Gli Acarnesi di Aristofane

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Testo

GLI ACARNESI DI ARISTOFANE
CONTESTO STORICO:
Nel giugno del 431 , iniziate da poco le ostilità fra Sparta ed Atene, l’esercito alleato, che si era radunato sull’ Istmo sotto il comando di Archidamo, invadeva l’Attica dalla Megaride: dopo aver invano tentato di prendere la fortificata Oinoe e dopo aver devastato Eleusi e la pianura Triasia senza che le forze ateniesi si opponessero in alcun modo, Archidamo, fatta una diversione a N-E, entrò nel territorio di Acarne e, guastato tutto il raccolto, stabilì lì l’accampamento in posizione strategicamente favorevole, appoggiandosi alle ultime falde del confinante monte Parnete. Era Acarne (lllllllllll) il maggior demo rurale attico, formato in prevalenza di agricoltori e carbonai, rifugiatisi poi numerosi in Atene dinanzi all’invasione che li aveva completamente rovinati. Archidamo, al dire di Tucidide, contava espressamente sulla speranza che gli Acarnesi, esasperati dalla distruzioni subite, avrebbero incitato l’esercito ateniese ad uscire in campo ed affrontare il nemico; ciò che egli attendeva, preparato su posizioni favorevoli: ché se poi nemmeno allora gli Ateniesi si fossero mossi, egli avrebbe potuto con maggior sicurezza avvicinarsi ancor più alla città e devastare tutta la pianura. Ma Pericle, seguendo un suo piano strettamente difensivo, moderò con energia tutti i bollori; e l’esercito nemico, attese invano le forze ateniesi ed esaurite le provviste, tolse il campo, si ritirò attraverso Oropo e, passato in Beozia, rientrò nel Peloponneso, dove si sciolse.
Circa sei anni dopo questi avvenimenti, nelle Lenee (fine Gennaio) del 425, A. presentava la sua quarta commedia, gli Acarnesi appunto, con la quale conseguiva la prima vittoria sopra i suoi maggiori avversari, Cratino ed Eupoli, riusciti secondo e terzo: per la prima volta i grandi poeti della triade, consacrata nel noto verso di Orazio (sat. I,4, I “Èupoli, Cratino e Aristofane, questi poeti e gli altri autori della commedia antica, se uno meritava d'essere messo alla berlina, perché furfante e ladro, adultero o assassino, o in ogni caso malfamato, lo bollavano senza complimenti.”), si misuravano fra loro.
In questa commedia, scritta intorno ad i vent’anni, c’è già tutto l’uomo Aristofane. Con i suoi molti bersagli e le sue poche simpatie: la guerra e la pace, i rapporti con gli alleati, i demagoghi, i profittatori di guerra, i sicofanti, Euripide (che qui si prende anche la parte del Socrate delle Nuvole), la cattiva musica. Questo giovane, poco più che adolescente, ha già le idee molto precise sulla politica, sulla poesia, sulla sua città: quelli che per tanti anni, con una mirabile coerenza, resteranno i temi suoi prediletti. Una volta fatta la diagnosi, egli non ha più nulla da cambiare; anche perché la diagnosi era facile. Quella che era difficile, era la cura. E tutta l’opera di A. – e non essa sola- sta a dimostrare che, in questi anni, nessuno in Atene sapeva di preciso che cosa occorresse fare. Tanto meno Aristofane. Atene periva di questo, di non aver saputo esprimere un uomo capace di raccogliere l’eredità di Pericle: se non forse l’eternamente ambiguo Alcibiade, troppo raffinato e troppo intelligente per chiudersi negli schemi politici