Tesina di storia : II guerra mondiale

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Testo

TESINA DI STORIA:
II GUERRA MONDIALE
L’Italia dopo il 1° dopoguerra
Fra i vincitori della prima guerra mondiale l’Italia era la nazione più fragile, sia perché politicamente era «nata» da poco più di mezzo secolo, sia perché la sua economia era debole anche prima della guerra, sia per il grande divario tra il Nord e il Sud del Paese. Una prima idea del dopoguerra italiano può essere data dalle seguenti cifre: il deficit del bilancio statale, che nel 1914 ammontava a 214 milioni di lire, nel 1919 era aumentato di oltre 100 volte!
Le condizioni in cui si trovò il nostro paese sono quindi immaginabili: una crisi generale dell’economia, l’inflazione “galoppante”, i prezzi che salivano alle stelle mentre gli stipendi restavano praticamente inalterati, e la disoccupazione, che nel 1919 raggiunse i 2 milioni di unità e che nel 1921 era aumentata di sei volte rispetto l’anno precedente.
Una crisi generale, dunque, che coinvolse la stragrande maggioranza della pop.
I contadini, a cui era stata promessa la terra, erano andati al fronte, ma quando erano tornati avevano provato una cocente delusione: finita la guerra, niente terra ai cittadini! Come conseguenza, si verificò l’immediata esplosione dei moti agrari: inquadrati nelle Leghe Rosse (socialcomuniste) e nelle Leghe Bianche (cattoliche), i lavoratori dei campi occuparono le terre, chiedendo a gran voce l’attuazione della riforma agraria. Le Leghe Rosse, in particolare, si battevano anche per risolvere la questione dei braccianti agricoli (cioè i lavoratori stagionali) che, essendo privi di un lavoro sicuro, erano stati i primi ad essere colpiti dalla crisi dell’agricoltura.
Gli operai, gran parte dei quali non aveva partecipato alla guerra perché più utili nelle fabbriche per la produzione bellica, premevano ugualmente per rivendicare maggiori diritti e ottenere miglioramenti salariali; e in parte riuscirono a spuntarla.
La media e piccola borghesia non si trovava in condizioni molto migliori: impiegati, professionisti, commercianti, artigiani, coltivatori diretti e piccoli proprietari di immobili si trovarono gravati di tasse e con entrate insufficienti a fronteggiare l’inarrestabile aumento dei prezzi; anche per queste categorie la crisi economica e l’inflazione significarono spesso il fallimento.
Le piccole industrie erano senza capitali e con un mercato dei consumi che precipita sempre di più a picco per la poca liquidità circolante nella popolazione che ha nelle sue file 4.500.000 di ex combattenti senza lavoro.
A forte rischio fu perfino il rimborso dei prestiti di guerra (Buoni del Tesoro) sottoscritti dai risparmiatori.
I reduci, soprattutto gli ufficiali di complemento, costituivano un’alta categoria che aveva buone ragioni per lamentasi. Innanzitutto, dopo 4 anni di guerra, trovarono grandi difficoltà a reinserirsi nella vita “civile” e a trovare un posto di lavoro; questi giovani, inoltre, si sentirono guardati con malcelato disprezzo proprio da quegli “imboscati” che, mentre loro combattevano al fronte, avevano approfittato per costruirsi delle cospicue fortune attraverso ogni tipo di speculazione. Al loro rientro, le sinistre scatenarono inoltre la «caccia ai reduci e agli ufficiali»: a loro, in pratica, si rimproverava di aver voluto la guerra e di avervi trascinato gli operai e i contadini, mentre sappiamo che la decisione dell’intervento era stata presa da un’esigua mino-
ranza di Italiani.
Sono tanti questi malcapitati, tutti appartenenti alla classe media. Tutti in preda alla più nera disperazione: una mina vagante questa categoria che vede davanti ai suoi occhi la grande industria e le banche rifiutarsi di accollarsi i debiti nonostante gli ingenti profitti fatti con la guerra; e ha -anche questa categoria- la netta impressione di essere stata tradita, come i reduci.(da notare che tutto questo sta accadendo contemporaneamente anche in Germania)
La soluzione che adottò il governo per far fronte ai debiti e alle spese sostenute in guerra era stata quella di aumentare le tasse; con la conseguenza di far aumentare il costo della vita e bloccare ulteriormente gli investimenti produttivi.
Di fronte a questo disagio generale spiccava il benessere dei grandi proprietari terrieri, gli agrari, dei grandi industriali che con la guerra avevano fatto affari d’oro, e di tutti coloro che, “imboscandosi” durante il conflitto, si erano improvvisamente arricchiti col “mercato nero”: costoro furono sprezzantemente chiamati pescicani.
Una vittoria “mutilata”
Col Patto di Londra l’Italia aveva deciso di entrare in guerra a condizione che poi le venissero assegnati dei compensi territoriali; alla Conferenza di Parigi, invece, aveva
ottenuto “solo” il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia e l’Istria con la città italiana di Pola; per il resto, niente compensi coloniali e, soprattutto, niente Dalmazia.
Per questo motivo, da più parti si cominciò a parlare di vittoria mutilata, ed ebbe origine la questione adriatica, che costituì il primo serio problema politico con cui dovette fare i conti il governo e che pose l’uno contro l’altro i nazionalisti italiani e jugoslavi, non meno intolleranti dei primi.
La Dalmazia, se si eccettua la città italiana di Fiume, aveva una popolazione in maggioranza slava, quindi era stata assegnata alla Jugoslavia; il primo ministro Nitti
Aveva ordinato che Fiume venisse evacuata dalle nostre truppe ma la decisione si scontrò con l’irriducibile opposizione dei nostri nazionalisti, che ebbero buon gioco ad eccitare il risentimento di gran parte dell’opinione pubblica. A questo punto Gabriele D’Annunzio si mise alla testa di un gruppo di legionari e occupò Fiume (1919): per la prima volta nella nostra storia militare un reparto dell’esercito aveva agito contro gli ordini del governo. Questo si dimise e il re Vittorio Emanuele III affidò al vecchio Giovanni Giolitti l’incarico di costituirne un nuovo. Firmò con la Jugoslavia il trattato di Rapallo, col quale l’Italia rinunciava ad ogni pretesa sulla Dalmazia, mentre la Jugoslavia riconosceva che l’Istria doveva considerarsi una terra italiana. Giolitti intimò a D’Annunzio di sgombrare Fiume, e al rifiuto del “poeta soldato” lo costrinse a farlo inviandogli contro l’esercito regolare: la “questione adriatica” era risolta, ma il governo si attirò le ire dell’estrema Destra.
I Partiti italiani
La novità politica del nostro dopoguerra era stata l’avanzata dei grandi partiti “di massa” alle elezioni del 1919: quello socialista e quello popolare (cattolico), mentre i liberali erano calati.
A questo punto ci viene spontanea una considerazione: se socialisti e popolari si fossero uniti, o se uno dei due partiti avesse formato una coalizione coi liberali, probabilmente non ci sarebbe stata “la marcia su Roma”, perché l’Italia avrebbe avuto un governo appoggiato da una solida maggioranza. L’obiezione, in teoria, non fu una grinza, ma la realtà del tempo era ben diversa: ambedue i partiti, infatti, apparivano scarsamente compatti, e nei loro confronti l’opinione pubblica era divisa.
Il Partito Socialista fu fondato nel 1892. I socialisti erano stati contrari all’intervento dell’Italia in guerra, ma l’opinione pubblica li accusava di avere anche sabotato la guerra: questa accusa tolse loro un gran numero di voti soprattutto dei reduci.
Il partito, inoltre, era profondamente diviso fra riformisti e rivoluzionari: questi ultimi, in seguito ad una scissione avvenuta a Livorno nel 1921, costituirono il Partito Comunista Italiano. Infine anche i comunisti italiani si proponevano di abbattere il potere della borghesia e di instaurare la dittatura del proletariato, secondo l’esempio sovietico.
Il Partito Popolare era stato fondato nel 1919 dal sacerdote Luigi Sturzo; la nascita del nuovo partito fu importante perché i cattolici, che in base al famoso divieto di Pio IX si erano astenuti dal partecipare alla vita politica, ora vi si affacciavano con un proprio partito e dei propri sindacati. Anche i popolari, tutta via, erano divisi tra progressisti, moderati e conservatori.
Le altre formazioni politiche (liberali, democratici, repubblicani, radicali) non erano dei veri e propri partiti organizzati: si trattava, piuttosto, di “correnti” che spesso non si formavano in base a un preciso programma politico, ma al seguito di un influente personaggio.
Sul versante di destra si affermava un’altra forza politica, poco numerosa ma molto combattiva: erano i nazionalisti, che avevano contribuito in modo determinante a trascinare l’Italia nella guerra, e protestavano a gran voce per la “vittoria mutilata”; dal loro atteggiamento, nettamente ostile al blocco delle sinistre, ebbe origine un nuovo partito: quello fascista.
