmagnola viene richiamato a Venezia e lì condannato a morte. Adelchi è ambientata in Italia nel periodo della dominazione Congobarda e dei conflitti con i franchi di Carlo Magno. La storia inizia quando Ermenguarda figlia di Desiderio re dei longobardi ritorna presso il padre Pania perché ripudiata dallo stesso Carlo Magno. Un ambasciatore di quest'ultimo intima il re straniero di liberare i territori pontifici occupati, ma desiderio accanto al suo figlio Adelchi trascina gli italiani in una feroce guerra, ma Carlo Magno ha la meglio contro Desiderio attaccandolo sulle Alpi e a sconfiggerlo.
Le odi
Marzo 1821, fu composta per i moti del 1821 in Piemonte quando si aspettava che i Piemontesi avrebbero liberato la Lombardia insorta. Ma come si sa, il moto del Santarosa fallì e il Manzoni fu costretto a non pubblicare l'ode.
Il 5 Maggio fu composta in tre giorni nel luglio 1821 quando arrivò a Milano la notizia della morte di Napoleone. Il 5 Maggio rappresenta uno dei vertici più alti della poesia Manzoniana.
Ideologia e Poetica
Manzoni è il rappresentante più significativo del movimento romantico italiano. In lui si realizza la sintesi delle idee illuministiche con quelle cristiane. Vi è quindi il rifiuto del materialismo ateo di Foscolo e Leopardi, ma non quello delle idee illuministiche di giustizia, libertà, uguaglianza, fraternità, le quali però vengono per così dire "battezzate" da una religiosità cattolico- giansenista, non dogmatica, ma critica, aperta alle idee democratiche e laiche del suo tempo, austera e rigorosa sul piano morale. L'idea religiosa dominante è quella di provvidenza, grazie alla quale anche il male -secondo il Manzoni- può essere ricompreso in una visione più globale della storia. Il dolore che gli uomini soffrono a causa delle ingiustizie/oppressioni non può mai essere disperato se si ripone fiducia nella provvidenza divina. Chi vuole compiere il male è guardato dal Manzoni non con disprezzo ma con ironia, appunto perché il credente sa in anticipo che il corso della storia non può essere modificato dalle singole azioni negative degli uomini. Ovviamente per il Manzoni gli uomini non devono attendere passivamente la realizzazione del bene, ma devono avere consapevolezza, nel mentre cercano di vivere con coerenza il loro ideale evangelico di giustizia, che la realizzazione del bene dipenderà dai tempi storici della provvidenza più che dalla loro volontà. Senza questa consapevolezza gli uomini tenderebbero ad attribuire a loro stessi la causa di ogni bene, il che li porterebbe facilmente a ricadere nel male. Sul piano poetico, Manzoni rifiuta categoricamente ogni mitologia, ogni fantasia che non abbia riscontri reali, ogni imitazione pedissequa dei classici greco-romani. Accetta la fusione della storia con la poesia (di qui ad es. il concetto di "romanzo storico"), perché se la storia racconta la verità oggettiva degli avvenimenti, la poesia può raccontare la verità soggettiva dei singoli protagonisti. La letteratura deve avere - questa è la sua formula più riuscita - l'utile per scopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo. L'invenzione deve essere limitata all'integrazione del dato storico. Il vero storico - per il Manzoni - è sempre quello che desta maggior interesse. L'arte quindi avrà un valore educativo se sarà finalizzata alla comprensione della verità storica (soprattutto la verità del popolo, degli strati sociali più umili, che fanno la storia). Scopo del drammaturgo/poeta/romanziere è quello di saper trarre dal vero reale il vero ideale, senza alterare i fatti storici, ma riservandosi uno spazio (il coro) in cui poter parlare personalmente, rendendosi interprete dei sentimenti morali dell'umanità. Nel teatro Manzoni propone l'abolizione delle unità aristoteliche di tempo e luogo, salvando solo quella di azione. Le due unità erano rigorosamente rispettate nel teatro italiano perché si credeva, in tal modo, di poter salvaguardare il principio di verosimiglianza dell'azione degli attori. Trasportare da un luogo all'altro gli avvenimenti o prolungare l'azione aldilà di un giorno, si pensava che togliesse allo spettatore la convinzione (l'illusione) di essere direttamente coinvolto per 2 o 3 ore nell'azione degli attori. Il Manzoni invece dà per scontato che lo spettatore sappia di assistere a una finzione (il teatro stesso di per sé è illusione), per cui lo spettatore - secondo lui - non ha difficoltà ad accettare il susseguirsi d'avvenimenti concatenati che accadono in tempi e luoghi diversi. Naturalmente il drammaturgo, per poter tenere ben legati avvenimenti così separati, deve scegliere quelli più significativi, perché solo così lo spettatore potrà sentirsi coinvolto emotivamente nell'azione. Manzoni parla della sua riforma drammatica nella Lettera allo Chauvet. Tuttavia, poco dopo aver scritto i Promessi sposi, il Manzoni nega l'utilità del romanzo storico, sostenendo che la verità che la storia ci fa conoscere è sufficiente; per cui o si fa storia o si fa invenzione.
