Il Decadentismo in Pascoli, D'annunzio, Gauguin

Materie:Tesina
Categoria:Generale

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Testo

IL DECADENTISMO
LA POETICA
Definito da B. Croce "dilettante di sensazioni", D'Annunzio interpreta il gusto decadente e intende il poeta come soggetto inimitabile dotato di acuta sensibilità. L'arte è attività suprema, fortemente soggettiva ed esaltante.
Alla base del pensiero dannunziano è possibile riscontrare queste tre componenti: estetismo, panismo, superomismo.
"Il Piacere" è considerato la vera e propria "bibbia" del decadentismo italiano, in cui il protagonista incarna il simbolo della sfrenatezza sensuale che sfocia nella lussuria, generando insoddisfazione e inappagamento dei desideri. Andrea Sperelli è un personaggio autobiografico, poichè è l'incarnazione di quello che l'autore avrebbe voluto essere.
L'esteta vive da uomo fuori dal comune perché eccezionalmente dotato e raffinato. Nel romanzo il poeta rivela una ricerca della bellezza come prototipo di una donna affascinante e sfuggente, espressione di ciò che può ammaliare un esteta.
L'estetismo tende a rappresentare immagini cariche di compiacimento estetico.
Il culto per la parola predilige quella provocatoria, suggestiva e la forma preziosa e barocca. Soprattutto in Alcyone l'autore esprime il panismo, il cui nome deriva dal dio Pan che tornato sulla terra, invita gli uomini a immergersi nelle cose, a immedesimarsi in esse; le parole e le immagini si fanno evanescenti, mentre il linguaggio è analogico ed evocativo.
Una concezione decadente della realtà consente di attribuire alla natura caratteristiche umane e all'uomo di immergersi nella natura. Si attenua fino quasi ad annullarsi la distinzione tra il soggetto-poeta e l'oggetto-natura.
Dietro alle parole c'è però il vuoto più completo di pensiero, ma soprattutto di sentimento. E' riscontrabile nel poeta il desiderio di imporsi, di agire e ciò sconfina in megalomania già riscontrabile nel poeta adolescente che negli anni maturi risente della nuova filosofia tedesca (superomismo).
Giovanni Pascoli
(1855-1912)
Nasce nel 1855 a S.Mauro di Romagna da modesta famiglia: il padre è amministratore di una tenuta dei principi di Torlonia.
Il 10 agosto del 1867 il padre, mentre ritorna a casa, viene assassinato: iniziano le difficoltà economiche per la famiglia, infatti la madre rimane vedova con sette figli ancora bambini.
L'anno seguente muoiono la madre e la sorella maggiore. Intanto Giovanni continua gli studi presso un collegio diretto dagli Scolopi di Urbino.
Finiti gli studi liceali, in un concorso di borse di studio, si classifica primo (lo esamina Carducci) e si può così iscrivere alla facoltà di lettere.
Nel 1876 ci sono altri lutti in famiglia: muore il fratello Giacomo.
A queste tristi esperienze che provocano in lui un senso di rivolta è in parte dovuto l'accostamento alle idee anarchico-socialiste di Andrea Costa.
Nel 1879 viene arrestato per aver partecipato ad una dimostrazione anarchica: al processo viene dichiarato innocente, ma l'esperienza del carcere ha inciso profondamente sulla sua formazione e lo ha orientato verso una dolorosa rassegnazione.
Nel 1882 si laurea e nel 1897 ottiene la cattedra di letteratura a Messina. Nel 1903 passa all'università di Pisa, e quattro anni dopo succede al Carducci all'università di Bologna.
Muore nel 1912 a Bologna.
POETICA
La poetica del fanciullino:
In un suo scritto famoso, "Il fanciullino", Pascoli definisce ampiamente la sua poetica.
La poesia non è "logos", cioè razionalità, ma consiste in una perenne capacità di stupore tutta infantile, in una disposizione irrazionale che permangono dentro l'uomo anche quando si è cronologicamente lontani dall'infanzia.
Il poeta viene paragonato al fanciullino che si mette di fronte alla realtà rendendo inattiva la ragione: sa attribuire significati alle cose che lo circondano, estremamente soggettivi.