Vita di Benito Mussolini
Figlio di un fabbro, si avvicinò da giovanissimo al socialismo, anche per l’influenza del padre. Conseguito il diploma di maestro nel 1901, fuggì in Svizzera l’anno successivo per sottrarsi al servizio militare e vi rimase fino al 1904, segnalandosi come agitatore politico e attivista anticlericale. Rientrò in Italia, dove esercitò l’insegnamento fino a quando, nel 1909, si trasferì a Trento avviandosi all’attività giornalistica ( fu direttore del settimanale “L’avvenire del lavoratore”). Tornato a Forlì, vi diresse la federazione socialista provinciale e il settimanale “La lotta di classe”. Nel 1911 fu tra i capi delle violente proteste popolari condotte in Romagna contro la guerra di Libia e venne condannato a 5 mesi di carcere.
Al congresso del Partito Socialista Italiano di Reggio Emilia (Luglio 1912) Mussolini si impose come uno dei leader dell’ala rivoluzionaria e nel dicembre fu nominato direttore del quotidiano socialista “Avanti!”. Alla vigilia della I guerra mondiale si schierò apertamente dalla parte degli interventisti, scelta che provocò la sua espulsione dal partito e lo privò della direzione dell’”Avanti!”. Fondò un nuovo quotidiano, “Il popolo d’Italia”, dalle cui pagine condusse una vivace condusse una vivace battaglia a favore dell’intervento. Arruolatosi come volontario nel settembre del 1915, partecipò al conflitto sino al febbraio del 1917, quando venne ferito.
Nel marzo del 1919 fondò a Milano i Fasci di combattimento, che derivano il nome da un antico simbolo romano, il fascio littorio. Il movimento (che era nazionalista e antiliberale, ma avanzava rivendicazioni tipiche dei gruppi socialisti, come la giornata lavorativa di 8 ore) ottenere l’appoggio di importanti gruppi finanziari, quali l’Ansaldo e l’Iva.
Nel 1921, con la costituzione del Partito Nazionale Fascista, Mussolini abbandonò le aperture sociali del programma del 1919 e pose l’accento sulla difesa dello stato e sull’antiparlamentarismo, trovando seguaci in particolare tra i reduci di guerra, i gruppi giovanili e i ceti medi. Non è difficile capire come, in un momento di generale confusione come quello che l’Italia attraversava, quelle idee estremamente chiare (anche se aberranti) potessero far presa sulla massa degli scontenti.
Presentatosi invano alle elezioni del 1919, fu eletto deputato nel 1921. Dopo la marcia su Roma (28 ottobre 1922), fu designato da Vittorio Emanuele III presidente del Consiglio, con l'incarico di formare il nuovo governo. Il passaggio al vero e proprio regime fascista avvenne dopo che Mussolini rivendicò alla Camera la responsabilità politica dell'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (discorso del 3 gennaio 1925), cui fece seguito una serie di provvedimenti che annullarono il precedente sistema liberaldemocratico.
Sotto l'autorità del duce (titolo che gli fu attribuito dopo la marcia su Roma), il ruolo e la presenza dell'unico partito autorizzato, il Partito nazionale fascista, divenne preponderante nella società e nelle istituzioni. Strumento nelle mani di Mussolini, da cui dipendeva la scelta del segretario, il partito presiedeva a molteplici associazioni giovanili, studentesche, ricreative, culturali e ad enti parastatali.
Durante il suo governo, Mussolini stipulò con la Santa Sede i Patti Lateranensi (1929), che sancirono la conciliazione tra lo Stato italiano e la Chiesa, dopo mezzo secolo di contrasti; intraprese quindi una politica estera che realizzò le sue ambizioni espansionistiche e colonialistiche con la conquista dell'Etiopia (1935-36), e che appoggiò militarmente il generale Francisco Franco nella guerra civile spagnola (1936-1939).
Dopo la metà degli anni Trenta il suo ruolo di mediatore negli equilibri europei, che gli era valsa la stima dei leader inglesi, si esaurì anche per effetto dell'aggressiva politica della Germania nazista, nella cui sfera di influenza Mussolini finì con l'entrare. In quest'ottica si spiega la promulgazione, da parte del regime fascista, delle leggi di difesa della razza, con le quali a partire dal 1938 gli ebrei italiani furono messi al bando dalla pubblica amministrazione, dalla scuola, dall'esercito, dalla vita civile.
Mussolini volle rafforzare ulteriormente i buoni rapporti con Hitler, sottolineati dalle trionfali accoglienze che vennero riservate al Fürher nella visita compiuta in Italia nel maggio del 1938. In quell'anno Mussolini accelerò il programma di militarizzazione nella prospettiva di un conflitto che gli eventi internazionali annunciavano come imminente. Come mossa correlata alla politica espansionistica tedesca, decise l'invasione dell'Albania (aprile 1939), a cui seguì nel maggio la stipula del cosiddetto Patto d'acciaio (vedi Potenze dell'Asse) che legava militarmente e politicamente l'Italia alla Germania.
L'ingresso dell'Italia nel conflitto mondiale fu voluto da Mussolini allo scopo sia di controbilanciare la supremazia tedesca, esaltata dai risultati conseguiti con l'occupazione della Polonia e della Francia, sia di emulare Hitler su fronti meno impegnativi, nei quali presupponeva di ottenere facili vittorie che gli consentissero di trattare alla pari con la Germania in merito alla nuova sistemazione dell'Europa. Alla base di tale ipotesi agiva in lui la convinzione che la guerra si sarebbe conclusa rapidamente, non appena la Gran Bretagna, isolata e sottoposta a un duro attacco tedesco, avesse intavolato trattative di pace.
Il messaggio lanciato da Mussolini agli italiani il giorno della dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna (10 giugno 1940) era la sintesi di quei contenuti ideologici su cui il fascismo aveva costruito le sue fortune. Mussolini giustificò l'intervento presentandolo come un'occasione di lotta dei popoli poveri e laboriosi contro gli stati che detengono il monopolio di tutte le ricchezze e della finanza mondiale, rivisitando il mito della "nazione proletaria". In questo modo rilanciava le campagne di stampa impostate sotto il suo controllo alla fine degli anni Trenta, che irridevano alla borghesia dei paesi democratici rappresentata come un organismo corrotto e decadente ed esaltavano le presunte virtù morali e le attitudini guerriere del popolo italiano temprato dal fascismo.
In realtà la guerra segnò sia la fine del fascismo, crollato dopo le numerose sconfitte militari - che costarono enormi sacrifici umani al popolo italiano - in Grecia, in Africa, nel Mediterraneo, sia quella del duce. Il 25 luglio 1943 Mussolini fu destituito e fatto arrestare dal re, che nominò capo del governo il maresciallo Badoglio. Liberato dai tedeschi, Mussolini organizzò nell'Italia settentrionale la Repubblica di Salò, un regime collaborazionista sostenuto dai tedeschi. Durante gli ultimi giorni di guerra tentò di fuggire in Svizzera con la sua amante Claretta Petacci, ma fu catturato dai partigiani a Dongo. Venne giustiziato il 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, a seguito di un ordine impartito dal Comitato di liberazione nazionale Alta Italia.
Cala la crisi…
Alle elezioni del 1919 il programma proposto dai Fasci era tale da accontentare un po’ tutti: diritto di voto alle donne; controllo delle organizzazioni proletarie sulle fabbriche, confisca dei beni ecclesiastici, abolizione dei titoli nobiliari, condanna dell’imperialismo e proposito di conquistare anche con la forza ciò che l’Italia non aveva ottenuto dai trattati di pace. Nessun fascista, comunque, fu eletto e nel 1920 Giolitti formò il governo.
Mentre cercava di risolvere la questione adriatica, il vecchio statista dovette anche affrontare la situazione interna del paese: scioperi, assalti ai negozi, occupazione di terre con “cacce” ai proprietari e uccisioni da parte degli elementi di sinistra, violenze, infine, delle “squadre d’azione” organizzate dai fascisti, che con la scusa di fermare il “pericolo rosso”, malmenavano o uccidevano chiunque non fosse fascista.
Il problema più scottante del momento era, comunque, la massiccia occupazione delle fabbriche da parte degli operai che si erano visti respingere dagli industriali le loro richieste, fra cui quella di ulteriori aumenti salariali. Gli operai, dunque, occuparono gli stabilimenti e cercarono di gestirli da soli, e gli industriali si rivolsero immediatamente a Giolitti perché ponesse fine alla “provocazione”: il capo del governo non si mosse, sempre più convinto di dover restare neutrale tra i lavoratori e i datori di lavoro.
Giolitti, nel frattempo, continuò a avere contatti con la diplomazia francese e inglese per mettere a punto il Trattato di Rapallo, e gli avversari lo accusarono di essersene andato ostentatamente in vacanza. L’azione degli operai, come lui aveva previsto, ebbe termine, e gli occupanti lasciarono spontaneamente le fabbriche: solo allora il vecchio statista fece da mediatore tra le due parti, convincendole a firmare un accor-
do che prevedeva il controllo operaio sulle aziende; questo progetto “impensierì” gli industriali, spingendoli verso il fascismo.
…ma sale il fascismo
La crisi del Paese cominciò a decrescere, ma proprio a questo punto si intensificarono, raggiungendo delle punte di inaudita violenza, le “imprese” delle squadracce fasciste.
La prima causa fu lo stesso Giolitti: egli, se non era intervenuto contro gli operai che occupavano le fabbriche, non aveva neppure agito con fermezza contro gli episodi di violenza estremista che infestavano il Paese; di conseguenza soprattutto i fascisti, ne approfittarono per moltiplicare le loro “spedizioni punitive” contro i “bolscevichi”.
