I sindacati e i lavoratori biellesi nella prima metà del ‘900

Materie:Tesina
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Testo

Porrello Elena VD
“I sindacati e i lavoratori biellesi nella prima metà del ‘900”
Nel Biellese, sul finire dell’ottocento, il panorama sociale rivelava la coesistenza di una nuova realtà, condizionata dalle innovazioni tecnologiche e dall’emigrazione di massa, e di valori e strutture antecedenti. Essendo questa regione caratterizzata da una capillare distribuzione comunitaria e da un’elevata propensione innovativa, permanenze e cambiamento si amalgamavano in prevalenza nell’aspetto sociale del lavoro: solidarietà locale e coscienza di classe espressero quei comportamenti unitari che costituirono il tessuto culturale di molti processi del mutamento sociale. Questo quadro definisce la solidarietà di una lotta di classe (vedi nota 1) che, nella fase iniziale, vide l’opposizione dei tessitori, il cui obiettivo centrale era mantenere le prerogative godute nel vecchio sistema economico comunitario, che si reggeva sull’autonomia del binomio terra-telaio, contro la crescente invadenza del sistema di fabbrica, contraddistinto invece da orari fissi, da regolamenti aziendali, e dalla dipendenza salariale (vedi nota 2). L’ostilità dei primi nei confronti dei nuovi metodi di produzione fu la causa della prima ondata di sciopero nella Valle di Mosso, nel Triverese e nella Valle dell’Elvo tra il 1864 e i 1865: il risultato di questi fu la stipulazione del primo contratto collettivo di lavoro in Italia.
All’interno della fabbrica gli operai si organizzavano nelle società di mutuo soccorso e nelle cooperative. Queste erano società operaie in cui gli aderenti non ponevano nessun problema politico o rivendicativo, ma provvedevano vicendevolmente alle difficoltà della vita, pensavano alle spese in caso di malattia o morte di un socio e provvedevano ad aiutare le famiglie in difficoltà. Le organizzazioni operaie biellesi erano quindi destinate a evolversi nella forma sindacale, che avrebbe rappresentato il momento decisivo del processo. Infatti i confronti più duri riguardavano questioni normative piuttosto che salariali, e questo rendeva il Biellese una zona di punta avanzata dei lavoratori italiani.
Gli scioperi del 1877/1878 furono appunto causati da controversie riguardanti il bilanciamento dei poteri nelle fabbriche e i regolamenti, e la loro efficacia fu dovuta all’economia mista che caratterizzava la zona.
Per arginare questi scioperi il governo, a capo del quale c’era Depretis, ricorse a provvedimenti repressivi, alla proposta di confino, alla dichiarazione dello stato di assedio nella vallata, ed infine allo scioglimento della società dei tessitori di Crocemosso, la quale si sarebbe evoluta nella Lega di Resistenza.
Risale a quegli anni il primo progetto di fondare anche a Biella una camera del lavoro, sul modello di quella costituita a Milano nel 1891. a questo programma fu accompagnata una intensa propaganda tra gli operai, influenzata anche dalla politica del Giolitti che in quegli anni era primo ministro. I tempi e le strutture apparivano inoltre maturi per un organismo territoriale di coordinamento e rappresentanza anche nel Biellese: la fase di contrapposizione fra il sistema di fabbrica e quello antico delle lavorazioni domiciliari poteva ora considerarsi definitivamente concluso, con la prevalenza del primo.
La Camera Del Lavoro fu fondata a Biella il 2 giugno 1901, contando già 2500 iscritti.
Appena nata essa dovette subito affrontare difficoltà e contrasti specifici, come ad esempio i problemi di conciliazione tra sindacalisti riformisti e rivoluzionari, (vedi nota 3), sebbene in quest’area il confronto fu singolare poiché qui era stata fondata dai riformisti. Mentre questi valorizzavano le leghe, ossia il decentramento e l’autonomia sindacale, per rafforzare i sindacati locali, privilegiando quindi l’aspetto pragmatico, i rivoluzionari preferivano dare omogeneità al movimento per abilitarlo a rispondere in termini più ideologici al problema dell’esasperazione dei conflitti, dello sciopero generale, del rovesciamento rivoluzionario.