L'occasione perduta del Manzoni
Il Manzoni era partito bene con quelle sue idee giacobine e ateo-illuministiche, ma la conversione al cattolicesimo ne ha ostacolato fortemente lo sviluppo. Probabilmente egli aveva capito, a Parigi, che cultura e politica devono marciare insieme per essere entrambe vere, autentiche, ma siccome il suo personale temperamento gli impediva di condividere, sino in fondo, in maniera partecipata, le idee e le esigenze della politica democratica e rivoluzionaria, egli preferì puntare la sua attenzione sulla cultura, trasferendo su questa le qualità realistiche di quella politica più vicina alle aspirazioni popolari. Conseguentemente la sua letteratura diventò, allo stesso tempo, realistica e poetica, storicistica e romanzata. Connubio, questo, che al Manzoni piaceva e dispiaceva, proprio perché egli si rendeva conto che con esso non si potevano soddisfare appieno le esigenze del vero. Esigenze che possono e debbono essere soddisfatte coll'impegno politico attivo, a favore della democrazia, oltre che coll'impegno culturale e sociale. Il Manzoni - come noto - si limitò a circoscrivere ideologicamente tale impegno alla valorizzazione del "vero storico", volgendo sì lo sguardo al presente, ma come intellettuale culturalmente, non politicamente impegnato. La sua esperienza, ancora una volta, ha dimostrato i limiti della religione, che sono appunto quelli di negare valore, da un lato, alla politica rivoluzionaria, giustificando, dall'altro, l'oppressione esistente. Di qui il suo accentuato moralismo, la sua idea paternalistica di "provvidenza", la sottile quanto fastidiosa ironia nei confronti del "male" e di chi cerca di opporvisi con mezzi propri, senza rimettersi nelle mani di dio. Al Manzoni tuttavia bisogna riconoscere un pregio, quello di non aver mai abbracciato le idee clericali del suo tempo.