e morali- da lui superati- della vecchia eeeee. E c’ è anche, in questa commedia, già tutto il poeta Aristofane. Il drammaturgo ha la sua ricetta, di elementi in gran parte tradizionali: le macchiette varie della farsa popolaresca, la tipologia comica trascelta dalla realtà ateniese, la struttura stessa dell’opera secondo i moduli noti. Talvolta si sorprende, in verità, qualche inesperienza: come in incongruenze di fatto, col far passare da Acarne e sorprendere dai suoi abitanti Anfiteo, reduce da Sparta con la tregua, che poteva e doveva seguire tutt’altra via. Oppure nell’imperfetta drammaturgia, quando gli Acarnesi, accorsi furibondi a prendere e a punire il traditore, se ne stanno poi lì, tranquilli e pazienti, ad aspettare che egli si rifornisca da Euripide dei mezzi idonei a perorare la propria causa, per tutta una lunga scena, che, pur sapida in se stessa ma molto meno fine della critica delle Rane, rompe e rallenta l’impeto lirico e drammatico del momento (il poeta stesso sembra accorgersene, cfr. v. 385). Ma cose simili passano in fondo inosservate, anche a causa della constatata scarsa importanza della drammaturgia nella commedia. Queste forme e questi schemi il poeta riempie di un’arte già piena e completa, padrona di tutti i suoi mezzi espressivi. Nella comicità volgare e grossolana della scena del Megarese, noi sentiamo fremere più forte l’orrore umano delle figlie vendute dal padre per fame, appunto per l’assoluta ed ostentata indifferenza morale sotto la quale il fatto è prospettato. E l’inno a Fales, breve e limpido guizzo di canto gioioso, rievoca e chiude tutta la serenità della pace nell’immagine rapida della servotta procace, sorpresa e presa lì, tutta accaldata e non riluttante, sulla terra nuda e nella grande luce del giorno, tra i sentori profumati del bosco. Nella pace della natura, indifferente ed ignara, tacciono le rissa degli uomini: ed il poeta, forse, altro non chiede.
In un'epoca in cui la commedia non ha ancora per fine la moralizzazione di costumi, Aristofane ride e fa ridere di tutto e di tutti, delle cose umane come delle divine, mirando, con una sorprendente schiettezza che non conosce scrupoli, unicamente al divertimento degli spettatori.
TRAMA:
Stanco per la guerra che Atene stà perpetrando nei confronti di Sparta ormai da anni, il contadino Diceopoli decide di proporre all'Assemblea ateniese di discutere una proposta di legge per la cessazione della guerra e la dichiarazione di una tregua. La sua richiesta viene tuttavia ignorata, per via degli interessi che hanno vari personaggi politici e non.
Diceopoli decide quindi di agire di persona, e manda un messaggero a Sparta, con il compito di stabilire una tregua "personale" con gli Spartani. Essi accettano, concedendogli una tregua di ben 30 anni, per mare e per terra.
Da questo momento la vita di Diceopoli cambia radicalmente, non più vita da soldato nelle trincee o sulle navi, ma vita da uomo libero. In virtù della tregua egli ha la facoltà di aprire un'attività commerciale con tutti i popoli confinanti, quindi anche i Megaresi, i Tebani, gli Ateniesi ecc ecc, ed in questo modo le ricchezze accumulate dal furbo contadino sono destinate a crescere. La prosperità derivante dalla pace alla fine piegherà anche i duri Acarnesi, acerrimi nemici degli Spartani.
