L'infinito fra creatività artistica e razionalità matematica

Materie:Tesina
Categoria:Generale

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Testo

TELEVISIONE E NATURA UMANA
Di Marchi Daniele

Eric Harris, 18 anni e Dylan Klebold, 17 anni.
Nessuno, o quasi, si ricorda più di loro. Ormai sono morti, uccisi dalla loro stessa lucida follia. Ma prima di “immolarsi”, di compagni ne avevano già uccisi 16.
Una banda di giovanissimi fa strage in una scuola di Denver. Dopo sei ore di assedio due assassini si uccidono
Usa, massacro razzista 16 morti in un liceo
Tre studenti armati di mitra e bombe sparano contro compagni e professori. Clinton: pregate per le vittime
…la stessa faccia vuota, normale, banale della follia umana. Era la faccia del ginnasiale di 15 anni che il 21 maggio del 1998 uccise a fucilate due compagni di scuola nell' Oregon e poi tornò a casa, per ammazzare il padre e la madre. Gli occhi vacui e lontani del diciassettenne "primo della classe" che nel Tennessee freddò a rivoltellate il compagno più somaro ma più bello che gli aveva portato via la ragazza tre giorni prima del ballo finale della scuola. Le figurine patetiche dei due bambini, uno di 11 e l'altro di 13 anni, che aprirono il fuoco sopra la loro Media nell'Arkansas, ammazzando quattro compagni e un'insegnante.
...E ANCORA…
2 febbraio 1996: a Moses Lake (Washington) un 14enne uccide il suo professore e due studenti
19 febbraio 1997: furibondo perché i compagni lo prendevano in giro, uno studente di 16 anni spara all'impazzata nel liceo di Bethel, in Alaska: tre i morti, preside e due allievi.
1 dicembre 1997: uno studente di 14 anni spara all'impazzata sui compagni che ascoltano una messa nell'atrio della Heath High School a Paducah nel Kentucky. Otto cadono sotto i suoi colpi, tre muoiono poco dopo. "Mi spiace", dice arrendendosi.
24 aprile 1998: a Edinboro, 160 km da Pittsburg, Pennsylvania, un ragazzo di 14 anni uccide con un colpo di pistola alla testa il suo professore di scienze, di 48 anni, e ferisce due studenti durante una festa organizzata dalla scuola, la Parker Middle School
INTRODUZIONE
L’interesse per questa analisi parte da fatti di cronaca. Fatti drammatici. Fatti fin troppo frequenti. Fatti senza una spiegazione logico-raziolnale. Fatti che ci fanno pensare, ci fanno chiedere perché. Le risposte sono poche.
Quello che ci si appresta a leggere è un tentativo di spiegazione. Tentativo, e come tale fallibile.
Non si ha la presunzione di essere esaustivi, di sfornare verità assolute o di dare risposte perfettamente adeguate, però chi farà lo sforzo di seguire il ragionamento, infine, forse, non lo troverà completamente assurdo.
In queste pagine verrà data una risposta al perché siano possibili i fatti succitati. Più precisamente si cercherà di dimostrare che Eric Harris e Dylan Klebold non sono esseri umani, ma esseri televisivi. Cioè esseri creati dalla televisione, la cui natura ontologica differisce da quella di un essere umano. Non si cercherà di definire con completezza né l’essere umano né l’essere televisivo, ma si metteranno in evidenza alcune differenze fondamentali.
Il lavoro si divide in due parti. La prima è la discussione e la dimostrazione della seguente tesi proposta da Giovanni Sartori:
“ La televisione non è soltanto strumento di comunicazione; è anche al tempo stesso, paidèia ( dal greco: formazione del fanciullo), uno strumento antropogenetico, un medium che genera un nuovo anthropos, un nuovo tipo di essere umano.”
( in Homo Videns, 1999, Laterza, Roma-Bari)
Parte della dimostrazione sarà data dall’Ipotesi don Chisciotte secondo la quale un sovraesposizione in età di assorbimento a materiale televisivo produce una devianza semiosica ( i termini specifici verranno chiariti più avanti), in altre parole l’esperienza del tele-vedere sostituisce l’esperienza della “vita quotidiana”, fin quando questo è possibile, cioè fin quando il soggetto tele-allevato non è socialmente costretto ad immergersi nella “realtà quotidiana” ( asilo, scuola, lavoro, ecc…). Al momento del reinserimento però si manifesta la già avvenuta devianza semiosica per cui il soggetto, in parole povere, utilizzerà il codice televisivo per interpretare la “realtà quotidiana”.
La seconda parte del lavoro intende individuare, nei comportamenti criminali descritti nei fatti di cronaca già citati, una delle possibili conseguenze di questa nuova creazione. Si tratta in pratica di applicare le generalizzazioni fatte nella prima parte ad un caso particolare.
Parte Prima
1.1 Televisione e Televedere in un’ottica antropogenetica

