Tesina multidisciplinare

Materie:Tesina
Categoria:Generale
Download:13685
Data:05.12.2001
Numero di pagine:56
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
tesina-multidisciplinare_1.zip (Dimensione: 45.93 Kb)
trucheck.it_tesina-multidisciplinare.doc     149 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

Istituto Professionale per l’industria e l’artigianato
“G. L. Bernini”
TESINA PLURIDISCIPLINARE
ANNO SCOLASTICO 2000/2001
Indice degli argomenti trattati
LETTERATURA:
➢ Il Neorealismo pag. 2
➢ Elio Vittorini pag. 2
➢ Analisi della prosa – Conversazione in Sicilia pag. 3
➢ L’Ermetismo pag. 4
➢ Eugenio Montale pag. 5
➢ Analisi della lirica – Forse un mattino… pag. 6
➢ Collocazione dell’autore nella “dimensione fascista” pag. 7
STORIA:
➢ L’avvento, l’affermazione e la caduta del fascismo pag. 9
TELECOMUNICAZIONI:
➢ Le memorie pag. 15
SISTEMI:
➢ Generalità sui trasduttori pag. 20
➢ Trasduttori di temperatura pag. 20
INGLESE:
➢ Transducers pag. 23
➢ “Frankenstein” di Mary Shelley pag. 23
MATEMATICA:
➢ Studio della funzione
- LETTERATURA
IL NEOREALISMO
Il neorealismo coincide con la letteratura dell’antifascismo, della guerra, della Resistenza, della sorte postbellica, in quanto revisione e riscatto dei valori morali e civili che la politica fascista e la sua avventura internazionale avevano adulterato.
Non pare quindi possibile limitare il neorealismo ad una semplice questione di poetiche, in quanto esso ha elaborato un diagramma di richieste che travalicano la frontiera strettamente letteraria per investire la situazione dell’uomo e dell’intellettuale, e insieme l’avvenire sociale e politico del cittadino.
In questo senso il neorealismo nasceva da una consapevolezza e una responsabilità che imponevano all’arte e in generale alla cultura un impegno preciso, intendendo farle partecipi di una radicale promozione etica dell’individuo e della comunità.
Non si trattava tanto di riadottare i vecchi schemi del naturalismo e meno che mai di rispolverare gli abiti ormai smessi del provincialismo, quanto di conseguire, attraverso la rappresentazione di verità locali e dirette, una più attiva cognizione della problematica extranazionale, per sentirsi vivere nuovamente nel circuito della cultura europea e cosmopolita.
Il neorealismo comprende opere, autori e progetti che non si lasciano accomunare in una sola direzione. La loro provenienza e la loro formazione sono assai diverse e spesso appartengono a culture ed esperienze antitetiche. Gli anni di fioritura del neorealismo iniziano nel 1929/30, con la pubblicazione di “Gli Indifferenti” di Alberto Moravia, “Fontamara” di Ignazio Silone, “Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro.
La distanza ed il contrasto tra l’ottimistica Italia ufficiale del fascismo e la realtà del paese, sconvolta da drammatici squilibri sociali, economici, culturali, inducevano sempre più gli scrittori ad abbandonare le evasive esercitazioni di stile e a ritrarre il mondo con la maggior dose possibile di verità
Grandi autori quali Pavese, Fenoglio, Bernari, Brancati, Calvino, Levi, Vittorini, Bartolini, Viganò e Bigiaretti, contribuirono con le loro opere a diffondere l’influenza e l’importanza del neorealismo. Verso la metà degli anni ’50 si andarono evidenziando però i limiti entro i quali si era mossa l’intera esperienza neorealista e che riguardavano sia la scarsa coscienza stilistica, sia la generica prospettiva ideologico-politica che non andò mai al di là della vaga proposta di un radicale cambiamento sociale, privo però di precisi connotati scientifici e storici.
ELIO VITTORINI – La biografia
Elio Vittorini nacque a Siracusa nel 1908. Fu preparato da studi tecnici che quando interruppe lo portò ad essere operaio in un cantiere edile.
Proprio nella rivista “Solaria” pubblicò i primissimi racconti, che raccolse interamente nel volume “Piccola Borghesia”. Insieme con Cesare Pavese, Vittorini fu uno dei primi a scoprire il fascino della letteratura americana contemporanea dalla quale assorbì quella visione realistica che sempre contrappose politicamente al conformismo della cultura di quel tempo ed al provincialismo fascista.
Vittorini rappresentò la nuova figura dell’intellettuale impegnato cioè dello scrittore inteso a una comprensione critica del mondo e di rapporti fra gli uomini, uno scrittore che contribuisse apertamente al rinnovamento della società attraverso la presa di coscienza e la denuncia delle sue innumerevoli contraddizioni.
Dopo la Guerra e la Resistenza fondò, nel 1945, il “Politecnico”, una rivista che rappresentò un tentativo originale di collaborazione fra un gruppo di intellettuali e un partito politico.
Il politecnico si faceva portavoce degli intellettuali usciti dalla Resistenza e si pose come obbiettivo la fondazione d’una cultura che contemperasse le istanze politiche con quelle umanistiche, la letteratura con l’economia ed il pensiero scientifico: una letteratura che fosse attiva nei confronti dell’uomo e della società, combattendo il disimpegno che aveva agevolato l’affermarsi della dittatura fascista.
Vittorini insieme a Calvino fondò nel 1959 il “Menabò”, una rivista che voleva essere uno strumento aperto di discussione della nuova letteratura, in campo nazionale che internazionale. La tendenza era quella di contrapporre un serio impegno intellettuale alle forme di cultura di massa che rischiavano di fondersi e confondersi col conformismo e la mercificazione della cultura.
Il Menabò toccava diversi campi di indagine, dal poetico al narrativo sino al saggistico.
La poetica di Vittorini è di chiara ispirazione lirica. Tale lirica pervade interamente la narrativa di Vittorini, la quale dissolve radicalmente le strutture tradizionali del romanzo e non è, tuttavia, prosa lirico-evocativa, e anche quando parte da ricordi personali, li trasfigura in senso universale e oggettivo; tende al romanzo d’idee, ma evoca figure, ambienti, situazioni e individualismi, insieme surrealistici senza rinunciare mai alla rappresentazione della realtà.
Vittorini esprime la drammatica consapevolezza del mondo, della pene di tutti gli uomini, posti in un mondo alienato dall’ingiustizia, dal conformismo e da un’oppressione secolare che tendeva a stabilire fra loro un’assoluta incomunicabilità.
Vittorini vuole riscoprire l’uomo, la sua verità autentica, le radici del suo essere e del suo sentire, non attraverso lo studio psicologico di personaggi costruiti, ma attraverso situazioni simboliche rese con una prosa attenta ai valori ritmici, piuttosto che a quelli descrittivi. Di qui nasce l’atmosfera surreale dei suoi romanzi, che tendono a condensare in figure e atti fortemente simbolici l’ansia di una ricerca di verità e di un possesso totale, da parte dell’uomo, del proprio Io autentico, individuale ed, insieme, universale.
Al di là dei risultati nel campo specifico della narrativa, Vittorini, col suo inquieto impegno di rinnovamento dato dal Politecnico e dal Menabò, con le sue traduzioni degli scrittori americani, con la sua azione di organizzatore di cultura, fu certamente un importante protagonista della nostra storia letteraria compresa fra il ’40 e la metà degli anni ’60.
CONVERSAZIONE IN SICILIA – Elio Vittorini
“…..Non erano che topi, scuri, informi, trecentosessantacinque e trecentosessantacinque, topi scuri dei miei anni, ma solo dei miei anni in Sicilia, nelle montagne, e li sentivo smuoversi in me, topi e topi fino a quindici volte trecentossessantacinque, e il piffero suonava in me, e così mi venne una scura nostalgia come di riavere in me la mia infanzia. Ripresi e rilessi la lettera di mio padre e guardai il calendario; era il sei dicembre; avrei dovuto scrivere per l’otto la solita cartolina d’auguri a mia madre, sarei stato inqualificabile a dimenticarmene ora che mia madre era sola nella sua casa.
E scrissi la cartolina di auguri, me la misi in tasca, era sabato di fine quindicina e riscossi il mio salario. Andai alla stazione per impostare, passai davanti all’atrio, era pieno di luce, e fuori pioveva, l’acqua mi entrava nelle scarpe. Salii nella luce le scale dell’atrio, per me ero lo stesso continuare sotto la pioggia verso casa o salire quelle scale, e così salii nella luce, vidi due manifesti. Uno era di un giornale, squillante per nuovi massacri, l’altro era della Cit: “Visitate la Sicilia”, cinquanta per cento di riduzione da dicembre a giugno, 250 lire per Siracusa, andata e ritorno, terza classe.
Mi trovai allora un momento come davanti a due strade, l’una rivolta a rincasare, nell’astrazione di quelle folle massacrate, e sempre nella quiete, nella non speranza, l’altra rivolta alla Sicilia, alle montagne, nel lamento del mio piffero interno, e in qualcosa che poteva anche non essere una così scura quiete e una così sorda non speranza. Mi era lo stesso tuttavia prendere l’una o l’altra, il genere umano era lo stesso perduto, e seppi di un treno che partiva per il Sud alle sette, di lì a dieci minuti.
Suonava acuto in me il piffero e mi era lo stesso partire o non partire, chiesi un biglietto, lire duecentocinquanta, e mi restarono, del salario quindicinale appena riscosso, altre cento lire in tasca. Entrai nella stazione, tra lumi, tra le alte locomotive e i facchini urlanti e cominciò un lungo viaggio notturno che per me era lo stesso di essere in casa, al mio tavolo sfogliando il dizionario o a letto con la mia moglie-ragazza.”
Vittorini, negli anni 1938-40, scrisse il suo romanzo più importante al centro del quale egli pose il tema del “mondo offeso” dalle dittature e quello delle responsabilità individuali dell’uomo di cultura. “Conversazione in Sicilia” tratta il racconto di un viaggio, reale e simbolico insieme, del protagonista ed al contempo narratore Silvestro, dall’Italia settentrionale, dove abita da molti anni, fino in Sicilia, dove è nato; un viaggio, da un presente di torpore e di indifferenza alla vita, all’indietro nel passato, alla riscoperta delle proprie origini e di sé stesso, e da qui ad una più chiara coscienza del presente. Il viaggio di Silvestro inizia in un inverno non ben precisato, a seguito di una lettera del padre che lo informa di aver abbandonato la madre per seguire un'altra donna. Giunto al paese della madre, Concezione, Silvestro ripercorre con lei le tappe più significative della sua infanzia, riscopre il passato e con esso le motivazioni del presente. Nel racconto della madre la storia del nonno si confonde inevitabilmente con quella del marito, e da quella confusione di immagini prende corpo l'immagine assoluta dell'Uomo, sensibile e buono come il marito, ma anche forte e proteso verso altri doveri come il nonno, tanto che alla fine alla mente di Silvestro le due immagini si identificano con quella del Gran Lombardo, conosciuto in treno. In questa profonda conversazione Silvestro riesce a far confessare alla madre di aver tradito (come il marito faceva con lei) il suo coniuge. In seguito, seguendo la madre nel suo giro per le iniezioni in varie case del paese, il giovane ha l'occasione di entrare in contatto con un mondo di miseria, di malattia, di rassegnazione, che lo induce a riflettere e a chiedersi se non sia "più genere umano" quello dei sofferenti e dei morti di fame. Durante il tragitto l’uomo sollecita la madre con "strane domande" che vorrebbero "strane risposte". Il viaggio diventa così una "conversazione" a tutti gli effetti, un confronto tra presente e passato, tra storia reale ed immaginazione. L'esplorazione di Silvestro continua, a tratti, anche senza la madre. Incontra alcuni umili siciliani, tra i pochi che sanno di essere "offesi" e non intendono arrendersi: l'arrotino Calogero, Ezechiele e il panniere Porfirio. Nell'ultima parte del romanzo, la più fortemente simbolica, Silvestro incontra al cimitero l'ombra del fratello Liborio, morto in guerra da pochi giorni, anche lui uomo "offeso"; l'apparizione preannuncia la notizia della morte, che arriverà l'indomani. A questo punto la "conversazione in Sicilia" è finita, il viaggio può dirsi concluso e Silvestro è pronto a ripartire, conscio di essere vincolato a "nuovi doveri" e alla volontà di adempirvi.