Proprio da questo conflitto organizzativo nasce un anno dopo la Camera del lavoro di Cossato, ad opera dei rivoluzionari, esperienza di breve durata, dato che dopo soli due anni le due vennero unificate.
Camera del Lavoro
L’organizzazione aveva innanzitutto uno statuto, che poneva in primo piano l’obiettivo di farne il punto di ritrovo di tutti gli interessi operai, e un documento costitutivo, redatto dagli organi direttivi e approvato dalle leghe e dalle sezioni, che veniva aggiornato periodicamente, all’interno dei Congressi camerali, tenui con frequenza annuale, ai quali venivano convocati tutti gli iscritti. In periodi di transizione e di difficoltà la composizione degli organi direttivi poteva essere modificata, ed in alcune circostanze essi venivano sostituiti da organi straordinari.
Nel Comitato Direttivo si elaboravano le determinazioni congressuali, si assumevano le decisioni operative, e si curavano i rapporti con le leghe, le sezioni, la Cgdl. Questo era composto da nove membri, di cui sei di Biella, e tre delle vallate.
Il segretario della Camera del lavoro stava al vertice, e ne aveva la rappresentanza.
E’ tuttavia nei Congressi che il confronto fra dirigenti e base, struttura e movimento, sulle tematiche di rivendicazione e di lotta generava un’immagine sintetica ed efficace dell’evoluzione dell’istituto camerale: essi restituivano alla dinamica del movimento la sua funzione di direzione.
In un clima liberale democratico come quello del periodo giolittiano, in cui la rivoluzione industriale entrava nella sua seconda fase, si generarono una serie di conflitti come quello per il doppio telaio assegnato ad ogni operaio per aumentarne la produttività (1901), o le lotte del 1904, dovute ai frequenti casi di riduzioni del salario giustificate dai datori di lavoro con la necessità di comprimere i prezzi finali per smaltire il magazzino o per riacquistare concorrenzialità, in seguito alle quali venne raggiunto l’obiettivo della “tariffa unica”.
Negli anni tra il 1909 e il 1911 troviamo una costellazione di agitazioni e scioperi differenziati fra comparto e comparto, ad esempio l’agitazione delle pinzatrici e dei follonieri nella Valle di Mosso. Nel 1911 fu indetto uno sciopero generale, contro l’indignazione e la protesta degli ambienti di sinistra contro la guerra di Libia, che ridava spazio all’azione collettiva intorno ai grandi temi nazionali.
Dal punto di vista sindacale, il triennio precedente alla prima guerra mondiale risula caratterizzato da tre elementi: il persistere, e per certi versi l’accentuarsi, della crisi tessile; dei problemi non risolti riguardanti regolamenti di fabbrica e tariffe salariali; l’impellenza di allargare il fronte della sindacalizzazione operaia, riguardo alla quale il lungo sciopero degli scalpellini della Balma del 1912 è indicativo. Sempre nello stesso anno, nel corso di una vertenza contro il licenziamento di un sindacalista in un’azienda Biellese, venne proposta una forma inconsueta di resistenza, ovvero lo “sciopero a braccia incrociate”, cioè la sospensione del lavoro con la permanenza in fabbrica.