Ripropongo qui di seguito con parole mie la tesi illustrata nella parte introduttiva. Si dimostrerà come la televisione possa creare un essere umano diverso da quello comunemente conosciuto, un essere televisivo che rappresenta una sorta di regresso evolutivo. Non è una delle solite demonizzazioni della televisione, anche se non la si elogia, non si vogliono comunque esprimere giudizi di valore sul medium, ma solo farne un’analisi, forse meno scontata di altre. Quella sulla quale ci concentriamo è indubbiamente una tesi ardita per la quale ho faticato a trovare materiale bibliografico di supporto. Anzi è presso che inesistente, se non fosse per un libricino giunto ormai alla terza edizione scritto da Giovanni Sartori già docente alla Columbia University di New York e tutt’ora editorialista del “Corriere della Sera” ,uno dei maggiori quotidiani italiani. Nella prima parte di questo libricino viene proprio affrontata la tesi di una televisione intesa come “medium che genera un nuovo tipo di essere umano”. Tutta l’analisi di Sartori verte sul primato dell’immagine che produrrebbe un impoverimento del “capire” umano. Ma procediamo per ordine.
E’ inutile perdersi in ricostruzioni storiche dettagliate sull’avvento del mezzo televisivo. Tutti sappiamo, lo possiamo sperimentare tranquillamente tutti i giorni, quanto il televisore e la televisione si siano insinuati nella vita di ogni famiglia, di ogni persona1. A livello di comunicazione di massa la televisione introduce un elemento nuovo. Giornali, libri, radio sono tutti elementi portanti di comunicazione linguistica2 , il cui centro comunicativo è la parola, scritta o parlata. Con la televisione il centro comunicativo si sposta per generare un teorico equilibrio tra immagine e parola. Dico teorico perché, come vedremo più avanti, non è così scontato che i due elementi ( immagine e parola) si combinino a somma positiva. Il fatto resta. Il cambiamento c’è ed è evidente. Ora i fatti e le cose non vengono più semplicemente raccontati, ma vengono fatti vedere. E uno dei grandi poteri ( e insieme pericoli) della televisione è il suo farti vedere di tutto: posti in cui non sei mai andato e mai andrai, persone che non hai mai conosciuto e mai conoscerai, ecc…
So che non dovremmo fermarci qui perché oggi come oggi la pura e semplice televisione sembra sorpassata. Siamo sempre più immersi in quell’era multimediale in cui non è più la televisione il cuore, ma il computer. Quindi non parliamo più di immagini di cose reali, ma di immagini di virtuali. Ma ci è parso comunque interessante analizzare, in questa particolare chiave, la televisione sulla cui morte prossima non scommetterei così a colpo sicuro.
1. Ci riferiamo principalmente al mondo sviluppato, non considerando quelle poche zone in cui la televisione non è ancora arrivata in modo massiccio.
2. Sartori, pag.8

