Euripide

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Testo

Sommario
SOMMARIO pag. 1
INTRODUZIONE pag. 2
I CAPITOLO: LA TRAGEDIA pag. 5
1.1 Definizione di Tragedia pag. 5
1.2 Storia della Tragedia pag. 5
1.3 Personaggi Tragici pag. 7
1.4 La Tragedia a Roma pag. 7
II CAPITOLO: EURIPIDE pag. 9
2.1 La vita pag. 9
2.2 Le opere pag. 10
2.3 Lo stile pag. 14
III CAPITOLO: LE TROIANE pag. 17
3.1 Presentazione dell’opera pag. 17
3.2 La trama pag. 17
3.3 Le tematiche pag. 20
IV CAPITOLO: GLI AUTORI TRAGICI: pag. 21
4.1 Eschilo pag. 21
4.2 Sofocle pag. 23
BIBLIOGRAFIA pag. 25

INTRODUZIONE
Euripide è uno dei maggiori autori del teatro greco. Questo ebbe origine nell'Attica nella forma del dramma satiresco, della tragedia e quindi della commedia, in stretta connessione con la vita religiosa. Ciò è anche dimostrato dagli edifici teatrali stessi, che sorgevano infatti nelle vicinanze di grandi santuari. Con il culto di Dionisio, con le sue feste esaltanti e quindi appunto con la comunione dell'umano con il divino, si creò l'ambiente adatto nel quale, a dar vita ad una funzione drammatica, agiscono sensibilità, passioni e fantasia. Infatti, dal ditirambo lirico, caratterizzato dai coreuti (disposti a circolo - cori ciclici - con il corifeo al centro) che esponevano in un canto univoco con più o meno particolari un mito o una leggenda concernenti il dio, si passò al ditirambo dialogato, in cui i coreuti ed il corifeo, invece, assumevano le parti da interlocutori: l'uno che interrogava, l'altro che rispondeva.
Per ottenere il passaggio dalla tragedia al dramma bastò che al corifeo, rappresentante Dionisio, ed ai coreuti, costituenti lo stuolo dei suoi seguaci, si aggiunse un nuovo personaggio. Quest'innovazione fu introdotta da Tespi, personalità importante nell'ambito della tragedia: egli è infatti ritenuto l'inventore della tragedia stessa. Con lui, pertanto, si sarebbe effettuata la scissione tra l'elemento comico e quello tragico: i due componenti erano infatti dapprima mescolati nel dramma primitivo; inoltre Tespi avrebbe sostituito agli eroi e alle loro dolorose vicende le edificanti avventure di Dionisio.
Nel 486 a.C. compare la commedia, nata anch'essa dal culto di Dionisio e collegata con le feste in suo onore. La commedia venne poi regolata da norme precise, gli agoni comici.
Nello spirito competitivo della popolazione greca, i tre poeti scelti negli agoni tragici dovevano presentare una tetralogia (tre tragedie ed un dramma satiresco), invece i tre (più tardi cinque) degli agoni comici gareggiavano con una sola commedia.
L'autore, che talvolta si calava nei costumi dell'attore o del corego stesso od ancora di un esperto corodidascalo, curava l'istruzione del coro, donava una corretta distribuzione delle parti, si preoccupava della loro recitazione e curava l'allestimento scenico, che si arricchì, col passare del tempo, di numerosi ed ingegnosi espedienti.
Vi era poi, estratta a sorte, una commissione di cinque cittadini per la commedia, probabilmente dieci per la tragedia. Questa commissione giudicava le opere presentate e stabiliva una graduatoria. Dopo ciò, l'arconte redigeva un resoconto ufficiale ricco di informazioni relative ai drammi portati sulla scena. Questi testi pervennero a noi, assieme con gli argomenti (ppppppppp) ed i testi manoscritti delle opere stesse grazie ad Aristotele, che li riportò nelle sue "Didascalie".
Il premio riservato ai vincitori, all'autore, all'attore ed in seguito anche al corego consisteva in una corona di edera e di alloro e in un tripode di metallo, che spesso veniva dedicato a Dionisio.
Il teatro in Atene concentrava l'attenzione di tutto il popolo, perché era una forma educativa e quindi, affinché anche i poveri potessero assistere agli spettacoli, era concesso dallo stato un sussidio di due oboli iiiiiiiòòòò
Figura molto importante è costituita da Aristotele che oltre alle "Didascalie" sopra accennate, trasse delle regole importanti dalle modalità delle rappresentazioni teatrali, le famose "tre unità": unità di tempo (la storia doveva svolgersi nell'arco di una giornata), unità di luogo (la scena doveva essere fissa), unità d'azione (per cui la vicenda doveva essere incentrata su un unico protagonista ed un'unica vicenda). Secondo Aristotele, inoltre, lo spettatore doveva aggiungere un'identificazione con il protagonista perchè immedesimandosi nella vicenda potesse raggiungere una catarsi (purificazione) finale. Queste tre unità costituiscono i fondamenti del classicismo che avrà tanta influenza nell'età moderna (dal 500 in poi).