La prima guerra mondiale – il primo dopoguerra
Lo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, mutò scenario alle lotte del lavoro. Dapprima la chiusura di vasti mercati di sbocco dei prodotti biellesi, il rincaro delle materie prime, l’entrata in guerra di ricchi paesi clienti determinarono una pesante caduta del voluma produttivo e un appesantimento del magazzino, poi la riconversione dell’apparato industriale per la produzione bellica e l’entrata in guerra dell’Italia posero alla ribalta problemi più complessi come la diversa organizzazione degli orari di lavoro, il maggior impiego delle donne e dei giovanissimi nelle attività produttive, la rincorsa prezzi-salari, i rapporti con le autorità militari. L’economia di guerra travagliò in modo differenziato l’industria biellese. Accanto alle aziende impegnate nelle produzioni belliche, che godevano delle commesse governative, le produzioni di mercato ristagnavano, con pesanti cadute della domanda in alcuni comparti. Nelle aziende che producevano a pieno ritmo confluiva la manodopera proveniente da quelle in crisi. L’accentuata mobilità e la nuova organizzazione della produzione riproponevano nell’estate del 1915 latenti tensioni, a cominciare dal recupero di rivendicazioni sopite, come la vecchia questione del doppio telaio. In Valle Strona, per alleggerire la pressione delle molteplici istanze, si giunse ad un accordo tra Lega Tessile e Associazione Industriali per l’erogazione di un aumento giornaliero di 25 centesimi a tutti i lavoratori. Sotto la spinta di questo accordo crebbero nel periodo successivo le rivendicazioni salariali dei lavoratori, fino a giungere ad uno sciopero generale del settore tessile, indetto dalla Camera del lavoro, il cui risultato fu una serie di accordi che, tra l’altro, apportarono dei benefici agli operai dei turni notturni, agli addetti ai telai comuni, e a una base salariale minima fissa per gli uomini e per le donne. Sempre negli anni di guerra il sindacato dovette difendere le leggi di tutela del lavoro dell’età giolittiana, che gli industriali chiedevano venissero sospese prima per affrontare la crisi, e poi per sostenere la produzione bellica. Per una persistente siccità nel secondo semestre del 1917 cominciarono a scarseggiare le risorse idroelettriche: molte fabbriche lavoravano a orario ridotto e con una nuova distribuzione dei turni, cosicché il salario delle famiglie risultava depauperato. Da qui si avviò una crisi che diede origine ad una serie di proteste, cui seguirono degli ulteriori aumenti salariali. La guerra aveva introdotto, anche sul terreno sindacale, profondi cambiamenti: aveva fatto assumere un indirizzo complessivo, e ad esso subordinato le istanze settoriali, aveva posto i dirigenti di fronte a nuove problematiche. La vecchia classe operaia biellese era per molti aspetti mutata, e l’organizzazione ne aveva guadagnato in un’atmosfera di crescente fiducia da parte dei suoi iscritti.
Con la firma dell’armistizio con l’Austria, il 4 novembre 1918, l’attenzione si spostò verso le tensioni in campo politico ed economico all’interno del nostro paese. La massa operaia rivendicava tangibili miglioramenti economici e normativi. Due furono le principali richieste dalla camera del lavoro: il sabato inglese e la riduzione dell’orario di lavoro dalle vigenti dieci ore giornaliere e otto ore. A creare una serie di difficoltà, il cui superamento diventò subito molto arduo fu la smobilitazione, con tutte le conseguenze che essa comportava: dalla riconversione delle industrie di guerra in industrie di pace, alla crescente disoccupazione, al licenziamento di intere maestranza a causa della temporanea fermata dello stabilimento. La soluzione a questi problemi, che sono tra i più rilevanti, concorsero forze operaie ed industriali, il cui scontro accompagnò il passaggio dallo stato di guerra alla normalità. La questione della riduzione dell’orario di lavoro ad otto ore venne risolta dopo una serie numerosa di riunioni, sempre ricche di tensioni fra le due parti, nel marzo 1919. Il negoziato che pose fine ai contrasti fra operai ed industriali in merito a questa richiesta, se da una parte garantì la vittoria ai primi, dall’altra stabilì la non adozione del sabato inglese, consistente nella riduzione dell’orario del sabato a quattro ore e nel recupero delle restanti nel corso della settimana, accettata dai rappresentanti della camera del lavoro in seguito al versamento nelle casse del sindacato di una considerevole somma di denaro, che sarebbe stata destinata a finanziare l’edificazione delle Case del popolo di alcuni centri del Biellese, il cui ammontare equivaleva più o meno al compenso per i sabati inglesi già effettuati dagli operai, a cui questi, come riporta un quotidiano dell’epoca, avevano volontariamente rinunciato. Il malcontento generato dalla soluzione di questa questione alimentò le veementi proteste operaie del periodo successivo, alcune delle quali vale la pena ricordare. Una tra queste fu lo sciopero dei cinque minuti, cosiddetto perché dovuto alla decisione dei dirigenti di anticipare l’entrata in fabbrica di cinque minuti, e di ritardare di altrettanti l’apertura della porta dopo la cessazione del lavoro. Poiché l’atteggiamento dei datori di lavoro nei confronti delle opposizioni operaie non mutava, la Camera del lavoro organizzò una conferenza alla quale vennero convocate tutti i consigli delle Leghe, il cui risultato fu la proclamazione dello sciopero generale. Da questo momento l’agitazione, per il significato politico che ad essa viene attribuito dai socialisti, si caricò di tutti quei significati politici che andavano nella direzione del programma marxiano di dittatura del proletariato, e più in generale di una resa dei conti del capitalismo e della borghesia. Lo sciopero generale cessò però dopo dieci giorni, quando le parti ripresero a trattare per giungere ad una convenzione stipulata nel giugno 1919, che stabiliva “che fra il segnale d’uscita e l’apertura del portone degli stabilimenti sarebbero passati cinque minuti se il numero degli operai era superiore a cento, in caso contrario due minuti”. La convenzione trattava anche di altre questioni riguardanti delle richieste di aumento del salario. uando le parti ripresero a trattare in merito allquaaaashd
Un episodio che rappresenta una sorta di reazione da parte degli industriali nei confronti dei numerosi scioperi fu la serrata del Lanificio Rivetti, sul finire del 1920: questa fu decisa in seguito ad uno sciopero dei dipendenti dell’azienda in seguito al licenziamento, da loro ritenuto ingiustificato, di uno di questi. La serrata durò più di una settimana e si concluse con un accordo favorevole alla ditta.