Nella parte del romanzo presa in esame, Vittorini, che vede nella guerra civile spagnola il crollo di molte sue certezze, trova sfogo ed al contempo consolazione in un immaginario viaggio al centro di un altrettanto immaginaria Sicilia, che sta a simboleggiare il luogo d’origine, quello che si è guardato con occhi e purezza d’un bambino. Difatti sono qui segnalate numerose parti descrittive, ma viene, nel complesso, anche messo in risalto lo stato di indecisione cui si trova coinvolto Silvestro, combattuto tra il partire o meno. Nel complesso, questa parte dell’opera, non presenta parole difficili, data anche l’indirizzazione della stessa e la sua “interpretazione” ad una classe di bassa estrazione sociale. Essendo una parte puramente descrittiva della storia, essa racchiude un gran numero di nomi concreti ed astratti: sia gli uni che gli altri sono utilizzati spesso con senso figurativo, metaforico: ad esempio i topi, la luce ed il piffero, a loro volta accompagnati da aggettivi sia di tipo attributivo che predicativo, che rendono il testo ricco ma contemporaneamente statico. Un aggettivo ricorrente è “scuro”: difatti sono così definiti i topi (i giorni ed i ricordi dell’infanzia), la nostalgia che Silvestro ha, appunto, nel ricordare i trascorsi da bambino, ma soprattutto la quiete, quella quiete apparente che caratterizza il romanzo tutto. Il passo analizzato si compone di verbi che hanno diversa natura: si va da quelli statici (rileggere, guardare, chiedere), a quelli dinamici (riprendere, smuovere, scrivere, suonare, andare, riscuotere, prendere, partire) per finire con verbi psicologici (sentire, dimenticare, sapere). E’ però da precisare la posizione di alcuni verbi dinamici, come smuovere e suonare, che nel testo assumono veste di verbi che indicano non azioni pratiche del protagonista, ma sue sensazioni interne: sono i topi a smuoversi dentro di lui, i ricordi; è il piffero che gli suona dentro, l’inquietitudine.
Segnali deittici di ordine spaziale o temporale, sono numerosi: la vicenda trattata da questa parte del romanzo si ambienta alla stazione, probabilmente di Milano, in una piovosa notte di un sabato 6 dicembre. Raccontare lo svolgersi delle azioni l’una dopo l’altra, in ordine cronologico, col contemporaneo utilizzo di connettivi logici semplici, quali virgole ma soprattutto congiunzioni, rendono la sintassi poco articolata. E proprio da un punto di vista sintattico, è da notare la costante presenza di ricorrenze: più volte è menzionata l’espressione “topi scuri” e, come detto in precedenza il termine “luce”. E’ presente anche una forma di parafrasi: difatti viene ripetuto lo stesso concetto con strutture sintattiche differenti nel caso, ancora una volta, dei “topi scuri”: difatti può essere effettuato un accostamento con “scura nostalgia”, dato che ambedue le espressioni stanno ad indicare i ricordi di fanciullo di Silvestro. Nella parte iniziale del passo vi è un’ellissi nominale, difatti non è menzionato il termine topi nell’espressione “li sentivo smuoversi in me”.
Il testo ha forti elementi retorici: metafore già segnalate sono quelle iniziali, in cui la parola topo, è utilizzata in senso figurato, difatti Silvestro, per dare un senso di angoscia e nostalgia a quelli che sono i suoi ricordi d’infanzia, associa il termine “topi” all’attributo “scuri”. Altra metafora, è l’espressione “il piffero suonava in me”, che sta ad intendere lo stato di inquietitudine scaturito dalla voglia di ribellarsi ai “massacri” annunciati dai manifesti visti per strada.Le montagne, nominate sia nella parte iniziale che verso la fine di questo frammento del romanzo, possono essere considerate un correlativo oggettivo: infatti sono proprio queste a riportarlo ai suoi primi quindici anni, trascorsi nella natìa Sicilia. Vi è anche un ossimoro, infatti l’espressione “scura quiete” pone, consecutivamente due parole dal significato opposto. Da notare l’iperbato, ossia la separazione di parole che invece nella disposizione naturale sono legate fra loro, determinato dal periodo “suonava acuto in me il piffero”.
Per Vittorini, l’utilizzo di figure di suono è fondamentale, per dare alla prosa la musicalità della lirica. Difatti nella prima parte del terzo capoverso (fino alla fine del periodo) del passo tratto da “Conversazione in Sicilia, è significativo l’utilizzo ripetuto delle consonanti “L”, “S” ed “R”: la prima addolcisce i suoni, mentre le altre due rafforzano la pregnanza delle immagini.
L’ERMETISMO
La poesia ermetica sorge intorno agli anni Venti e si sviluppa negli anni compresi tra le due guerre mondiali, esaurendosi gradatamente nel secondo dopoguerra sotto l’irrompere del neorealismo. Il termine “ermetismo” deriva da Ermete o Mercurio, il dio delle scienze occulte, fu adoperato per indicare una nuova poesia caratterizzata da una lirica concentrata, alleggerita, spoglia ed evocativa, di oscurità e indecifrabilità, come se fosse una scienza occulta. La poesia ermetica si muove nell’ambito generale del Decadentismo, ma di tutte le poetiche decadenti sviluppa in particolare quella dei simbolisti francesi, ed è perciò detta anche poesia neo – simbolista. Sulla poetica ermetica influì inoltre la concezione di Croce della poesia come intuizione pura. Nonostante i suoi limiti la poesia ermetica è storicamente importante, perché ha messo la letteratura italiana a contatto con la letteratura europea risultando anch’essa una testimonianza della crisi spirituale dell’Italia e dell’Europa tra le due guerre. Inoltre ha contribuito a liberare la poesia italiana dai residui della retorica e dell’oratoria tradizionale, ancora tenaci in Carducci, Pascoli e D’Annunzio.
La poesia ermetica rifiuta la concezione della poesia intesa come celebratrice di ideali esemplari (la patria, l’eroismo, la virtù…), segue l’ideale della “poesia pura”, libera da forme metriche e retoriche tradizionali, ma anche da ogni finalità pratica, celebrativa, descrittiva… Essa esprime nel modo più autentico e integrale, il nostro essere più profondo e segreto. Si tratta di una poesia nuova, diversa da quella ottocentesca, da quella crepuscolare, che aveva reso la poesia umile, discorsiva, da quella futuristica, che aveva reso la poesia rumorosa, tutta esteriore ed aggressiva.
Il motivo centrale della nuova poesia è il senso della solitudine disperata dell’uomo moderno: perduta la fede negli antichi valori, nei miti della civiltà romantica e positivistica (la religione, la patria, la scienza, il progresso) egli non ha più certezze a cui ancorarsi saldamente, sconvolto dalle guerre, offeso dalle dittature e dalle ideologie totalizzanti e oppressive. Nasce perciò una visione della vita sfiduciata e desolata, priva di illusioni: da Ungaretti “uomo di pena”, che si sente in esilio in mezzo agli uomini, a Montale, che vede negli aspetti quotidiani della realtà “il male di vivere”, a Quasimodo che ricorda che il destino di ogni uomo è che “sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole”.
Ad aggravare il senso di solitudine e di mistero concorrono altri elementi: l’incomunicabilità, cioè l’incapacità e l’impossibilità di un colloquio fiducioso ed aperto con gli altri; l’alienazione, ossia la coscienza di essere ridotti ad un ingranaggio nella moderna civiltà di massa, strumentalizzati per fini più o meno celati; la frustrazione, la coscienza del contrasto tra una realtà quotidiana sempre banale e deludente e l’ideale di una vita diversa ma irrealizzabile.
EUGENIO MONTALE – La biografia
Nasce a Genova il 12 ottobre del 1886. Trascorre l'infanzia e l'adolescenza tra Genova e Monterosso, luoghi e paesaggi divenuti poi essenziali per la sua poesia. Di salute malferma, compie studi irregolari, nutrendo una forte passione, oltre che per la letteratura e la poesia, anche per il canto. Nel 1917 viene chiamato alle armi come ufficiale di fanteria. Dopo la guerra stringe rapporti sia con gli scrittori che a Genova frequentano il Caffè Diana in Galleria Mazzini (in particolar modo con Camillo Sbarbaro) sia con il gruppo torinese di Piero Gobetti, che negli anni venti cerca di attuare una resistenza culturale al fascismo, in opposizione al futurismo e al dannunzianesimo. Nel 1925 pubblica, proprio per le edizioni di Gobetti, il suo primo libro di poesie, Ossi di seppia, e firma il manifesto antifascista di Croce. Sempre nel '25 esce sulla rivista milanese «L'esame» l'articolo Omaggio a Italo Svevo, con cui contribuisce in modo determinante alla scoperta dello scrittore triestino, di cui negli anni successivi diviene amico. Nel '26 conosce inoltre Saba e il poeta americano Ezra Pound, e d'allora indirizza una viva attenzione alla letteratura anglosassone. Nel 1927 raggiunge l'indipendenza economica dalla famiglia ottenendo un impiego a Firenze presso la casa editrice Bemporad; e conosce Drusilla Tanzi, moglie del critico d'arte Matteo Marangoni, che più tardi diverrà sua compagna, ma che sposerà solo nel 1962. Nel '29 è nominato direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, dal quale incarico nel ‘38 verrà esonerato, avendo sempre rifiutato di iscriversi al partito fascista. In quegli anni Montale è uno dei principali animatori della vita intellettuale fiorentina: frequenta il noto caffè degli ermetici «Le Giubbe Rosse», fa amicizia con i maggiori scrittori italiani del tempo, (Vittorini, Gadda), ed inoltre allarga sempre più i sui interessi alla cultura europea. Negli anni bui della guerra e dell'occupazione tedesca vive attraverso collaborazioni a riviste e soprattutto grazie ad una varia attività di traduttore. Pubblica nel ‘39 la sua seconda raccolta di poesie Le occasioni e nel'43, a Lugano, Finisterre, un volumetto di liriche scritte tra il '40 e il '42, esportato clandestinamente in Svizzera. Finita la guerra, si iscrive al partito d'azione, riceve un incarico culturale dal Comitato Nazionale di Liberazione e fonda, con Bonsanti e Loira, il quindicinale «Il Mondo». La sua esperienza politica è tuttavia assai breve: le sue aspirazioni ad un'Italia liberale ed europea, estranea a chiusure nazionali e provinciali, vengono fortemente deluse dallo scontro creatosi nel dopoguerra tra il nuovo clericalismo e la sinistra filostalinista. All'inizio del '48 la sua vita, fino ad allora così «normale», comincia a mutare. Si trasferisce infatti a Milano, dove lavora come giornalista e critico letterario al «Corriere della Sera» e al «Corriere d'Informazione». Pubblica sia una nutrita serie di interventi di attualità culturale e politica che tendono a sostenere una cultura borghese critica e razionale, sia recensioni musicali (raccolte nel 1981 nel volume Prime alla scala), reportages di viaggio in diversi paesi del mondo (raccolti nel 1969 nel volume Fuori di casa) e numerosi brevi racconti, la maggior parte dei quali costituiranno il volume Farfalla di Dinard (1958). Nel '56 esce la sua terza raccolta di poesie, per lo più risalenti agli anni della guerra e dell'immediato dopoguerra, La bufera e altro. Negli anni Cinquanta e Sessanta viene considerato il più grande poeta italiano vivente, modello di cultura laica e liberale, tanto che riceverà diversi riconoscimenti culminanti nel 1967 nella nomina a senatore a vita, e nel 1975 nel premio Nobel per la letteratura. Nel 1966 pubblica le riflessioni di Auto da fé, e nel 1973 il volumetto Trentadue variazioni. Dopo un periodo di completo silenzio poetico esce nel 1971 Satura, e nel 1973 Diario del '71 e del '72, nel 1977 Quaderno di quattro anni; ed infine nel 1980, caso unico per un autore contemporaneo vivente, viene pubblicata l'edizione critica della sua intera Opera in versi. Trascorre gran parte della vecchiaia nell'appartamento milanese in via Bigli 15. Muore a Milano il 12 settembre 1981.