La drammatica ateniese del V e IV secolo a.C., ad eccezione del dramma satiresco, della farsa satiresca, del mimo e del pantomimo che erano rivolti a soddisfare un diletto di breve durata, è legata alle condizioni di tempo e ne porta in scena i fatti e i problemi di maggior rilievo.
La tragedia, quindi, fonde insieme epica e lirica, parola e canto, danza e rappresenta, mediante il mito, la realtà quotidiana, nei suoi fatti, nei suoi contrasti politici e sociali e nelle sue ansie morali religiose. Dal canto suo, invece, la commedia porta sulla scena la vita e i personaggi dell'epoca contemporanea, nella piena libertà di linguaggio e di fantasia, rendendosi forse più popolare.
Nell'età ellenistica il teatro prese l'originale carattere religioso e sociale: infatti l'organizzazione degli spettacoli passava da carica in carica, dapprima all'interno della compagnia, poi addirittura ad impiegati statali. Così la tragedia si ridusse, povera di cariche emotive, alla letteratura o, per un processo di progressiva profanizzazione, si trasformò nella commedia "nuova".
Le interpretazioni teatrali diventano così solo un semplice diveritemento riservato alle corti ellenistiche.
I CAPITOLO: LA TRAGEDIA
1.1 DEFINIZIONE DI TRAGEDIA
La tragedia é un componimento drammatico, elaborato in versi o in prosa, espresso in tono solenne. Lo stile teatrale della tragedia porta sulla scena personaggi di nobile sentire e, con i suoi esiti drammatici ed il più delle volte luttuosi, commuove il pubblico spettatore.
1.2 STORIA DELLA TRAGEDIA
Le origini della tragedia appaiono oramai un mistero, costituito da un insieme di molteplici ipotesi, teorie e problematiche. Sin dall'età alessandrina infatti, i più dotti ellenisti hanno studiato le origini e lo sviluppo di quest'arte. Nell'intrigo che tanto assilla e sconvolge gli studiosi la teoria che riscuote maggiori consensi è quella fondata su alcuni dati forniti da Aristotele. Secondo taluni dati, la tragedia è una creazione della popolazione dei Dori, e deriva dal culto di Dionisio, sviluppandosi dal ditirambo che era mutato da lirico a dialogato e dal dramma satiresco. Ad indicare legami tra il culto dionisiaco e la tragedia appare il nome stesso: per "tragoidia" deve intendersi "canto del capro", in una interpretazione che varia da "canto con il premio di un capro" o "per il sacrificio del capro" a "canto di satiri mascherati da capri". Inoltre, molte rappresentazioni tragiche mantengono caratteristiche rilevanti, come le grandi dionisie, l'altare del dio nell'orchestra (timele) e proedria al suo sacerdote, maschera e abbigliamento degli attori e tante altre. Nonostante ciò alcuni studiosi ne carcano l'origine altrove. Ad esempio, per il Nilsson, il Cantorella ed altri, la tragedia è sorta nell'ambito del culto degli eroi e dal compianto funebre (treno) che, nel dolore del lutto ne rievocava le vicende. Comunque la tragedia risulta di fatto un'invenzione dei greci dell'Attica, deriva da una primordiale forma drammatica già esistente nei ditrirambi di Arione e si determinò nella regione Attica mediante l'introduzione, accanto al coro ed al corifeo, di un attore che rendeva possibile un dialogo al di fuori delle parti cantate. Si apporta inoltre un'altra innovazione, cioè le tragedie non proseguono più il corso di rappresentazioni dionisiache ma intraprendono una nuova strada, quella delle legende del mondo epico-mitico.
Tespi stabilì poi la struttura della tragedia stessa, donando armonia e equilibrio nell'alternanza dei canti e dei dialoghi, adoperando una meditata mescolanza di linguaggi e di ritmi a seconda dei momenti dell'azione: al prologo, con a capo un corifeo, il quale usa il dialetto dorico sia in forma di monologo che di dialogo, che introduce a volte abbastanza estesamente il fatto, teneva poi dietro la parola, alla quale seguiva la serie degli episodi e degli atti, il più delle volte in quattro atti e separati dagli stasismi, con la conclusione finale dell'esodo. A questa struttura si potevano inserire canti e brani lirici di lamentazione degli attori, in alternanza con il coro. La Tragedia fu introdotta ufficialmente in Atene fra il 536 e il 532 a.C. ed ebbe uno sviluppo abbastanza rapido. I drammi si evolsero da quelli Tespi a quelli di Cherilo e poi ancora a quelli di Frinico, il quale riscosse molto successo poichè portò sulla scena argomenti di storia contemporanea. L'apice della perfezione strutturale ed artistica viene però raggiunta solo con Eschilo, Sofocle ed Euripide. A questi si susseguirono numerosi drammaturghi.
Dal IV secolo a.C. la tragedia subisce una forte decadenza, questo anche a causa degli autori di scarso rilievo che vi operarono (ad esempio Teodette e Cheremone). La decadenza si prolungò anche durante l'era ellenistica, nonostante gli agoni istituiti da Tolomeo Filadelfo. I drammi della Peiade si imposero non tanto per i loro pregi contenutistici e formali, ma piuttosto per la novità, la grandiosità e la maestosità della messa in scena. Oggi però di questi drammi non è rimasto nulla.