I fascisti inoltre proclamavano di voler riportare l’ordine e giunsero perfino a sostituirsi ai tranvieri e ai ferrovieri in sciopero.
Neppure gli uomini di governo poterono opporsi alla crescente marea fascista, sia perché i due grandi partiti di massa erano internamente divisi e poco disposti a collaborare, sia perché lo stesso governo, con Giolitti in testa, non si rese conto del vero pericolo e commise un errore madornale. L’ottantenne statista, infatti, credeva di poter “assorbire” i fascisti nel gioco parlamentare, ma non aveva capito che il fascismo non era uno dei soliti partiti: non solo era organizzato quasi militarmente, ma gli erano anche del tutto estranei i principi di libertà e di democrazia.
La «marcia su Roma»
Alla ricerca di una solida maggioranza che gli consentisse di governare, nel maggio del 1921 Giolitti indisse nuove elezioni, favorendo le “liste nazionali” che comprendevano anche dei candidati fascisti;e 35 di questi furono eletti. Le violenze “nere” contro i giornali, le sedi e le organizzazioni socialcomuniste raggiunsero il culmine. Giolitti, per rimediare in qualche modo a quel caos, chiese al parlamento i pieni poteri, ma questi gli vennero rifiutati e lui rassegnò le dimissioni. L’anno successivo quello stesso Parlamento avrebbe concesso i pieni poteri a Mussolini.
I due successivi governi, presieduti da Bonomi e Facta, non riuscirono a fronteggiare la situazione e si giunse così al 28 ottobre 1922, quando da varie parti d’Italia i fascisti iniziarono la marcia su Roma. Le autorità militari che presidiavano la capitale erano convinte di poter soffocare facilmente la rivolta e chiesero che il governo desse degli ordini precisi, e per iscritto; il presidente Facta chiese al Re di firmare lo stato d’assedio. Ma Vittorio Emanuele III rifiutò di firmarlo incaricò Benito Mussolini di costituire un nuovo governo.

I pro e i contro della dittatura
Arrivato al potere, il Duce si dimostrò piuttosto abile: promise di rispettare lo Statuto di far cessare le violenze dei suoi squadristi (che però continuarono), formò un governo con “soli” 4 fascisti e 10 non fascisti (escludendo i socialcomunisti) e consentì una certa libertà di stampa.
Mussolini, però, varò anche due nuove “riforme”: creò il Gran Consiglio del Fascismo, un organismo illegale che qualche tempo dopo avrebbe praticamente esautorato il Parlamento; poi organizzò la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, un vero e proprio esercito privato del Partito Fascista: vi confluirono i componenti delle squadre d’azione, ossia le famigerate camicie nere, così dette perché indossavano la camicia nera degli Arditi, i coraggiosi reparti d’assalto della I Guerra Mondiale. Quindi qualcosa cominciava a non andare per il verso giusto, ma “ufficialmente” il Duce agiva con pieno appoggio del Parlamento: era tutto “Legale”, dunque!
Il fascismo si preparò a impadronirsi definitivamente del potere mediante una riforma elettorale in base alla quale 2/3 dei seggi parlamentari sarebbero stati assegnati al partito che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti. Alle elezioni del 1924, avendo conquistato oltre il 60% dei suffragi, i fascisti ottennero più di 400 seggi sui 540 disponibili: una maggioranza schiacciante! Ma come era stata ottenuta una tale vittoria lo disse chiaramente alla camera il socialdemocratico Giacomo Matteotti: mediante la violenza, l’intimidazione, il controllo dei voti e l’imbroglio! Pochi giorni dopo la sua ferma e documentata accusa il coraggioso deputato “scomparve”, rapito da una banda di fascisti. Qualche tempo dopo il suo corpo veniva ritrovato crivellato di pugnalate.
Il delitto mise in imbarazzo gli stessi ambienti del regime e l’indignazione dell’opinione pubblica raggiunse il massimo, ma non si tradusse in azione concreta. I deputati dell’opposizione, guidati dal liberale Giovanni Amendola e dal socialista Filippo Turati, decisero di abbandonare il Parlamento fino a quando la legalità democratica non fosse tornata in Italia: era la famosa secessione dell’Aventino, così chiamata in ricordo di quella che avevano fatto i plebei dell’antica Roma per protestare contro i patrizi.
Col loro gesto, infatti, gli “aventiniani” (ai quali inizialmente si erano uniti anche i comunisti) si proponevano 2 scopi: dimostrare all’opinione pubblica che il fascismo era moralmente isolato, e provocare l’intervento del re, che in base allo statuto poteva anche revocare la nomina ai ministri. Ma il re, ancora una volta, non si mosse,e l’opinione pubblica non reagì se non con sporadiche manifestazioni di protesta. Dal punto di vista politico, perciò la “secessione” fu un errore: diede via libera a Mussolini, mentre per abbattere la nascente dittatura ci sarebbe voluta un’azione molto più energica e concreta. Lo capirono i comunisti, che preferirono rientrare in Parlamento per combattervi la loro battaglia. Ma ormai era tardi per tutti.
Il 3 gennaio 1925, il Duce gettava definitivamente la maschera, imponendo al paese, anche “ufficialmente” la dittatura. E subito se ne videro i risultati: i deputati “aventiniani” furono dichiarati decaduti, e quelli che erano rimasti nel Parlamento (soprattutto i comunisti) vennero perseguitati e incarcerati: contro gli antifascisti si istituirono una polizia segreta e il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Furono sciolti tutti i partiti (tranne il P.N.F.) e le organizzazioni sindacali, sostituite con dei sindacati corporativi che comprendevano sia i lavoratori che i datori di lavo-
ro; il Parlamento fu trasformato in Camera dei Fasci e delle Corporazioni, mentre venivano soppressi il diritto di sciopero e la libertà di stampa.
Nelle scuole furono introdotte due nuove materie, la cultura militare e la cultura fascista, mentre acquistò una grandissima importanza l’educazione fisica: gli Italiani, infatti, dovevano essere u popolo di atleti e di guerrieri, degni dei loro antenati romani! I giovani dall’asilo all’Università, vennero inquadrati in organizzazioni di tipo militare, divise in “legioni”, “centurie” e “manipoli”, come ai tempi dell’antica Roma; e tutti ebbero la loro divisa: i Figli della Lupa, i Balilla, le Piccole Italiane, i Giovani Fascisti, le Giovani Italiane, gli Avanguardisti,ecc.
Tra il 1928 e il ’29, infine, l’ultima “riforma” elettorale: alle future “elezioni” si sarebbe potuta presentare solo la lista del Partito Nazionale Fascista, e agli elettori sarebbe stata lasciata la “libertà” di approvare quella lista.
Le opere del regime
La maggioranza della popolazione accettò un tale stato di cose perché non poteva ribellarsi apertamente, infatti, gli antifascisti erano una minoranza costretta alla clandestinità e continuamente braccata. Ma c’erano anche altre ragioni. L’Italia, dopo lunghi anni di guerra e di confusione, era stanca del disordine: e il regime, sia pure con la violenza e in superficie, aveva riportato l’ “ordine” e la “pace sociale”, impedendo qualsiasi forma di sciopero e di dissenso; le violenze e la criminalità, beninteso, non erano scomparse, ma i mass-media, controllati dall’ “alto”, non ne parlavano. Qualsiasi dittatura, anche ai giorni nostri, vi “dimostrerà” di essere riuscita a debellare la delinquenza:ci vuole così poco, basta non parlarne!
Il regime, inoltre, aveva dato l’avvio ad un imponente complesso di opere pubbliche, prime fra tutte le bonifiche.
Importante fu anche l’ampliamento della rete ferroviaria e stradale, con la costruzione delle prime autostrade; i lavori di rimboschimento; la costruzione dell’acquedotto pugliese e l’incremento della produzione del grano (la così detta battaglia del grano), che ridusse del 75% le importazioni del cereale, ma ne fece aumentare il prezzo. L’opinione pubblica apprezzò queste realizzazioni, che del resto venivano ampiamente pubblicizzate, mentre si nascondeva con altrettanta cura che la situazione economica generale del paese era ancora difficile.
La propaganda fu un’altra arma molto efficace del regime, che aveva a disposizione la stampa e la radio: i radioascoltatori e i lettori dei giornali venivano letteralmente bombardati dalla martellante e capillare propaganda orchestrata dal regime, e come accade ancora oggi ne rimanevano in gran misura condizionati; anche perché chi tentava di aprire loro gli occhi, era immediatamente bollato come nemico dell’ “Italia proletaria e fascista” e rischiava la galera o il confino.
Contribuirono alla passività della popolazione anche alcune spettacolari e importanti imprese realizzate in quel periodo.
La politica estera fino al 1934
Alcune iniziative in politica estera contribuirono a dare al governo fascista un notevole prestigio in campo europeo, anche perché il regime imposto in Italia appariva come una “garanzia” contro il comunismo.
L’11 febbraio 1929, mentre era papa Pio 11°, l’Italia e il Papato firmarono un Concordato, i così detti Patti Lateranensi: il Papa, che fin dal 1870 si era considerato “prigioniero” dello Stato italiano, riconosceva Roma come capitale d’Italia; questa, a sua volta, riconosceva la sovranità del Papa sulla Città del Vaticano
garantiva la libertà al culto cattolico, l’obbligo dell’insegnamento religioso nelle scuole italiane e la validità civile del matrimonio religioso.