FORSE UN MATTINO… - Eugenio Montale
“Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida,rivolgendomi vedró compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sará troppo tardi; ed io me n'andró zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”
Sono due le ferme intuizioni del Montale:
➢ la percezione del nulla assoluto, in cui le cose che ci circondano ed accadono sono unicamente insulse illusioni;
➢ la percezione del male di vivere, che ha una dimensione cosmica, che coinvolge tutti gli esseri viventi e non.
Questa lirica è lo specchio della sua prima “convinzione”.
La struttura metrica del poema denota una suddivisione dello stesso in due quartine di versi lunghi (solo il terzo ed il quarto sono veri e propri endecasillabi) con cesura prevalentemente in “A >” ; le strofe sono caratterizzate dall’accostamento, vario, di versi brevi che conferiscono alla poesia anomali ritmi di lettura. Le rime sono alternate secondo la schematizzazione A-B-A-B, C-D-C-D. Da segnalare la presenza di enjeabmeant tra 3° e 4° verso, tra 5° e 6° e tra 7° ed 8° anche se non viene a mancare l’utilizzo di connettivi logici semplici tra un verso e l’altro, come punti, virgole, due punti.
Da un punto di vista lessicale, il poema non presenta parole difficili: ma, per la “natura ermetica” dello stesso, è il significato di fondo delle parole difficile da intendere. Interessante sottolineare, come siano utilizzati in forte contrasto, termini astratti (miracolo, nulla, terrore, vuoto) e concreti (alberi, case, colli). La “vera realtà” non è quella data dai termini concreti, che danno origine “all’inganno consueto” , ma da quelli astratti: il nulla, il vuoto.
Gli aggettivi risultano abbastanza inutilizzati, se non nel momento in cui l’autore vuol dare piena visione del “nulla dietro ogni cosa” definendo “arida” l’aria, e “consueto” l’inganno, l’illusione. I verbi nella lirica sono adoperati in senso figurativo. Staticità (il vedere) , ma soprattutto dinamicità (voltarsi, andare, rivolgersi, accampare) e sensazioni intrinseche all’autore stesso, sono strettamente collegate nel complesso metaforico che la poesia assume: difatti, i verbi dinamici sono comunque verbi psicologici, derivanti dallo stato d’animo dell’autore, ma soprattutto, immaginati.
Non sono facilmente deducibili segnali di dimensione spaziale o temporale, anche se il tutto è strettamente condizionato da una supposizione dello scrittore (il “Forse” iniziale): l’ “aria di vetro” induce a dedurre che il contesto abbia luogo in una mattinata invernale. Come già detto in precedenza, consueto l’utilizzo di connettivi semplici, che rendono la sintassi poco articolata. La sintassi del poema, presenta varie parafrasi: “nulla alle mie spalle…dietro di me…che non si voltano…” , quasi che gli uomini, nel non volersi voltare, rimanessero sedotti dalle apparenze, non riuscissero ad andare al di là, chiusi nelle loro false certezze. Non sono però presenti, pronomi con funzione anaforica, cataforica o esoforica ed ellissi di tipo nominale, verbale o frasale.
Anche se non sono numerose le figure retoriche, per ciò che riguarda l’analisi semantica della lirica, questa ha un forte valore metaforico:
• “l’aria di vetro, arida” : un’aria cristallina, asciutta, tipica di una mattina d’inverno. Questa espressione, assume anche la figura d’analogia, in quanto sono messe in relazione due parole dal significato molto distante nel linguaggio comune.
• “un terrore di un ubriaco” : si dà l’idea di una distorta visione delle cose che ha un uomo in stato di ebbrezza, che vede scomporsi ed alterarsi l’aspetto delle cose.
• “gli uomini che non si voltano”: cioè gli uomini che non guardano in faccia alla vacuità della realtà. E’ questa una metafora accostabile a quelle utilizzate dal Vittorini dei “topi scuri” e del “piffero”.
Nella parte iniziale del terzo verso (…il nulla alle mie spalle…), vi è una figura di suono: la ripetizione costante della stessa consonante in parole consecutive, determina una consonanza, conferendo maggiore risalto al significante della parola.
Il motivo di fondo della poesia di Eugenio Montale è una visione pessimistica e desolata della vita del nostro tempo e che dinanzi al “male di vivere” non c’è alcun altro bene che la “divina indifferenza”, ossia un dignitoso distacco dalla realtà. Nella rarefatta atmosfera di una mattinata invernale (aria di vetro) il poeta prende consapevolezza della totale vanità della vita. Nella prima quartina descrive la rivelazione del vuoto: un miracolo spezza “l’inganno consueto” e gli consente di intuire la vacuità dell’esistenza. Nella seconda quartina la folgorazione svanisce ed improvvisamente tornano a profilarsi le cose consuete (alberi, case, colli), ma il poeta ora sa che nella vita tutto è apparenza, come quando su uno schermo si vedono proiettate immagini illusorie.
Il poeta rimane solo nella sua consapevolezza, se ne va zitto: Montale afferma la solitudine esistenziale dell’intellettuale per il quale la consapevolezza del nulla è un privilegio, ma anche una condanna.
COLLOCAZIONE DELL’AUTORE NELLA “DIMENSIONE FASCISTA”
Montale ed il contesto storico-politico - Alcuni sostengono che anche se si fossero verificati dal punto di vista storico eventi diversi, cioè anche se il fascismo non avesse turbato fin dal profondo le coscienze degli italiani e dell’Europa tutta, l’uomo degli inizi del ‘900, ed il poeta stesso, avrebbe in ogni caso scritto versi così duri come pietra, avrebbe sentito l’angoscia e il dolore di una vita così diversa dalle aspettative, perché questa angoscia aveva radici profonde nel suo animo e la storia non aveva fatto altro che evidenziare un processo già in atto. A conferma di ciò, viè un’intervista fatta ad Eugenio Montale da un giornalista intorno agli anni ’50. Montale, alle provocazioni del giornalista che voleva veder la sua poesia come frutto bacato di un’epoca di sofferenze, si ribella e rinforza il concetto del suo dolore quale dolore generazionale e non solo storico.
Alcuni studiosi hanno invece voluto sottolineare come il primo “input” alla poesia ermetica venga proprio dato dalla raltà storico-politica di quegli anni.
Mentre Mussolini iniziò la scalata verso il potere, nasce in parallelo una nuova relazione con la cultura. Essa non deve essere di ostacolo al regime, non abituare le menti alla confutazione, deve bensì stimolare alla conferma ed all’assenso.
Contrariamente a quanto si pensi, eventi così dolorosi non poterono non lasciar segno nella vita e nella produzione letteraria di uno scrittore. Infatti nelle poesie di Ungaretti il peso di quella guerra inutile è il vero ispiratore di ogni verso. L’ermetismo di Ungaretti, è tutto racchiuso nell’espressione “allegria di un naufrago” e le parole si rincorrono incalzante e poi si fermano in lunghi spazi bianchi proprio come si era fermata la vita di tanti giovani.
Ancora, Quasimodo, avverte profondamente nei suoi versi l’urlo della madre che va incontro al figlio “crocifisso” sul palo del telegrafo e sente l’angoscia per quei morti che gridano vendetta. Ora egli chiede solo il silenzio, e quel silenzio diventa la logica della sua …….., del suo ermetismo.
Infine, lo stesso Montale, che aveva asserito il contrario, in più punti vuole porre le distanze tra la sua poesia umile, che utilizza versi secchi e parole aspre, e quello dei poeti laureati come D’Annunzio che avevano servito con i loro versi il regime.
Così, l’assunzione di una poetica, diventa l’assunzione anche di una posizione politica. Se non ci fosse stato il dolore della guerra, della sofferenza data dal fascismo, “il male di vivere” arebbe avuto toni più smorzati e meno intensi.
In conclusione, è difficile separare il pensiero del letterato dall’origine storica e dall’ideologia politica. Ogni poeta, in ogni epoca resta il segno più profondo della sua realtà storica e sociale.
Vittorini ed il contesto storico-politico - La più volte rivendicata autonomia espressiva vede Vittorini contrapposto alla linea comunista di Zidanov, il ministro della propaganda sovietica. Entrando nel merito, diciamo che nel 1945 fonda “Il Politecnico”, rivista di cultura che però spazia anche su temi sociali, politici, economici. La veste grafica innovativa e la semplicità espressiva catturano l’attenzione anche delle masse; ma il punto su cui si aprono le ostilità è un’affermazione scritta da Vittorini sul primo numero del 29-9-1945, che diceva: “Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti ad eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura”. Proponendo un intervento politico della cultura, Vittorini si mette in contrapposizione con il dirigismo del PCI, che tendeva ad inglobare gli intellettuali nelle direttive del partito. Poco tempo dopo, Mario Alicata, intellettuale comunista, dichiara il fallimento del Politecnico su due fronti: quello sociale, avendo deviato la letteratura dall’impegno nell’analisi dei problemi delle masse; quello politico, non essendo riuscito a coinvolgere nel dibattito i ceti medi, partecipazione che avrebbe favorito il dialogo. Nel Luglio-Agosto 1946, Vittorini risponde rivendicando l’autonomia della cultura rispetto alla politica, sostenendo anche la sua universalità, contrapposta alla particolarità della politica. La voce di Togliatti si fa sentire presto ed è una critica all’uso che i redattori del Politecnico fanno dell’informazione, sostituendola all’educazione, di gran lunga più importante. Vittorini si rifiuta di “suonare il piffero” per la rivoluzione, e non è disposto a rinunciare alla proposta di nuovi autori nelle colonne del suo mensile, aggiungendo che la cultura può produrre i migliori effetti, solo se assolutamente spoliticizzata ed estranea alle logiche di partito. Pomo della discordia furono quasi sicuramente le diverse formazioni dei due dibattenti, aperta ed avanguardista quella di Vittorini, classica ed ottocentesca quella di Togliatti.
Nel 1947, data l’inconciliabilità di queste due vedute, “Il Politecnico” chiude le pubblicazioni. Ma il problema dei rapporti tra partito ed intellettuali rimarrà una faccenda scottante per tutto il dopoguerra, aggravato dalle posizioni filosovietiche acquisite dal PCI, che gli alieneranno l’appoggio di moltissimi letterati.
- STORIA
L’AVVENTO, L’AFFERMAZIONE E LA CADUTA DEL FASCISMO
IL FASCISMO E LE SUE ORIGINI
Il fascismo è un movimento politico italiano fondato il 23 marzo 1919, in un’adunata in Piazza S. Sepolcro, da Benito Mussolini, che resse il paese tra il 1922 e il 1943.
Già nel 1915 Mussolini aveva imposto al movimento interventista la costituzione dei “Fasci d’azione rivoluzionaria”, ridenominati, poi, “Fasci di combattimento” nel 1919. Questi ultimi si trasformeranno in PNF (Partito Nazionale Fascista).
Tra le prime reclute di questo movimento troviamo futuristi, arditi, interventisti rivoluzionari (tra cui lo stesso Mussolini), repubblicani e anarco – sindacalisti, con un programma di tendenza repubblicana e anticlericale che presentava richieste di democrazia politica e sociale.
Quindi questo movimento, diventato, come è noto, il partito che istituì una dittatura di destra, nacque come movimento di sinistra. Mussolini, fino al 1914, faceva infatti parte del PSI, da cui venne espulso per aver portato avanti un’accesa campagna interventista su “Il popolo d’Italia”, in quanto riteneva la guerra un’occasione da non perdere per una rivoluzione proletaria. Ben presto si comprese che il programma dei Fasci era intriso di demagogia, proposto solo per ottenere consensi e arrivare al potere; una delle prime azioni compiute da Fasci di combattimento fu l’assalto e l’incendio della sede milanese dell’”Avanti”, noto giornale socialista. In particolare, per compiere queste azioni intimidatorie contro gli esponenti socialisti, vennero create le squadre d’azione fasciste, composte da giovani studenti, ex combattenti e ufficiali appena congedati. Per compiere le loro azioni, le squadre utilizzavano dei camion per spostarsi durante la notte da un borgo all’altro.