L’EROE ARISTOFANESCO:
Il “campione” della pace è Diceopoli. Contadino anche lui, di un non precisato borgo rurale dell’Attica, profugo in Atene con la famiglia e rovinato dalla guerra. Dunque, nelle stesse condizioni di quelli di Acarne. Ma, a differenza dei vecchi Acarnesi, creduli bonaccioni tutti d’un pezzo sui quali faceva presa la propaganda dei guerrafondai interessati, Diceopoli ragiona di testa sua e sa molte cose sulle vere cause della guerra. Uomo senza ideali di onore e di patria, avaro e meschino calcolatore di un suo tornaconto fondato soltanto sullo stomaco, studioso del passato a modo suo, storico di un “particolare” della umile ed insopprimibile istintività- , la guerra del Peloponneso (la guerra che a Tucidide apparve l’avvenimento più importante di tutta la storia greca e la fatale conseguenza dell’urto di due ambizioni inconciliabili) egli la riduce, nelle cause, ad una rissa di giovinastri ubriachi per tre prostitute ed ad un intrigo di Aspasia presso Pericle, contro i Megaresi. Nel lungo monologo affidato al protagonista, rivela il suo profondo spirito pacifista ponendo l'accento sull'assurdità della guerra e l'inconsistenza delle motivazioni che l'hanno causata: "... ma una volta dei ragazzi, ubriachi di vino e di gioco, rapirono a Megara una puttana di nome Simeta. I Megaresi, fuori di sé dalla rabbia, rapirono allora due puttane del giro di Aspasia. Da qui scoppiò la guerra che sconvolse tutti i Greci, per tre puttane." Siamo di fronte ad uno dei più alti esempi di perorazione pacifista del mondo antico. Si tratta di una reale consapevolezza degli orrori della guerra e della necessità della pace. Da qui in avanti anche il coro degli Acarnesi inizia a cambiare lentamente idea e l'intento pacifista è rafforzato dall'introduzione ridicolizzata del generale Lamaco, apertamente accusato di trarre vantaggi personali dal protrarsi delle ostilità. Evidentemente, di fronte a motivi così poco nobili, anche lo stomaco di Diceopoli è riabilitato, nel far valere i suoi diritti.
Il tema della pace viene infatti trattato da parte di Aristofane in modo utopico e carnevalesco al contempo. Utopico perché il protagonista, proponendo di fare la pace in forma personale con gli spartani, persegue un progetto chiaramente irrealizzabile e inverosimile; carnevalesco visto il gran numero di personaggi di ogni risma che popolano la commedia col chiaro intento di beffeggiare certe classi di cittadini se non personaggi politici ben definiti. L'utopia pacifista di Diceopoli è tuttavia mossa interamente dal profitto personale. Egli sembra agognare alla pace non in quanto entità astratta ma in quanto condizione che permette di ritornare alla campagna e di godere dei frutti della terra. Lo stesso livore dimostrato dal protagonista verso quel sottobosco di personaggi equivoci che riempiono la commedia (dagli ambasciatori, ai sicofanti e agli arraffoni di ogni sorta), deriva più da un'invidia per i privilegi che questi ultimi riescono ad ottenere che da un rimprovero morale. Anche verso il finale della commedia, quando Diceopoli è riuscito a crearsi un proprio libero mercato, il possesso della pace risulta completamente egoistico e volto soltanto al piacere personale e non al bene comune.
Alla lettura di Aristofane, oltre che di molte altre cose, si diventa debitori del recupero della propria fantasia. Attraverso le “imprese eroiche” del suo protagonista, egli riesce a mettere in luce tutto ciò che di insensato c’è nella guerra. Lo spettatore ride di Diceopoli e della sua rocambolesca avventura, ridendo così del proprio stato di guerra e mostrandoci come la comicità sia l’arte di far ridere gli uomini raccontando la loro tragedia.
CORO, PARABASI, SCELTA DEI PERSONAGGI:
Il coro, che da’ il nome alla commedia, è formato proprio di vecchi Acarnesi, maratonomachi aspri e duri come gli antichi alberi della loro montagna, bellicosi e sordi ad ogni accomodamento con l’odiato nemico che aveva loro distrutto case e raccolti, convinti che la colpa della guerra fosse tutta e solo nella prepotenza spartana. L’avere scelto proprio gli Acarnesi a sostenere la guerra ad oltranza e l’impossibilità di un accordo, rispecchia il reale stato d’animo di quella popolazione, quale esso appare da Tucidide, è anche un indizio che non era facile trovare, fra gli Ateniesi stessi, altrettanto decisi fautori della guerra, al di fuori di coloro che in qualunque modo ne traevano vantaggio.
E tutta la commedia documenta infatti largamente lo stato di insofferenza e di disagio causato da una guerra ormai lunga, che appariva senza via d’uscita e senza altro risultato che la rovina comune della Grecia; documenta la diffusa aspirazione alla pace fra tutti coloro – ed erano in gran lunga i più- che della guerra soffrivano.