Procediamo a vedere come e dove la natura dell’uomo viene modificata dal tele-vedere. La tesi su cui ci muoviamo ha una base fondamentale: l’ambiente in cui si sviluppa, o dovrebbe svilupparsi, l’individuo è costituito da una serie di fattori, tra i quali:
* Famiglia
* Scuola
* Coetanei
* Media
Non sprecherò inchiostro nel criticare un sistema scolastico che se insegna
male, educa anche peggio. Per il fattore genitori cito Sartori:
“ In un indagine diretta da Alfredo Carlo Moro promossa dalla Presidenza del Consiglio e pubblicata nel 1997 ( il cui titolo è Un volto una maschera) si legge che per i 5 milioni di bambini italiani da 0 a 10 anni i percorsi per la “costruzione dell’identità” sono a rischio. Sono a rischio perché i loro genitori sono incapaci di dire di no, trattano i loro bambini alla pari, e così allevano piccoli tiranni di pasta frolla che non sono in grado, da grandi, di reggere all’urto della realtà.” (1999,p.142)
A Torino il 3 marzo 2000 si è tenuto un convegno sul tema “ I nuovi mezzi di comunicazione e l’infanzia. Problemi etici ed educativi”. Sono emersi i seguenti dati: in un anno, negli Stati Uniti, un adolescente vede oltre ventimila spot in televisione, resta di fronte allo schermo in media tre ore al giorno, assiste a ottomila omicidi nei telefilm. E’ emerso in oltre che i bambini italiani, seguendo il modello americano, crescono in un ambiente sempre più saturato dai media.
Niente di nuovo, vero, ma è necessario puntualizzarlo, per legittimare l’elevazione del fattore media a elemento decisivo nella costituzione dell’ambiente di sviluppo del bambino. Per quanto riguarda i coetanei o peer group seguo l’indirizzo dato da Sartori che li colloca nel contesto mass-mediale, perché
“…il peer group riflette quasi esclusivamente una cultura giovanile che è a sua volta una cultura audio-visiva”(1999,p.120)

1.2 Codici secondari e impoverimento semantico

La modificazione della natura umana avviene a livello di processi semiosici. Cosa significa questo. Significa che i meccanismi di interpretazione inferenziale dei segni vengono modificati.3 E’ una modificazione che avviene a livello di decodifica, una trasformazione che investe il ricevente in primo luogo 4. Parlando di decodifica, o comunque di semiotica in genere, dobbiamo parlare di codici. Definiamo qui codici dei sistemi di corrispondenze tra i livelli dell’espressione e del contenuto che costituiscono l’entità semiotica. La televisione presenta un suo codice specifico dotato di una particolarità. E’ un cosiddetto codice secondario cioè un codice che ha come espressione il contenuto di un altro codice. Il contenuto “rosa” si mostra nella sua espressione “quotidiana”5 definito da una serie di tratti distintivi derivati da esperienze dirette con essa: forma, colore, odore, il fatto che ha delle spine che se toccate pungono, il suo significato particolare se regalata, ecc…Quando in televisione abbiamo l’immagine di una rosa abbiamo che l’espressione “quotidiana” diventa il contenuto televisivo, e la nuova espressione sarà caratterizzata da nuovi tratti distintivi alcuni condivisi con l’espressione del contenuto “quotidiano” altri nuovi, altri modificati.
3. E’ abbastanza evidente e scontato che l’uomo non viva in un ambiente meramente fisico, ma è immerso in un sistema simbolico di significati, è si un’animale razionale ma più esattamente un animale simbolico.
4. A livello di interazione comunicativa il rapporto uomo - televisione risulta fortemente determinato, per cui l’uomo sarà praticamente sempre ricevitore. Non discutiamo in questa sede il ruolo attivo del fruitore, ma questo non ne toglie l’importanza.
5. Intendiamo e intenderemo con l’aggettivo “quotidiano” esprimere una qualità derivata da esperienze vissute nel “mondo della vita quotidiana” ovvero:
“…il mondo intersoggettivo che esisteva da molto prima della nostra nascita, percepito e interpretato dagli Altri, i nostri predecessori, come un mondo organizzato. Ora esso è dato alla nostra esperienza e alla nostra interpretazione. Ogni interpretazione di tale mondo è basata su un insieme di previe esperienze di esso, sulle nostre stesse esperienze e su quelle che abbiamo ereditate dai nostri genitori e insegnanti, le quali, nella forma di “conoscenza a disposizione” funzionano come schema di riferimento.” (Alfred Schutz, 1971, p.182)