1.3 PERSONAGGI TRAGICI
Il coro era composto dapprima da 12 e poi da 15 coreuti e sempre legato all'azione, tranne che in Euripide, il quale lo adoperò come semplice intermezzo. Il coro aveva la funzione di esprimere le sensazioni suscitate dal dramma e di darne un giudizio. Per quanto riguara gli attori, erano invece di sesso maschile ed erano distinti in protagonisti, deuteragonisti e trittagonisti a seconda dell'importanza che assumevano nella storia. All'inizio c'era un unico attore, ma poi con Eschile vedremo due attori e ancora con Sofocle ne vedremo tre, a volte con l'aggiunta di un personaggio muto. Indossavano i costumi, alti calzari, ed erano varie le parti che assumevano nello stesso dramma, parlavano il dialetto attico, che lasciava però spazio, durante lunghi racconti, a degli ionismi e nei contrasti serrati e veementi, a sticomitie. Rappresentavano miti ed episodi epici conosciuti, e quindi rapportavano con continui riferimenti più o meno espliciti alle problematiche ed alle vicende del presente.
Per gli spettatori, cioè praticamente tutto il popolo, lo spettacolo diviene la forma educatrice per eccellenza e non solo quindi un diletto. Infatti la tragedia costituisce il prodotto di maggior valore della ricca letteratura greca, grazie alla fusione di elementi lirici ed epici, di realismo e di immaginazione, di arte e di morale.
1.4 LA TRAGEDIA A ROMA
Nel corso del III secolo a.C. fu importata a Roma la tragedia greca. L'età arcaica vide un enorme successo di questo stile teatrale anche se di tutta la produzione è giunto ben poco. Questa forte produzione fu molto lodata da Cicerone, che la considerava una delle glorie letterali nazionali e da Quintiliano che la riteneva addirittura di maggior valore rispetto alla commedia.
I romani, portarono sulla scena sia i personaggi dei miti greci (fabulae coturnatae), soprattutto relativi al ciclo troiano e modellati spesso su Euripide, sia gli avvenimenti ed i personaggi propri del mondo romano (fabulae praetiextae).
I primi autori tragici romani furono Andronico, Nevio ed Ennio, che si ispirarono a modelli ed esemplari greci. Con Pacuvio e Accio, invece, la produzione accrebbe di originalità sia per i vari accorgimenti scenici che vennero utilizzati sia per la rigorosa rappresentazione delle passioni e dei motivi patetici.
La tragedia, però, destinata a restare nel campo letterario non divenne mai popolare e fu tralasciata durante l'ultimo secolo repubblicano e durante l'era imperiale. Il teatro, infatti lasciò sempre più posto alle rappresentazioni del mimo. Subì inoltre la concorrenza degli spetttacoli del circo e dei giochi dei gladiatori. A noi restano solo due versi della "Medea" di Ovidio tutto lo sconcertante teatro di Seneca, probabilmente destinato alla lettura invece che alla rappresentazione teatrale, ed infine l'"Ottavia", presumibile opera di un suo imitatore.

II CAPITOLO: EURIPIDE
2.1 LA VITA
Euripide fu uno dei poeti tragici greci più importanti, nato ad Atene tra il 485 ed il 484 a.C. e morto in Macedonia nel 406.
Quello che sappiamo della sua vita é ricco di pettegolezzi per lo più comici.
Si dice che la madre di Euripide fosse un'erbivendola, e che il padre fosse un oste; tuttavia la famiglia era benestante ed aveva possedimenti a Salamina.
Euripide ebbe una buona formazione culturale e conobbe i Sofisti, di cui sentì l'influsso.
Sembra che Euripide, adolescente, si sia esercitato in uno sport, il pugilato, o al contrario che si fosse dedicato ad attività più calme quali la pittura; fu anche un danzatore e torciere di Apollo.
La sua carriera politica iniziò nel 455 dopo un concorso dove arrivò terzo.
In seguito riportò altre vittorie come, ad esempio, quelle del 441, dove vinse ben quattro volte.
Era un uomo dalle idee progressiste e dalle maniere democratiche ma, a differenza di Eschilo e Sofocle, non prese parte attiva alla vita politica della sua città e non godè quindi di appoggi politici.
Tuttavia, nelle sue tragedie, accenna spesso alla politica del suo tempo. Sembra che ebbe due mogli e che dalla seconda, Cherine, ebbe tre figli: Mnesarchide, Mnesiloco e Euripide il giovane.
I suoi contemporanei ed i posteri avevano l'idea che Euripide fosse scortese, solidario, drammatico e misogino.
Trascorse molti anni della sua vita a Pella, capitale del regno macedone, presso il re Archelao (il suo mecenate). Probabilmente è morto sbranato da un cane da caccia dello stesso Archelao. Il cadavere fu seppellito a Pella, o nella valle di Aretusa, dopo che la notizia della sua morte sconvolse e fece lacrimare Atene, dove fu costruito un cenatafio, la cui iscrizione fu composta da Tucidide.