Tuttavia i bellicosi Acarnesi da principio odiano molto di più Diceopoli che conclude la pace che non Cleone, il demagogo che era il nemico della popolazione agricola (v.300). Ma la devastazione delle campagne, la distruzione dei vigneti e simili esperienze (232,512), rafforzavano gli argomenti di coloro che “desideravano vedere la faccenda portata a fine”, sebbene queste ragioni toccassero principalmente i contadini che in complesso non erano molto bellicosi. La popolazione della città, d’altro canto, salutava con piacere l’occasione di accrescere il carico finanziario sopportato dai ricchi.
Pure c’è una ragione sottile- è più che un accorto espediente- di affidare le parti di avvocati della pace e della guerra rispettivamente a Diceopoli, “il cittadino giusto”, e ai carbonai e vignaioli di Acarne, cioè a dire, per i due punti di vista, a persone appartenenti alla stessa classe sociale, la classe rurale media. Possiamo trascurare Lamaco, il soldato di professione, tutto muscoli e niente cervello, valoroso ma quasi privo di importanza politica e sociale. Tuttavia gli Acarnesi, i goffi ed onesti Maratonomachi, odiano Sparta sebbene, è vero, odiano ancor più Cleone. Essi vogliono combattere la guerra fino alla vittoria completa. E’ certo che quel tempo una parte cospicua della popolazione era piena di patriottismo e spirito di sacrificio. La guerra continuava non solo perché un partito guerrafondaio la desiderava. Emerge un fatto che una tradizione ostile tende ad oscurare: Cleone non era isolato, egli non era semplicemente un demagogo tiranno, ma era sostenuto da una gran parte della cittadinanza che consisteva, se non esclusivamente, almeno in maggioranza (come era da attendersi )di quella parte di popolazione cittadina dai cui ranghi egli era sorto.Su questo punto A. fornisce una prova indiretta ma inconfutabile. Con grande abilità egli muove il suo attacco aggirando le posizioni nemiche là dove esse sono più deboli.
Non a caso dopo la prima apparizione di Lamaco il poeta inserisce la parabasi affidata al coro, in cui vuole dimostrare la fondatezza delle sue argomentazioni, ma soprattutto l'importanza dei poeti e del diritto di esprimere le proprie idee liberamente, in polemico contrasto col tentativo di censura portato avanti da Cleone con la denuncia dell'anno prima Quando fa diventare gli Acarnesi, da guerrafondai quali erano, promotori della pace, probabilmente nutre qualche speranza di annullare il desiderio di prolungare la guerra, desiderio che era certamente ancor vivo anche in mezzo alla popolazione rurale. Quel che cerca di dimostrare si è che le aspirazioni degli Acarnesi sono giustificate dal loro punto di vista, ma essi sentono così soltanto perché sono stati vittima di un deliberato inganno. Seguono altri due cori in cui gli Acarnesi si lamentano nuovamente delle ingiustizie subite e della scarsa ricompensa rispetto ai sacrifici prestati per la patria e la lunga scena del mercato personale di Diceopoli: la realizzazione del progetto utopico del protagonista. Dopo questa scena, in cui si palesano tutte le virtù e tutti i benefici della pace, Aristofane decide nuovamente di "uscire" dalla commedia con il penultimo coro, in cui "Gli Acarnesi", perso il livore iniziale che li caratterizzava, ricordano con nostalgia i tempi in cui fioriva la pace e prosperavano tutte le bellezze di un mondo agricolo e primigenio. Dopo questo coro, venato di toccante nostalgia, la commedia vola rapidamente alla farsesca conclusione del banchetto, di cui Diceopoli può godere appieno i frutti della "sua" pace. Per contro Lamaco, il generale, è costretto a partire per la guerra, per tornarne tuttavia poco dopo ignobilmente azzoppato nel tentativo di saltare un fosso. Gli Acarnesi sono dunque un affresco composito in cui convivono la commedia più schietta, l'orazione politica, ma anche un inno convinto alla libertà e alla pace. In questo modo egli era sicuro di esercitare sugli spettatori un’influenza maggiore che dimostrando che ogni sentimento bellicoso è da disprezzare per se stesso. Inoltre egli non attribuiva la responsabilità della guerra a Sparta ma a Pericle ed al suo decreto megarese, il che, in quel particolare momento, era certamente assumere una strana linea di condotta(515 e sgg.). Egli dipinge POLEMOS, la Guerra, come uno di quei ricchi giovani dissipati contro i quali soleva scagliare così spesso le sue frecce. Non possiamo dubitare che quando il coro si univa all’inno di pace di Diceopoli molta parte degli spettatori fossero dell’opinione di lui, anche se (o , dovremmo dire, piuttosto, perché) nella commedia ogni atteggiamento non totalmente favorevole alla pace era stato condannato ed esaltati soltanto la vita piacevole ed i godimenti.