L’AFFERMAZIONE DEL FASCISMO (1920- 1922)
Il fascismo godeva di molti consensi, provenienti soprattutto dagli ambienti vicini ai proprietari terrieri, (chiamati anche “agrari”) che vedevano in questo movimento un efficace mezzo per “stroncare” il movimento socialista dei contadini.
Un’altra ragione che ha portato all’ascesa il potere fascista è stato l’appoggio di Giolitti, che aveva intenzione di sfruttare il fascismo per frenare l’avanzata socialista, per poi farlo rientrare nelle fila dello stato liberale.
Alle elezioni del 1919 l’unica lista fascista ottenne poco meno di 500 voti, la maggioranza fu ottenuta da PSI e PPI, che, però, per i loro interessi e ideali molto diversi, non erano in grado di creare una forte concentrazione governativa, alternativa a quella liberale che ormai era passata in secondo piano.
Dal giugno 1919 all’ottobre 1922 (primo governo Mussolini) si alternarono alla presidenza del Consiglio uomini del vecchio stato liberale: Nitti, Giolitti, Bonomi e Facta. Questi governi erano molto deboli e la situazione parlamentare era critica.
I problemi maggiori per il paese erano due: la condotta indecisa della politica estera da parte di Orlando e Sonnino alla Conferenze di Parigi e la conseguente “Questione Adriatica”. Alla conferenza di Parigi del 1919 furono svolte le trattative di pace per ridisegnare la carta politica europea spartendo i territori dei paesi perdenti tra le potenze vincitrici. L’andamento di queste trattative, in cui i delegati italiani ebbero un ruolo di secondi piano, non soddisfò i nazionalisti, che, capeggiati da D’Annunzio, definirono la vittoria italiana una «vittoria mutilata” e reagirono occupando, nel 1919, Fiume, che sarebbe poi stata liberata solo con l’intervento di Giolitti nel 1920 (Trattato di Rapallo).
Accanto a questi problemi di carattere politico, ce ne erano altri di carattere sociale: crisi sociale ed economica causate dalla guerra, dalla svalutazione della lira, dall’aumento delle imposte, dalla disoccupazione. Anche il numero degli scioperi crebbe enormemente a partire dal 1920, gli industriali decisero di reagire con le “serrate” (cioè la chiusura) delle fabbriche, schierandosi apertamente dalla parte del fascismo per paura di una rivoluzione socialista.
Alle elezioni amministrative del 1920 e alle politiche del 1921 i fascisti si presentarono in blocchi nazionali con nazionalisti e liberali giolittiani.
➢ Il PNF e le divergenze all’interno dei partiti di sinistra
In questo periodo abbiamo tre importanti avvenimenti: a Roma, nel novembre del 1921, si ha la costituzione del PNF (Partito Nazionale Fascista) durante il Congresso dei Fasci; a Livorno avviene una scissione tra socialisti e comunisti, con la creazione del Partito Comunista d’Italia da parte di Gramsci, Bordiga, Togliatti e Terracini, che si rifaceva agli ideali di Lenin e si costituì come sezione della terza internazionale; all’inizio dell’ottobre 1922 all’interno del PSI si ha una nuova separazione tra massimalisti e riformisti, che, capeggiati da Matteotti, crearono il Partito Socialista Unitario.
Anche all’interno del Partito Popolare Italiano (PPI) troviamo tre distinte correnti: una di destra, capeggiata da Padre Gemelli, una di sinistra, capeggiata da Miglioli e una di centro sostenuta da De Gasperi e Don Sturzo.
Alla fine di ottobre Mussolini decise per un’azione di forza ed in particolare il 28 ottobre 1922 egli fece concentrare le squadre fasciste, dalle diverse parti d’Italia, in Roma con l’intenzione di far cadere il debole governo Facta con un colpo di stato. La Marcia su Roma, in realtà, fu una passeggiata: non incontrò, infatti, nessuna resistenza da parte dell’esercito italiano in quanto il re Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare lo stato d’assedio e per questo Facta decise di dimettersi con tutto il governo.
Il 30 ottobre il re convocò Mussolini per affidargli l’incarico di formare il nuovo Governo, segnando il crollo delle istituzioni liberali e democratiche.
IL FASCISMO AL POTERE (1922 – 1926)
Questo è un periodo di transizione, in cui il regime si manterrà su posizioni moderate, formando il primo governo con una coalizione di fascisti, popolari, nazionalisti e democratico – sociali; Mussolini decise, inoltre, di escludere dal suo programma la fondazione della Repubblica. Durante questi anni Mussolini preparerà gradatamente la trasformazione dello stato in senso autoritario.
Mussolini cerca di apportare modifiche all’ordinamento vigente in modo da avere sotto controllo tutto: normalizzò la violenza squadrista trasformando le squadre d’azione in “Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale”; introdusse i sindacati fascisti come sostituti di quelli socialisti per frenare il conflitto sociale; istituì il Gran Consiglio del Fascismo, massimo organo consultivo e deliberativo del regime fascista. Fu anche approvata una nuova legge elettorale, la Legge Acerbo, che portò, durante le elezioni del 1924, al successo del cosiddetto “listone fascista”, formato da fascisti, nazionalisti, liberali e cattolici della componente clerico – moderata.
Il 10 giugno del 1924 Giacomo Matteotti, un deputato socialista, denunciò a viso aperto i brogli e le violenze elettorali operate dai fascisti; per questo, venne rapito e ucciso da una squadra fascista. Questo aprì una crisi politica e le opposizioni parlamentari decisero di astenersi dai lavori delle camere con la “Secessione dell’Aventino”, che però ebbe solo un significato formale. Infatti, sia il re che la stessa opposizione aventina non riuscirono a costituire una alternativa valida politica e Mussolini ne approfittò per operare la svolta autoritaria che lo avrebbe liberato dalle opposizioni liquidando sostanzialmente le libertà statutarie.
LO STATO FASCISTA (1926 – 1935)
Con il discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini si assunse la responsabilità morale dell’omicidio di Matteotti, dando inizio ad una vera e propria dittatura, che si realizzò nelle leggi “fascistissime” del 1925 – 1926 con le quali il Parlamento fu privato di ogni sua funzione e il potere venne dato in mano al Governo e al Gran Consiglio del Fascismo, organo principale dello stato, il cui parere era obbligatorio per ogni questione, ed era l’unico organo dove resistesse un minimo di dialettica politica.
Infatti il capo del Governo doveva rendere conto delle proprie azioni solo al re, il Parlamento non poteva più discutere alcuna legge senza il consenso del Governo.
Gli intellettuali e gli esponenti dei partiti antifascisti furono costretti all’esilio.
➢ La “fascistizzazione” del paese
In generale si realizzò una vera e propria fascistizzazione del paese: furono sciolti i sindacati oppositori, creata una polizia speciale, l’OVRA, e un Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato; vennero vietati lo sciopero e la serrata. L’iscrizione al partito divenne obbligatoria per i dipendenti pubblici e divenne il requisito fondamentale per ottenere promozioni e impieghi; il partito controllava le diverse organizzazioni di massa istituite dal regime per educare la gioventù ai valori fascisti: “I figli della lupa”, “Balilla”, “Piccole italiane”, “avanguardisti”, “giovani fascisti”, “donne italiane”. Nel 1937 tutte queste organizzazioni confluirono nella “Gioventù italiana del Littorio”, “L’Opera Nazionale del Dopolavoro”, “Maternità e Infanzia” per inquadrare i diversi strati della società.
Già prima di iniziare le scuole elementari i bambini venivano assuefatti alla divisa e alle parate militari, e tutti, giovani e anziani erano tenuti a partecipare a riunioni di addestramento, il motto era : “credere, obbedire, combattere”. Tutti dovevano partecipare alle adunate “oceaniche”.
➢ Il fascismo e la scuola
Il fascismo operò anche cambiamenti nei riguardi della scuola, con la riforma Gentile del 1923. Essa si basò su due principi: la supremazia della cultura umanistica sulla cultura tecnico – scientifica, nettamente separate, e il carattere fortemente selettivo del sistema scolastico, ottenuto introducendo esami ai vari livelli di istruzione.
Un ruolo privilegiato era assegnato al liceo classico, unico indirizzo da cui era possibile accedere a tutte le facoltà; seguiva il liceo scientifico, che dava accesso solo alle facoltà scientifiche, l’istituto magistrale quadriennale, per la formazione dei maestri, gli istituti tecnici per ragionieri e geometri con il solo accesso alla facoltà di economia e commercio, infine gli istituti professionali.
Venne inserito l’insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare, cosa gradita ai cattolici; venne, inoltre istituito l’esame di stato finale in quanto parificava scuola pubblica e scuola confessionale. Quest’ultimo era effettuato da commissari esterni alle scuole.
➢ Il fascismo e la Chiesa cattolica
L’11 febbraio 1929 Mussolini e il Cardinale Guasparri posero fine alla “questione romana”, sorta nel 1870, con un accordo. Questo accordo prese il nome di “Patti Lateranensi” ed era composto da tre documenti:
a. un trattato, con il quale la Santa Sede riconosceva la sovranità dello Stato italiano, con Roma capitale, e lo Stato riconosceva la sovranità pontificia sulla Città del Vaticano;
b. La Convenzione Finanziaria con cui lo Stato versava al Vaticano una somma a titolo di indennizzo;
c. Il Concordato, destinato a regolare i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, limitando l’autorità della legislazione civile su punti importanti, garantendo l’Azione Cattolica (A. C.), un’organizzazione di laici alle dipendenze della gerarchia ecclesiastica.
Questo concordato conquistò largo consenso tra i cattolici e stabilì buoni rapporti tra il Governo fascista e il Vaticano, anche se ci furono degli attriti, come per esempio la questione dell’ A.C. nel 1931 e i problemi a proposito delle leggi razziali del 1938.
➢ La politica economica fascista
Possiamo individuare tre fasi all’interno del processo di sviluppo della politica economica del regime, partendo da una fase sostanzialmente liberista, si arriverà al totale dirigismo economico, passando per una fase intermedia definita “Quota 90”.
La fase liberista
Questa prima fase è collocabile tra il 1922 e il 1925 e venne realizzata grazie all’operato del ministro delle finanze De Stefani, esponente di una scuola liberale.
I provvedimenti di questo ministro da una parte favorirono la libertà di iniziativa economica, riducendo i vincoli e il peso fiscale sulle imprese, dall’altro cercarono di diminuire la spesa pubblica, riducendo il personale statale.
Furono denazionalizzate le assicurazioni sulla vita, mentre i telefoni, il gas, l’energia elettrica e la radio furono affidate all’iniziativa privata. Solo le FF.SS. furono lasciate in mano statale, ma erano poco redditizie.
I risultati furono importanti e portarono, tra il 1923 al 1925 ad una fase si intenso sviluppo economico: nel 1924 ci fu la chiusura del primo bilancio in attivo dalla fine della guerra, le esportazioni aumentarono notevolmente, e così la produzione e i profitti. Vennero istituite tariffe doganali e ci fu il salvataggio di industrie in difficoltà da parte dello Stato.
Un problema ancora irrisolto era quello della stabilizzazione della moneta, condizione indispensabile per attrarre capitale esteri.
La fase di “quota 90”
Questa seconda parte andò dal 1925 al 1930 e fu caratterizzata da notevoli difficoltà economiche dovute ad un rallentamento dell’economia internazionale, che colpì le esportazioni, la bilancia dei pagamenti era, infatti, squilibrata, si aggiungeva, ad aggravare la situazione, una forte svalutazione della lira con conseguente ripresa dell’inflazione.
Mussolini sosteneva che il destino del regime era strettamente legato alla lira, cercò, quindi, di rivalutarla e stabilizzarla.
Il nuovo ministro delle finanze, Volpi, fissò il cambio con la sterlina a 90 lire (a “quota 90”) e la Banca d’Italia poté, nel 1927, fissarlo a 92,46 lire.
Accanto a questa azione se ne affiancò un’altra, consistente in una manovra deflazionistica che, oltre a raggiungere il suo obiettivo, mise fine alla speculazione della lira.
Nel 1937 fu lanciata la Carta del lavoro, essa sintetizzava i principi fondamentali dell’ordinamento sindacale – corporativo fascista. Questo documento sanciva, inoltre, l’abolizione del diritto di sciopero e la giornata tornava ad essere di 9 ore.