Per dare un inquadramento storico, si può affermare che la vita e lo sviluppo culturale e poetico di Euripide si inseriscono nel periodo di massimo splendore dello stato ateniese e della successiva fase di sfaldamento e di crisi. Tale parabola coincide storicamente con i due grandi fenomeni dell'Atene classica, cioè l'età di Pericle e la guerra del Peloponneso.
2.2 LE OPERE
Euripide scrisse esclusivamente opere drammatiche, tranne un epitaffio (iscrizione funebre), per i caduti nella spedizione della Sicilia e un epinicio (componimento per celebrare il vincitore), per Alcibiade.
Delle sue opere noi ne conosciamo diciotto, di cui diciassette sono dragedie e una è un dramma satiresco (il "Ciclope", 420-415 a.C.). Delle altre opere ancora ci sono giunti il titolo e numerosi frammenti.
Gli anni di composizione delle opere non sono noti con certezza (probabilmente compresi tra il 455 ed il 406 a.C.). Possiamo ritenere essere rilevanti, tra le varie tragedie di Euripide, oltre alle Troiane, Alcesti (438 a.C.), Medea (431 a.C.), Ippolito (428 a.C.), Ecuba (425-424 a.C.), Ione (415-408 a.C.), ed infine Baccanti (rappresentazione postuma nel 406).
L'ALCESTI
L'opera si svolge a Fere, in Tessaglia, alla corte di Admeto, che, avendo ospitato Apollo, ha ottenuto la possibilità di sfuggire alla morte se qualcuno si fosse sacrificato al suo posto. L'unica che è disposta a morire al suo posto è la moglie di Alcesti, madre dei due bambini.
Il marito di fronte alla morte non può nulla e, in cambio, le promette eterna fedeltà. La fanciulla, in seguito, sarà liberata dalla morte da Eracle, il quale ammira la sua forza d'animo e la vuole premiare riportandola in vita dal marito.
Nonostante il lieto fine, l'opera ha il pathos caratteristico della tragedia.
Admeto è un egoista: rifiuta il sacrificio, ma lo pretende dagli altri, è un "antieroe", anche se è un personaggio poetico e soffre per la morte della moglie.
E da notare in Alcesti l'enorme sacrificio compiuto ma soprattutto l'autorevolezza che la fa diventare una donna fuori dalla figura tradizionale della donna greca.
LA MEDEA è la storia narrante il mito degli Argonauti, che, condotti da Giasone, vanno nella Colchide, per conquistare il vello d'oro, grazie alla magia della maga Medea.
L'azione si svolge a Corinto, dove sono giunti Giasone, Medea e i loro figli. Giasone per acquistare il potere, sposa la figlia del re Corinzio Creonte, Medea viene invece esiliata. Medea escogita la sua vendetta che consiste nel far morire la nuova sposa e suo padre con un dono da lei regalato e poi, per punire Giasone, uccide i suoi figli.
La maga infine fugge ad Atene con il carro per aver asilo da Egeo.
L'attenzione dello spettatore è rivolta a Medea che suscita simpatia ed orrore insieme. Medea è un personaggio dalla personalità sconcertante, dall'orgoglio smisuratoto ed ha una carica passionale di indiscutibile potenza che dà alla tragedia un'eccezionale novità: infatti è la prima volta che una donna greca viene rappresentata con un eroismo duro come la roccia e piena d'orgoglio e dignità.
Giasone appare odioso e le altre figure sono insignificanti.
La vicenda è svolta esclusivamente da esseri umani, gli dei sono infatti assenti.

L'IPPOLITO
L'azione si svolge ad Atene e la protagonista è Fedra, seconda moglie di Teseo, che è innamorata del figliastro Ippolito. La nutrice di Fedra svela il sentimento che prova la sua padrona ad Ippolito che disgustato la rifiuta.
Ella si uccide per l'offesa ricevuta, ma si vendica scrivendo in una lettera che la colpa è di Ippolito che l'ha sedotta.
Il padre addolorato per l'accusa mossa al figlio, lo caccia di casa e lo maledice. Ippolito muore travolto dai suoi cavalli imbizzarriti dal dio Poseidone.
Il protagonista Ippolito è un givane che ama la caccia e venera la dea Artemide; scontroso nei confronti di Fedra, non sa dominare le sue insane passioni.
La totale diversità dei due crea la condizione perchè scoppi il dramma.
Esso si conclude con la rivelazione della realtà al padre Teseo da parte di Artemide, sul luogo del delitto. Teseo allora rimpiange il figlio e gli chiede di perdonarlo.