Ad esempio la forma sarà circa la stessa, anche se l’espressione televisiva perde la tridimensionalità dell’espressione “quotidiana”, l’odore sarà assente dall’espressione televisiva, mentre avremo la possibilità di eliminare istantaneamente e definitivamente la presenza dell’espressione televisiva (spegnendo la televisione o cambiando canale). Grossi problemi non sembrano esserci. E non ce ne sono quando la mia esperienza di espressioni televisive, quindi la mia conoscenza di contenuti televisivi, è adeguatamente completata dall’espressione e dal contenuto “quotidiani”. Immaginiamo se un individuo non facesse esperienze “quotidiane” con una rosa, ma solo esperienze televisive. Cosa ne sarebbe dell’odore della rosa o del fatto che le sue spine pungono?
Questo è uno dei grossi rischi intrinseci all’utilizzo eccessivo di codici secondari, ovvero la perdita di alcuni tratti distintivi presenti nell’espressione primitiva e di conseguenza la perdita di porzioni di significato presenti nel contenuto primitivo.
Un fatto come quello appena illustrato non può non incidere sulla natura umana. Un’eccessiva fruizione di contenuti ed espressioni televisive produce un impoverimento semantico che si manifesta in quel “linguaggio brodaglia” descritto da Raffaele Simone:

“…il linguaggio delle leve giovanili (senza troppa distinzione di classe, stavolta) è generico, incapace di stringere. […] E’ fatto tutto di questo, quello, fare, cosare, cioè d’intercalari che non catturano ma alludono. Rifiuta le messe a punto precise, le focalizzazioni rigorose: lascia tutto indefinito in un insipido brodo di significati.” (1998, p.183)

Se è difficile che qualcuno non faccia esperienze “quotidiane” con una rosa, è meno difficile che qualcuno non faccia esperienze quotidiane di “rispetto”, di “giustizia”, di “libertà”, di “morte”, di “amore”. Ed è facile che questa assenza “quotidiana” sia colmata da una presenza “televisiva”. In questi casi però l’impoverimento semantico risulta più drammatico, perché un conto è scoprire il profumo delle rose, un conto è scoprire che tra i tratti distintivi della “morte” non c’è la possibilità di eliminarla istantaneamente e definitivamente spegnendo o cambiando un qualche canale. Possiamo dire che la drammaticità dell’impoverimento semantico è proporzionale al peso semantico dell’elemento semiotico televisivamente rappresentato.