Un altro “punto” a favore di Mussolini fu il suo iniziale atteggiamento di ostilità verso la nascente Germania nazista: nel 1934, come vedremo, Hitler aveva tentato di occupare l’Austria, e le grandi potenze europee non si erano mosse. Ma l’Austria costituiva un comodo stato-cuscinetto fra l’Italia e la Germania, e Mussolini non esitò a inviarle armi e denaro, perché resistesse al tentativo di aggressione nazista; quando il cancelliere austriaco Dollfuss fu assassinato da un complotto di nazisti austriaci, il Popolo di Italia, che ormai era diventato l’organo ufficiale del regime, uscì con un titolo di fuoco: “che cosa sono i nazisti? Assassini!”. Facendo seguire i fatti alle parole, Mussolini inviò quattro divisioni alla frontiera del Brennero, facendo chiaramente capire di essere pronto a difendere l’Austria: Hitler, al potere solo da un anno, preferì rinunciare all’impresa.
L’antifascismo, dunque, era stato costretto alla clandestinità, ma non per questo aveva cessato di esistere o di essere combattivo. Tra gli antifascisti di sinistra spiccò, per la sua opera di pensatore politico, Antonio Gramsci, uno dei fondatori del partito comunista.
Verso un’altra catastrofe: la II Guerra Mondiale
L’Europa delle dittature
Alle drammatiche condizioni della Germania nel dopoguerra si era aggiunta, intorno al 1930, la spaventosa crisi economica, iniziata negli Stati Uniti, che aveva portato al Paese ben 6 milioni di disoccupati: naturalmente, col crescere delle difficoltà aumentarono anche i disordini, e molta gente cominciò a sperare in un governo forte e capace di riportare la tranquillità.
A Monaco di Baviera, nel 1919, l’elemento di maggior spicco del Partito Operaio Tedesco (socialista) era Adolf Hitler, un ex-imbianchino di origine austriaca; egli, 2 anni dopo lo trasformò in Partito Nazionale Socialista degli Operai Tedeschi:la nuova formazione politica venne indicata, più brevemente col nome di nazionalsocialismo o, in forma ancora più contratta, di nazismo.
Dopo il fallito putsch (golpe) di Monaco, Hitler trascorse un anno in carcere, e ne approfittò per scrivere La mia battaglia, un libro in cui tracciò il programma del nazismo. Le intenzioni dei nazisti erano, più o meno, quelle dei loro “camerati” italiani, ma con qualcosa di peggio.oltre a essere “contro” tutto e contro tutti e a favore della violenza, Hitler rilanciava l’idea del pangermanesimo, che avrebbe dovuto realizzarsi con la creazione della Grande Germania; inoltre, “in più” di Mussolini, aveva un’altra aberrante convinzione: rinasceva il mito della “razza superiore”, che Hitler non aveva inventato, ma che avrebbe portato alle estreme conseguenze; la razza germanica aveva il preciso compito di dominare sui popoli “inferiori”, e di eliminare gli Ebrei. Hitler riteneva ciò in base alla discendenza della razza tedesca da quella Ariana, che secondo lui, faceva parte di quelle popolazioni che per prime avevano abitato le pianure del Centro Europa, i cosiddetti indoeuropei. Per riconoscere il perfetto ariano i nazisti mobilitarono falsi scienziati che ricostruirono i tratti somatici tipici della popolazione tedesca. Il destino del popolo tedesco era il dominio sugli altri popoli, in particolare sugli Ebrei e sugli Slavi. Egli riteneva infatti che gli Ebrei fossero estranei alla civiltà europea, poiché le loro origini erano quelle di un popolo di pastori nomadi, non legato alle regole del vivere sedentario, che era invece l’unico criterio di vita, a suo parere, degno di essere chiamato civile. Secondo Hitler, gli Ebrei avevano cospirato per distruggere le razze
superiori; essi, a suo dire, erano parassiti che succhiavano le forze ai popoli sani portandoli alla decadenza. Nel pensiero di Hitler razzismo antisemita e anticomunismo si mescolavano e si intrecciavano in modo indissolubile.
I partiti democratici tedeschi, deboli e divisi come quelli italiani, non riuscirono a opporsi validamente al pericolo nazista, che potè dilagare violentemente con le squadracce organizzate da Hitler: le S.A. (Sturm Abteilungen = truppe d’assalto) e le non meno famigerate S.S. (Schutz Staffeln = squadre di protezione), che ripeterono le “imprese” delle “camicie nere” prendendosela con chiunque non fosse nazista e soprattutto i “rossi”. Anche il nazismo, appoggiato dagli ambienti militari, dall’alta finanza e dai grandi industriali, iniziò la sua scalata al potere: nel 1930 vennero eletti nel Parlamento tedesco 107 deputati nazisti, e il 1à gennaio 1933 il Presidente della Repubblica, Hindemburg, nominò Hitler cancelliere, ossia capo di governo. Come si vede, Vittorio Emanuele III e Mussolini avevano proprio “fatto scuola”!

Nasce il Terzo Reich. Morto Hindemburg, Adolf Hitler divenne anche capo dello Stato: era praticamente nato il Terzo Reich, che nelle intenzioni del suo Fuhrer avrebbe dovuto dominare il mondo. Il primo “assaggio” di questa nuova politica si ebbe nell’anno seguente quando, fatto assassinare il cancelliere austriaco Dollfuss, Hitler tentò di annettersi l’Austria. Il colpo fallì per la decisa opposizione di Mussolini: il dittatore tedesco per il momento dovette piegarsi e preferì dedicarsi all’opera di ricostruzione del suo Reich. L’economia tedesca, grazie alle notevoli risorse del territorio e al carattere dei suoi abitanti, compì un prodigioso balzo in avanti, soprattutto per quando riguarda l’industria. Contemporaneamente, in contrasto con quanto aveva stabilito il Trattato di Versailles, la Germania si riarmò facendo delle proprie forze armate una poderosa macchina di guerra. Il Paese, dunque, era nuovamente in piedi e appariva più minaccioso di prima, mentre le grandi potenze europee (Francia, Inghilterra e Unione Sovietica) pareva che stessero a guardare.
Gli antinazisti, intanto, venivano messi a tacere con i soliti sistemi propri a tutte le dittature: particolarmente feroci furono le persecuzioni e le repressioni scatenate dalla Gestapo (Geheime Staats Polizei = Polizia segreta di Stato). I più perseguitati, “naturalmente”, furono gli Ebrei: si cominciò con l’emarginarli dalla società tedesca e si fini per “pianificare” nei loro confronti la soluzione finale, la totale eliminazione! A tale scopo vennero organizzati i lager, veri centri di sterminio, nei quali ben 6 milioni di Ebrei sarebbero stati “scientificamente” assassinati mediante le camere a gas.
Per gli Ebrei e impossibile vivere nella Germania di Hitler
L’emarginazione procede con cautela.
Gli Ebrei tedeschi costituivano la comunità più numerosa, tra quelle presenti in Europa, che rappresentava il centro dell’ebraismo internazionale. Integrati nella vita sociale, economica e politica gli Ebrei tedeschi avevano contratto matrimonio con uomini o donne “cristiane” e il così detto matrimonio misto era un fenomeno che era andato progressivamente aumentando soprattutto nelle grandi città.
Le leggi di Norimberga del 1935 introdussero nella Germania nazista il crimine di “vergogna razziale”, cioè gli Ebrei vennero considerati ufficialmente razza inferiore e pericolosa e cominciò la loro emarginazione: furono vietate loro le professioni di notaio, avvocato, giornalista, medico affiliato alla Sicurezza Sociale (una specie di servizio sanitario statale), impiegato della pubblica amministrazione. Il regime nazista procedette gradualmente alle restrizioni antisemite.
Gli Ebrei sono costretti ad emigrare.
Nel 1938 le restrizioni antisemite subirono un’accelerazione: furono chiusi i giornali e le associazioni ebraiche, vennero vietati altri mestieri, fu proibito frequentare cinema e teatri, percorrere alcune strade. La popolazione ebraica venne sfrattata dalle proprie case e costretta a vivere in appositi quartieri (detti ghetti) e fu obbligata a pagare complessivamente una tassa di un miliardo di marchi. Ebbe inizio la deportazione di numerose personalità della cultura nei campi di concentramento di Sachsenhausen, Buchenwald e Dachau. Queste limitazioni ebbero come conseguenza l’emigrazione di gran parte della popolazione ebraica che si rivolse agli “archivi centrali degli Ebrei tedeschi” per rintracciare parenti residenti nei Paesi stranieri dove erano intenzionati ad andare.
Ha inizio la deportazione.