Il poeta, come il bambino, secondo Pascoli, è privo di malvagità, è caratterizzato dalla condizione di stupore e dalla capacità di riflettere i propri stati d'animo nelle piccole cose.
Il poeta-fanciullino è una figura astratta perchè non tutti i fanciulli sono buoni e, imperfetta in quanto il poeta non riuscirà mai pienamente nel suo tentativo di tornare bambino.

Questo fanciullino "...alla luce sogna o sembra sognare ricordando cose non vedute mai... parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle; popola l'ombra di fantasmi ed il cielo di dei...".
Il fanciullino "...impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare e... adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e viceversa...".
"... Il nuovo non si inventa: si scopre..." e la poesia consiste nel trovare nelle cose "il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serenamente di tra l'oscuro tumulto della nostra anima...".
Il linguaggio:
Pascoli è perplessodi fronte alla realtà e assume un atteggiamento vittimistico. Per questa ragione i suoi temi, che sembrano estremamente semplici, sono carichi di simboli, in quanto egli usa la tecnica del correlativo-oggettivo che gli permette di trasferire i suoi stati d'animo negli oggetti che lo circondano. Perciò egli si serve di un linguaggio simbolico, evocativo e denso si suggestione.
Contini ha individuato, nell'autore, un linguaggio pregrammaticale, uno grammaticale, e un altro postgrammaticale. Il primo è costituito essenzialmente dalle onomatopee, il secondo corrisponde a quello dell'uso e l'ultimo coincide con le lingue speciali. L'uso di questo linguaggio tecnico lo avvicinerebbe allo stile veristico, ma bisogna tenere conto della coesistenza di questi 3 linguaggi che rende possibile un'innovazione: la sua poesia è infatti evocativa e fortemente soggettiva, assolutamente non descrittiva, come prevede la poetica del decadentismo. Tra l'altro Pascoli si impegna in una sperimentazione che lo porta a usare, nel poemetto Italy, un "pastiche" linguistico di grande originalità.
L’IDEOLOGIA PASCOLIANA
La concezione pascoliana della realtà è fondata sulla dominante presenza di un mistero insondabile al fondo della vita dell’uomo e del cosmo.
Mentre il positivismo, fiducioso nella scienza, aveva concepito l’inconoscibile come una sorta di territorio ignoto da sottoporre progressivamente a una ricerca condotta col metodo sperimentale, Pascoli ne fa il centro di una sofferta meditazione. La scienza, secondo lui, ha ricondotto la mente dell’uomo alla coscienza del suo destino inesplicabile, non ha assolutamente donato libertà all’uomo, ma, anzi, la società industriale, valorizzata dal positivismo, soffoca l’uomo, gli nega ogni piacere: viene così definito il "rifiuto della storia" secondo il quale la storia viene contrapposta al mondo campestre delle piccole cose.
L’uomo, secondo Pascoli, brancola nel buio, ignaro della sua origine e delle finalità del suo vivere, è un essere fragile mosso da impulsi ciechi che lo spingono spesso all’odio e alla violenza. Di conseguenza, l’atteggiamento del poeta di fronte alla realtà è caratterizzato dalla "vertigine" davanti al mistero dell’essere, da una perplessità davanti al problema insolubile del dolore, del male, della morte.
Bisogna ancora inserire Pascoli nel generale orientamento del tempo, il decadentismo, che rifiutava la civiltà contemporanea: mentre autori come Huysmans, Wilde, D’Annunzio concretizzano questo rifiuto con il vagheggiamento di un mondo di pura bellezza , Pascoli lo concretizza o con il ripiegamento intimistico, spesso vittimistico, oppure nel vagheggiamento della campagna e delle umili cose, di un paradiso perduto. Nel poeta, inoltre, il rifiuto della storia dà come conseguenza amara la solitudine, l’autocommiserazione, lo smarrimento di chi non riesce a vedere altro che la Terra come un atomo opaco del male. Ne deriva, quindi, la visione di una vita tutta raccolta nell’ambito della famiglia, gelosamente custodita e difesa.