1.3 Il primato dell’immagine

Altra caratteristica che incide sulla natura dell’essere umano, inteso come animale simbolico, è quella analizzata da Sartori in cui l’invadenza dell’immagine produce un “non capire”. Il punto di partenza e base del ragionamento è il fatto che i bambini oggi guardano ore e ore di televisione prima di imparare a leggere e scrivere. La televisione ha cambiato il modo di conoscere i fatti, che una volta venivano letti o raccontati, oggi vengono fatti vedere (ma non tutto si può far vedere). Secondo Sartori il bambino formato sul vedere è un bambino che non legge. “ Nella Televisione – dice Sartori – il vedere prevale sul parlare, nel senso che la voce in campo, o di un parlante, è secondaria, sta in funzione dell’immagine, commenta l’immagine, . Ne consegue che il telespettatore è più animale vedente che non animale simbolico. Per lui le cose raffigurate in immagini contano e paesano più delle cose dette in parole. E questo è un radicale rovesciamento di direzione, perché mentre la capacità simbolica distanzia l’homo sapiens dall’animale, il vedere lo avvicina alle sue capacità ancestrali, al genere di cui l’homo sapiens è specie.” ( 1999, p.8)
E’ un’affermazione discutibile, ma non priva di verità. Si può discutere sul fatto che la televisione sia caratterizzata dal prevalere delle immagini. Dipende. Il commento a un gran premio di formula uno può effettivamente risultare superfluo, ma è un commento e come tale superfluo. Sfido io a guardare un dibattito in televisione senza sonoro. Il problema però esiste. Esiste e lo testimoniano i fatti. Ci sarà un motivo per cui il lettore ( di libri, riviste, giornali) sta crollando e il telespettatore è in continua crescita per numero e per ore di fruizione. E’ però forse un problema con radici più storiche che altro, è ovvio che due secoli fa si leggesse di più e si guardasse meno televisione, come è stato ovvio leggere fin quando la televisione non è stata inventata. Poi con il suo avvento l’uomo che non è mai stato stupido si è reso conto che era più economico, semioticamente parlando, guardare un documentario che leggersi duecento pagine di ricerca. Sappiamo tutti quanto l’economia sia fondamentale per l’animale simbolico, allora perché perdere tempo ed energie in parole quando una sequenza di immagini mi rende lo stesso effetto comunicativo. Lo rende addirittura meglio. Riprendiamo l’esempio del dibattito televisivo. A livello di analisi conversazionale ricavo sicuramente più informazioni dalla visione che da una registrazione o una trascrizione, in cui si perde tutto ciò che non è strettamente linguistico, perdo tutto quello che è comunicazione non verbale e ( nello scritto) tutto quello che è paralinguistico ( ad esempio l’intonazione) e a livello pragmatico questi elementi contano più della forma verbale semplice. Quindi la televisione è, in linea di principio, uno strumento comunicativo formidabile. In linea di principio perché come sottolinea lo stesso Sartori:

“ ..l’immagine non dà, di per sé, quasi nessuna intelligibilità. L’immagine deve essere spiegata; e la spiegazione che ne viene data sul video è costitutivamente insufficiente. Se in futuro verrà in essere una televisione che spiegherà meglio ( molto meglio ), allora il discorso su un’integrazione positiva tra homo sapiens e homo videns si potrà riaprire.” (1999, p.27)

A questo punto intervengono altri elementi, di gestione del mezzo, di professionalità, fino agli interessi economici. Poco importa se il mezzo è formidabile quando il suo utilizzo è pessimo. “ Il medium è il messaggio”, non penso proprio. Di conseguenza la portata catastrofica di queste nuove creature è da attribuire non al mezzo in sé ma al suo uso, sia passivo che attivo, cioè sia da chi guarda sia da chi decide cosa far guardare. Se si guardasse meno televisione non si correrebbe il rischio di esserne trasformati. Se si facessero vedere le cose in modi diversi ( ahimè non saprei quali), le trasformazioni sarebbero ancora possibili, ma non sarebbero da HOMO SAPIENS a HOMO VIDENS, ma da HOMO SAPIENS a SUPER HOMO SAPIENS.
Abbiamo visto come il codice televisivo sia diverso dal codice “quotidiano”. Di conseguenza i contenuti, o significati, televisivi sono diversi da quelli “quotidiani”. Diversità che, pur manifestandosi a livelli differenti, rimane intrinseca al messaggio televisivo. Una delle conseguenze di questo fatto è quella che mi è piaciuto chiamare: Ipotesi Don Chisciotte.