L'ECUBA
Dopo la caduta di Troia, gli Achei sacrificano sulla tomba di Achille la principessa troiana Polissena, figlia della regina Ecuba la quale vorrebbe morire al suo posto. Dopo la morte della figlia, Ecuba trova sulla spiaggia il cadavere di Polidoro, suo figlio, il quale era stato ucciso a tradimento dal re Polimestore che lo aveva ospitato. La storia finisce con la vendetta da parte di Ecuba, che, infuriata invita nella sua tenda Polimestore ed i suoi figli. Poi acceca Polimestore ed uccide i suoi figli. Ecuba è l'elemento unificatore, ha un carattere molto impulsivo e non tanto costante. Euripide vuole far risaltare la figura di Polissena; lo si può vedere dal fatto che la descrive come avente una regale fierezza; inoltre ha un coraggio ferreo da morire per la libertà.
IONE
Creusa, moglie di Xuto, ha avuto un figlio da Apollo, Ione, il quale dopo la nascita viene affidato ad Ermes che lo porta a Delfi.
Creusa ed il marito si dirigono al santuario di Delfi per consultare Apollo sul perché non hanno figli.
Apollo svela che Ione è loro figlio, senza che Creusa lo riconosca, perché avuto da precedenti avventure extraconiugali di Creusa. Mentre Xuto accoglie Ione nella sua reggia come figlio, la moglie trama per ucciderlo, ma il suo piano fallisce, e la tragedia si conclude con il riconoscimento del figlio da parte della madre.
La trama ha degli elementi fantastici e romanzeschi. Si riscontrano in Apollo due diversi ruoli: quello di sfuggire alle sue responsabilità di seduttore e quello di cercare di porvici rimedio.
BACCANTI
La scena si svolge a Tebe, dove la regina Agave, madre del re Penteo, e le donne della famiglia reale odiano il culto di Dioniso. Il dio, giunto in città, le costringe a partecipare alle orge sul monte Citerone.
Il dio, in sembianze umane, si lascia imprigionare per liberarsi facilmente tra l’esultanza delle Baccanti (tra di esse ci sono la madre e le zie di Penteo).
Penteo, incuriosito, spia le Baccanti sui monti, ma esse, rese succubi da Dioniso, lo scambiano per un leone e lo fanno a pezzi; la regina Agave entra in scena esaltata con in mano la testa del figlio che crede un trofeo di caccia, ma quando la stregoneria si dissolve, si accorge degli atti orrendi che ha compiuto. Agave e le sue sorelle sono messe al bando da parte di Dioniso. Questa è l’unica tragedia di Euripide che ha come protagonista un dio ed è forse la più bella. Il motivo generatore del dramma è la crisi della ragione, governata non dai sentimenti umani ma dal divino.
L’ambiguità è la nota dominante del dramma, ed essa si riferisce non solo alla duplice natura di Dioniso, ma anche agli uomini, che volendo conoscere l’inconoscibile, sono puniti dagli dei con la follia.
CICLOPE
E’ l’unico dramma satiresco che ci è pervenuto per intero.
Sileno, il padre dei Satiri, è tenuto prigioniero con i suoi figli dal ciclope Polifemo.
Odisseo ed i suoi compagni incontrano Sileno, che offre loro dei viveri. Quest’ultimo, per discolparsi di fronte al Ciclope, sostiene che Odisseo gli ha rubato le provviste.
Il Ciclope dichiara che li mangerà tutti, ma Odisseo, astuto, fa ubriacare Polifemo e porta in salvo i suoi compagni.
L’opera è portatrice del messaggio che la ragione può servirsi dell’irrazionale (in questo caso il vino) per assoggettare ciò che è divino.
2.3 LO STILE
Euripide attuò il tentativo di adeguare la scena tragica alla contemporaneità, agli eventi ed alle problematiche di quegli anni, evadendo quindi dalla tradizione tragica. Per questo cambiamento venne però visto come eversore della tragedia piuttosto che come innovatore.
Euripide rappresentò le problematiche dello stato ateniese in espansione: i rapporti fra gli uomini, piuttosto che quelli tra l'uomo e la divinità, continuamente rappresentato da Eschilo e Sofocle. Euripide si preoccupò inoltre di portare sulla scena la triste condizione vissuta nella società dalla donna e dagli stranieri. Nelle scene euripidee non mancavano le figure divine, utilizzate come metafore delle istituzioni sociali, e quindi come tali messe in discussione, essendo la ragione umana lo strumento più atto per modellare le disfunzioni sociali.
Nel corso della rappresentazione teatrale Euripide pone i prologhi espositivi, che assumono funzione anticipatrice della conclusione dell'opera, distogliendo l'attenzione del pubblico dall'evoluzione della vicenda per concentrarla sul dibattito delle idee.
Euripide ricerca una realta', che non ricorra al trascendente, ma che si avvalga della ragione.
Per questi motivi nalla tragedia assume una notevole importanza l'analisi psicologica, dove si scontrano il pessimismo generato dalla coscienza della miseria dell'uomo, che l'uomo stesso si costruisce con i suoi pregiudizi, e l'ottimismo, che, nutrito dalla fiducia nella ragione, può abbattere i pre pregiudizi e stabilire migliori rapporti sociali.
Con la sua tendenza a metteretutto in discussione, Euripide appare seguace dei sofisti. L'autore tragico, però, non è ateo, ma è solamente alla ricerca di un dio buono e giusto in cui credere. Ma il male è dilagante nel mondo e il pensiero dell'esistenza della divinità non è sufficiente ad esorcizzarlo.