La fase dirigista
La terza fase, degli anni ’30, venne caratterizzata da un forte intervento dello stato nell’economia, attuato attraverso un vero e proprio dirigismo economico; questo era necessario in quanto anche in Italia le conseguenze della crisi del 1929 furono pesanti e portarono ad una riduzione della produzione industriale e del commercio estero, oltre all’aumento della disoccupazione.
Per contrastare questi problemi da una parte venivano ridotte le retribuzioni e quindi compressi i consumi privati, dall’altra il regime adottò nuovi strumenti per allargare il suo ruolo di direzione dell’economia.
L’operazione più importante del periodo fu la creazione, nel 1933 dell’IRI, L’Istituto per la Ricostruzione Industriale, cioè un ente pubblico che acquisì la proprietà delle maggiori banche e dei pacchetti azionari che queste avevano per impedirne il tracollo.
Lo Stato diventò un banchiere – azionista.
L’apparato industriale nel periodo fascista si rafforzò, mentre in ambito agricolo ci fu una stagnazione che il fascismo non riuscì ad impedire. Ricordiamo che il paese era ancora essenzialmente agricolo e che il ceto rurale era un importante bacino di consensi.
Furono, per questa ragione, portate avanti diverse “battaglie”, la prima delle quali fu quella del grano del 1925, che voleva aumentare la produzione frumentaria e portare il paese all’autosufficienza cerealicola. Questo obiettivo venne dichiarato raggiunto nel 1931, ma se la situazione era migliorata nelle pianure settentrionali, nel meridione l’aumento della produzione fu ottenuto attraverso l’estensione cerealicola a danno della zootecnica e delle colture specializzate. Inoltre il prezzo dei cereali salì di circa il 50% rispetto a quello americano, anche se l’importazione fu ridotta del 75%.
La seconda battaglia fu quella della bonifica integrale lanciata nel 1928, che voleva aumentare gli spazi agricoli da sottoporre a coltura per aumentare l’occupazione delle campagne; i risultati furono, però, rilevanti soltanto nell’Agro Pontino.
Fu portata avanti anche una campagna demografica che doveva portare l’Italia a 70 milioni di abitanti nel 1960. Fu istituita una tassa sul celibato e limitata la carriera degli scapoli, mentre premi di natalità e prestiti furono elargiti agli sposi.
L’emigrazione fu fortemente limitata, perché in contrasto con il prestigio italiano.
I risultati di questa ultima impresa furono negativi, i nati vivi toccarono la punta più bassa nel 1876 e le rimesse degli emigranti scesero notevolmente con una forte perdita per il tesoro.
L’ordinamento corporativo divenne un dato di fatto solamente nel 1934, e con esso Mussolini mirava al controllo delle forze di produzione e in particolare all’aumento della potenza nazionale attraverso la produzione e l’accorciamento delle distanze sociali.
Durante gli anni venti i nazisti, capeggiati da Hitler, presero il potere; questo evento fu salutato con soddisfazione dai fascisti italiani. Ma, Mussolini, in risposta alla minaccia rappresentata dall’ascesa al potere di Hitler (in riguardo alla riunificazione dell’Austria alla Germania, e alla diffusione dell’influenza tedesca sul Danubio e nei Balcani), nel 1933 preparò il Patto a quattro. Quest’ultimo avrebbe dovuto fungere da moderatore, tra Francia, Inghilterra, Germania e Italia; successivamente, nel 1935, Francia e Inghilterra condannarono la politica di riarmo della Germania.
➢ La guerra in Etiopia
Nella seconda metà degli anni ’30 vennero introdotti moltissimi enti pubblici, che portarono alla creazione di una vera e propria politica parastatale, e la politica di riarmo seguita dal paese, anche in vista della guerra etiopica, intensificò i rapporti tra potere politico e sistema economico.
Questa guerra diede una svolta decisiva alla dittatura fascista, il cui potere, fino ad allora, era sembrato fortemente radicato.
La guerra scoppiò il 3 ottobre 1935, i motivi erano molteplici: la sovrabbondanza della popolazione italiana rispetto alle capacità produttive del paese (c’era, quindi, bisogno di nuove risorse), e la volontà degli industriali.
In realtà Mussolini iniziò la guerra per una questione politica: voleva aumentare il prestigio internazionale del paese, consolidando i possedimenti italiani in Africa, cioè in Eritrea e Somalia.
Per poter agire Mussolini aveva bisogno del consenso della Francia e dell’Inghilterra, che possedevano le colonie confinanti con quelle italiane.
La Francia acconsentì per paura dell’alleanza che sarebbe potuta nascere tra Mussolini e Hitler; la seconda, nonostante avesse lo stesso presentimento, non voleva che l’Italia si rafforzasse nel Corno d’Africa, ma dovette lasciare campo libero per non provocare crisi internazionali.
Le truppe italiane cominciarono, così, ad invadere l’Etiopia e a combattere contro le truppe del ras Hailè Selassiè; l’operazione terminò il 6 maggio 1936 con la presa di Adddis Abeba e la sconfitta del ras. Mussolini, dopo questi eventi, dichiarò la nascita dell’Impero dell’Africa orientale italiana, di cui Vittorio Emanuele III divenne imperatore, anche se dovette difendersi dai giudizi dell’opinione pubblica interna ed internazionale.
La Società delle Nazioni dichiarò l’Italia paese aggressore e le impose dure sanzioni economiche, impedendole l’esportazione di armi, munizioni e alcune merci.
All’interno del paese c’erano diverse tendenze: alcuni sostenevano le idee del regime secondo le quali l’Italia proletaria avrebbe dovuto combattere contro potenze molto più ricche di lei che volevano impedirle di affermarsi in campo internazionale per paura di vedere minacciato il loro prestigio mondiale; alcuni, invece, capirono che il regime era basato solo sulla conquista e sulla potenza e che le tante promesse che erano state fatte non sarebbero state mantenute; questo fece perdere consensi al regime.
Mussolini perse il controllo di sé e le sanzioni aumentarono il suo astio nei confronti dei paesi facenti parte della Società delle Nazioni, questo lo portò a stringere un’alleanza con la Germania hitleriana.
L’AVVICINAMENTO AL NAZISMO E LA CRISI BELLICA
Nel 1936 Mussolini si avvicinò alla Germania, stipulando con essa un accordo: “l’asse Roma – Berlino” nell’ottobre.
Nello stesso anno il Duce proclamò l’Impero, altro chiaro segno del suo avvicinamento alla Germania.
Questo allineamento si rafforzò con l’intervento italo – germanico in una guerra civile spagnola, dove i due alleati diedero aiuto a Franco, capo degli insorti contro la Repubblica. Questo avvicinamento al nazismo divise il PNF, in quanto al suo interno c’erano:
• coloro che, per ideologia di parte, pensavano che i due paesi dovessero procedere insieme, e
• coloro che cominciavano a preoccuparsi seriamente degli obiettivi di Hitler, e si domandavano dove questa collaborazione con la Germania avrebbe portato l’Italia.
Nel 1938 Hitler occupò Vienna ma Mussolini non si mosse. Le principali ragioni di questa sua passività furono il crollo del prestigio estero del paese e la rottura dell’equilibrio che, almeno formalmente, fino a quel momento esisteva con la Germania: il fascismo diventò dipendente dal nazismo.
➢ La legislazione razziale
Il primo effetto dell’influenza hitleriana fu l’introduzione, nel 1938, della legislazione razziale: la convivenza con gli ebrei che c’era stata fino ad allora non ci sarebbe più potuta essere.
Furono promulgate leggi razziali, discriminatorie verso gli ebrei: non si potevano più sposare con gli italiani di razza “ariana”, non potevano svolgere il servizio militare e ricoprire cariche pubbliche, ne venivano limitate le attività economiche e le libere professioni; furono fatte anche persecuzioni violente contro di loro.
Questa legislazione antisemita trovò un minimo di consenso e una forte opposizione che si manifestò, oltre che con un soccorso rivolto alle vittime, con la condanna della Chiesa cattolica, che, anche se aveva appoggiato le guerre in Etiopia e in Spagna, non poteva accettare il razzismo ideologico.
Questa situazione si aggravò con la stipulazione, a Berlino, del Patto d’Acciaio con la Germania, nel maggio 1939. Questo patto era, però, basato su una menzogna tedesca verso l’Italia, infatti Hitler promise che non avrebbe avuto intenzioni belliche verso la Polonia e, tanto meno avrebbe occupato Danzica; questa era una grossa menzogna, ma Mussolini si era ormai buttato a capofitto a fianco del capo tedesco.
Dopo quest’ultimo atto, Mussolini cominciò ad imitare Hitler.
➢ L’intervento nel secondo conflitto mondiale e il crollo del regime
Mussolini perse ulteriormente il consenso dell’opinione pubblica schierandosi, il 10 giugno del 1940, accanto all’alleato nel conflitto, convinto che la Germania sarebbe stata vincitrice di una guerra – lampo.
Le sconfitte invece furono sempre più dure e l’antifascismo si consolidava sia in Italia che all’estero. Gli alleati (statunitensi e inglesi) ebbero così la possibilità di realizzare, per quanto riguarda l’Italia, uno sbarco in Sicilia che venne realizzato il 10 luglio 1943. Per il nostro paese, la situazione si fece veramente critica per l’impossibilità del Governo Mussolini di realizzare un’efficace difesa del territorio nazionale, le cui ripercussioni si risentirono anche sul piano interno dove aumentarono, per esempio, gli scioperi.
Di fronte a questa situazione, in alcuni settori della gerarchia fascista e nella monarchia maturò l’idea di destituire Mussolini. Questo avvenne il 25 luglio 1943, quando il duce venne messo in minoranza nel Gran Consiglio del fascismo su iniziativa di un gruppo di gerarchi. Immediatamente il re lo destituì e lo fece arrestare conducendolo sul Gran Sasso. Il fascismo era finito e il regime era crollato. Il nuovo Governo venne affidato al generale Badoglio che l’8 settembre 1943 firmò l’armistizio con gli anglo – americani.
La situazione, però, era ancora difficile da controllare: mentre il re e il Governo fuggirono a Brindisi creando il Regno del Sud sotto il controllo degli alleati, l’esercito venne abbandonato a se stesso, massacrato sotto i colpi dell’avanzata tedesca nella parte centro – settentrionale del paese. Proprio in questa parte del paese, ormai controllata dai tedeschi, il 12 settembre Mussolini, che era stato prigioniero a Campo Imperatore, ed era stato liberato da una squadra di paracadutisti tedeschi, ricostituì il Partito Fascista Repubblicano (cioè quello delle origini), dando vita alla Repubblica Sociale Italiana, (o Republica di Salò, dal nome della capitale) sostenuta e subordinata alle truppe naziste, che imposero uno stato poliziesco.
Nonostante la dura repressione nazista, anche nel centro – nord si svilupparono i Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), che portarono avanti la loro lotta, passando da una posizione attendista ad un totale appoggio verso gli Alleati, giungendo insieme, con il passare dei mesi, alla liberazione di città come Bologna, Genova e Milano.
Il fascismo repubblicano crollò definitivamente il 25 aprile 1945, e il 28 Mussolini fu fucilato.
- TELECOMUNICAZIONI
LE MEMORIE
In ogni personal computer vi sono due tipi di memoria:
• una memoria di archiviazione, che serve a registrare il sistema operativo, i programmi ed i documenti. Questo tipo di memoria conserva permanentemente le informazioni registrate. Sono memorie di archiviazione il disco rigido, i dischetti, i CD-ROM;
• una memoria di lavoro, che serve per accendere il computer, per caricare il sistema operativo e per lavorare con i programmi ed i documenti. La memoria di lavoro è costituita da chip montati sulla scheda madre o su moduli aggiuntivi.
La memoria di lavoro si divide in due parti:
• memoria ROM, che serve ad accendere il personal;
• memoria RAM, che serve a lavorare.
Quando si accende un personal, si attiva la memoria ROM, che da vita al computer e che provvede a caricare il sistema operativo dal disco rigido (memoria di archiviazione) alla memoria RAM. Qui il sistema operativo si installa e “prende possesso” del computer.