Aristofane sceglie questa via ben consapevole del pubblico che avrebbe assistito alla rappresentazione, c'erano sì i cittadini ateniesi, ma sicuramente anche tutti i contadini forzatamente inurbati a causa della guerra che facilmente si sarebbero riconosciuti e identificati con il protagonista. Il vero intento pacifista dell'autore viene espresso nel monologo centrale in cui il poeta parla in prima persona per mezzo di Diceopoli con il chiaro intento di magnificare la pace e di difendersi dagli attacchi ricevuti dallo stratego Cleone per la sua precedente commedia "I Babilonesi" (andata perduta). Cleone trasse infatti Aristofane davanti alla giustizia ateniese con l'accusa di svilire la città di fronte agli stranieri, tentando in buona sostanza di limitare la capacità di critica e la libertà di parola del poeta in nome della guerra in corso. Aristofane non fu condannato e si prese la sua rivincita con "Gli Acarnesi", dove torna a difendersi pubblicamente davanti alla città dalle accuse che gli erano state mosse.
La grande forza evocativa dei cori loro affidati, li porta ad essere l'espressione della natura primigenia, di un concetto di giustizia antico e non mediato dalle nuove istanze di complessità e universalismo con cui si confronta il mondo ateniese.
Diceopoli informa il popolo della situazione e, al tempo stesso, lo critica acerbamente. Egli, il contadino attico, sostiene di aver diritto di criticare in questo modo, “benché egli rappresenti una commedia, poiché anche la commedia può dire la verità”. Qui evidentemente il poeta parla per sé. Come il poeta tragico, Aristofane si crede autorizzato a parlare “dello Stato” e a criticarlo. E’ vero che il passo che segue, in cui parla delle cause della guerra, è comico e, sino ad un certo punto, è una caricatura, ma è evidente che Aristofane attacca gli uomini politici e che egli vuole seriamente criticarli. In particolare, poi, la facilità con cui gli Ateniesi coglievano ogni occasione per far la guerra a Sparta era oggetto della più amara ironia.
D’altro canto, Diceopoli aveva scommesso la testa che avrebbe avuto l’abilità di convincere il popolo della giustezza della causa in pro della pace dicendogli delle spiacevoli verità. Quando finalmente il coro bellicoso appare convinto a far la pac, il poeta sperava, forse, di aver persuaso anche la maggior parte degli spettatori.
TEMA DELLA PACE:
Durante la guerra del Peloponneso nessuno dei piccoli agricoltori che soffrirono più duramente a causa della guerra, né la numerosa classe media nel suo insieme, ebbero nozione dell’idea della pace. Per essi pace significava un “periodo senza guerra”. La guerra, sebbene odiata, era ritenuta necessaria. Diceopoli è ben contento di godere un trentennio di pace, e questo è il più lungo periodo avvenire che venisse considerato, fino a quei giorni, nei trattati; egli disprezza un quinquennio di pace, ma un povero contadino poteva contentarsi anche di questo (188 e sgg., 194 e sgg.- 1021). Pochi anni dopo si conclusero trattati per cinquanta e persino per cento anni. Così l’opinione pessimistica che il periodo della pace dovesse essere limitato veniva a poco a poco abbandonata e ci si evolveva verso la formula ottimistica usata nel quarto secolo, cioè “per sempre”. Questa evoluzione era assolutamente indipendente dalla realtà, ma era indizio di un cambiamento nel modo di pensare: il popolo cominciava a considerare la pace, anziché la guerra, come la condizione normale. Adesso la guerra diviene un “periodo senza pace”.