Con l’inizio della II Guerra Mondiale, nel 1939 si completò l’isolamento della popolazione ebraica: fu proibito di uscire di notte, fu richiesta la consegna di tutti gli apparecchi radio e telefonici, divenne obbligatoria sui documenti personali la lettera J, iniziale di “Juden” (Giudeo, cioè Ebreo), e fu imposta l’applicazione sugli abiti della stella gialla, simbolo ebraico. Gli archivi degli ebrei tedeschi vennero utilizzati anche dalla polizia di Stato per ottenere informazioni su chi era sospettato di avere antenati ebrei e per completare il censimento della popolazione ebraica. Cominciò quindi la deportazione, accompagnata alla confisca dei beni, degli Ebrei tedeschi in vista della “soluzione finale”, la loro totale eliminazione. Benché non fosse ben chiaro l’esito delle deportazioni, di fatto lo sterminio immediato, pochi tra gli ebrei si illudevano del loro destino. Le deportazioni provocarono anche proteste nella popolazione più sensibile e molti tedeschi domandarono alle autorità “di chiudere un occhio” per un amico o un collega. Particolarmente forti furono le pressioni dei partner “cristiani” per ottenere la liberazione del marito o della moglie di origine ebraica. Tra la popolazione tedesca, accanto a chi ricorse alla delazione, alla vigliaccheria o alla semplice indifferenza, ci fu anche chi rischiò la propria vita con atti di solidarietà verso amici e conoscenti perseguitati dal regime perché Ebrei.
Lo sterminio come strumento del nuovo ordine nazista
Dopo 2 anni dall’inizio della guerra, quando ormai le armate tedesche erano padrone di gran parte dell’Europa, si intensificò l’attuazione del Nuovo ordine europeo attraverso l’eliminazione programmata e sistematica di tutti coloro che per motivi politici e razziali erano considerati degli ostacoli alla diffusione del nazionalsociali-
smo. Furono costruiti campi di concentramento con strutture appositamente studiate per l’eliminazione di Ebrei, Slavi, oppositori politici.
Tristemente famoso fu il campo di Aschwitz, in Polonia. Comandante di Aschwitz fu Rudolf Hoess. Qui inizialmente vennero liquidati i prigionieri politici russi che inizialmente vennero uccisi dai plotoni di esecuzione. Poi si scoprì che poteva essere impiegato un gas, il Cyclon B, che veniva solitamente usato nel campo per la disinfestazione dei parassiti.
La gassazione, ad Aschwitz, venne effettuata nelle celle di detenzione del block 2; la morte sopravveniva nelle celle stipate, subito dopo l’immissione del gas. Un breve grido, subito soffocato e tutto era finito. La riuscita dell’esperimento diede un grande sollievo ad Hoess, perché in questo modo avrebbe potuto evitare le fucilazioni di massa che lo atterrivano.
Nella primavera del 1942, nello stesso campo, giunsero i primi trasporti di Ebrei dall’Alta Slesia, tutti individui da sterminare. In questa primavera centinaia di uomini e donne nel fiore degli anni andarono così alla morte, senza per lo più intuire nulla.
Nei campi di concentramento si vive per morire
I campi di concentramento vennero costruiti in quasi tutti i Paesi occupati ai nazisti. Oltre ai campi base, circa una quarantina, c’erano alcune centinaia di campi minori: tra i primi Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau in Germania, Auschwitz e Treblinka in Polonia, Mauthausen in Austria. In Italia, quando dopo il 1943 i Tedeschi occuparono i territori centrosettentrionali, furono organizzati i campi di Fossoli (Modena), Griese (Bolzano) e la Risiera di San Sabba presso Trieste. Questi erano campi di custodia e di transizione, cioè di passaggio, verso quelli tedeschi.
Un campo di concentramento sorgeva in una zona isolata e malsana ed era circondato da una barriera di filo spinato percosso da corrente elettrica ad alta tensione, talvolta anche da fossati e campi minati, nei punti strategici c’erano torrette di sorveglianza, con mitragliatrici. Ogni campo comprendeva un grande piazzale per le adunate e le pubbliche punizioni, gli edifici per il comando e l’amministrazione, un infermeria, gli alloggi per le milizie e le baracche per i prigionieri. Queste ultime erano generalmente di legno e, lunghe 50 m e larghe 7-8 m, ospitavano un’incredibile numero di prigionieri.
Il controllo e la direzione dei campi era affidata alle SS, aiutate da individui scelti tra i prigionieri stessi, in genere criminali comuni e tutti coloro che erano disponibili a trattare i prigionieri con la stessa brutalità delle SS. Particolarmente malvisti erano i kapò ai quali era affidato il comando dei distaccamenti di lavoro. Il generale tedesco O.Pohl organizzò lo sfruttamento degli internati che venivano fatti lavorare nelle fabbriche, in cambio di una paga che veniva requisita dalle SS. I prigionieri, infatti, erano privati di tutto ciò che potesse costituire fonte di guadagno: non solo oggetti personali come occhiali e orologi, ma anche dentiere e cappelli. Con questi ultimi venivano fabbricate suole di feltro.
Quando non erano le camere a gas a provvedere allo sterminio degli internati, contribuivano ai decessi il supersfruttamento nel lavoro e le sevizie e le brutalità a cui venivano sottoposti i prigionieri, tra cui gli “esperimenti”scientifici per provare la resistenza fisica dell’uomo o la sua reazione a nuovi farmaci.
La denutrizione e le malattie fecero il resto.

L’annessione dell’Austria riuscì pienamente nel 1938, quando la piccola repubblica fu occupata dalle truppe tedesche: gli austriaci erano di stirpe tedesca, quindi “dovevano” far parte della Grande Germania! Questa volta lasciò fare anche a Mussolini, che nel frattempo si era accostato alla Germania. Quindi fu la volta della Cecoslovacchia, a cui il fuhrer strappò la regione dei Sudeti, abitata da 3 milioni di Tedeschi; allora Mussolini propose all’Inghilterra, alla Francia e alla Germania di partecipare alla Conferenza di Monaco (1938): però benché si dovesse discutere proprio della questione cecoslovacca, non fu inviato il governo di Praga!
Hitler ebbe partita vinta: anche i Sudeti andarono a far parte della Grande Germania, e la Francia e l’Inghilterra si illusero di aver soddisfatto una volta per tutte le ambizioni del dittatore tedesco, e di avere assicurato la pace all’Europa.
L’Italia fascista
Lo stesso Mussolini che nel 1911 aveva scontato un anno di carcere per essersi opposto energicamente alla conquista della Libia ora aveva deciso che anche l’Italia dovesse avere un proprio impero, proprio quando gli altri imperi coloniali a scricchiolare. Approfittando di alcuni incidenti successi alla frontiera fra la Somalia italiana e l’Etiopia, Mussolini fece aggredire quel millenario impero, costringendo il
suo negus Hailè Selassiè (1930-1975) a rifugiarsi in Inghilterra: l’Etiopia che con la Liberia e l’Egitto era uno dei tre Stati africani indipendenti, in pochi mesi(1935-36) divenne un possedimento italiano, e Vittorio Emanuele III ne diventò l’imperatore. Nel 1938 si formò l’Africa Orientale Italiana, che riuniva, oltre all’Etiopia, l’Eritrea, la Somalia e l’Oltregiuba, ma con amministrazioni separate.
A questo punto però la Francia e l’Inghilterra, che si vedevano minacciate nei loro interessi in Africa, appoggiarono l’esule negus e fecero in modo che la Società delle Nazioni decretasse contro l’Italia le così dette sanzioni economiche: gli Stati membri della Società, cioè, non avrebbero dovuto commerciare col nostro Paese. Le sanzioni, in realtà, servirono soltanto al gioco di Mussolini, sia perché non tutti i paesi le rispettarono, sia perché il Duce le usò per far credere che l’Italia era ingiustamente perseguitata e minacciata.
A questo punto non è difficile capire perché l’Italia fascista si accostò alla Germania nazista: nello stesso 1936, infatti, furono firmati tra i due Stati numerosi accordi culminati nel così detto Asse Roma-Berlino, che consentì a Hitler di sviluppare indisturbato la sua politica di aggressione all’Europa. Da quel momento il dittatore italiano scivolò sempre più verso il ruolo di “controfigura” del tiranno nazista, e ne diede una chiara dimostrazione nel 1938, varando delle leggi razziali contro gli Ebrei italiani. La Chiesa si schierò contro queste disposizioni fasciste.
L’aggressione all’Europa
Nel maggio del 1939 le truppe tedesche invasero ancora una volta la Cecoslovac-
chia che, direttamente o in forma indiretta, passò sotto il controllo del Terzo Reich: la Francia, l’Inghilterra, l’Unione Sovietica e anche gli Stati Uniti “protestarono energicamente”. Ma non si mossero!
E fu la volta di Mussolini: per “pareggiare” il conto con l’aggressione tedesca alla Cecoslovacchia, le truppe italiane occuparono l’Albania; Vittorio Emanuele III, già re d’Italia e imperatore d’Etiopia, divenne anche re d’Albania!
Contemporaneamente, vennero stretti maggiormente i legami tra Hitler e Mussolini: l’Asse fu trasformato in un Patto d’acciaio col quale i due governi si impegnavano ad aiutarsi reciprocamente, in caso di una guerra non solo difensiva, ma anche offensiva.
Il 23 agosto la Germania nazista e la Russia comunista firmarono un patto di non aggressione con cui le due potenze stabilivano le rispettive zone d’influenza in Europa! L’accordo costituì un duro colpo per il fronte antifascista, che rischiò di sfaldarsi: in Italia, ad esempio, i socialisti ruppero il patto di “unità d’azione” con i comunisti, che in Francia vennero addirittura dichiarati i fuori legge. Ma l’accordo significava anche che Hitler, con le spalle ormai al sicuro,non si sarebbe più fermato. E lo dimostrò una settimana più tardi!