Quando vogliamo lavorare con un programma, cioè quando lo mandiamo in “esecuzione”, oppure quando “apriamo” un documento per modificarlo, il sistema operativo legge dal disco rigido il programma e/o il documento e li carica nella memoria RAM. Qui possiamo lavorare con il programma, modificare un documento, crearne uno nuovo.
Tutto il lavoro sui documenti si svolge nella memoria RAM e deve essere considerato provvisorio finché non venga “salvato”, cioè non si chieda al sistema operativo di registrare il lavoro effettuato su un disco rigido o su un’altra memoria di archiviazione.
La memoria RAM, infatti, deve essere continuamente tenuta in vita da impulsi elettrici ed in mancanza di questi, quando il computer viene spento, perde tutti i dati caricati. Per questo la memoria RAM viene chiamata “volatile”: basta poco, una mancanza di elettricità, qualcuno che inciampa nel filo della corrente, perché tutto il lavoro svolto fino a quel momento scompaia come una scritta sulla sabbia per un colpo di vento.
La memoria ROM, invece, servendo proprio ad accendere il personal, rimane sempre inalterata.
Memoria ROM
La memoria ROM, dall’inglese Read Only Memory, è un tipo di memoria permanente, non “volatile”, e che non può essere modificata dall’utente del computer.
Quando il computer ci viene venduto possiede già una piccola dotazione di software intallato nella memoria ROM. Software, ripetiamo, che è registrato permanentemente e non può essere né cancellato, né modificato.
Firmware e BIOS
Questo software viene chiamato firmware, cioè saldo, fisso, e comprende anche tutte le basilari istruzioni utilizzate dai programmi per avere accesso ai diversi componenti hardware come il video, il mouse, le porte di comunicazione ed i dischi floppy o rigidi.
Fa parte del firmware, ad esempio, il BIOS, cioè quel gruppo di istruzioni che consente ai diversi processori di attivarsi al momento dell’accensione del computer, di rispondere agli impulsi del clock e di effettuare un piccolo autotest di funzionamento. Infine viene letto il sistema operativo presente sul disco rigido e, dopo essere stato caricato nella memoria RAM, gli viene ceduto il controllo del sistema.
La ROM è definita nella configurazione base di ciascun computer e la sua grandezza non ha molto a che vedere con le prestazioni del personal, con la sua velocità di elaborazione o la sua potenza. Per quanto riguarda il firmware, esso viene installato dalla ditta costruttrice della macchina e non è modificabile.
Anche se spesso la presenza e la quantità della memoria ROM sulla scheda madre o sulle schede accessorie viene evidenziata nei manuali o nei depliant dei computer, l’utente non ha alcun beneficio nel conoscerne le dimensioni o le caratteristiche. L’attività del firmware presente nella memoria ROM è del tutto invisibile.
Nei personal più vecchi era necessario sostituire la ROM, per sostituire il firmaware contenuto, quando si voleva aggiungere un dispositivo hardware che non era previsto quando era stato costruito il computer ed installato il firmware. E’ una operazione, ad esempio, che deve fare chi voglia collegare un disco da 3,5 pollici ad un vecchio computer con 8086, nato quando questi non esistevano ancora e si usavano i dischi da 5 e 1/4.
Con i sistemi attuali, invece, tale funzione di compatibilità con periferiche nuove viene svolto da porzioni del sistema operativo chiamati “driver”. Ogni periferica nuova che si collega al computer (stampanti, unità di memoria di massa, schede...) richiede che venga intallato il proprio driver nel sistema operativo e non necessita più modifiche alla ROM.
Oltre alla memoria ROM presente sulla scheda madre, un computer può avere anche altra memoria ROM inclusa in schede specializzate inserite nei connettori. Questo tipo di schede hanno spesso bisogno di un programma apposito per poter svolgere le proprie funzioni. Niente di più naturale, ed economico, che includere questo programma in una ROM che, saldata alla scheda stessa, non corre il pericolo di danneggiarsi o di essere persa come potrebbe accadere ad un dischetto.
Flash-ROM e Boot-ROM
In alcuni personal, da scrivania o portatili, vengono inserite memorie ROM speciali, contenenti parti del sistema operativo come firmware. Queste ROM vengono chiamate Flash-ROM o Boot-ROM, perché consentono di avviare il computer e di trovarsi pronti al lavoro in pochi secondi.
Essendo, però, a sola lettura, queste memorie non consentono di aggiornare il sistema operativo, se non con la sostituzione delle ROM stesse, sempre che il produttore abbia mantenuto quel particolare modello di personal ancora in produzione.
In altri computer, ad esempio i notebook, nelle ROM non solo è stato inserito il sistema operativo, ma anche alcuni programmi applicativi: un word processor, un foglio di calcolo, un programma di agenda e appuntamenti ed uno per la gestione di una base di dati. Ciò consente di eliminare il lettore dei floppy, il lettore di CD-ROM e parte del disco rigido, alleggerendolo in peso ed in costi, ma vincola per sempre a non cambiare programma ed a non poter fare aggiornamenti.
Il lato positivo dell’avere i programmi permanenti in ROM è di poterli richiamare in una frazione di secondo e nel poter saltare dall’uno all’altro con un semplice tasto. In alcuni notebook è possibile spengere il computer avendo sullo schermo un lavoro e, nel riaccenderlo, trovare lo stesso lavoro allo stesso punto in cui l’avevamo lasciato. Inoltre, eseguire un programma prelevandolo dalla memoria ROM comporta per il computer un dispendio di energia molto inferiore di quello che sopporterebbe se dovesse eseguirlo da un disco rigido.
Memoria RAM
Oltre ai chip della memoria ROM, che è di sola lettura, esistono altri chip di memoria. Questa volta si tratta di memoria vuota, a disposizione dell’utente. Anzi: a disposizione del computer, il quale ha necessità, per poter eseguire un programma ed elaborare dei documenti, di caricare in memoria sia il programma che i documenti.
Questa memoria viene chiamata RAM, dall’inglese Random Access Memory, cioè “memoria ad accesso casuale”. Il che non vuol dire che il computer carica programmi e dati “dove capita, capita”, ma sottintende una procedura molto più complessa di quella che il nome lascia intendere.
Se diamo ad un computer il comando di eseguire un determinato programma, questo viene letto dal disco e caricato nella memoria RAM. La proprietà “casuale” della memoria RAM viene fuori quando inizia l’esecuzione del programma.
Tutti i programmi sono composti da vari spezzoni, ognuno dedicato ad un’attività diversa. Ci sarà uno spezzone per la visualizzazione su schermo, un altro per l’elaborazione del testo, altri ancora per l’effettuazione di calcoli o la creazione di grafici. Ogni spezzone è stato caricato in memoria l’uno dopo l’altro senza suddivisione, ma in una parte apposita del programma sono “dichiarate” le lunghezze dei vari spezzoni.
Quando si verifica il bisogno di uno spezzone, il computer non è costretto a leggersi tutto il programma dall’inizio alla fine. Sapendo dove inizia il programma e la lunghezza dei vari spezzoni, è semplice andare direttamente a leggere nel punto giusto. Né conta se quel programma è stato registrato in una parte od in un’altra della memoria. “Casuale”, in questo caso, è contrapposto a “sequenziale” e vuol dire semplicemente che si può andare a leggere una qualsiasi posizione di memoria.
Volatilità della RAM
Non soltanto la memoria RAM è vuota quando acquistiamo il computer, ma anche tutte le volte che lo accendiamo. In essa, infatti, non è possibile conservare permanentemente un programma. La RAM è “volatile”: ha bisogno continuamente della corrente elettrica che alimenta il computer, altrimenti perde il suo contenuto.
Del resto i programmi che utilizziamo sul nostro computer sono molti: se ognuno di essi venisse tenuto per sempre in memoria, ben presto dovremo iniziare ad aumentare incessantemente i chip di memoria per poter ancora lavorare. Quindi, molto semplicemente, quando spengiamo il nostro computer, tutto quello che è stato caricato nella memoria RAM viene cancellato.
Riguardo ai programmi, nessun problema. Essi sono registrati sul disco rigido e, volendo di nuovo lavorare con quel programma, basta chiederne l’esecuzione ed il sistema operativo provvede a caricarlo in memoria RAM. Il problema sorge per i documenti. Se abbiamo creato un documento nuovo, o modificato uno già esistente, il documento si trova ancora in memoria RAM. Spengere il computer in questo momento provoca la cancellazione della memoria RAM e quindi la perdita di tutto il lavoro che non abbiamo provveduto a registrare sul disco rigido.
Lo spegnimento del computer potrebbe anche non essere volontario: il contatore che salta, un blackout della corrente, un collega che inciampa nel cavo e stacca la spina, sono incidenti probabilissimi che causerebbero la perdita di tutto il lavoro in corso e non ancora registrato. E’ buona regola registrare frequentemente su disco rigido il lavoro che si sta facendo, oppure subito dopo operazioni importanti di modifica.
Dimensione della RAM
La dimensione della memoria RAM è un elemento molto importante nella configurazione di un computer, seconda solo alle caratteristiche del microprocessore. Più RAM abbiamo nel computer, più questo potrà lavorare con programmi complessi ed elaborare un maggior numero di dati.
Se la memoria RAM non basta a contenere un programma, questo non può essere eseguito. Se il programma entra nella memoria, ma il documento sul quale vogliamo lavorare non può essere caricato nella parte libera rimasta, il sistema operativo è costretto ad effettuare continue operazioni di registrazione e di lettura del documento.
Il sistema operativo carica in memoria solo una parte di documento e, quando chiediamo di andare avanti nel lavoro, la registra sul disco per poter leggere e caricare in memoria la porzione successiva. Uguale impegno viene richiesto da programmi particolarmente complessi che sono stati frazionati in un certo numero di file. Il sistema operativo, di volta in volta, carica dal disco quello richiesto. Questo tipo di frazionamento è molto diffuso, perché facilità la compatibilità verso macchine con memoria inferiore a quella teoricamente necessaria.
La quantità minima di memoria RAM per un computer era unanimemente riconosciuta in 512Kb fino a quando esistevano i sistemi operativi di tipo testo (DOS). Al di sotto di quella dimensione era difficile che qualche programma riuscisse a funzionare.
Oggi, che si lavora con applicazioni molto più complesse, con un numero di dati consistente, con sistemi operativi che fanno uso della grafica e del colore, la memoria RAM richiesta inizia a salire da un minimo di 4Mb, fino a 8Mb ed a 16Mb per lavoro ordinario, spingendosi a 32Mb, 64Mb e molto oltre per programmi che elaborino immagini o suoni.
Espansione della RAM
Queste cifre (4, 8, 16, 32 e 64) fanno subito capire come la memoria RAM spesso si aumenti raddoppiando. La RAM di un computer, infatti, la si può aumentare ogni qual volta se ne abbia bisogno.
La quantità di memoria RAM presente nella configurazione base di un computer viene sempre indicata dal produttore. Se non è adeguata per l’utilizzo che se ne vuole fare, è bene chiedere l’aumento alla quantità necessaria sin dal momento dell’acquisto della macchina.
E’ comunque possibile incrementare la quantità di memoria RAM anche in seguito. La scheda madre possiede appositi connettori nei quali è possibile inserire i chip aggiuntivi. La memoria RAM viene venduta in piccoli moduli, grandi quanto una barretta di cioccolato. Si chiamano SIMM, dall’inglese Single Inline Memory Module.
Esistono SIMM da 4, 8, 16Mb e così via. I costi di questi moduli di espansione della RAM, grazie anche all’aumento della richiesta e della produzione, sono calati enormemente nel corso degli ultimi anni.
Poiché i connettori presenti nella scheda madre per inserire le SIMM sono pochi, spesso quattro, conviene affrontare la spesa una volte per tutte e comprare più memoria di quella strettamente indispensabile, perché futuri incrementi di RAM saranno impossibili senza dover togliere le SIMM presenti.
Se abbiamo quattro connettori occupati da quattro SIMM da 4Mb ciascuna, per un totale di 16Mb, e vogliamo aumentare la RAM di altri 16Mb, non sarà possibile acquistare solamente i 16Mb in più. Dovremo togliere le quattro SIMM e buttarle in un cassetto ed acquistare quattro SIMM nuove da 8Mb ciascuna per metterle al loro posto.