"...Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello che è morto!
ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto..."
da: Nebbia
GABRIELE D'ANNUNZIO
(1863-1938)
Nel 1863 nasceva a Pescara Gabriele D'Annunzio da famiglia agiata; nel 1874 fu iscritto al collegio Cicognini di Prato ove si fece subito notare per l'irrequietezza e la vivacità del suo carattere, la palese tendenza al divertimento e allo scherzo malizioso e pesante.
Ancora in convitto pubblicò, nel '79, una raccolta in versi: Primo Vere.
Conseguita nell'81 la licenza liceale si stabilì a Roma dove entrò a contatto con ambienti sia letterari sia aristocratici, iniziando una fortunata attività di giornalista, di scrittore, di uomo di mondo.

Si iscrisse all'Università presso la facoltà di lettere, ma non la frequentò mai, perché impegnato in altri interessi di studio. Fu nella redazione del "Capitan Fracassa" di Scarfoglio e lavorò alla "Cronaca bizantina", un periodico fondato da Sommaruga. Giunse improvviso il matrimonio con Maria Harduin di Gallese, dopo una romantica e breve fuga in treno.
Negli anni successivi accentuò i tratti già presenti nei suoi primi scritti e divenne lo scrittore dell'alta società romana, della quale esaltò i riti mondani.
Nel 1889, dopo un soggiorno a Francavilla, compose "Il Piacere". Dal '91 al '93 abitò a Napoli con Maria Gravina ed in questo periodo nacquero numerosi lavori come le "Odi Navali", il "Poema Paradisiaco" e il "Trionfo della Morte".
D'Annunzio si occupò della propria rinomanza, che coltivava con una vita volutamente sontuosa e con scandali calcolati abilmente. Tra i tanti gesti clamorosi vi fu una campagna elettorale che lo portò in Parlamento dove sedette all'estrema destra, facendosi notare per qualche clamoroso colpo di scena quale il passaggio nel 1900 all'estrema sinistra.Il soggiorno alla Capponcina fu all'insegna di altri amori, tra i quali la relazione con l'attrice Eleonara Duse che descrisse impietosamente nel romanzo "Il Fuoco" (1910). Nel 1910 oppresso dai debiti si trasferì in Francia dove compose molte opere teatrali (come "Le Martyre de Saint Sébastien) e poetiche (come "La Contemplazione della Morte" e le "Canzoni delle Gesta d'oltremare" per l'impresa libica).
Scoppiata la prima guerra mondiale e cominciata in Italia l'agitazione interventista, nel '15 rientrò in patria dove diventò uno dei più fanatici interventisti, pronunciò da Quarto un discorso che appare come un appello a correre in guerra. La guerra gli offrì il momento più eroico della sua vita e l'occasione per le sue spericolate ed eccentriche gesta: la Beffa di Buccari, il volo su Trieste nel'15 e un volo su Vienna nel '18.
Ferito in un incidente perdette l'occhio destro e durante la convalescenza scrisse "Il notturno".
Alla fine della guerra fu animatore di gesti nazionalisti e diffuse il mito della "vittoria mutilata". L'ultima azione fu la "marcia su Fiume", città della quale divenne legislatore sino al '21.
Si ritirò infine nella villa di Gardone Riviera, da lui chiamato "Il Vittoriale" che trasformò in un mausoleo fastoso della sua vita e della sua opera. Qui, pur non smettendo di partecipare sia pure con scritti e messaggi agli eventi del paese, lo colse la morte nel '38.
LA POETICA
Definito da B. Croce "dilettante di sensazioni", D'Annunzio interpreta il gusto decadente e intende il poeta come soggetto inimitabile dotato di acuta sensibilità. L'arte è attività suprema, fortemente soggettiva ed esaltante.
Alla base del pensiero dannunziano è possibile riscontrare queste tre componenti: estetismo, panismo, superomismo.
"Il Piacere" è considerato la vera e propria "bibbia" del decadentismo italiano, in cui il protagonista incarna il simbolo della sfrenatezza sensuale che sfocia nella lussuria, generando insoddisfazione e inappagamento dei desideri. Andrea Sperelli è un personaggio autobiografico, poichè è l'incarnazione di quello che l'autore avrebbe voluto essere.