Nel gennaio 1921 la fondazione del partito comunista, a Livorno, causò una serie di controversie, per lo più verbali tra i due partiti della sinistra, ormai non più legati tra loro, che sopirono solo con l’aggravarsi della crisi economica con la riduzione dell’orari di lavoro, in particolare nel settore laniero, e l’aumento della disoccupazione. Nel periodo precedente le elezioni del 15 maggio sul piano politico l’attenzione si concentrò tutta sui contrasti con gli iscritti al partito fascista. Intanto la crisi economica si aggravava sempre di più, accentuando i suoi effetti negativi, che causarono ulteriori problemi fra datori di lavoro ed operai. Si ebbero così, in seguito agli sviluppi di questi, i tre mesi di sciopero laniero del 1921, che si conclusero a favore dei proprietari delle aziende e che a loro volta causarono una serie di azioni di vendetta e rappresaglia, licenziando alcuni dipendenti.
Verso i primi di maggio, in seguito a nuovi scontri, gli industriali lanieri decisero di ritirare la loro delegazione da un importante consiglio, causando al Tribunale del lavoro l’impossibilità di continuare a lavorare. I datori di lavoro assunsero un nuovo atteggiamento nei confronti dei sindacati: di questa loro nuova tattica si rivelò in occasione di un nuovo sciopero “di solidarietà”, nel 1922, a cui essi risposero con le serrate, così come nel caso dello sciopero generale contro le violenze ad opera di gruppi fascisti che incendiarono la Camera del lavoro di Novara. Nonostante la scarsa adesione a quest’ultima agitazione gli imprenditori biellesi risposero con dei licenziamenti punitivi, mentre in molti di essi cominciava a farsi strada la convinzione che occorreva sopprimere il diritto di sciopero, proprio attraverso queste azioni intimidatorie. Mentre da questo punto di vista la vita degli operai si faceva più dura i sindacati dalla loro si mostravano impreparati, quasi più attenti alle loro controversie ideologiche che alla situazione degli iscritti.