Saremmo stati più previdenti se avessimo fatto l’incremento precedente direttamente a 32Mb, oppure se avessimo acquistato due SIMM da 8Mb.
Non tutte le memorie RAM vanno bene per tutti i computer. Chiedendo la memoria RAM aggiuntiva al momento dell’acquisto, il venditore stesso provvederà ad installarla e collaudarla. Effettuando l’acquisto delle SIMM in seguito, è invece indispensabile rispettare le caratteristiche richieste esposte nel manuale della macchina. Esistono tipi diversi di moduli di memoria RAM e la corrispondenza con il modello richiesto deve essere perfetta.
Esistono differenze fisiche fra le varie SIMM, come la lunghezza, la larghezza, lo spessore e il numero dei “piedini”. Esistono differenze elettroniche, per la presenza di chip con determinate caratteristiche.
I moduli si distinguono, oltre che per la capacità, anche per la velocità. Il manuale indicherà, ad esempio, di usare esclusivamente moduli con velocità minima di 60 nanosecondi. La velocità è il tempo che occorre allo scambio dei dati con il computer: più la cifra è bassa, più il traffico può essere veloce.
Si parla di velocità minima perché una memoria RAM più veloce è installabile al posto di una più lenta, ma non viceversa. Si può installare un modulo di chip a 60 nanosecondi al posto di uno a 80 nanosecondi, ma non il contrario.
Espandere la memoria di un computer portatile è ancora più complicato. Lo spazio all’interno è limitato e quindi le schede devono essere piccole e sottili, mentre la costante necessità di risparmiare il consumo di energia costringe all’uso di componenti particolari.
Il numero di connettori interni per contenere le SIMM è ridotto, spesso uno solo, mentre il costo delle SIMM per portatili è di sicuro maggiore rispetto alle SIMM normali. Ed inoltre bisogna fare ancor più attenzione alla corrispondenza delle caratteristiche.
Non è facile valutare la necessità di memoria. Di certo la quantità di RAM va collegata da un lato al microprocessore utilizzato e dall’altro al sistema operativo ed al tipo di programmi con i quali vogliamo lavorare.
Un personal con 80486 e Windows 3.11 funziona perfettamente con 2Mb di memoria RAM, quando ha in esecuzione semplici programmi di videoscrittura. La quantità minima necessaria passa a 4Mb se si vuole utilizzare un foglio di calcolo ed a 8Mb se si tratta di realizzare il bollettino aziendale od un volantino pubblicitario.
Un personal con processore Pentium e Windows 95, con il quale vogliamo lavorare in videoscrittura richiede almeno 8Mb, per passare a 16Mb per utilizzare anche un foglio di calcolo.
In un computer la RAM non è mai abbastanza e, situazione finanziaria permettendo, è sempre meglio abbondare che mancare. E’ opportuno consultare prima il manuale e le caratteristiche tecniche del software che dovremo utilizzare e considerare che spesso ci troveremo nella situazione di lavorare contemporaneamente con più programmi.
Le prestazioni: capacità e velocità
Non bisogna confondere la “capacità” di un computer con la sua “velocità”. La quantità di memoria RAM presente determina la sua capacità, cioè la quantità di dati che può elaborare, e non la sua velocità.
Una espansione della RAM ci può consentire, ad esempio, di lavorare con più software contemporaneamente (un foglio di calcolo ed un word processor) perché espande la capacità del computer. La velocità ne è influenzata solo indirettamente: avendo i due software già caricati è possibile passare dall’uno all’altro in un istante senza dover attendere la chiusura del primo ed il caricamento del secondo. La velocità di lavoro nel singolo software, invece, non è minimamente incrementata.
Avendo una RAM già abbastanza capace di contenere più software con i relativi documenti, espandere ulteriormente la RAM non aumenta la velocità del computer in nessun modo.
La velocità di un computer è determinata dal clock, cioè dalla frequenza del processore. Nelle ultime generazioni di computer è possibile sostituire il processore con uno delle stesso tipo (Pentium con Pentium) ma più velode (da 133 MHz a 200 MHz, ad esempio).
Memoria virtuale
Dovendo utilizzare più di un programma contemporaneamente, può darsi che la somma della memoria RAM richiesta dai programmi superi la capacità della memoria RAM installata. In questo caso è possibile simulare la presenza di una quantità superiore, anche doppia o tripla, di RAM. Questa memoria “inesistente” viene chiamata “memoria virtuale”.
Per la creazione della memoria virtuale ci si può servire del sistema operativo (Windows ‘9x e Macintosh 7.x) o di appositi programmi d’utilità. Il metodo di creazione della memoria virtuale è, nei due casi, diverso.
Il sistema operativo utilizza principalmente il disco rigido. Quando abbiamo uno o più programmi in memoria RAM e ne vogliamo caricare un altro, e la somma della memoria richiesta dai programmi supererebbe la RAM fisicamente disponibile, il sistema operativo registra su disco rigido i programmi non attivi (compresi gli eventuali documenti aperti con quei programmi) e quant’altro sia possibile scaricare temporaneamente dalla RAM, per lasciare posto al nuovo programma. Quando chiederemo di tornare a lavorare con uno dei programmi precedenti, il sistema operativo scaricherà su disco il programma diventato inattivo (compresi i documenti aperti) e caricherà nella RAM il programma richiesto.
Con questo metodo possiamo utilizzare più RAM di quella fisicamente presente nel personal. Dovremo però pagare due pedaggi: meno spazio disponibile su disco e velocità ridotta di lavoro.
Sul disco rigido, infatti, viene creato un file invisibile di sistema pari alla dimensione complessiva della memoria virtuale. Se abbiamo installato RAM per 8Mb e, grazie alla memoria virtuale, vogliamo fingere di averne 16Mb, il sistema operativo deve creare un file di 16Mb su disco, riducendo lo spazio a disposizione per registrare documenti e software. D’altra parte, tutte le volte che passeremo da un programma all’altro fra quelli mandati in esecuzione, dovremo aspettare che il sistema operativo scarichi dalla RAM il programma non più attivo e carichi il programma al quale abbiamo chiesto di passare.
Il metodo utilizzato dai programmi di utilità per la creazione della memoria virtuale è diverso. Invece di ricorrere subito alla registrazione su disco rigido, il programma di utilità compatta i programmi non attivi e li comprime nella stessa RAM. Questa operazione crea già abbastanza spazio libero senza grosse perdite di tempo, non essendoci operazioni di scrittura/lettura su disco.
I programmi, inoltre, occupano sempre meno spazio di quello che richiedono. Un programma che chiede 4Mb di RAM, ad esempio, in effetti ne occupa anche la sola metà, in situazione di inattività. L’utilità, da una parte comprimendo il programma, dall’altra recuperando lo spazio non utilizzato, riesce a “ricavare” abbastanza memoria da ospitare altri programmi.
Solamente a questo punto, se lo spazio ancora non basta, ricorre alla registrazione su disco. Si tratta, però, della registrazione di dati compattati, e quindi le operazioni di scrittura/lettura sono molto più veloci di quelle richieste dal sistema operativo. Il file creato dal programma di utilità è a grandezza dinamica, cioè non occupa uno spazio su disco pari al totale della memoria virtuale, bensì occupa uno spazio variabile a seconda della necessità.
Con la memoria virtuale, quindi, possiamo caricare in memoria molti più programmi e documenti di quanti la RAM fisica permetterebbe. L’unico requisito è che ciascun singolo programma non superi, da solo, la capacità della memoria fisica. Se abbiamo 8Mb di RAM espansa a 16Mb virtuali, non possiamo caricare nessun programma che, da solo, richieda più di 8Mb. Possiamo caricarne tre da 4Mb ciascuno, ma non uno da 9Mb.
Memoria cache
Alcuni computer sono dotati di una scheda di memoria cache. Si tratta di uno speciale modulo di memoria RAM, quindi che si cancella ad ogni spegnimento, ma che non è direttamente utilizzabile per caricare programmi da eseguire come la normale RAM. Abbiamo visto come il sistema operativo si incarichi di leggere dal disco i vari file in cui è frazionato un programma o, ad esempio, le varie parti di un grosso database. Se è presente una scheda di memoria cache, il sistema operativo carica i file letti dal disco sia nella memoria RAM che nella memoria cache. Ad una nuova richiesta di caricamento di un file, il sistema operativo esamina il contenuto della scheda cache e solo se non vi trova il file richiesto ne effettua la lettura da disco. Se quella frazione di programma o documento era stata recentemente utilizzata, è già presente nella cache e quindi il sistema operativo ne effettua il caricamento senza alcuna lettura da disco. Essendo il caricamento da memoria cache di gran lunga più veloce di quello da disco, ne deriva la conseguenza che la presenza di una scheda di memoria cache velocizza le operazioni.
In alternativa, è possibile creare una memoria cache virtuale tramite appositi programmi di utilità. In questo caso la memoria cache virtuale usa parte della normale RAM.
Processore DMA
Il processore Direct Memory Access gestisce il flusso di dati fra la memoria del computer ed alcune periferiche abilitate al DMA, alleggerendo il lavoro del microprocessore. Lo scambio di dati con le periferiche è quindi più veloce, perché ha un diretto accesso in memoria e non deve attraversare l'architettura del microprocessore.
- SISTEMI
I TRASDUTTORI - PARAMETRI CARATTERISTICI DEI TRASDUTTORI IN GENERALE
Il trasduttore costituisce il primo elemento di una catena di acquisizione; esso ha il compito di fornire, alla sua uscita, una grandezza elettrica (tensione, corrente, variazione di resistenza o di capacità, ecc.) la cui entità è funzione della grandezza fisica d'ingresso che è oggetto delle elaborazioni della catena di controllo.
Ogni trasduttore può essere distinto da un altro per la variazione di un parametro caratteristico. Si possono elencare una serie di caratteristiche che possono interessare un trasduttore:
• Range;
• Sensibilità;
• Errore di non linearità;
• Tempo di risposta;
• Offset di uscita;
• Ripetitività;
• Risoluzione.
Range
E’ l’intervallo di valori in cui il trasduttore lavora secondo i parametri stabiliti. Appena esce dal range il trasduttore non funziona più, e ritorna a lavorare appena rientra nell’intervallo.
Il range di ingresso (o campo di ingresso) definisce i limiti entro cui può variare l'ingresso; mentre il range di uscita (o campo di uscita) definisce i limiti entro cui può variare l'uscita.
Sensibilità
La sensibilità S del trasduttore è il rapporto fra la variazione della grandezza d'uscita e quella dell'ingresso.
Lo strumento risulterà essere molto sensibile quando a parità di grandezza di ingresso la grandezza di uscita è molto elevata.
Errore di non linearità
Di solito, l'errore che il costruttore fornisce è l'errore di non linearità ed è espresso come spostamento massimo della retta ideale.
La correzione dell'errore di non linearità non è possibile, ma per cercare di utilizzare il trasduttore in maniera ideale si potrebbe utilizzare una EPROM che associ al valore reale quello ideale.
Tempo di risposta
Rappresenta il tempo che intercorre dal momento che l’ingresso assume un certo valore a quello in cui questo è presente in uscita.
Offset di uscita
L’offset indica la bontà del trasduttore che risulterà essere migliore quanto minore sarà il valore assunto da tale parametro. Esso viene verificato azzerando gli ingressi e visualizzando il valore presente i uscita.
Ripetitività
Un atro parametro importante, anche se la sua definizione precisa varia da costruttore a costruttore, è la ripetibilità, vale a dire la costanza nel tempo delle caratteristiche del trasduttore (la sua resistenza all'invecchiamento).
Risoluzione
La risoluzione R esprime la variazione minima di uscita rispetto al fondoscala:
R = RXoutmin / /Xoutfondoscala
I due sensori-trasduttori più comunemente usati sono gli elementi termoelettrici (termocoppie) e gli elementi resistivi (termometri a resistenza). Dei rimanenti elementi sensori-trasduttori, l’unico che è stato accettato dal mercato è l’elemento a cristallo oscillante, costituito essenzialmente da un cristallo di quarzo (collegato in un oscillatore) che presenta un coefficiente di temperatura della frequenza elevato e molto lineare.