Euripide si dimostra dapprima fiducioso nella ragione umana, ma questa fiducia va sempre più incrinandosi, fino ad approdare ad una visione pessimistica della vita. Da questo il suo giudicare vana tutta la vita, al contrario di Sofocle, che cerca conforto nella fede. Così, nonostante la varietà degli schemi della sua tragedia, Euripide è un poeta monocorde per questo suo approdare continuamente a conclusioni pessimistiche.
Impossibile che questa visione della vita non si riversi nelle rappresentazioni: il poeta della debolezza predilige le giovani vite stroncate da una morte prematura e le sue eroine sono creature profondamente deboli, che acquistano per un attimo la forza che non ebbero nella loro triste e breve vita. L'opera di Euripide mira quindi alla commozione del pubblico, motivata da una profonda intuizione del dolore umano, espressa in un lirismo dalla forza poetica irresistibile.
Per quanto riguarda il linguaggio, Euripide rifugge dai toni magniloquenti dei suoi predecessori per approdare alla quotidianità, in cui l'uomo possa riconoscersi. Non tralascia però la profonda liricità del coro e gli sviluppi metrico-musicali.
III CAPITOLO: LE TROIANE
3.1 PRESENTAZIONE DELL’OPERA
Le troiane è una tragedia di Euripide composta nel 415. Ci restano i titoli ed alcuni frammenti dei drammi che costituivano con essa una tetralogia: “Alessandro” e “Palomede” che la precedevano ed il dramma satiresco “Sisifo” che la seguiva. Le tre tragedie avevano per argomento tre momenti di un solo grande avvenimento cantato dall’epos: la guerra di Troia.
3.2 LA TRAMA
Le Troadi (Troiane) rappresentano il momento estremo dell’immensa tragedia. Periti tutti gli uomini, le donne dei vinti, che costituiscono il coro della tragedia, aspettano il loro destino nel campo dei vincitori; poco lontano fumano gli incendi della loro patria. Poseidone, il dio che costruì le mura di Troia e le rimase benevolo, lamenta nel prologo la rovina della città. Giunge la dea Atena, favorevole ai Greci, che ora, offesa per l’oltraggio fatto a Cassandra, strappata a forza dal suo tempio afferma che i Greci saranno puniti del sacrilegio con un doloroso ritorno in patria, in mezzo alle tempeste. Già di qui è chiara la tendenza morale del poeta. Sciagurato chi abusa selvaggiamente della vittoria. La vecchia Ecuba, abbattuta davanti all’ingrasso della sua tenda lamenta le cause della guerra e si rassegna al suo destino. Qui la tragedia è introdotta con due semicori, quello dell donne troiane che si lamentano e piangendo si chiedono quale sarà il loro destino ed in quale parte della Grecia dovranno sopportare la schiavitù. Incaricato di portare e rendere note le decisioni dei capi Greci è l’araldo Taltibio. Questo, una volta giunto, rende noto che ogni donna è stata assegnata ad un padrone. Cassandra, la profetessa vergine sarà sia la schiava che l’amante di Agamennone. Polissena sarà assegnata alla tomba di Achille (Ecuba non capisce che questo è il segno ovvio che stà a significare che sarà sacrificata appunto alla memoria di Achille). La moglie di Ettore, Andromaca, sarà di Pirro, il quale è il figlio di Achille, Ecuba, infine, divennterà la schiava di Ulisse. Intanto si vede nella tenda di Cassandra un chiarore come di un fuoco e subito dopo questa ne esce delirando, interpretando una danza da invasata. Ella celebra con disperazione le nozze nelle quali il suo corpo consacrato al dio sarà violato. Lo celebra cantando per sé stessa l’imeneo, che è il canto di morte. Cassandra in seguito si calma ma continuando con il suo tono da invasata profetizza le sciagure ed i problemi che saranno scaturiti dall’unione con Agamennone. Per concludere invita la madre a compiacersi della rovina dei distruttori della patria che si otterrà per lei. La città vinta sarà più beata di quella vincitrice. L’araldo trascina via Cassandra mentre Ecuba ricorda tutte le sue sventure e pensa a quelle alle quali dovrà essere sottoposta nella sua futura vita di schiava. Questo episodio si conclude con un canto che rievoca le ultime scene nelle quali si vede Troia assediata e l’inganno del cavallo. Si conclude anche con l’inaspettato scempio di Troia e la figura invasata di Cassandra. Dopo questo c’è un episodio nel quale Andromaca (moglie di Ettore) giunge col bambino Astianatte da Ecuba, per riferirle di una nuova sciagura e cioè il fatto che la figlia Polissena è stata sacrificata sulla tomba di Achille. Mentre Andromaca cerca di consolare la madre (Ecuba) torna nuovamente Taltibio per riferire un nuovo messaggio. Questa volta, però, esita nell’annunziarlo, in quanto la crudeltà del gesto che è venuto ad annunziare è veramente inaudita. Questo consiste nell’uccisione del piccolo Astianatte per mano dei Greci, sotto consiglio di Ulisse: il bambino avrebbe dovuto essere