Gli anni del fascismo
Nel novembre del 1922 i fascisti occuparono la Casa del popolo di Biella, insediandosi nell’edificio, con la complicità delle autorità. Di fronte a quest’azione dichiarativa delle intenzioni di questa parte, gli iscritti alla Camera del lavoro non prendono alcuna iniziativa se non dopo quindici giorni. Ma i fascisti, forti dell’investitura di unici interlocutori concessa loro dagli industriali biellesi, iniziano la demolizione delle leghe rosse: nel Biellese l’attività di questi era volta a impedirne il funzionamento, violando anche la Legge, mentre nelle fabbriche venivano adottati provvedimenti sempre più restrittivi e le autorità cominciavano ad arrestare i comunisti più conosciuti. Tutti questi fatti segnavano altri passi verso uno Stato autoritario e totalitario. Alla fine del 1923 gli scioperi nel Biellese, salvo alcune vertenze prontamente risolte, cessarono del tutto. All’inizio del 1924 il governo Mussolini promulgò un decreto legge in forza del quale il prefetto doveva sottoporre alla sua vigilanza le associazioni operaie, dando così un colpo alla libertà di associazione, impedendo una legale e democratica attività delle leghe sindacali rosse. Poco tempo dopo gli industriali biellesi e le loro organizzazioni presero posizione in favore del partito fascista invitando i cittadini, in occasione delle nuove elezioni del parlamento, a votare per questo. In questo senso si può ricordare una spontanea astensione dal lavoro il 1 maggio 1924, che se da una parte mostrava l’opposizione degli operai al nuovo regime che si andava instaurando, dall’altro rivelava anche un generalizzato indebolimento del sindacato di classe. Questa si fece più evidente quando, in seguito all’omicidio dell’onorevole Giacomo Matteotti, le masse operaie non organizzarono agitazioni in segno di protesta. Nel corso del 1925 si ebbe una polemica dai toni progressivamente più aspri, al centro della quale si pose la questione insoluta sul ruolo e le finalità dell’organizzazione sindacale di classe, che da sempre divideva i riformisti dai comunisti, in cui la contesa verbale, sempre più infuocata, trovò il suo epilogo in un’assemblea della Lega tessile, in cui il pretesto era la dirigenza della Lega. Non molto tempo dopo, ad esautorare i sindacati non fascisti dalla loro attività interverrà un accordo sancito il 2 ottobre 1925 tra la Confederazione generale dell’industria e la Confederazione delle corporazioni fasciste, ovvero il Patto di Palazzo Vidoni, in forza del quale tutti i rapporti contrattuali fra industriali e maestranze dovevano intercorrere fra le due organizzazioni, segnando così la fine del sindacalismo non fascista. Nel 1926 la Legge Rocco conferirà all’impresa una struttura autoritaria e nello stesso tempo toglierà agli operai il diritto di organizzarsi liberamente per tutelare e difendere i propri interessi. Fu così che si arrivò al 4 gennaio del 1927, quando il consiglio direttivo della Confederazione generale del lavoro dichiarò cessata la sua attività. La conclusione ufficiale della vicenda di quest’organo sopravveniva quando ormai da anni l’attività di base si era frammentata in singole iniziative. A partire da questo momento e fino alla caduta del fascismo non si poteva parlare di un movimento sindacale veramente organizzato. Quello che rimaneva era la rete dei collegamenti comunisti, attraverso i quali un rapporto debole e discontinuo veniva stabilito fra le fabbriche e i dirigenti clandestini, presto arrestati. Nonostante la politica repressiva nei confronti delle iniziative sindacaliste, il periodo fascista non può comunque essere considerato solo una parentesi nella storia del movimento biellese. Segnato dalla grande depressione e traversato da frequenti crisi congiunturali complicate da fattori tecnologici e politici il ventennio vide svilupparsi in diverse forme una strategia sindacale che non poteva ignorare le drammatiche tensioni continuamente rinnovate nelle fabbriche dalle riduzioni salariali e nella società da un mercato del lavoro gravato da ingenti masse di disoccupati. Anche nell’inquadramento corporativo delle relazioni industriali il Biellese presenta una storia complessa, con diversi episodi di rilevanza nazionale, nel corso della quale tutto il quadro istituzionale di riferimento dell’attività sindacale venne profondamente e definitivamente deformato.
L’impostazione data dai sindacati fascisti al grosso problema contrattuale rimase questa: la disponibilità ad ulteriori rinunce salariali in cambio della stipulazione di un accordo tra le due controparti. In questo contesto nel novembre 1933 si giunse ad un accordo che accoglieva il principio dell’adeguamento dei salari al più basso livello del Vicentino, riduzione immotivata in un ambiente dove fu dimostrato che non c’era necessità di riduzioni. L’anno del 1933 presentava qualche significativo cambiamento: il contratto di novembre vide infatti introdurre per la prima volta in Italia il principio degli assegni famigliari, che si estese ad altri contratti e nel 1937 fu regolamentato con decreti ministeriali, e modernizzava la struttura del salario secondo principi diffusi in tutti i paesi più avanzati. Le contraddizioni della condotta degli industriali verso il sindacato fascista e la loro ostinazione nel negargli un ruolo efficace ebbero ripercussioni diverse sul comportamento degli operai: da una parte esse preservavano un’immagine di forza di opposizione che poteva rialzare il prestigio sindacale agli occhi specialmente dei giovani, dall’altra esse contribuivano a far considerare inutilmente compromettente un impegno militante considerato con ostilità dagli imprenditori e non tutelato abbastanza dall’apparato politico e burocratico fascista. La situazione economica meno grave, le concessioni salariali apprezzabili, soprattutto dopo il 1935, gli ammorbidimenti delle regolamentazioni sui cottimi e altri provvedimenti andarono rafforzando l’opinione che nel sindacato fascista si potesse realizzare qualcosa di nuovo.