L'esteta vive da uomo fuori dal comune perché eccezionalmente dotato e raffinato. Nel romanzo il poeta rivela una ricerca della bellezza come prototipo di una donna affascinante e sfuggente, espressione di ciò che può ammaliare un esteta.
L'estetismo tende a rappresentare immagini cariche di compiacimento estetico.
Il culto per la parola predilige quella provocatoria, suggestiva e la forma preziosa e barocca. Soprattutto in Alcyone l'autore esprime il panismo, il cui nome deriva dal dio Pan che tornato sulla terra, invita gli uomini a immergersi nelle cose, a immedesimarsi in esse; le parole e le immagini si fanno evanescenti, mentre il linguaggio è analogico ed evocativo.
Una concezione decadente della realtà consente di attribuire alla natura caratteristiche umane e all'uomo di immergersi nella natura. Si attenua fino quasi ad annullarsi la distinzione tra il soggetto-poeta e l'oggetto-natura.
Dietro alle parole c'è però il vuoto più completo di pensiero, ma soprattutto di sentimento. E' riscontrabile nel poeta il desiderio di imporsi, di agire e ciò sconfina in megalomania già riscontrabile nel poeta adolescente che negli anni maturi risente della nuova filosofia tedesca (superomismo).
D'Annunzio, avendo rifiutato di porsi una problematica del vivere, si proiettò in una vita attiva e combattiva. Il suo vitalismo si rivelò in due sensi: come insofferenza di una vita comune e normale e come vagheggiamento della "bella morte eroica". Egli perciò insiste sui temi della grandezza, dell'orgoglio, dell'eroismo estetizzante.
Costretto a reprimere gli impeti adolescenziali , seppe fondere vita e arte in una sintesi di eroismo e decadentismo. Egli determinò la svolta più importante del decadentismo, quella superomistica, a cui aderì dopo la lettura nietzschiana. Il superomismo si adeguò alla carriera tribunizia, ma prima ancora la via era stata imboccata con i romanzi "Il Trionfo della morte" (1894) e " Le Vergini delle rocce" (1895) per proseguire con "Il fuoco" e "Forse che si forse che no" (1910) i cui protagonisti
(Giorgio Aurispa, Claudio Cantelmo, Stelio Effrena e Paolo Tarsis) incarnavano la figura del super-uomo tribuno proponendolo come il modello del nuovo capo politico, il cui compito era ricondurre "il gregge all'obbedienza". In D'Annunzio il superuomo trovava la sua perfetta identificazione, con l'artista, la vita inimitabile diveniva l'arte stessa, banco di prova delle sperimentazione delle passioni e della volubilità dell'uomo. In lui non fu tanto la vita a tenere dietro l'arte, ma fu l'arte a seguire le eccentricità della vita e ciò costò al poeta un'accusa di divismo e superficialità.
E' da notare che esiste, in contrapposizione ai due aspetti del vitalismo, un senso di stanchezza improvvisa: sentì il desiderio di purificazione, di innocenza e allora si rifugiò nei ricordi a lui più cari. L'opera che meglio esprime questa condizione è "Poema Paradisiaco" (1893), in cui una buona assimilazione del simbolismo francese gli consentì di rinnovarsi in misura soddisfacente.
Vi è il passaggio dalla sensualità alla purezza e all'innocenza di una vita semplice. In questi improvvisi ripiegamenti interiori mancava una amara consapevolezza della caducità delle cose e della precarietà dell'uomo: questi motivi si potevano avvertire solo superficialmente, ma non c'era un sincero proposito di rinnovamento dello spirito.
Da un affannoso fiorire di sensazioni e di immagini si genera il "Notturno", che egli compose al buio e nel quale si alternano e si intrecciano due motivi: il rimpianto dell'adolescenza e della vita in genere consumata e perduta; l'immediato rimpianto dell'azione di guerra, del rischio mortale del volo su Vienna. Il "Notturno", nato come diario, si arricchisce di sogni, ricordi, visioni, apparendo come una autoglorificazione
D'Annunzio si spoglia quindi di qualsiasi dimensione superumana e tensione vitalistica per attuare un sincero ripiegamento interiore .