buttato giù dalle mura della città. La madre a questo punto, disperata, non può far altro che disperarsi ed arrendersi, vedendosi strappare il fanciullo dalle mani. In cuor suo, però, maledice tutti i Greci. Anche questo episodio si conclude con un racconto molto triste che narra la storia di Troia, distrutta per ben due volte. L’episodio che segue è per lo più incentrato sull’incontro tra Menelao (grande combattente greco) ed Elena. Il combattente è ritornato per prendere indietro con sé in Grecia la moglie, manifestando l’intento, una volta ritornati in patria, di toglierle la vita come punizione. Ecuba a questo punto sostiene la sua iniziativa (quella di uccidere la moglie) ma lo invita anche a non rimanere per troppo tempo con lei, consapevole del fatto che i suoi occhi e la sua bellezza hanno il potere di ipnotizzare uomini e intere città. Mentre Ecuba fa queste raccomandazioni a Menelao, entra nella stanza la stessa Elena (moglie da punire) chiedendo allo sposo l’opportunità di potersi difendersi prima di morire. Dopo la concessione da parte di Menelao, le due donne incominceranno ad inveire l’una contro l’altra, Elena incomincierà incolpando ed attribuendo alla dea Afrodite ogni colpa, Ecuba, dalle sue negherà sarcasticamente le colpe attribuite alla dea e le attribuirà unicamente alla crudeltà del carattere di Elena. Menelao ascolta le parole della vecchia regina e ne condivide le idee, ed è grazie a questo che Elena sarà risparmiata. Qui la scena si ferma e si ha un immagine del coro che invoca Zeus a testimone della sciagura Troiana, e lo invita a scagliare un fulmine contro il valoroso Menelao affinchè riporti Elena in patria. Così si conclude il secondo episodio ed inizia il terzo ed ultimo episodio. Il terzo episodio inizia con la figura di Taltibio (il messaggero) che riporta ad Ecuba il corpo esanime del piccolo Astianatte. La madre, intanto (Andromaca) è stata già imbarcata sulla nave di Pirro e la vecchia nonna (Ecuba) porge l’estremo saluto al piccolo Astianatte. Glielo porge piangendo e disperandosi davanti al piccolo corpo e ricordandone la bellezza e la somiglianza la padre (Ettore), infine decide di seppellirlo disteso nello scudo del padre, così sarà, il fanciullo adagiato nello scudo del padre avrà presto sepoltura. A questo punto si leva il compianto funebre che è interrotto dall’arrivo di Taltibio con un nuovo ordine: quello di far bruciare Troia dai soldati. A questo proposito Ecuba e tutto il coro si dovrà affrettare ad imbarcarsi sulla nave di Achille per poi prendere il mare. Prima di fare questo, però, Ecuba dà l’addio alla sua patria, intonando l’imeneo (canto di morte). Ora in lontananza si vede Troia che arde, i templi in fiamme e gli edifici sacri di Pergamo che cadono: Troia non esiste più, è andata distrutta. Tra le fiamme e le macerie ora si possono scorgere le file lunghe di donne fatte schiave che procedono ordinatamente verso il loro triste destino. Questo dramma che vede molte volte come protagoniste donne indifese e succubi, sottomesse alle decisioni di persone nemiche ed estranee non può avere una vera e propria azione drammatica: a questo proposito sono ingiustificate le critiche ed i commenti dei critici che analizzeranno l’opera in seguito. Suddiviso in tre episodi che vedono come figure principali quelle di Ecuba, che impersonifica il dolore e la disperazione, il dramma non poteva essere, secondo gli storici, più geniale nella sua estrema semplicità.
3.3 LE TEMATICHE
Alcuni degli episodi ed in particolare quello di Cassandra raggiungono grande altezza di nuovissima poesia. In tutto il dramma si congiungono il senso della presenza viva ed acuta del dolore con la convinzione profonda dell’eroicità e della bellezza della sventura di fronte alla apparente vittoria dei distruttori. L’intreccio fonda episodi delle Troadi e dell’Ecuba ed incomincia con i lamenti di Ecubae delle prigioniere Troiane che formano il coro. Poi l’araldo annunciò che l’ombra di Achille, apparsa ai Greci durante la notte, richiede loro Polissena, che deve essere immolata sul suo sepolcro come vittima espiatoria, affinchè i venti spirino favorevoli alla flotta. Ma Agamennone rifiuta Polissena e Pirro. Calcante, preso come arbitro, dichiara che è indispensabile sacrificare la giovane troiana e che in più bisogna uccidere Astianatte, precipitandolo dall’alto delle mura di Troia. Andromaca, avvertito il pericolo, nasconde il figlio nella tomba del padre Ettore. Ulisse però riesce a sventare l’astuzia di Andromaca facendosi consegnare il bambino. Elena viene a cercare Polissena, dicendole che è destinata a sposare Pirro. Ma non ha la forza di mentirle e le svela che stà per essere immolata. L’episodio si conclude con il racconto dell’assassinio di Astianatte e del sacrificio di Polissena.