L'Illuminismo lombardo
Il tardo Settecento è un momento particolarmente felice per la vita culturale di Milano: la Lombardia, infatti, è passata nel 1713, con il trattato di Utrecht, sotto il controllo dell'Austria, liberandosi dal malgoverno spagnolo. Sovrani aperti alle riforme, come Maria Teresa e suo figlio, Giuseppe II d'Asburgo, introducono innovazioni che danno, nel decennio 1770-80, i primi risultati positivi. Ricordiamo in particolare l'istituzione del Catasto geometrico della proprietà fondiaria che pone la proprietà terriera su basi sicure, regola il gettito fiscale, accorda facilitazioni agli agricoltori più intraprendenti, senza danneggiare l'aristocrazia, che poggia la sua ricchezza sul razionale sfruttamento della fertile pianura Padana. Gli intellettuali, per lo più di estrazione nobiliare o alto-borghese, sono chiamati a collaborare: ricevono incarichi di responsabilità e a volte sono accreditati consulenti per migliorare la legislazione e controllare l'opportunità di scelte fondamentali, in ambito monetario o nei rapporti commerciali. Pietro Verri (1728-1797) è un esempio convincente di questa figura di intellettuale calato nella vita civile: chiamato a far parte nel 1770 della Giunta per la riforma fiscale, ottiene l'abolizione degli appalti privati nella riscossione delle imposte. Come presidente del Magistrato camerale (l'equivalente della direzione finanziaria), si sforza di riorganizzare meglio l'apparato fiscale. Intanto si diffondono in Europa nuove idee che egli enuclea nelle Meditazioni sull'economia politica (1771). Il movimento culturale dell'Illuminismo (così chiamato perché gli intellettuali confidano unicamente nel lume della Ragione) nasce in Inghilterra e si sviluppa rapidamente in Francia, Italia e nel resto dell'Europa. Gli illuministi esaltano una cultura operativa, che propugna lo sviluppo della scienza e delle tecniche. Ricordiamo che l'opera più significativa di questo movimento, l'Enciclopedia (in 17 volumi pubblicati tra il 1751 e il 1772, più altri volumi successivi di tavole), riceve dai suoi ideatori e organizzatori, Denis Diderot (1713-1784) e Jean Baptiste d'Alembert (1717-1783), un significativo sottotitolo: Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, da parte di un'associazione di letterati. Ad essa collaborano, con articoli e interventi sulle varie voci, i nomi più prestigiosi della Francia del tempo: Voltaire (1694-1778), Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), Charles de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755), Claude-Adrien Helvétius (1715-1771), Étienne de Condillac (1715-80), Paul-Henry D'Holbach (1723-89), il naturalista George-Louis Buffon (1707-88), gli economisti Robert Turgot (1727-81) e François Quesnay ( 1694-1774).
Si diffondono i giornali, sul modello dello Spectator (1711) dell'inglese John Addinson, strumento di informazione destinato al largo pubblico, e dello spregiudicato Tatler ("Il Chiacchierone") di Richard Steele. A Milano questa cultura, proiettata verso il progresso, attenta ai problemi concreti dell'uomo, pronta a intervenire nella gestione del pubblico interesse, trova attenti interlocutori. Nasce, così la Società dei Pugni e un periodico, Il Caffè, edito dal giugno 1744 al maggio1766. Si distinguono, per impegno e numero di interventi, i fratelli Pietro e Alessandro Verri (1741-1816), ma il collaboratore più prestigioso è Cesare Beccaria (1738-1794), l'autore di un vero e proprio best-seller, il trattato Dei delitti e delle pene (1764) in cui dimostra l'inefficacia della pena di morte e delle torture nella prevenzione dei delitti.
Il Romanticismo e Manzoni
Il Romanticismo entra in Italia attraverso la garbata mediazione di una grande "operatrice culturale", madame de Stäel (1766-1817). Il suo articolo, Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni, esce nel gennaio del 1816 sulla Biblioteca italiana, periodico milanese promosso e divulgato a cura del governo austriaco.