La II Guerra Mondiale
1939: continua l’aggressione
col trattato di Versailles le potenze vincitrici avevano commesso anche il grave errore di “spezzare” la Germania mediante il corridoio polacco, che si incuneava nel suo territorio giungendo fino al mare. E il 1° settembre 1939 Hitler fece invadere la Polonia, che, si era rifiutata di cedergli il famoso corridoio,due giorni dopo (3 settembre 1939) Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania.
Questo fu l’atto che diede inizio alla II Guerra Mondiale, che avrebbe sconvolto il mondo per 6 anni (1939-1945) coinvolgendo ben 61 nazioni.
I Polacchi, innanzitutto, opposero un’accanita resistenza all’aggressione tedesca, e la Francia e l’Inghilterra si schierarono subito al loro fianco. Mussolini, d’accordo col dittatore nazista, dichiarò la non-belligeranza italiana: il nostro paese,cioè, per il momento non entrava in guerra, ma neppure si dichiarava neutrale.
I primi mesi di guerra videro Germania e Unione Sovietica all’assalto dell’Europa nord-orientale. La prima vittima fu la Polonia, aggredita ad ovest dai Tedeschi e a est dai Sovietici, che rivaleggiarono in ferocia: mentre i panzer (= carri armati) di Hitler facevano letteralmente a pezzi la cavalleria polacca; la Polonia venne divisa tra i due aggressori. L’Unione Sovietica, quindi, occupò le tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), che da allora anno fatto parte dell’U.R.S.S.; quindi aggredì la Finlandia, che però oppose una disperata resistenza: benché sconfitti, i Finlandesi riuscirono a conservare l’indipendenza.
1940: la “pugnalata” alla Francia
Nel frattempo la Francia si era limitata a tenere d’occhio le truppe tedesche schierate sulla linea Sigfrido e a completare le fortificazioni della linea Maginot, che correvano lungo tutto il confine tra Francia e Germania e che i Francesi ritenevano invalicabili. Ma, il 10 maggio 1940 Hitler effettuò una mossa a sorpresa violando brutalmente la neutralità del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo che vennero invasi in soli 5 giorni. Con questo espediente, che andava contro a tutte le regole internazionali, le truppe tedesche aggirarono da nord la linea Maginot e travolsero l’esercito francese. Un contingente britannico, che si trovava in Francia per dare man forte agli alleati, fu accerchiato intorno a Dunkerque e riuscì a riattraversare la manica solo a costo di gravissime perdite.
Di fronte alle fulminee vittorie tedesche, Mussolini decise l’intervento, e così il 10 giugno 1940 l’Italia si schierò a fianco della Germania e le truppe italiane attaccarono la Francia, già messa in ginocchio dall’esercitò tedesco. Il 14 giugno 1940 le truppe tedesche sfilarono trionfalmente lungo i viali di Parigi. Il 22 dello stesso mese il governo di destra presieduto dall’ottantaquattrenne Pétain firmò l’armistizio. Mentre il nord della Francia veniva posto sotto il diretto controllo della Germania, i nazisti consentirono a Pétain di formare nella cittadina di Vichy un governo “collaborazionista”, cioè formato da ministri francesi, ma pronto a “collaborare” attivamente con i Tedeschi e privo di reale autonomia.
La”battaglia d’Inghilterra”
Con la sconfitta della Francia Hitler aveva portato a termine la prima parte del suo progetto: il “Grande Reich” era una realtà, il secolare nemico era umiliato e la scon-
fitta del 1918 vendicata. Restava da realizzare il secondo obiettivo del piano “Spazio vitale”: aggredire l’Unione Sovietica infrangendo il Patto Molotov-Von Ribbentrop. Per riuscire il Fuhrer riteneva necessario trattare la pace con la Gran Bretagna, la sola potenza europea rimasta temibile e ostile, dopo la sconfitta della Francia.
Il gruppo dirigente inglese guidato dal conservatore Winston Churchill, respinse invece ogni trattativa e ottenne dal Paese l’impegno unanime di resistere a costo di qualunque sacrificio contro il nemico nazista. Hitler, visto fallire il suo piano, scatenò allora l’operazione chiamata in codice “Leone marino”, un piano alternativo già pronto che aveva un obiettivo ambiziosissimo: l’invasione dell’Inghilterra.
Per realizzare lo sbarco di intere divisioni tedesche sull’isola, tuttavia, l’aviazione tedesca, la Luftwaffe, avrebbe dovuto conquistarsi il dominio dei cieli, compensando l’inferiorità della marina germanica rispetto a quella britannica e annientando la non meno attrezzata aviazione inglese, la R.A.F. (Royal Air Force). Si scatenò così tra le due aviazioni la prima grande battaglia aerea della storia: la “Battaglia d’Inghilterra”, appunto. Per tutta l’estate del 1940 si susseguirono micidiali bombardamenti che decimarono e terrorizzarono la popolazione delle città inglesi, mentre in cielo trovavano la morte centinaia di piloti. Ma la resistenza della Raf riuscì a bloccare la Luftwaffe e alla fine costrinse lo Stato Maggiore tedesco ad abbandonare il progetto di invasione.
Mentre l’aviazione inglese cominciava ormai a bombardare a sua volta le città tedesche, fu chiaro che, per la prima volta, il Fuhrer aveva mancato uno dei suoi principali obiettivi: la “guerra–lampo” era fallita; il conflitto si sarebbe trascinato molto più a lungo del previsto.
Dopo l’intervento dell’Italia in Francia, che si concluse con la “vittoria” della Francia, Mussolini ordinò allora di attaccare i possedimenti inglesi in Africa, che in molti casi confinavano con le colonie italiane, ottenendo successi iniziali in Sudan e nella Somalia britannica. Nel frattempo una sanguinosa guerra navale impegnava la Marina italiana nel mare Mediterraneo, che era presidiato dalla potente flotta inglese la quale aveva basi navali a Gibilterra, Malta, Alessandria d’Egitto e in Grecia. Nonostante le molte prove di coraggio dei marinai e dei comandanti, la guerra navale volse a sfavore degli Italiani, i quali erano gravemente svantaggiati sia dall’assenza di portaerei, sia dalla loro impreparazione al combattimento notturno. In esso invece gli Inglesi erano all’avanguardia perché possedevano il radar, un sistema elettronico che emetteva onde radio e ne captava l’eco individuando la presenza di navi nemiche anche al buio.
L’attacco alla Grecia
Nel 1940 Mussolini firmò con la Germania e il Giappone il “Patto tripartito”, detto anche “Asse Roma-Berlino-Tokio”, che prevedeva la spartizione del mondo tra le potenze dell’Asse, quindi si gettò in una nuova avventura militare: l’attacco alla Grecia.
Ancora una volta l’operazione, creduta facile, fu preparata male. I Greci, aiutati dagli Inglesi, opposero una forte resistenza che durò dall’ottobre 1940 all’aprile 1941; furono poi i Tedeschi discesi attraverso la Jugoslavia, a occupare il piccolo Stato evitando così al nostro esercito un nuovo cocente insuccesso. Al Duce e al fascismo essa procurò per la prima volta una diffusa impopolarità in Italia; molti incerti, dopo la campagna di Grecia, portarono definitivamente le spalle al regime.
La campagna d’Africa
Anche in Africa la guerra voluta dal fascismo stava ormai volgendo al peggio. Gli Inglesi non solo avevano riconquistato le posizioni perdute, ma stavano occupando le colonie italiane a una a una: la Pirenaica, l’Etiopia-che fu restituita al Negus-la Somalia e l’Eritrea. Ancora una volta fu la Germania a trarre d’impaccio il suo incapace alleato: nel Marzo 1941 giunsero in Nordafrica rinforzi corazzati al comando di Erwin Rommel uno dei più brillanti strateghi agli ordini del Fuhrer, che riconquistò la Pirenaica. Il fallimento di tutte le campagne militari in cui si era impegnata l’Italia fino a quel momento costrinse Mussolini a una posizione subalterna rispetto a Hitler, il quale, piegata la Grecia, soggiogata la Francia, tenuta l’Africa sotto controllo, passò alla seconda parte del suo piano:l’aggressione all’Unione Sovietica.
L’ “operazione Barbarossa”
All’alba del 22 giugno 1941 le divisioni tedesche invasero l’Unione Sovietica con 3milionie mezzo di uomini, 10.000 carri armati e 3.000 aerei. Erano fiancheggiata da 220.000 Italiani che Mussolini aveva inviato in tutta fretta, per non essere escluso dalla “gloriosa impresa” e che costituivano l’Armir (Armata Italiana in Russia). Aveva inizio così l’ “operazione Barbarossa” preparata da Hitler in gran segreto, essa costituiva l’obiettivo finale della sua strategia: distruggere il bolscevismo e ridurre in schiavitù i popoli slavi. Stalin fu colto impreparato, perché si fidava dal patti di non aggressione Molotov-Von Ribbentrop firmato solo 2 anni prima. Perciò applicò la tattica tradizionale russa: una lenta ritirata del grosso dell’esercito con limitate azioni di guerriglia eseguite da piccoli gruppi d’assalto contro reparti tedeschi rimasti isolati, e l’attesa dell’inverno, mentre agiva per rinforzare adeguatamente l’Armata Rossa, affidata all’abilissimo Generale Zukov.
