"La casa in collina" di C. Pavese

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Data:12.02.2001
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Testo

LA CASA IN COLLINA
di Cesare Pavese

Corrado è un professore quarantenne di Torino. Durante i bombardamenti che hanno colpito Torino nel '43 trova un riparo in collina, dove viene ospitato da due donne, delle quali Elvira lo ama segretamente ma non viene corrisposta. Presto Corrado incomincia a frequentare un'osteria dei paraggi, Le Fontane, dove rincontra Cate, che aveva amato molto anni prima. Cate ora ha un figlio di cui Corrado ignorava l'esistenza, chiamato Dino, omonimo del professore. Corrado non saprà mai se Dino è suo figlio o no. Alle Fontane si parla di politica, si ascolta la radio per gli ultimi bollettini dal fronte, si organizza il movimento partigiano dal quale però Corrado si vuole astenere. Si susseguono rapidamente i seguenti fatti: in una Torino ormai stremata dai bombardamenti, arriva la notizia della resa fascista, arrivano i tedeschi, i partigiani incominciano ad organizzarsi e di conseguenza incominciano i rastrellamenti da parte dei tedeschi. Il covo delle Fontane, in cui c'erano nascoste delle armi partigiane, viene scoperto e tutti vengono deportati, eccetto Corrado che osserva il tutto da lontano esterrefatto, e Dino che per la sua età viene lasciato. Corrado ormai non può più stare né a Torino né in campagna dov'è ospitato. Infatti i tedeschi lo stanno cercando e sono già andati a controllare se c'era in casa e ci sarebbero tornati. Dunque riesce a nascondersi, grazie all'aiuto di Elvira, in un collegio di Chieri dal quale però deve nuovamente fuggire, non appena arrivano anche lì i Tedeschi. Dunque si dirige verso le colline più lontane, quelle della sua giovinezza. Dopo essersi trovato in mezzo agli scontri tra tedeschi e partigiani, dai quali è stato persino catturato ma subito rilasciato dopo che un partigiano di Torino l'ha riconosciuto, riesce a raggiungere finalmente la quiete nella sua casa natia.

Dei libri che ho letto, non La bella estate che parla di tutt'altro argomento, ma La luna e i falò,che parla del post-resistenza, può essere considerato la continuazione di questo libro. Infatti la La casa in collina parla del costruirsi della resistenza e dei sentimenti del protagonista, come al solito Pavese stesso (quarantenne, intellettuale, che si era pure lui rifugiato nel Monferrato ai tempi della guerra). Corrado durante tutto il libro è preso da un turbamento interiore. Egli preferisce la solitudine, il sicuro rifugio della collina piuttosto che andare a rischiare la vita a combattere a fianco dei partigiani, è sempre pessimista, chiuso dentro di sé, raramente dà il suo parere quando alle Fontane si parla della resistenza. Egli vede la guerra interminabile, non ritiene che il popolo sia in grado di rivoltarsi, vorrebbe combattere ma non lo fa, e per questa sua codardia si sente in colpa, triste e rassegnato. Tutto il libro è colmo di lunghi monologhi interiori di Corrado, ma le ultime pagine sono senza dubbio le più significative. Corrado-Pavese è salvo a casa e medita su quello che ha visto di persona e fa molte considerazioni in proposito. Vale la pena citare alcuni brani:

"Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri.
Inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione"

"Ora che ho visto cos'è guerra, cos'è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, soltanto per loro la guerra è finita davvero"

Ecco le riflessioni di Pavese sulla guerra, sul suo senso. E' inspiegabile perché un uomo è morto mentre un altro no: nessuno saprà mai la ragione. A colui che è sopravvissuto non rimane altro che un rimpianto tremendo di essere impotente, di non essere morto al posto suo, di non aver vissuto valorosamente la propria vita.
Dal punto di vista linguistico, lo stile di Pavese resta immutato da quello che ho incontrato nelle mie letture precedenti. Anche se a molti può non piacere, io non trovo entusiasmante il suo modo di scrivere vicinissimo al parlato, con frasi brevi, con costrutti non sempre giustificabili, che però danno un'ottima scorrevolezza al testo.
Questo è certamente un libro da leggersi almeno una seconda volta. Probabilmente solamente allora si potranno capire meglio tutte le riflessioni del protagonista, di cui è costituito pressoché tutto il libro.

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