La scrittrice francese invita gli italiani ad aprire i propri orizzonti, a guardare anche alla produzione d'oltr'Alpe e, in particolare, agli sviluppi della cultura in Inghilterra, Germania e Francia, dove ormai si sta diffondendo il Romanticismo. Subito si infiamma il dibattito fra i critici della proposta della Stäel e i suoi sostenitori, come Pietro Borsieri (1786-1852), autore dell'articolo Intorno all'ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani (1816) e Ludovico Di Breme (1780-1820) che scrive Avventure letterarie di un giorno (1816), ma non mancano in primo piano gli amici del Manzoni, come Ermes Visconti e Giovanni Berchet. Questi, nella Lettera semiseria di Giovanni Grisostomo (dicembre 1816), elabora il manifesto del Romanticismo italiano. In tono elegante e vivace polemizza contro i classicisti, che ripetono sempre gli stessi moduli poetici, imitando i modelli antichi, fanno della poesia mezzo di diletto, piuttosto che di educazione, ignorano il sentimento, si rivolgono a una categoria ristretta di "addetti ai lavori". Invece il Romanticismo propugna un'arte diretta a un ampio pubblico borghese, mira a riprodurre i problemi degli uomini, calati nella realtà, si propone una funzione importante, perché vuole educare le menti e i cuori. Anche Alessandro Manzoni vi aderisce con entusiasmo, ma non si pronuncia per iscritto. Conosciamo le sue idee sul questo movimento dalla lettera Sul Romanticismo, inviata al marchese Cesare D'azeglio nel 1823 e pubblicata senza il suo consenso nel 1846. Egli ritiene assurdo l'uso della mitologia, massicciamente presente nella poesia neoclassica, perché crea una letteratura d'evasione, elaborata secondo l'imitazione acritica, pedissequa e anacronistica dei classici. Invece l'opera d'arte deve essere educativa, cioè deve aiutare l'uomo a conoscere meglio se stesso e il mondo in cui vive. In questo testo Manzoni elabora una formula che mette a fuoco la sua concezione poetica: l'opera letteraria ha "l'utile per iscopo, il vero per oggetto e l'interessante per mezzo". È questa un'affermazione non nuova nella forma, ma certamente nuova nella sostanza. L'utile coincide con la moralità in senso cristiano ed è il fine stesso della poesia tesa alla formazione delle coscienze; l'interessante viene a coincidere con la scelta stessa dell'argomento da trattare, che deve restare nell'ambito della meditazione sull'uomo, sulla sua vita e sul suo rapporto con la Divina Provvidenza; mentre il vero coincide con la ricerca del vero storico.
In pratica considera il Romanticismo come un rinnovamento dei moduli espressivi e dei temi propri della letteratura, poiché si indirizza a un pubblico vasto. In modo particolare sottolinea le peculiarità del Romanticismo lombardo, che, erede dell'Illuminismo, non lo sconfessa ma ne approfondisce e sviluppa le tematiche. Aperta all'Europa, Milano, ex capitale della napoleonica Repubblica Cisalpina, ospita intellettuali e periodici che non intendono sconfessare la Ragione, ma, semmai, vogliono affiancarle il sentimento, per rendere più completa la visione dell'uomo. In nome della Ragione si cerca di svecchiare la letteratura, liberandola da regole assurde, come le tre unità aristoteliche, che hanno condizionato la produzione teatrale italiana sino al Settecento.
I classici sono letti con ammirazione e costante interesse, ma non più imitati, perché l'opera d'arte nasce strettamente congiunta con lo spirito di un'epoca, che è irripetibile. Infine anche la Religione è vissuta in sintonia con il vaglio della Ragione. L'esempio più evidente delle strette interrelazioni tra i due movimenti culturali, in Lombardia, è proprio Manzoni, un grande romantico, nipote di un grande illuminista, Cesare Beccaria. Ma c'è di più: il Romanticismo lombardo porta avanti, senza nasconderlo, un preciso intendimento patriottico-risorgimentale che emerge dalle pagine del periodico Il Conciliatore. È un foglio azzurro che viene pubblicato due volte la settimana a Milano, dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre 1819: viene sostenuto economicamente dal conte Luigi Porro Lambertenghi (1780-1860) e dal conte Federico Confalonieri (1785-1846), che collaborano anche con interventi redazionali. Lo dirige il piemontese Silvio Pellico e scrivono articoli Giovanni Berchet, Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Ermes Visconti. Collaboratori occasionali sono grandi nomi dell'economia, come Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) e