Perché ciò potesse avvenire in tempi brevi strinse un’alleanza con la Gran Bretagna e con gli Stati Uniti (questi ultimi pur essendo ancora in guerra, sostenevano gli Inglesi con rifornimenti di armi e di viveri) i quali aderirono volentieri nonostante la loro radicata differenza verso l’Unione Sovietica. L’apertura di un nuovo fronte, quello russo, distoglieva infatti una parte rilevante dell’esercito tedesco dalla Francia, dall’Inghilterra e dall’Africa; inoltre, se Stalin avesse resistito, una disfatta in Russia avrebbe potuto significare la fine del nazismo.
Mentre Stalin ricostituiva l’esercito grazie anche agli aiuti inglesi e americani, le truppe tedesche avanzavano con precisione e velocità su un fronte lungo ben 1600 Km che si estendeva dal Mar Baltico al Mar Nero. L’ordine ricevuto era “sterminio!” perciò, esse lasciavano dietro di se terra bruciata distruggendo città e villaggi, facendo strage di gruppi di resistenza e spedendo nei lager la popolazione inerme; si impadronirono inoltre delle fabbriche e delle riserve di petrolio dei Paesi Baltici, dell’Ucraina e della Crimea, necessarie per rifornire di carburante auto, camion, motociclette e carri armati. Alla fine di settembre la Germania aveva conquistato quasi tutta la Russia europea: era a 60 Km da Mosca e assediava Leningrado.
Ma Leningrado oppose per 900 giorni una resistenza tanto eroica da entrare nella leggenda e da nord i Tedeschi non riuscirono più ad avanzare. Alla fine di ottobre l’inverno russo calò su aggressori aggrediti mentre la guerra-lampo immaginata da Hitler si trasformava in una logorante guerra di posizione. L’esercito tedesco famoso per la sua efficienza e per lo splendore impeccabile delle sue divise, cominciò
a trasformarsi in una schiera di gente torturata dalla fame, intrappolata dalla neve, decimata dalle imboscate dei Partigiani, cioè dei civili russi volontari che agivano clandestinamente nelle zone occupate. La stessa tragedia si abbatté sull’armata italiana.
Pearl Harbor: l’entrata in guerra degli Stati Uniti
Ma il teatro della guerra era destinato ad allargarsi fino a diventare, per la seconda volta, “mondiale”. Infatti alla fine del 1941, proprio mentre l’avanzata tedesca si arrestava davanti alle grandi città russe, la guerra si allargò all’Oceano Pacifico. Gli alti comandi giapponesi erano convinti che prima o poi ai loro progetti di espansione nel Pacifico si sarebbero opposti con le armi la Gran Bretagna, che vi manteneva importanti possedimenti e gli Stati Uniti, che controllavano le Hawai e le Filippine. Decisero quindi di approfittare della guerra in Europa per colpire di sorpresa le due grandi forze navali avversarie. Il 7 dicembre 1941, senza aver consegnato la dichiarazione di guerra, i Giapponesi lanciarono un improvviso e massiccio attacco aereo che inflisse gravi perdite alla flotta americana ancorata a Pearl Harbor, nelle Hawai. Tre giorni dopo il Giappone effettuò un’analoga operazione in Siam, contro la flotta britannica. Questa iniziativa, tuttavia, ottenne l’effetto contrario a quello voluto, le perdite furono gravi, ma non decisive. Tra le navi distrutte si salvarono le preziose portaerei che, per puro caso erano uscite dal porto; inoltre, grazie alla sua enorme capacità produttiva, l’industria americana riuscì a rimpiazzare in tempo utile i molti incrociatori perduti. Ma la conseguenza più importante fu che quell’attacco a tradimento sollevò un’ondata di sdegno nell’opinione pubblica e convinse gli Stati Uniti a entrare in guerra con tutto il peso della loro forza industriale e militare per battere le potenze dell’Asse ed estirpare il fascismo dalla scena mondiale. Tuttavia, fino alla primavera del 1942, il dominio militare del Pacifico rimase in mano ai Giapponesi, grazie alla loro eccellente organizzazione aeronavale, alla totale devozione dei soldati e all’abilità dell’ammiraglio Yamamoto comandante in capo della marina. In soli 6 mesi il Giappone conquistò il controllo del sud-est asiatico dell’Indonesia, delle Filippine, di gran parte dell’Oceania e giunse a minacciare da vicino l’Australia e l’India.
(vedi anche fogli: PEAR HARBOR Dovei samurai persero l’onore)
Il 1942-43: l’anno della svolta
La seconda metà del 1942 e l’inizio del 1943 segnarono la svolta della guerra. Ebbero fine le vittorie dell’Asse e gli Alleati riconquistarono terreni su tutti i Fronti.
FRONTE RUSSO. I Tedeschi e i loro alleati sferrarono contro le difese sovietiche un’offensiva generale che prevedeva tra l’altro la conquista della città di Stalingrado, con la quale avrebbero inferto un colpo definitivo alle truppe nemiche. Qui dal luglio 1942 al febbraio 1943 si svolse una delle battaglie più lunghe e sanguinose della storia, che si concluse con l’accerchiamento e la sconfitta delle forze tedesche. Cominciò allora la tragica ritirata di Russia, che si concluse nella primavera del 1944, nella quale perse la vita l’80% dei Tedeschi e degli Italiani partiti.
FRONTE DEL PACIFICO. Tra il maggio e il giugno del 1942 gli Americani capovolsero le sorti della guerra grazie a 3 grandi vittorie sulla flotta giapponese di cui fu decisiva quella di Midway, nel Pacifico centrale. Nel 1943 iniziarono quindi una lunga e difficile marcia di avvicinamento al territorio giapponese attraverso le innumerevoli isolette del Pacifico. Ci vollero quasi 3 anni e centinaia di azioni dei marines, le truppe da sbarco statunitensi, per strappare il controllo di quell’immenso oceano agli irriducibili soldati del Sol Levante.
FRONTE AFRICANO. Nel 1942 fu la battaglia di El Alamein, in Egitto, a segnare la svolta in favore degli Alleati. Poco dopo gli Anglo-Americani, guidati dal generale Eisenhower, sbarcarono in Algeria e in Marocco e nel 1943 costrinsero gli Italo-Tedeschi ad abbandonare l’Africa settentrionale.
Lo sbarco alleato in Italia
Il vittorioso sbarco anglo-americano in Africa settentrionale decise l’Alto comando interalleato a invadere l’Italia immediatamente, per sfruttare il successo conseguito nel Mediterraneo.
Il 10 luglio 1943, ebbe inizio lo sbarco alleato in Sicilia: le truppe italiane opposero una debole resistenza e, in poco più di un mese, gli Anglo-Americani occuparono l’intera isola, accolti trionfalmente dalla popolazione. Questa prima sconfitta del fascismo sul “Fronte Interno” dimostrò che militari e civili erano delusi e stanchi della guerra,affrontata con deplorevole impreparazione e costellata di insuccessi, perdite, disorganizzazione.
Il Paese, infatti, giudicava ormai inevitabile la sconfitta: i bombardamenti sulle città si erano intensificati a partire dall’autunno del 1942, avevano mietuto molte vittime e ridotto in macerie fabbriche, porti e interi quartieri; a Milano, che fu la più colpita, fu distrutto il 60% delle abitazioni; i turni di lavoro in fabbrica erano durissimi; l’alimentazione era regolamentata dalle “tessere annonarie” che concedevano solo il necessario per sopravvivere. Chi aveva denaro da spendere poteva rivolgersi ai “pescecani”, cioè a coloro che praticavano il mercato nero vendendo a prezzi astronomici i generi, ormai rari, di prima necessità. Un kg di sale, nel 1944 costava l’equivalente di 10 giorni di stipendio di un impiegato. A migliaia le persone fuggivano andando a formare l’esercito degli sfollati in cerca di rifugio nelle campagne.
La caduta del fascismo
Quando gli Alleati, completata l’occupazione della Sicilia, cominciarono a risalire lentamente la penisola contendendone la terra palmo a palmo ai Tedeschi, il fascismo era ormai in agonia. La maggioranza della popolazione era esasperata e nel marzo del 1943 il malcontento della classe operaia esplose con grandi scioperi che partirono da Torino e si diffusero in tutte le grandi città del Nord; ma il malessere era evidente anche nei ceti medi e nelle campagne. La grande industria cominciò a nutrire il timore di una rivoluzione ed ebbe incontri segreti con i gerarchi, gli ambienti di corte e i capi militari perché ordissero un colpo di Stato che eliminasse il Duce, ponesse fine all’alleanza con la Germania e salvasse l’Italia dalla catastrofe.