1.4 Ipotesi Don Chisciotte e definizione della realtà

Perché Don Chisciotte? Come tutti sapranno l’eroe di Cervantes ha una peculiarità. Vive, diciamo, in un mondo tutto suo. In un mondo in cui lui è un Cavaliere che deve combattere contro mostri e giganti, difendendosi da maghi e incantesimi. Il fido scudiero Sancho Panza accompagna Don Chisciotte pur vivendo e vedendo il mondo “reale”. “Reale” tra virgolette perché non si tratta di un reale assoluto bensì relativo. Il mondo di Don Chisciotte non è meno reale, per Don Chisciotte, di quanto lo sia quello di Sancho Panza per Sancho Panza. Iniziamo così un cammino verso quella che timidamente chiamerei definizione della realtà. Il nome a questa Ipotesi e gran parte della sua impostazione sono stati suggeriti da un paio di testi di Alfred Schutz, in cui il sociologo tedesco analizza appunto il problema della realtà. Si tratta di due brevi saggi legati tra loro, precisamente:
* Don Chisciotte e il Problema della Realtà
* Sulle Realtà munltiple, in Saggi Sociologici, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1971.
Ma veniamo alla formulazione dell’Ipotesi:

Una sovraesposizione televisiva, in età di assorbimento, produce, nel fruitore, una devianza semiosica.

Per sovraesposizione televisiva in età di assorbimento s’intende una fruizione, non rigidamente quantificabile, in cui l’esperienza di significati o contenuti televisivi risulta maggiore rispetto alle rispettive esperienze di contenuti “quotidiani”. L’età di assorbimento rientrerebbe in quell’età critica citata nelle prime pagine ( tra i 2 e 8 anni, circa). Per devianza semiosica s’intende l’utilizzo di un codice ( quello televisivo) non adatto all’ambiente ( quello “quotidiano”). Questa si manifesta quando il soggetto tele-allevato è socialmente costretto ad immergersi nella “realtà quotidiana” ( asilo, scuola, lavoro, ecc…), subendo anche gravi smentite delle sue interpretazioni televisivamente impostate. Sicché abbiamo, nel migliore dei casi, adulti invertebrati caratterizzati da atrofia mentale, nel peggiore dei casi, soggetti con nomi tipo Eric Harris e Dylan Klebold.
Procediamo ora chiarendo come sia possibile “confondere” due realtà, quella televisiva e quella “quotidiana”, così apparentemente ben distinte. Secondo una definizione di William James reale è “…ogni oggetto che rimane non contraddetto…”. Quindi che il fuoco bruci è un fatto reale fino quando mi brucio, se un giorno non dovessi più bruciarmi mettendo la mano sul fuoco, il fatto che il fuoco bruci non sarebbe più reale. Ma è lo stesso James a precisare questa affermazione ingenua sostenendo che vi sono diversi e vari ordini di realtà, probabilmente un numero infinito, ognuno con il suo specifico e distinto modo di esistenza, e li chiama “sotto-universi”. Avremo quindi un “sotto-universo” delle esperienze sensoriali e uno delle cose fisiche, percepiti come realtà per eccellenza, il “sotto-universo” della scienza e quello delle relazioni ideali fino a “sotto-universi” metafisici della mitologia e della religione, e altri ancora. James prosegue sottolineando che:
“ Ogni “sotto-universo” mentre si partecipa ad esso è reale a proprio modo; solo che la realtà scompare insieme con l’attenzione”.
Quello di realtà risulta quindi un termine che lo stesso James definisce frangia, e si colloca a livello di esperienza soggettiva, nel senso che ciò che cattura la nostra attenzione è percepito come reale, sia esso il dolore dell’ustione o l’immagine evocata nella nostra mente da una notturno di Chopin. L’analisi di James è volutamente ristretta all’aspetto psicologico e non prende in considerazione quelle che sono le conseguenze del fatto da lui analizzato. Un tentativo in questo senso è stato fatto da Alfred Schutz, che in “Saggi sociologici” si occupa di “ Realtà Multiple” facendo direttamente riferimento all’impostazione di base data da James.
Ed è lo stesso Schutz che precisa:
“Al fine di liberare questa importante idea dal suo contesto psicologicistico preferiamo parlare, anziché di sub-universi di realtà, di province finite di significato su ognuna delle quali noi poniamo l’accento di realtà.”(p.206)