La seconda guerra mondiale
Le condizioni giuridiche ed economiche create dalla guerra resero evidentemente impossibile un’azione sindacale anche moderatamente contestatoria, mentre crearono progressivamente condizioni di disagio economico tali da provocare sia scoppi spontanei di contestazione da parte degli operai, sia un naturale aggregarsi dei singoli che nel corso degli anni avevano mantenuto costantemente una posizione antifascista. Anche nella nostra zona la svolta del malcontento alla ripresa aperta della conflittualità operaia sembrava legarsi a scadenza ben precise. Più tardi si aggiunse, nel terzo inverno di guerra, il malcontento per i criteri di erogazione del premio per il ventennale fascista e per una penuria di viveri intollerabile. Alla fine della primavera 1943 la pesatura degli operai di uno stabilimento di Biella consentì di misurare il peggioramento della situazione: tutti i lavoratori erano dimagriti. Era questo lo sfondo del movimento di scioperi che scoppiò nella primavera del 1943. Durante queste agitazioni assunse importanza l’improvvisato umanitarismo padronale, che rivelava la coscienza che il conflitto industriale non poteva più essere deviato verso il capro espiatorio del regime. In questa nuova posizione era la premessa della ripresa di vere contrattazioni.
Dopo il 25 luglio le nuove condizioni create dalla caduta del regime ponevano le basi per una riorganizzazione del sindacato di classe, ma in una situazione in cui le iniziative propriamente sindacali si confondevano e si mescolavano con gli scioperi politici e con le prime manifestazioni della resistenza armata. Già alla metà di agosto 1943 si tentò la ricostruzione della Camera del lavoro, subito dopo uno sciopero organizzato per chiedere la liberazione dei detenuti politici antifascisti. Con la primavera, mutata la strategia della Resistenza dall’attivismo insurrezionista ad una più ampia opera di coinvolgimento e mobilitazione di tutta la popolazione, si crearono le condizioni per una ripresa di attività sindacale in senso proprio, che culminava in una serie di contratti clandestini stipulati tra il giugno 1944 e il marzo 1945.
Nel tracciare le linee sommarie della storia della Camera del lavoro di Biella, nei quindici anni che intercorrono tra la fine della guerra e l’inizio del “miracolo economico” italiano, si è seguita una periodizzazione che individua tre fasi: un primo periodo di crescita ed espansione dell’organismo sindacale che coincide con la stagione unitaria, ma che si promulga fino ai primi anni cinquanta; un secondo periodo di crisi politico-organizzativa della struttura camerale, che tocca il suo punto più basso tra il 1954 e il 1955; infine un terzo ed ultimo periodo di ripresa, se non ancora organizzativa, almeno in termini di ridefinizione del ruolo e delle funzioni della Camera del lavoro.

NOTE: RIFERIMENTI ALLA DOTTRINA MARXIANA
1) Marx, nel “Manifesto del partito comunista”, definisce LOTTE DI CLASSE quelle “battaglie che si sono ogni volta concluse con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società o con il comune tramonto delle classi in conflitto”. Da questa sua definizione emerge la concezione materialistica dinamica della storia, in cui le forze produttive, ovvero tutto ciò che concorre alla produzione, e i rapporti di proprietà, che sono espressione giuridica dei rapporti che si instaurano fra gli uomini nel corso della produzione, sono destinate a scontrarsi tra di loro: essendo le prime connesse con il progresso tecnico, ed incarnate dalla classe in ascesa, si sviluppano più velocemente dei secondi, e sono perciò destinate a trionfare segnando l’ascesa della classe che le esprime. In questo caso specifico il nuovo sistema di fabbrica rappresenta le forze produttive, ed il sistema economico-comunitario, retto sull’ormai superato binomio terra-telaio, i rapporti di proprietà destinati a soccombere per lasciare spazio all’innovazione, non più solo tecnologica.