"Il verso è tutto […]; può definire l'indefinibile e dire l'ineffabile;
può abbracciare l'illimitato e penetrare l'abisso […];
può, infine, raggiungere l'Assoluto".
"Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte"
"Avido d'amore e di piacere, non aveva ancora interamente amato né aveva ancor mai goduto ingenuamente".
"Nel tumulto delle inclinazioni contraddittorie egli aveva smarrito ogni volontà ed ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Ma codesto senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio".
da "Il piacere"

"…io vivrò della tua vita.
In una vita semplice e profonda
Io rivivrò. La lieve ostia che monda
Io la riceverò da le tue dita.

Mentre che fra le tende scolorate
Vagherà qualche odore delicato
(m'odi tu?) qualche cosa come un fiato
debole di viole un po' passate,
sonerò qualche vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai nobile, anche un poco
triste; e il suono sarà velato, fioco,
quasi venisse da quell'altra stanza".
da Consolazione del "Poema Paradisiaco"
"Un ordine di parole può vincere d'efficacia micidiale una formula chimica"
"Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori […]. Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare"
La Grande Guerra
Alla vigilia della grande guerra l'Europa "dominante", costituita dai paesi occidentali e centrali, offriva un'immagine di forza e di prosperità: prosperità per le nazioni, ricchezza e benessere per i ceti dirigenti, diffuso senso di sicurezza, libera circolazione di uomini, di merci, di capitali, di idee. Il sistema liberale e quello capitalista davano l'impressione di avere raggiunto il loro apogeo e di avere assicurato all'Europa l'incontestato dominio del mondo. Si trattava in realtà di un fragile equilibrio e non erano mancati segni premonitori di crisi ( prima e seconda crisi marocchina, 1905-06 e 1911, annessione da parte dell' Austria della Bosnia e della Erzegovina, 1908 , prima e seconda guerra balcanica, 1912-13 ), che dovevano di fatto precipitarla in una guerra "civile" che avrebbe segnato la fine del suo predominio mondiale a vantaggio degli Stati Uniti d' America e del Giappone. Lo scoppio della rivoluzione in Russia concorse potentemente a determinare la rovi del sistema liberale e capitalista già prima che la grande depressione del 1929 la seconda guerra mondiale del 1939-45 le vibrassero nuovi irreparabili colpi. Per quanto attiene alla situazione politica l'Europa si presentava nella primavera del 1914 lacerata e divisa in blocchi contrapposti: da un lato Francia, Russia, Inghilterra, unite dal 1907 nella Triplice intesa, dall'altro Germania, Austria-Ungheria, Italia, strette dal 1882 nella Triplice alleanza, anche se l'Italia, pur nel rispetto formale del trattato, si muoveva in effetti con una sempre maggiore autonomia. Le più gravi ragioni di conflitto erano la rivalità austro-russa nei Balcani, il mutuo risentimento e la diffidenza reciproca tra Francia e Germania, l'insanabile rivalità navale anglo-tedesca. La situazione era resa esplosiva dal fatto che il "contenzioso" diplomatico era immerso in una atmosfera che la "logica dell'imperialismo" e la larghissima diffusione delle passioni nazionali avevano reso incandescente.
La pittura di Gauguin
Se Van Gogh ha cercato la risposta ai suoi assillanti interrogativi esistenziali nel suicidio, Paul Gauguin (Parigi, 1848 -Isole Marchesi, 1903) lo ha fatto consegnandosi volontariamente ad una sorta di "morte civile". Agiato funzionario di borsa fino all'età di trentacinque anni, d'improvviso decide di gettarsi alle spalle lavoro e famiglia per correre un'avventura che lo porterà sempre più lontano nello spazio e nel tempo, sul filo di ricerca di una libertà espressiva che è anche - e innanzi tutto - ricerca delle proprie radici in un mitico "primordio" . Dopo un timido avvio da pittore "della domenica" - come si direbbe oggi -, alla metà degli anni '70 Gauguin entra in contatto con Pissarro, frequenta gli impressionisti, si applica con diligenza alla loro lezione e, dal '79 in poi, partecipa a tutte le mostre del gruppo. Alla sesta, una sua opera, Susanne che cuce (1880), ottiene un lusinghiero Commento dallo Huysmans che, non avendo ancora abiurato il naturalismo zoliano, apprezzava in quel nudo femminile la "veemente nota di realtà" . Ma non è questa la strada che Gauguin intende seguire e, mentre la pittura lo prende sempre più, sempre più netta appare anche la divaricazione dall'impressionismo.