Questa evoluzione appartiene al nostro periodo, ma difficilmente possiamo trovarne traccia nella commedia. In questa dominava la vecchia mentalità. Tutta l’idea della pace è semplicemente una questione di prudente opportunismo e di un egoismo meschino, e manca assolutamente di un’idealità superiore. Gente che sente in tal modo, non può essere sedotta da frasi patriottiche altisonanti quali sono quelle che usa Diceopoli rivolgendosi agli ufficiali; la sua voce risuona della vera indignazione del patriota greco offeso quando gli ambasciatori traci gli hanno rubato il sacco (167 e sgg.). Senza dubbio, le sue parole sono un riflesso esatto e tipico della realtà. In un certo senso, l’oratoria appassionata dell’uomo bellicoso, sebbene spesso sembri vuota, potrebbe essere più genuina e senza dubbio più realistica di quella dei pacifisti. Anche nella commedia il tipo dell’uomo bellicoso è rappresentato non solo dal ridicolo e tragicomico Lamaco, ma anche dal coro dei cavalieri che esalta Atene come quella che eccelle in guerra, nella poesia e nella potenza( 1078).
Nel 425 Atene , nonostante lo sconvolgimento portato dalla guerra, ferveva di un’intensa attività economica e godeva di una grande prosperità industriale (544 e sgg.). La gente era convinta che combattere sino alla completa vittoria finale avrebbe apportato maggiore prosperità e maggiore potenza.
Diceopoli, però, si lagna della distruzione dei vigneti, delle difficoltà del commercio, della scarsezza di certi viveri. Ed abile parlatore quale egli è, “ferrato” per giunta alla scuola di Euripide, egli fa presto a convincere i semplici vecchi Acarnesi. Stipulata per suo conto la tregua con i Lacedemoni, accorrono i mercanti megaresi e beoti a commerciare con il solo Diceopoli, che celebra felice in famiglia le Dionisie agresti. Nella ritornata abbondanza, Diceopoli si organizza, finalmente, un sontuoso trionfante banchetto: mentre sicofanti e guerraioli e postulanti sono scacciati, e solo alla giovane sposa, che vuol tenersi vicino qualche cosa dello sposo che molto le preme, il nuovo pacificatore manda un’ampollina di tregua. Alla fine, si ritrovano sulla scena Lamaco, che sorretto da due schiavi torna tutto pesto e malconcio e dolorante dalla guerra, e Diceopoli che ritorna dal convito, ebro ed ingoiato, fra due cortigiane discinte, e viene acclamato vincitore dal coro. Possiamo noi dubitare che A. ci dia la fedele descrizione del modo di pensare e di sentire della media dei cittadini? Qui sono gli accenti genuini del popolino che parla semplicemente e onestamente. La trasformazione dei bellicosi ed eroici veterani in entusiastici seguaci di Diceopoli e della sua pace privata desiderosa di godimenti riflette veramente quella che poteva essere la psicologia del momento, quasi al di fuori di ogni caricatura. Così non possiamo vedere nella storia degli Acarnesi una vittoria dell’individualismo e del materialismo, della prosperità privata e del benessere economico, sull’idealismo generale, sullo Stato e sulla politica. Quel che avviene nella sfera di un idillio comico ed utopistico non è più un’azione privata di Diceopoli, e quindi non è solamente la realizzazione di un desiderio personale del poeta. Noi veniamo a conoscere quale fosse l’atteggiamento di una parte della comunità, una parte che era di certo abbastanza numerosa. La risposta all’appello di pace del poeta, che era molto vicina ad un alto tradimento, fu clamorosa ed immediata. E noi non possiamo meravigliarcene; né il possesso di una grande energia politica né la prontezza nel fronteggiare difficoltà e sacrifici potevano togliere agli ateniesi la speranza (o non potremo dire piuttosto il sogno?) di una pacifica e prospera esistenza.