Giuseppe Pecchio (1785-1835), storici come il ginevrino Sismonde de Sismondi (1773-1842), scienziati come il medico-letterato Giovanni Rasori (1766-1837). Manzoni ne rimane estraneo, troppo assorbito dalla sua attività creativa, che in quegli anni è davvero intensa. Segue, però, con attenzione e partecipazione, condividendone il programma. Il titolo del periodico, "Conciliatore", non è casuale: nasce dall'intenzione di mettere in comune gli sforzi dei circoli intellettuali milanesi per dare alla letteratura forza ed efficacia, per elaborare un valido progetto culturale, sociale e politico: inevitabile, quindi, proprio alla luce dell'evidente intento patriottico, che intervenga l'occhio vigile della censura austriaca, la quale lascia ben poca vita al giornale. L'impegno sociale del Conciliatore, che mira alla "pubblica utilità", istruendo i Milanesi sulle innovazioni che in Europa segnano il progresso in tutte le branche del sapere (dalla pedagogia all'agricoltura, dalle istituzioni alla medicina, dalle scienze naturali alle loro applicazioni tecniche), lo pongono sulla linea del Caffè, del quale, peraltro, i "conciliatori" si considerano eredi e prosecutori. Naturalmente il giornale si presenta come espressione di una cultura italiana. Per esempio, il problema della coltivazione della vite in Toscana non risulta meno interessante di quello dei bachi da seta in Lombardia. C'è quanto basta per indurre l'Austria a sopprimere il giornale e costringere al silenzio i collaboratori con l'intimidazione o la deportazione: tra questi ricordiamo Silvio Pellico, il quale riporta le memorie della sua prigionia nel carcere asburgico dello Spielberg nel libretto Mie prigioni (1832), che fece grande scalpore e rappresentò per l'Austria una notevole sconfitta. Gli anni del "periodo creativo" del Manzoni sono caratterizzati da grandi eventi storici che si ripercuotono sulla Lombardia, lasciando tracce profonde. Il crollo di Napoleone, e la restaurazione sui troni degli antichi sovrani, "spazzati via" dalla conquista francese, porta la Lombardia nuovamente sotto la dominazione austriaca. Anche qui, come in altri Paesi europei, si formano società segrete; in Lombardia sorge la Carboneria, che organizza moti insurrezionali, destinati a fallire prima ancora di realizzarsi. Manzoni abbraccia gli ideali patriottici e risorgimentali, auspicando l'indipendenza e l'unificazione delle regioni italiane: esprime le sue idee soprattutto nelle quattro appassionate Odi civili. Proprio il Cinque maggio, che non ha un carattere militante patriottico, perché non invita all'azione, rappresenta una riflessione sul rapporto fra l'uomo e la storia. Manzoni introduce il concetto di provvida sventura, affermando che le sconfitte, come l'esilio di Napoleone, avvicinano l'uomo alla fede e gli fanno conquistare qualcosa di molto più alto e prezioso, la salvezza dell'anima. Con la scrittura delle tragedie Il conte di Carmagmola e Adelchi, si rafforzano proprio due concetti che diventeranno il fondamento della poetica manzoniana: la provvida sventura e il vero storico. Nella Lettre à Monsieur Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie, pubblicata nel 1823, il Manzoni offre un vero saggio di metodologia. Egli sostiene che l'unità d'azione non corrisponde a un singolo avvenimento, ma a molti avvenimenti, anche lontani nel tempo e nello spazio; essi, però, sono collegati da rapporti interni (come quello di causa ed effetto). Collante che garantisce l'unità dell'azione è, per Manzoni, il vero storico ossia rispetto per i fatti e riproduzione fedele delle caratteristiche dei personaggi, così come ci sono state tramandate dalla storia e puntualizzate in seguito a una severa ricostruzione preliminare. Sentiamo l'eco dell'insegnamento dello Schlegel che costituisce il punto fondamentale della poetica manzoniana: il rispetto della verità storica è garanzia della validità morale ed estetica dell'opera d'arte: l'unità d'azione, dunque, nasce dalla capacità dello scrittore di cogliere i nessi tra gli eventi e rintracciarne il senso più alto. Si noterà anche che non è estranea, soprattutto in quest'ultima implicazione, la visione religiosa dell'autore.