IV CAPITOLO: GLI AUTORI TRAGICI
4.1 ESCHILO
Eschilo era un poeta tragico greco, nato ad Eleusi nel 525 a.C. circa e morto a Gela nel 456 a.C.. Apparteneva ad una famiglia nobile: il padre era infatti un ricco proprietario terriero. Si dedicò ben presto al teatro, ma ebbe successo solo intorno ai 40 anni (484 a.C.).Visse ad Atene ed in Sicilia. Al drammaturgo vengono attribuiti novanta drammi che si ispiravano alla materia dei vecchi miti, soprattutto a quelli teologici e al ciclo Troiano, degli Argonauti e delle legende Tebane e Argive.
Sono sette i drammi giunti completi sino a noi: "Le supplici", in cui è liricamente rappresentata la protezione concessa da Argo alle figlie di Danao; "I Persiani", di argomento tratto dalla storia contemporanea ; "I sette contro Tebe", avente per soggetto la rivolta e la morte di Agamenone , che avviene per mano di Eteocle e Polinicia, figli di Edipo; "La punizione degli assassini per mano di Oreste" e la sua espiazione; della restante opera, andata perduta, poi i frammenti citati dagli scrittori antichi. Recenti scoperte di alcuni papiri hanno fatto conoscere un Eschilo brillante autore di drammi satireschi, come risulta dai versi tratti da "I pescatori con le reti" o dagli "Spettatori dei giochi istmici".
Tra le Tragedie piu famose vi è quella di Achille, di Licurgo, di Odisseo, di Aiace, di Adrosto e di Issiona. Tra le opere ricordiamo le tragedie isolate: Niobe, i Cori, Crizi a e Penteo. Eschilo lo si può definire il creatore della tragedia. Egli infatti ha fissato la struttura del dramma alternando il coro con le parti liriche. A lui si devono i canoni e i mezzi principali dell'arte drammatica.
Eschilo creò lo spirito della Tragedia; infatti le sue idee danno alla sua opera una severità che i suoi successori eguagliarono. Il suo pensiero morale deriva da Omero e da Solone ma il suo concetto di giustizia costruisce il nucleo del suo dramma.
In ogni sua opera vi è un invito alla moderazione della vita privata e publica. Nelle sue opere traspaiono la rigidità all'osservanza delle rgole morali e nel rispetto per la vita quotidiana.
Eschilo muore a Gela nel 456 a.C.
4.2 SOFOCLE
Sofcle è uno dei maggiori poeti della tragedia greca, nato a Coloro nel 497 e morto ad Atene nel 406 a.C. Era figlio di un ricco fabbricante di armi, Safilo. Sofocle fu educato con molta cura, da Lampro, celebre maestro del tempo del tempo, e, a sedici anni, per la bellezza nonché per la bravura nella musica e nella danza che avrebbe appreso; poi venne scelto a guidare il coro dei giovanotti che cantarono il poema per la vittoria di Salamina nel 480 a.C.
Trascorse la vita ad Atene dove, seppur non prendendo parte alla vita politica, ricoprì la carica di Ellenotamo e due volte quella di Stratego, la primanel 441-440, dopo il clamoroso successo dell’Antigone, la seconda nel 428-427 con Nicia. Dopo la disastrosa sconfitta in Sicilia, nel 413 avrebbe fatto parte del comitato dei dieci probuli incaricati di redigere una nuova costituzione. Ebbe un figlio dalla moglie Nicostrata, Iofonte, autore di tragedie di dubbia originalità.
La sua attività teatrale fu lunga e piena di successi: cominciò nel 468 e si prolungò fino alla morte, con la composizione di oltre 120 drammi che ottennero 24 vittorie e parecchi secondi posti. Tra le opere secondarie si devono aggiungere gli inni, le elogie ed un trattato in prosa sul coro, sfortunatamente andato completamente perduto. Le caratteristiche essenziali dell’originalità delle opere di Sofocle sono molte e di natura diversa. Egli apportò un terzo attore sulla scena, aumentò il numero del coro da dodici a quindici, sciolse il legame della trilogia, in modo che ogni opera fosse completa e compiuta. Il coro divenne il pensiero e le idee del poeta. I personaggi statici di Eschilo, con Sofocle passarono alla mutevole condizione di uomini che cambiano a seconda degli eventi vivendo la loro storia con libertà. La parte dialogata fu accresciuta per rendere più vivo il dibattito senza prevalere sulla corale.
Pura e perfetta l’arte di Sofocle rimase immutata e passò attraverso i secoli quale una delle manifestazioni più geniali dei Greci.
BIBLIOGRAFIA
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- SGROI, I poeti del V secolo a.C., ed. Pindaro Itragici Aristofane
- Siti internet:
http://www.ggg.it/osolemio/Sicilia/arte/letteratura/autori/Euripide.html
http://www.ggg.it/osolemio/Sicilia/arte/letteratura/autori/Euripide/tragedie.html

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  1. Concettina

    cronologia delle tragedie di Eschilo Sofocle e Euripide