Così, come per magia, la pace tornava in Atene, sulle tavole del Leneo, dopo le invasioni, la moria, il terremoto, gli stenti di sei anni di guerra. O forse piuttosto per uno scherzo crudele? Entro pochi mesi gli Spartani avrebbero invaso l’Attica per la quinta volta: e la guerra si sarebbe trascinata, incerta, per più di vent’anni ancora. Il sogno di Diceopoli, il sogno di tanti Ateniesi e di tanti altri Greci, doveva rimanere lì, fantasma vano e triste come le maschere smesse ed i costumi spiegazzati.
Sarebbe venuta la pace, ma con la disfatta e la resa. Aristofane lo vide, quel giorno. E tacque. Forse, era il giorno di Diceopoli, ma non quello che il suo poeta aveva sognato.
Forse l’assegnazione del primo premio a questa commedia non fu soltanto l’indice di un apprezzamento artistico, ma altresì del desiderio di pace largamente diffuso che veniva a concordare con quella che era l’intima aspirazione del poeta.

TEMA POLITICO:
Aristofane è come se si partisse dal presupposto che la politica sia una faccenda troppo seria per essere lasciata ai politici.
Dei Babilonesi , rappresentati nel 426, sappiamo per lo meno con certezza che il giovane Aristofane in questa commedia trattava della politica della democratica Atene, in particolare di quella di Cleone e che essa ne rivelava il carattere in presenza di stranieri e di alleati. Il risultato della commedia fu che il poeta venne perseguito giuridicamente dall’uomo di stato. Questa è forse la ragione principale per cui, a prescindere dalla questione generale ed importantissima della pace, quelle riguardanti la politica interna e dell’impero ateniese a mala pena ricorrono ne “Gli Acarnesi”che furono rappresentati l’anno seguente. Aristofane era divenuto più cauto. Anche se, penso, restò sempre dell’idea che il demagogo è uno che predica dottrine che sa false a gente che sa cretina.
E’ noto, inoltre, che “Gli Acarnesi” furono dati nelle feste Lenee, quando gli alleati non erano in teatro.
Ciò nondimeno il poeta non nasconde la sua animosità in fatto di politica. In una commedia in cui tutta l’azione è guidata dall’appassionato desiderio di pace del poeta, questi è costretto ad opporsi a Cleone, cioè al campione della politica bellicista; ma Cleone non è sulla scena e pochi sono gli attacchi personali contro di lui. In compenso, Aristofane sferra degli attacchi piuttosto accaniti nei confronti dei burocrati di Atene. Diceopoli prova disprezzo per i pritani; essi,ci racconta Aristofane, come altri funzionari, venivano nominati a sorte, erano “figli del caso”: ordinari cittadini, sebbene personalmente potessero anche essere uomini pieni di superbia che si sentivano superiori al popolo (vv. 23 e sgg. ; 40 e sgg.).Dell’elezione degli ufficiali più elevati, e soprattutto degli eeeeeeeee, il poeta comico dice: “tre cuculi hanno eletto Lamaco”; egli era allora forse tassiarca ma, comunque sia, è evidente che erano ugualmente derisi Lamaco e l’elezione (v. 598). Oltre all’antipatia nei confronti della burocrazia ateniese, Aristofane esprime quella per i sicofanti (coloro che per conto dei demagoghi esercitavano il mestiere di delatori), uomini senza scrupoli ed odiosi. La guerra, “ahimè” avrebbe aggiunto Aristofane, moltiplicava per questi le possibilità di successo. Allora questi cercavano di attribuire ad un qualsiasi individuo, specialmente ai forestieri, relazioni col nemico ed inventavano i più fantastici racconti di cui poi si servivano per ricattare (vv. 818 sgg., 910 e sgg. ,920 e sgg. )
Gli GGGGGGGGGG debbono espellere dal mercato tali furfanti, operazione difficilmente attuabile eccetto che nella commedia, ma ciò nondimeno il suggerimento è significativo (vv. 723 e sgg. , 824 e sg. ) : era indispensabile un’azione da parte dello Stato contro i sicofanti. “Felici i paesi dove gente simile non esiste”; ma più tardi il poeta deve ammettere che tutti i greci soffrivano di questa piaga (vv. 904 e sg.).