La corrente romantica e il Manzoni
Del Romanticismo il Manzoni è indubbiamente uno tra i maggiori esponenti a livello europeo, anche se spesso gli viene attribuito un legame con la corrente settecentesca dell'Illuminismo, il movimento antagonista per eccellenza della corrente romantica. In effetti vi sono parecchie analogie tra alcune ideologie del poeta e gli illuministi, dovute specialmente agli intellettuali di quel periodo che frequentò giovanissimo, per il resto, la formazione che ebbe in seguito, è strettamente romantica. Intanto per l'originalità e l'unicità dei componimenti, che non lasciano spazio solo ed esclusivamente a fredde strutture razionali definite, né la loro esistenza presuppone un preciso scopo strumentale; tutte le opere nascono sotto la spinta di particolari sentimenti, siano essi rabbia, tristezza, felicità, voglia di libertà, amore per la patria. Oltre a questo, l'uomo di cultura romantico, non appartiene più alla cosiddetta classe aristocratica, o meglio, non solo alla classe privilegiata, bensì alla borghesia, la classe emergente che ha trovato nel sapere il suo riscatto da una società che voleva gli uomini disposti e inquadrati secondo certi canoni che impedivano loro qualunque tentativo di uscirne fuori. Il borghese non accetta un'esistenza delimitata e razionale, ma si lascia guidare dal sentimento: lotta per la libertà perché riconosce di averne il diritto, ama la patria perché la sente propria, ha un'istruzione perché solo così può continuare a riguardarsi e difendere ciò che gli spetta. Inutile sottolineare che il Manzoni incarna l'ideale del Romanticismo da ogni punto di vista, anche Umberto Saba, in seguito, ne sottolineò l'unicità definendolo il poeta "onesto", unica eccezione per l'interesse storico. L'importanza della storia nel Romanticismo crebbe in modo impressionante tra i letterati, ma egli sembrò non interessarsi; infatti non fu mai un grande storico, non ebbe mai gli interessi profani dei "colleghi". Piuttosto la storia costituì il campo delle osservazioni morali, il paragone dell'agire umano, la storiografia manzoniana è molto particolare per una diffusa religiosità che lo conduce intendere e spiegare il male, la perversità e le calamità. Naturalmente i romantici consideravano inspiegabile l'origine del bene e del male così come ritenevano Dio l'Essere esistente a priori, dunque la pretesa del Manzoni era inammissibile. La varietà di definizioni che il Romanticismo acquistò, è dovuto ,in parte, anche alla diversità di stile dei suoi appartenenti, sia in Italia, sia in tutta Europa, ecco perché ogni paese può benissimo affermare di possedere un proprio Romanticismo indipendente, che con gli altri condivide solamente alcuni punti di riferimento, identici per tutti. Sicuramente si deve tantissimo a questa corrente, un solo secolo ha modificato scuole di pensiero dalle radici millenarie, a volte calibrandone meglio l'ottica e allargando gli orizzonti alla modernità dei tempi attuali, e si deve riconoscere anche un grande merito a molti intellettuali che, proprio come il Manzoni, sono stati i precursori e i promotori del cambiamento.
L'Europa e il romanzo
Nell'Europa del primo Ottocento, invece, il romanzo si è affermato pienamente da circa un secolo. Compare in Francia nel 1678 con la commovente vicenda della Princesse de Clèves narrata da madame de La Fayette: ambientato a metà del Sedicesimo secolo, alla corte di Enrico II, è la storia di una passione tenuta a freno dal senso dell'onore e del dovere. Avventura e ricerca filosofica sono abbinate nel romanzo di Voltaire Candide(1759) in cui un giovane, dopo mille peripezie, sposa la sua amata, ormai vecchia e brutta, ma scopre anche il senso della vita. Nei Promessi Sposi le partenze i viaggi, le separazioni, le ricerche, gli incontri fortuiti sono piuttosto frequenti e, alla base, sta il meccanismo tipico dei romanzi d'avventura. D'altra parte il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau, nel romanzo La nouvelle Eloïse (1761), riprende il tema dell'amore contrastato dal senso del dovere, costruendo un modello insuperabile di eroina romantica nella figura di Giulia, figlia obbediente e moglie fedele al quale, fatte le debite riserve, potremmo accostare quello di Lucia. Il tema del viaggio, del naufragio, delle difficoltà a cui l'uomo, con la scienza, sa porre rimedio, tornano in Robinson Crusoe (1719) dell'inglese Daniel Defoe, mentre il motivo dell'ingiustizia e della malvagità del nobile che si accanisce su un giovane povero emerge in Tom Jones (1749) di Henry Fielding. Inutile dire che tutti questi romanzi si risolvono con un lieto fine: l'intrigo viene smascherato e il perseguitato riceve la giusta dose di ricompensa, proprio come nei Promessi Sposi, benché nel romanzo manzoniano esista una componente che manca in tutti gli altri: la visione religiosa. Abbiamo dovuto anticipare questa osservazione per evitare false interpretazioni. Nel Settecento, all'interno del filone "gotico", compaiono romanzi "neri", in cui gli eroi si muovono su sfondi tenebrosi di castelli popolati da forze misteriose e sovrumane, ostacolati da malvagi che evocano potenze ultraterrene: è questo il contenuto del Castello di Otranto (1764) dell'inglese Horace Walpole, in cui emerge la figura della fanciulla che, a causa della persecuzione del nobile prevaricatore, non può sposare il giovane che ama. La monaca (1796) del francese Dénis Diderot, narra le peripezie di una giovane che entra in convento, forzata dalla famiglia: non possiamo non pensare alla celebre vicenda manzoniana della monaca di Monza, anche se la storia di questo personaggio è recuperata dalle cronache secentesche del Ripamonti. Il monaco (1796 ), di Mattew Gregory Lewis, rappresenta il tipico esempio di romanzo gotico in cui orrore, erotismo, suspense e violenza si mescolano, avvincendo il lettore. Non dimentichiamo che anche nei Promessi Sposi non mancano rapimenti e colpi di scena, e compaiono personaggi che potrebbero ben essere definiti "oppressori".