Lasciata Parigi nel 1886, dà inizio al suo irrequieto vagabondare: la Bretagna, Panama, Arles; poi - dopo lo sfortunato sodalizio con Van Gogh - ancora la Bretagna. Qui, tra Pont-Aven e Le Pouldu, vanno rapidamente maturando, nel sodalizio con il giovane Emile Bernard, nuove scelte poetiche e formali. Nella visione dopo il sermone (1888) già si registra lo scavalcamento dei puri dati di realtà fenomenica: le donne bretoni, che hanno ascoltato in chiesa la narrazione di un fatto biblico, lo rivivono nella loro fantasia come accadimento reale e pieno di forza drammatica. La lotta fra Giacobbe e l'angelo, cui le donne assistono mentre sono ancora in preghiera, è infatti carica di sottintesi morali: chiama in causa il bene e il male, la concessione del favore divino. Gauguin unifica due momenti temporali (prima/dopo) e due livelli (naturale/sovrannaturale) normalmente distinti, con l'espediente formale dell'albero - specie di boccascena teatrale al quale le donne s'affacciano per assistere alla "sacra rappresentazione" in atto - e, saturando di rosso lo spiazzo dove si svolge la lotta, carica di tensione emotiva e di valori simbolici l'immagine. Immagine che, nella misura in cui assegna alle forme e ai colori contenuti di natura soggettiva e spirituale, non ha più solo carattere illusivo, ma allusivo. A differenza di quella impressionista, essa dovrà pertanto scartare gli effetti mimetico-atmosferici per accentuare quelli evocativi e "di memoria" .Così, le gamme frazionate, la pennellata multiforme, finalizzate ad una resa "illusionistica", vengono da Gauguin ridotte a campiture uniformi, stese à plat e marginate da contorni netti, segnati in nero (cloisons ) . Sono elementi, tutti, che concorrono a trasformare gli oggetti reali in "cifre" stilizzate e fanno pensare alle caratteristiche "sintetiste" e decorative degli smalti medievali o delle vetrate gotiche, ma anche alloro innegabile potere di suggestione mistica. Sono anche scelte indicative di una decisa volontà di rivalutare la dimensione "sacrale", legata ad una intuizione religiosa schietta, magari primitiva ma profondamente sentita, del vivere.

Donne sulla spiaggia (1891)
Il dipinto è una delle immagini più note e diffuse dell’arte di Gauguin: due ragazze, accoccolate in riva al mare nelle tipiche pose "primitive" delle tahitiane, chiuse in un pensoso silenzio. Spesso, in questo felice periodo del suo primo soggiorno tahitiano, Gauguin rappresentò coppie di giovani donne immerse in una muta e malinconica immobilità (Nafea faa ipoipo): lo stesso Due donne tahitiane sulla spiaggia venne replicato, con poche varianti, l’anno successivo in Parau api.Ma al di là del soggetto, il fascino tutto particolare di questo e di altri dipinti coevi quali Arearea o Vahine no te miti è nell’inedita stesura pittorica in cui, ridotto all’essenziale l’uso del chiaroscuro, le forme appiattite si accostano le une alle altre ignorando i piani prospettici e obbedendo a un superiore principio di armonia cromatica e compositiva. Come ha scritto il grande storico dell’arte Henri Focillon, "vivendo sempre nella luce, Gauguin non è ossessionato dal desiderio di rivaleggiare con essa e di catturarne l’illusione. Dispone i colori con calma, in larghe zone ben definite, come se fabbricasse vetrate o lavorasse a intarsio [Tahitiane sulla spiaggia]: le sue grandi figure, che sembrano ritagliate nel legno di una piroga, si commettono in un universo in cui tutto resta, dove niente passa, né la forma né il tono. Questa stabilità, questa assenza di equivoco danno al colore una straordinaria potenza poetica. Sotto la cera di cui talvolta è ricoperto, il colore resta intenso, ma possiede sempre le ragioni armoniche della vista e dello spirito".