La realtà, intesa come insieme di province finite di significato, è rappresentabile con un modello grafico di questo tipo:

Avremo quindi la realtà cinematografica, quella dei sogni, i vari mondi della fantasia, ecc… Noi ci concentriamo da subito sul mondo della vita “quotidiana” e su quello televisivo. Essi, in quanto province finite di significato, avranno uno loro particolare stile cognitivo, cioè delle caratteristiche interne che li distinguono. Tra queste caratteristiche vi è ad esempio il codice di riferimento, che, come abbiamo già visto, è tipico. Una cosa importante da notare è che ogni provincia è al suo interno coerente. Si parla di province finite di significato perché i confini sono netti. Date due province A e B esiste almeno un elemento X che è reale in A e non in B. Ad esempio nel mondo della mitologia l’elemento “cavallo alato” è reale, nel mondo della vita quotidiana lo stesso elemento non lo è. Non lo è perché non sarebbe coerente con il particolare stile cognitivo della vita quotidiana. Mentre nello stile cognitivo della mitologia la presenza di un “cavallo alato” è normale.
Noi siamo portati per una serie di elementi a considerare il mondo della vita quotidiana come realtà ultima e preminente. Soprattutto perché è il mondo in cui “lavoriamo” più spesso, con il quale abbiamo maggiori e più frequenti esperienze, quello in cui siamo normalmente immersi. Se è vero, come è vero, che l’ambiente degli adolescenti è sempre più saturato dai media, e che questi adolescenti prima di diventare tali sono stati bambini tele-allevati, il rischio che il mondo con cui hanno avuto maggiori esperienze non sia proprio quello della vita quotidiana non pare così assurdo. Se poi consideriamo l’importanza che i primi anni di vita hanno sullo sviluppo cognitivo, e ci immaginiamo un bambino che se non guarda la televisione lo fa perché dorme, il rischio si concretizza maggiormente. E’ qui che la sovraesposizione televisiva produce il danno. Il danno in ultima analisi è considerare realtà ultima e preminente quella televisiva e non quella quotidiana. Se il tele-bambino potesse rimanere nel suo mondo televisivo grossi problemi non ce ne sarebbero. Questo non è possibile. E quando è costretto a scontrarsi con la realtà quotidiana, e questo scontro avverrà perché come abbiamo detto ogni provincia finita di significato è coerente al suo interno e solo lì, le reazioni potrebbero essere imprevedibili. Quella che ci apprestiamo ad analizzare è un tipo di reazione e come tale non rappresenta la regola, ma un caso, nello specifico estremamente drammatico.
Seconda Parte
Eric Harris e Dylan Klebold
Cercheremo ora di stabilire il legame ipotizzato inizialmente tra creature televisive ( la cui esistenza generica è stata ampiamente discussa nella prima parte) e i fatti criminali citati in apertura.
E’ necessaria una premessa per evitare banalizzazioni e fraintendimenti. La sovraesposizione televisiva, come nota Sartori “ Curiosamente…è messa sotto accusa soprattutto perché ( si dice) abitua il bambino alla violenza e lo rende, da adulto, più violento. Dico curiosamente perché qui uno spicchio del problema sostituisce e nasconde il problema” che investe la natura dell’uomo più in generale, di cui gli atteggiamenti violenti rappresentano un accezione particolare. Quindi il problema centrale non è dimostrare che la televisione rende violenti, ma che crea individui, che poi questi individui siano violenti è una manifestazione particolare.