Il grande scrittore tedesco Wolfgang Goethe (1739-1842) suggerisce al Foscolo il tema dell'amore infelice nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis con il romanzo I dolori del giovane Werther (1774), che racconta la storia di un amore impossibile per la bella Carlotta. Tuttavia nell'altro suo romanzo, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795) offre un valido spunto anche per Manzoni. L'analisi goethiana della formazione del giovane, infatti, non è estranea all'ideazione del personaggio di Renzo che, nel corso del romanzo, matura e arricchisce la sua esperienza, sino a consolidare una personalità sicura.
b. Il contesto storico – sociale della vicenda narrata
Al tempo del Manzoni il Seicento era considerato uno dei secoli più bui della storia italiana, segnato dalla dominazione straniera, da tragici eventi come la carestia e la peste e dal degrado morale della classe dirigente. Allo scrittore sembrava perciò un periodo ideale per ambientarvi un romanzo romantico il cui obiettivo era quello di commuovere e far riflettere il lettore. Allo stesso tempo, però, la scelta di raccontare un’epoca di soprusi e raggiri legislativi (le famose “grida”) a danno degli umili alludeva anche alla situazione della Lombardia contemporanea, analogamente oppressa dalla dominazione austriaca. Inoltre, il XVII secolo offriva al cattolico Manzoni l’occasione per delineare il ruolo storico della Chiesa che, benché gravemente compromessa con il potere politico (si pensi alle figure di don Abbondio o della monaca di Monza), era tuttavia in quel tempo l’unica istituzione capace, attraverso personalità positive come fra Cristoforo e Federico Borromeo, di soccorrere gli oppressi e correggere le ingiustizie.
c. L’intertestualità
E’ possibile confrontare l’opera di Alessandro Manzoni con il primo romanzo della storia della letteratura escludendo il Satyricon di Petronio (I sec. d.C.) e L’asino d’Oro di Apuleio (II sec. d.C.), ovvero l’ Ivanohe dell’inglese Walter Scott.
4. L’interpretazione e la valutazione
1 Idillio: dal greco = quadretto. Breve componimento poetico, a volte a struttura dialogica, che rappresenta un sentimento amoroso sullo sfondo di un paesaggio ameno. Inizialmente idillio indicava semplicemente la poesia breve, in opposizione all’ampiezza delle odi; siccome però veniva usato in riferimento ai poemetti del greco Teocrito, di ambiente campestre, il termine finì per indicare la poesia bucolica, la rievocazione nostalgica e ingenua della vita agreste. In tal senso, il modello dell’idillio di Teocrito fu imitato dai greci, e nel mondo latino da Tibullo, Ovidio e Virgilio, e continuò ad ispirare la poesia bucolica dal Medioevo all’età moderna.
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Esempio



  


  1. gaia

    spiegazione della poesia resurrezione di alessandro manzoni, perpiacere datemi una risposta perchè sono una ragazzina di 1