CONSIDERAZIONI SULLA COMMEDIA DI ARISTOFANE:
Nella commedia Aristofane si propone lo scopo di divertire e far ridere, con tutti i mezzi sia spirituali che grossolani ed immorali. In ogni commedia poi introduce una tesi per diffondere le sue idee: è necessaria la conclusione della pace; il comunismo è impossibile; l'educazione impartita dai sofisti è funesta. Raramente Aristofane mira principalmente a tratteggiare i caratteri, pure vi riesce con arte stupenda; nessuno meglio di lui avrebbe, ad esempio, potuto dipingere il demagogo corruttore sotto la veste di Cleone. Quanto alla struttura, le opere di Aristofane, come tutte le commedie attiche, sono una serie di scene comiche, gaie, vivaci, talora intimamente collegate fra loro, talora messe insieme alla meglio. Di solito nel prologo è esposta l'azione; segue la pàrodo, iniziano poi le scene dialogate, fra le quali l'"agòne" (la lotta dialettica fra due personaggi). A metà la vicenda viene interrotta dalla parabasi; si hanno ancora altre scene e l'esodo chiude la commedia. Conservatore per eccellenza, il poeta dichiara guerra agli innovatori; è nemico dell'educazione nuova impartita dai sofisti, dalla filosofia nuova che insegna lo scetticismo sugli dei. Ma alle volte finisce col deridere gli dei più degli stessi scettici. E' contro la poesia tragica nuova di Euripide, al quale preferisce Eschilo e poi Sofocle, beffando Eschilo stesso. Odia i nuovi costumi, e inclina verso l'aristocrazia e nello stesso tempo verso una democrazia moderata. Patriottico e chiaroveggente, reazionario ad oltranza, Aristofane nelle sue idee ha del buono e del cattivo. Così se la prende giustamente con i sofisti, ma esagera nel confondere Socrate con questi. Aristofane non è un politico appassionato, né un moralista, né un satirico, ma soltanto un grande poeta. Lo spirito, il brio, il capriccio, la giocondità comica sono le sue qualità spiccate, vere sorgenti di poesia. Né Aristofane è un realista: la sua commedia è soprattutto creazione fantastica. I suoi personaggi si riducono a maschere comiche, e sempre cose e persone del tempo del poeta sono velate nelle commedie in una allegoria che mira soprattutto ad aumentare la forza comica. In Aristofane vi è l'amore per la vita semplice dei campi, la simpatia per gli animali, l'ammirazione per la natura. L'invenzione della parola è prodigiosa: nel dialogo e nel lirismo c'è varietà continua, sicché tutto riesce armonioso, pieno di fantasia. Il coro dapprima è legato all'azione, poi lentamente si rende indipendente in certo qual modo. La lingua si modifica: alcune espressioni non si trovano che nelle due ultime opere, altre solo nell'ultima. In linea generale nelle ultime commedie, la grammatica e la prosodia sono trascurate più che nelle prime. Aristofane è l'ultimo poeta della Grecia attica; autore di argomenti di attualità, desta ancora interesse per la sua naturalezza, per la fecondità di invenzione e per il brio, ma soprattutto per la sua poesia eternamente giovane. Ci sembra quasi che egli sia nato con il dono della risata e la coscienza della pazzia del mondo.

Ines D’Orazio

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