Detto questo veniamo a quello che è stato lo spunto per questa analisi: il caso Eric Harris e Dylan Klebold. Non ci soffermiamo sull’analisi particolare del caso, ma più sulla tipologia dello stesso, quindi il discorso seguente è riferibile a ciascuno dei fatti citati in apertura. Questi fatti hanno in comune alcune caratteristiche. Si tratta di ragazzi e bambini. Il contesto culturale è quello americano. Il crimine è atrocemente assurdo. La creatura televisiva si manifesta proprio nell’assurdità dell’atto criminale. Nel suo non aver senso agli occhi di noi increduli Sancho Panza. L’essere al di fuori della norma è sottolineato dal clamore che essi generano. Se un immigrato uccide un negoziante in una rapina a New York, noi probabilmente non ne sapremmo niente. Il fatto che il mondo ne venga informato, che Clinton faccia un apposito discorso alla nazione, sottolineano in modo evidente l’eccezionalità dell’evento. Quindi non sono fatti normali.
Solitamente in presenza di casi assurdi ci si rifà alle malattie mentali, alla pazzia, alla follia. Possibile che tutti questi baby-assasini siano folli? Possibile. Ma non mi convince. Io non sono uno psichiatra e non mi permetterei di dare una spiegazione in questo senso. Lo faccio in un altro.
Ogni baby-killer è, o era, affetto da quel impoverimento semantico tipico dell’individuo televisivo. Nei casi specifici quest’impoverimento si manifesta nel loro rapporto con la morte, l’uccisione, l’omicidio. La loro esperienza televisiva di omicidi è sicuramente maggiore della loro esperienza “quotidiana”. Questo ovviamente non basterebbe per farne individui televisivi perché altrimenti tutti quegli adolescenti americani che assistono a ottomila omicidi televisivi all’anno dovrebbero essere creature televisive. Ma se al significato impoverito di omicidio aggiungiamo quello di morte la situazione cambia. Quello di morte è un significato estremamente complesso che non può essere appreso televisivamente. La sua esperienza quotidiana si può fare in diversi modi, ma quello presumibilmente più rilevante è quello di apprendimento intersoggettivo in cui l’interpretazione di tale evento, per dirla con Schutz, “è basata su un insieme di previe esperienze di esso, sulle nostre stesse esperienze e su quelle che abbiamo ereditate dai nostri genitori e insegnanti, le quali, nella forma di “conoscenza a disposizione” funzionano come schema di riferimento.” Uno dei tratti distintivi che il significato morte perde a livello televisivo è quello di irreversibilità. In accezione “quotidiana” la morte è ovviamente irreversibile, ma questo lo si apprende solo se vissuto ( quindi morte di un parente o conoscente) o se raccontato ( quindi un parente o un conoscente che condivide con te la sua esperienza). In televisione l’irreversibilità sparisce quasi completamente perché la stragrande maggioranza di morti è scenica. E’ quindi possibile vedere Mel Gibson morire in un film, poi cambiare canale e trovarselo sorridente in una promozione pubblicitaria. Immaginiamo un bambino che vede questa scena, che vive questo passaggio. Se ha qualcuno che glielo spiega non ci sono problemi, ma se è solo, cosa capirà?
Finora abbiamo un bambino che vede ottomila omicidi all’anno, che non ha avuto alcun tipo di esperienza “quotidiana” con il significato morte, e in più, colpo di grazia, è affetto da devianza semiosica perché abbandonato in età critica davanti allo schermo.
Il tragico epilogo è che i nostri Don Chisciotte televisivi si lanciano contro i loro giganti ben decisi ad ucciderli senza però sapere cosa significhi morire. E come l’originale Don Chisciotte saranno sconfitti dai mulini a vento, cioè dalla realtà quotidiana, cioè dal sangue che non è vernice rossa e da quella morte da cui i loro compagni non torneranno in dietro. La realtà “quotidiana” in questi casi si manifesta in tutta la sua durezza, la creatura televisiva esplode, si disintegra e, incapace di reagire, si uccide. Oppure resiste e rimane nel suo mondo, e come se avesse fatto una semplice marachella, dice arrendendosi : “Mi dispiace”.

Marchi Daniele matr.103

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