• Trasduttori di temperatura
Vengono classificati in due categorie generali: trasduttori della temperatura superficiale, che vengono incollati, saldati, avvitati o bloccati sulla superficie della quale si vuole misurare la temperatura, e le sonde ad immersione che vengono immerse nei liquidi o fluidi per misurare la loro temperatura. Il fluido può essere contenuto in un tubo, un condotto, un serbatoio od altro contenitore nel quale la sonda viene introdotta attraverso una apertura stagna resistente alla pressione. Il fluido può anche essere in moto libero, anche in modo quasi impercettibile, come ad esempio nel caso di acqua in un contenitore o di atmosfera all’aperto o in un locale chiuso.
I trasduttori di temperatura termoelettrici hanno lo stesso tipo di giunzione sia che siano intesi per misure superficiali che per sonde ad immersione. Le giunzioni tra i due fili di metalli diversi si ottengono in vari modi, saldando, stagnando o brasando la giunzione, oppure saldando i terminali dei due fili l’uno vicino all’altro su di una superficie metallica o sull’interno metallico della punta di una sonda ad immersione.
Per misure di superficie le giunzioni sono stagnate, saldate o brasate ad una superficie, se è metallica, o incollate in caso contrario. Se è incollata occorre aver cura che la giunzione sia in buon contatto termico con la superficie da misurare. Nastrare la giunzione sulla superficie è un metodo poco raccomandabile in quanto la presenza di un intervallo anche molto piccolo tra giunzione e superficie può causare errori rilevanti. Per misure in immersione le termocoppie vengono spesso prodotte con una guaina integrale o inserite in una guaina sigillata.
Le giunzioni delle sonde termoelettriche per immersione, possono essere a massa (in contatto elettrico con la guaina), o isolate. In alcuni casi le giunzioni, sulla punta di una sonda, vengono immerse nel fluido senza alcuna guaina di protezione. Nel caso che tra la giunzione di misura e quella di riferimento debbano interporsi connettori o prolunghe, questi vanno realizzati usando gli stessi tipi di materiali costituenti le giunzioni.
Le termocoppie vengono generalmente ottenute con un cavo formato da due conduttori isolanti, solo raramente da fili singoli non isolati. I cavi impiegano vari tipi di isolanti, sia per i singoli fili sulla coppia, inoltre possono essere o non essere schermati. Adatto alla maggior parte delle applicazioni è un cavo da termocoppia con isolamento ceramico e schermatura metallica con diametro esterno compreso tra 2 e 10 mm.
Quando la misura da effettuare consiste nella differenza di temperatura tra due punti, si possono usare termocoppie differenziali. In questo caso la giunzione di riferimento costituisce la giunzione di misura del secondo punto. Il primo filo della prima giunzione ed il secondo della seconda debbono comunque essere collegati a terminali isotermici, ma non è necessario che questa temperatura sia nota.
• Termocoppie
Una termocoppia è un circuito elettrico costituito da una coppia di fili di metalli diversi collegati assieme ad un estremo (giunzione di misura) e collegati all’altro estremo in modo tale che i terminali (giunzione di riferimento) siano entrambi ad una stessa temperatura nota (temperatura di riferimento). Il circuito della termocoppia viene completato da fili che collegano la giunzione di riferimento ad una resistenza di carico (uno strumento indicatore o l’impedenza d’ingresso di un circuito di amplificazione e lettura). Entrambi i fili di collegamento possono essere di rame o di altro metallo che non sia uno dei due costituenti la giunzione di misura. In conseguenza dell’effetto termoelettrico (effetto Seebeck), si determina un flusso di corrente nel circuito ogni volta che le giunzioni di misura e di riferimento si trovano a temperature diverse. In pratica la giunzione di riferimento viene mantenuta ad una temperatura di riferimento (ad esempio a 0°) oppure viene introdotta una compensazione elettrica per scostamenti della sua temperatura da un valore prefissato.
La forza elettromotrice (fem termoelettrica) che provoca il flusso di corrente nel circuito varia di intensità, a pari salto di temperatura, a seconda dei metalli costituenti le giunzioni. I fili metallici più comunemente usati sono Chromel (CR) e (AL) Costantana (CN, una lega costituita da 53% di rame e 45% di nichel), rame (Cu), ferro (Fe), platino (Pt), una lega di platino e rodio (Rh) (al 10 o 13%), tungsteno (W), tungsteno-renio (Rn) in lega (valori tipici 5 o 26% di renio), nichel (Ni), e leghe di ferro e nichel.
La specifica ANSI Standard C96.1 specifica le caratteristiche di certe combinazioni di materiali, come la fem termoelettrica in funzione della temperatura, i gradi di precisione, i codici di colore degli isolanti, in modo da consentire l’impiego di materiali con diverse denominazioni commerciali purché vengano mantenute le caratteristiche di uno specifico tipo di termocoppia.
I nomi dei materiali dei fili che, in combinazione tra di loro, costituiscono delle termocoppie che elenchiamo qui di seguito sono solamente un esempio. Materiali tipici di una termocoppia di tipo K sono Cromel Alumel. La specifica ANSI suggerisce l’uso di lettere, per identificare le termocoppie, in luogo del nome dei due materiali usati.
Le termopile sono costituite da più giunzioni di misura, ottenute dalla medesima coppia di materiali, montate in stretta vicinanza tra di loro e collegate in serie in modo da sommare le uscite delle singole giunzioni. Anche le giunzioni di riferimento sono generalmente vicine tra di loro in modo da assicurare che tutte siano alla stessa temperatura di riferimento.
• Trasduttori di temperatura resistivi
I trasduttori a variazione di resistenza per misura di temperature superficiali, sono generalmente sufficientemente piccoli e piatti da risentire solamente dei trasferimenti di calore di tipo conduttivo e non quelli di tipo convettivo. Dopo l’installazione possono essere ricoperti o verniciati in modo da minimizzare trasferimenti di calore per radiazione. L’elemento sensore è generalmente un filo metallico o avvolto su di una sottile piastrina isolante o, in forma di spirale, incollato alla base del contenitore. Alcuni trasduttori a foglietta metallica (incapsulati o liberi) sono realizzati secondo un percorso a zigzag. Tutte le realizzazioni tendono ad ottenere la massima superficie attiva ai fini della conduzione del calore su un area d’ingombro minima.
Sonde a immersione di tipo resistivo a filo metallico, generalmente di platino ma spesso anche di nichel o sue leghe, trovano largo impiego nella misura della temperatura di fluidi sia in campo industriale che in quello scientifico.Solitamente la sonda è costituita da un elemento incapsulato in ceramica, montato in una guaina protettiva forata, in modo da essere adatta per una grande varietà di fluidi in un ampio campo di temperature. Per applicazioni in fluidi pressocchè stagnanti vengono usate sonde con elementi non incapsulati in modo da ridurre la costante di tempo. Alcuni fluidi richiedono elementi completamente incapsulati in guaine metalliche ma con buon contatto termico tra elemento e guaina. Il giunto filettato consente di ottenere una tenuta stagna mediante una guarnizione od un ring posto tra il contenitore e il tubo di montaggio.
• Termistori
Vengono usati sia per misure superficiali sia per misure di fluidi. A causa dell’andamento non lineare (essenzialmente in forma di un esponenziale negativo) della curva caratteristica resitenza-temperatura, sono particolarmente utili quando è richiesta una elevata variazione di resistenza in un intervallo di temperatura limitato. Dove è richiesta una costante di tempo molto breve, si può usare un termistore a perlina, inglobato in vetro, di diametro ridotto fino a 0,3 mm, sospeso ai terminali in lega di metallo prezioso di diametro di 0,03 mm. Se è richiesta una maggiore solidità meccanica si può usare un montaggio in vetro lungo circa 4 mm, avente in punta un diametro di circa 1,5 mm. La potenza d’eccitazione deve essere mantenuta bassa ad evitare errori dovuti ad autoriscaldamento. Trasduttori di temperatura a termistore sono disponibili in una grande varietà di configurazioni.
• Termometri al germanio
Sono costituiti da cristalli di germanio di elevata purezza contenenti una quantità controllata di impurezze (droganti). Sono previsti specialmente per misure di temperature criogeniche (al disotto di –195°C) . Per queste applicazioni sono state usate anche resistenze di carbone, come pure giunzioni di arseniuro di gallio, che possono essere utilizzate fino a temperature un po’ più elevate. Trasduttori a piastrina di silicio sono stati usati per misure di temperatura superficiale nel campo di temperatura compreso tra –50 e +275°C, nel quale presentano un andamento della caratteristica resistenza-temperatura simile a quella di alcuni fili metallici.
• Trasduttori di temperatura a cristalli di quarzo
Questi tipi di trasduttori impiegano come elemento sensore dei cristalli la cui frequenza di risonanza varia in modo quasi lineare con la temperatura tra circa –50 e +250°C. Vengono generalmente forniti assieme alla necessaria apparecchiatura elettronica di eccitazione e lettura. Questo tende a limitarne l’utilizzo negli impieghi di carattere generali, ma non in quelli di laboratorio per i quali presentano notevoli vantaggi.
La scelta di un trasduttore di temperatura è più complessa di quella della maggior parte degli altri tipi di trasduttore. L’obbiettivo è quello di scegliere una realizzazione il cui elemento sensibile sia in grado di raggiungere la temperatura del materiale da misurare entro il tempo disponibile per effettuare la misura. Quindi, tra i criteri di scelta più importanti avremo le caratteristiche del solido o fluido da misurare, i limiti del campo di misura, il tempo di risposta necessario (costante di tempo), ed il tipo di eccitazione e trattamento dei segnali di uscita che è disponibile o che si intende usare.
- INGLESE
TRANSDUCERS
With the invention of microprocessors and smaller powerful cheap computers, electronic applications are also spreading in the automaic control of industrial processes.
These applicatins gp from the automatic gathering and elaboration of quantities to the monitoring of environmental conditions such as temperature, atmospheric pressure, humidity, presence of pollutants and so on.
The presence of electronics in our daily life is very strong: digital thrmometers, heating systems, computer-based air-conditioning, alarm systems, signallers for escape of gas and so on……Electronic systems are also present on some means of transportin order to check: speed, oil pressure, ecc……All these applications are made possible thanks to transducers and actuators. Transducers are components that transform non-electric signals into electric sognals and viceversa. For example in microphones and loudspeakers, the conversion of information from sound waves into electrical signals and viceversa is made possible by an alectroacustic transducer. In microphones, the transducer is represented by a diaphgram linked to a coil set in the magnetic field. When the sound waves arrive at the microphone the diaphgram vibrates causing the transformation of signals. The number of transducers is very large and the quality depends on various parameters. The most important of them are:
• sensitivity
• linearity
• precision
• readiness
• resolution
• repeatability
• noise immunity
FRANKENSTEIN – Mary Shelley
Victor is a scientist from Geneva, Switzerland. He is deeply interested in the mistery of the origin of life and so he begins “daring” experiments, wich lead him to make a creature by assembling different parts taken from the bodies of dead people. When the creature awakes, Victor is terrified by his horrible appearance and escapes. At first the monster is benevolent but then he is hurt by people’s reactions at the sight of his deformity. He finds refuge in a forest and later, learns to speak and to read by observing the inhabitants of a cottage. The cottagers are frightened of his ugly body and he feels alienated and lonely. He soon begins to hate his creators who has becomes him to his tragic fate and starts his acts of revenge. He returns to Geneva and kills William, Victor’s brother.
Victor starts looking for the monster and finds him in the Alps. The monster asks him for a female companion. At first Victor agrees, but then he thinks about the implications of creating another monster and does not complete the second creature. Victor’s life becomes even more nightmarish. The monster appears on Victor’s wedding night and kills his wife.
Victor’s main purpose in life abandoned the destruction of the creature that is now completely evil.
1

Esempio



  


  1. rosi

    Riassunto Il tesoro alberto moravia

  2. Rosi

    riassunto il tesoro di alberto moravia

  3. giorgia

    tesina geometra con collegamenti di tutte le materie e titolo

  4. lellina

    sto cercando appunti riguardanti la tesina per la maturirà per l'istituto nautico indirizzo capitani.mi potete aiutare per fsvore?grazie