Manao Tupapao (1892)
Manao tupapau è indubbiamente uno dei capolavori assoluti di Gauguin. Fu dipinto nel 1892, durante i mesi felici che il pittore visse nella capanna di Mataiea assieme alla sua giovane moglie tahitiana Tehura, immortalata in questo come in diversi altri dipinti (Vahine no te vi) e in una scultura. Una notte, si legge in Noa noa, Gauguin rientrò nella sua casa molto tardi: "Immobile, nuda, bocconi sul letto, gli occhi smisuratamente spalancati per la paura, Tehura mi guardava e sembrava non riconoscermi. Io stesso rimasi per qualche istante in una strana incertezza. I terrori di Tehura mi contagiavano, mi sembrava che dal suo sguardo fisso uscisse una luce fosforescente. Mai l’avevo vista così bella, soprattutto mai d’una bellezza così emozionante. E poi nella semioscurità sicuramente popolata di apparizioni pericolose, di suggestioni equivoche, temevo che un qualsiasi gesto avrebbe potuto portare al parossismo lo spavento della ragazza. Come capire chi ero per lei in quel momento? Se con il mio viso inquieto mi prendeva per qualcuno degli spettri o dei demoni, dei tupapau di cui le leggende della sua gente riempiono le notti senza sonno? Io stesso sapevo chi era lei davvero?".Se l’episodio narrato in Noa noa è all’origine del soggetto di Manao tupapau, nel Cahier pour Aline, un quaderno di appunti
illustrati destinato alla figlia, Gauguin spiega la genesi artistica del dipinto: "Affascinato volta a volta da una forma, da un movimento, dipingo senza preoccuparmi d’altro che di fare un nudo. Così com’è, lo studio sembra un po’ indecente, ma voglio farne un quadro casto e che renda appieno lo spirito canaco, carattere e tradizione. E poiché il pareo è parte integrante dell’esistenza di un canaco, me ne servo come copriletto. Il lenzuolo, un tessuto di corteccia d’albero, sarà giallo; suggerisce la luce di una lampada. Ma mi occorre un fondo un po’ terribile: il viola è il colore più adatto. E con ciò la parte musicale è impostata. Non vedo che paura. Che tipo di paura? [...] Quel che ci vuole è il Tupapau (Spirito dei morti). Per i canachi è un incubo costante. [...] Il mio fantasma avrà le sembianze di una donnetta qualunque. Il titolo "Manao Tupapau" può significare due cose: che la ragazza pensa al fantasma, o che il fantasma pensa a lei. Dunque, riassumendo: parte musicale: ritmo di linee orizzontali; accordi di arancione e di blu, con passaggi di gialli e di viola, loro derivati, accesi da scintille verdastre. Parte letteraria: lo Spirito di un vivente legato allo Spirito dei morti".Il dipinto è quindi fusione di musica e letteratura, di composizione e simbolo. Ma bisogna riconoscere, come già disse Roger Fry, che il tupapau e i connessi significati poco aggiungono alla riuscita del quadro, che rimane un capolavoro raffigurante un bellissimo nudo al di là delle sovrastrutture simbolico-letterarie.Gauguin replicò più volte la composizione e il soggetto di Manao tupapau, per esempio in una 1litografia, che ripete con poche varianti il dipinto, o in una 1xilografia, che invece ne riprende solo il tema.Il pittore riteneva, a ragione, che Manao tupapau fosse una delle opere migliori del suo soggiorno tahitiano: non a caso, nell'Autoritratto con cappello dipinto a Parigi nel 1893, la tela appare sullo sfondo, quasi a emblema della sua nuova arte selvaggia.

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