2) A questo proposito occorre ricordare come Marx riconducila conflittualità tra i due sistemi al concetto di ALIENAZIONE, ovvero allo sfruttamento che il datore di lavoro compie sull’operaio, portandolo ad essere alienato:
*nei confronti del prodotto della sua attività, ovvero un oggetto che non gli appartiene.
*nei confronti della sua attività meccanica e ripetitiva.
*nei confronti dell’essenza libera, creativa ed universale dell’uomo in quanto tale.
*nei confronti del prossimo, con cui viene ad avere un rapporto conflittuale.

3) La differenza tra il programma dei riformisti e quello dei rivoluzionari si riconduce alle due correnti del socialismo, rispettivamente ai minimalisti e ai massimalisti. I primi affermavano che il programma socialista doveva essere attuato per gradi, e attraverso le riforme istituzionali. Gli altri, invece, erano legati a posizioni più radicali e decisi alla lotta rivoluzionaria per imporre la dittatura del proletariato, applicando interamente il programma di Marx, ritenendo che l’arma nelle mani degli operai per togliere potere ai borghesi fosse lo sciopero generale. Il programma marxiano consisteva innanzitutto in una rivoluzione comunista che cancellasse ogni forma di proprietà privata, di divisione del lavoro e del dominio di classe, dando origine ad un’epoca nuova nella storia del mondo. Lo strumento tecnico della trasformazione rivoluzionaria sarebbe dovuta essere la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, che passando dalle mani dei privati a quelle della comunità ponesse fine, nella visione marxiana, al fenomeno del plus-valore e dello sfruttamento di classe. I metodi per raggiungere tale obiettivo sarebbero stati diversi, e Marx avrebbe accettato eventualmente anche una via rivoluzionaria non pacifica, e quindi cruenta come le precedenti. Il primo traguardo a cui la rivoluzione proletaria avrebbe dovuto mirare era l’abbattimento dello stato borghese e delle sue forme istituzionali, che serviva alla borghesia per esercitare il proprio dominio di classe, e pertanto non costituiva un insieme di tecniche neutrali che potessero essere usate anche a vantaggio del proletariato, poiché ogni classe dominante, secondo il materialismo storico, è costretta a forgiare una macchina statale secondo le proprie esigenze. A questo proposito Marx scrive che “tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria di una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui stato non può essere altro che la DITTATURA RIVOLUZIONARIA DEL PROLETARIATO”. Come il capitalismo esprime il “dispotismo” della borghesia, il proletariato, volendo attuare il comunismo vero e proprio, non poteva fare a meno di instaurare un regime dittatoriale proprio che imponesse a sua volta il dominio dispotico della maggioranza di una classe di oppressi su coloro che erano gli oppressori. Le caratteristiche fondamentali di questo periodo di dittatura del proletariato avrebbero dovuto essere:
*la sostituzione dell’esercito permanente con un’organizzazione di operai armati
*la soppressione del parlamentarismo, attraverso la sostituzione del parlamento con delegati eletti a suffragio universale, direttamente responsabili del loro operato, revocabili in ogni momento e retribuiti con salari corrispondenti ad un normale salario operaio
*la soppressione del privilegio burocratico, attraverso l’estensione di quei criteri a tutte le cariche pubbliche.
Il fine di questa forma di governo era quindi l’eliminazione delle funzioni repressive dello stato borghese e la riduzione delle funzioni utili a semplici”funzioni di lavoro”, spogliate di autonomia politica rispetto al popolo.
BIBLIOGRAFIA:
-M.Neiretti, L.Moranino, G.Perona, C.Dellavalle, A.Massazza Gal, Segreteria Cdl di Biella, “L’ALTRA STORIA, sindacato e lotte nel biellese 1901-1986”, ed.Ediesse
-Nicola Abbagnano, Giovanni Foriero, “FILOSOFI E FILOSOFIE NELLA STORIA, volume terzo”, ed.Paravia

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