Il 25 luglio, d’accordo con il re che fino all’ultimo aveva tentennato di fronte a queste esortazioni, il Gran Consiglio del Fascismo votò una mozione di sfiducia nei confronti del Duce e invitò Vittorio Emanuele III a riprendere il comando delle forze armate. Il re allora affidò il governo al generale Badoglio, costrinse Mussolini alle dimissioni, lo fece arrestare e lo esiliò sul Gran Sasso determinando la caduta del fascismo. Alla notizia, la popolazione dilagò per le strade. Scoppiarono disordini che Badoglio represse spietatamente: in 45 giorni ci furono 100 morti, 500 feriti, 2500 arresti. La maggior parte delle manifestazioni tuttavia nasceva da un incontenibile entusiasmo, non tanto per la riconquistata libertà, quanto per l’ingenua convinzione che il crollo di Mussolini significasse anche la fine della guerra: ingenua, perché invece la guerra era ben lontana dalla fine.
L’otto settembre del ‘43
Il nuovo governo presieduto dal maresciallo Badoglio, negoziò segretamente l’armistizio con gli alleati e lo rese noto l’otto settembre del ’43, ma con una frase atrocemente ambigua: “l’armistizio è stato firmato. La guerra continua”. Intanto il re abbandonava in gran segreto la capitale e fuggiva a Brindisi sotto la protezione della flotta americana.
Fu il caos e per qualche ora tutti si posero una domanda cui le autorità non davano risposta: “i tedeschi restano amici o diventano nemici?”. Alcuni reparti delle forze armate italiane di istanza a Roma puntarono le armi contro le SS che stavano già cominciando a rastrellare le strade in cerca di militari da fare prigionieri. Ad essi si unirono gruppi di civili e avvennero scontri a Porta San Paolo che sono considerati il primo episodio della resistenza italiana.
Una sorte atroce toccò ai soldati italiani al Fronte, ai quali arrivarono ordini contrastanti: arrendersi ai tedeschi, resistere per salvare l’onore, comportarsi come volevano. Moltissimi si rifiutarono di consegnare le armi e opposero una strenua resi-
stenza alle truppe naziste, ma finirono per soccombere e furono passati per le armi, come accadde all’eroica divisione Acqui, impegnata a Cefalonia (Corfù).
La Repubblica di Salò e il Regno del Sud.
Hitler, in preda all’ira per il tradimento del re d’Italia, fece liberare Mussolini da un commando di paracadutisti tedeschi, che si lanciarono sul Gran Sasso e lo portarono in Germania. Qui il Fuhrer lo spinse a fondare la Repubblica Sociale Italiana, chiamata anche Repubblica di Salò dal paesino sul lago di Garda dove aveva la sua capitale, e a ricomporre un esercito che avrebbe collaborato con quello tedesco allo scopo di bloccare l’avanzata anglo-americana attraverso l’Italia e poi attraverso la Germania. Intanto gli Alleati risalivano lentamente la penisola. Quando furono nelle vicinanze di Napoli, i tedeschi inasprirono la rappresaglie contro la popolazione; allora, il 1° ottobre del 1943, l’intera città si sollevo combattendo per le strade e costringendo i nazisti alla fuga il 4 ottobre: furono queste le gloriose “Quattro giornate di Napoli”.
A Cassino, però, le truppe anglo-americane furono bloccate per mesi dalla furiosa resistenza dei tedeschi. L’Italia restò così divisa in due:
• Il Centro-Nord occupato dai tedeschi e governato da Mussolini attraverso la Repubbl. Sociale;
• Il Meridione “liberato”, occupato dagli Alleati e chiamato Regno del Sud, perché formalmente governato dal re Vittorio Emanuele III.
La Resistenza.
Alla leva della Repubblica sociale molti giovani non risposero perché la gente comune aveva un unico sogno: che la guerra finisse. Inoltre continuare a combattere con i tedeschi, che stavano chiaramente perdendo, sembrò a molti un’idea assurda. Almeno all’inizio, quindi, una parte dei giovani del Nord non entrò a far parte dell’esercito di Salò semplicemente perché si nascose per evitare la leva. Con il passare dei mesi, tuttavia, a molti sembrò sensato combattere sì, ma contro i tedeschi che della guerra erano i massimi responsabili e che con la loro ostinazione sembravano rischiare di prolungarla all’infinito.
Più consapevole era la linea tenuta dai militari anti-fascisti (comunisti, socialisti, liberali, cattolici, tra i quali molti sacerdoti) che erano vissuti nella clandestinità o che erano partiti in esilio per Parigi e che ora tornavano. Bisognava combattere per dimostrare agli Alleati di aver contribuito per liberare l’Italia dai tedeschi e soprattutto per estirpare i residui del fascismo e costruire dopo la pace una nuova Italia. Su queste basi, già nel 1943 si era formato a Roma il Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) che coordinava “ le Brigate Garibaldi”, comuniste, i reparti di “Giustizia e Libertà” del Partito d’Azione, le “Brigate Matteotti”, socialiste, e formazioni minori in cui confluirono liberali, monarchici e cattolici. Nel 1944 ne assunsero il comando generale Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri e Luigi Longo. Nacquero così i primi nuclei partigiani, cioè di volontari armati che si proponevano di combattere per la libertà contrastando le truppe regolari tedesche e fasciste. Essi organizzarono la Resistenza, dando vita ad azioni di guerriglia e di sabotaggio, spesso richieste e coordinate dal comando alleato. Nelle grandi città, come Roma, le azioni di sabotaggio furono dirette contro i nazisti, ma sulle Prealpi, nella Pianura Padana e sull’Appennino Tosco-Emiliano, gli antifascisti si scontrarono in armi anche contro i fascisti. Furono quindi italiani coloro che si combatterono spietata-
mente aprendo il tristissimo periodo della Guerra civile, la quale costò complessivamente 70.000 morti.
Spesso contro i partigiani o contro civili innocenti intervennero direttamente le SS naziste che si resero personalmente responsabili degli eccedi delle Fosse Ardeatine a Roma (335 morti), di Sant’Anna di Stazzema, vicino a Lucca (500 morti) e di Marzabotto, a sud di Bologna ( oltre 1.000 morti).
La gente comune non fece mancare la propria solidarietà ai partigiani e agli ebrei ricercati, offrendo loro, a rischio della propria vita, rifugio, viveri, informazioni.
La Liberazione.
All’inizio del 1944poco dopo lo sfondamento delle linee Tedesche a Cassino, una divisione alleata sbarcò ad Anzio ma riuscirono a raggiungere Roma solo il 4 giugno. Le armate del Fuhrer si attestarono allora sulla cosiddetta “Linea gotica”, che tagliava l’Italia da Rimini a Forte dei Marmi, mentre Firenze veniva liberata dai partigiani l’11 agosto.
Anche a causa di diffidenze e di incomprensioni con il Cln, gli Alleati rallentarono l’iniziativa per tutto l’inverno 1944-45. ma a primavera l’offensiva riprese: in aprile gli Anglo-Americani oltrepassarono il Po e il 25 aprile 1945 il Cln potè proclamare l’insurrezione generale dell’Italia settentrionale liberando le grandi città dai nazifascisti. Qualche giorno dopo le truppe tedesche in Italia si arrestarono e cadde la Repubblica di Salò.
Mussolini fu catturato dai partigiane mentre tentava di fuggire in Svizzera e fu fucilato il 28 aprile.
Il crollo del terzo Reich
All’alba del 6 giugno del 1944, sotto la direzione del generale Eisenhower, era avvenuta intanto la più grandiosa operazione di sbarco mai tentata, l’ “Operazione Overlord”, con la quale un enorme contingente anglo-americano, appoggiato da 12.00 aerei, 3.00 navi da guerra e 4.000 mezzi da sbarco di vario tipo, aveva effettuato lo sbarco in Normandia (Francia settentrionale).
La superiorità degli Alleati sui Tedeschi era schiacciante, ma il successo fu raggiunto solo dopo aspri combattimenti e gravissime perdite da ambo le parti. In agosto sbarcarono in Provenza (Francia meridionale) altre forze, mentre Parigi insorgeva e accoglieva il generale Charles De Grulle, che da Londra aveva coordinato la Resistenza francese. A settembre le forze americane penetrarono da occidente in territorio tedesco, dopo aver liberato il Belgio e l’Olanda, preceduti dai bombardieri che rasero al suolo le città tedesche una per una.
La Germania subì l’invasione anche da oriente, dove avveniva l’avanzata delle truppe sovietiche, mentre nei Balcani i partigiani del maresciallo Tito liberavano la Jugoslavia.
In quei mesi Hitler si era trasferito con i suoi collaboratori in un buncher, cioè in un rifugio sotterranei corazzato nel cuore di Berlino, e da lì dirigeva le operazioni. Era ancora convinto di poter vincere e ordinò la leva dei ragazzi di 14 anni, che mandò inutilmente a morire quando ormai tutto era perduto. Il 30 aprile 1945 i Sovietici entrarono a Berlino. Hitler si suicidò nel buncher insieme alla sua compagna Eva Braun e alla famiglia Goering.
Il 7 maggio 1945 una Germania materialmente e immoralmente distrutta firmò la resa. La guerra in Europa era finita.
La resa del Giappone e la fine della guerra
Continuava la guerra nel pacifico, dove gli Americani avevano espulso i Giapponesi da tutte le zone occupate e avevano distrutto la loro flotta togliendo all’impero del Sol Levante ogni possibilità di vittoria.
Contro ogni logica, tuttavia, il governo giapponese animato da un esasperato senso dell’onore, resisteva. Anzi mandava a schiantarsi contro le navi americane con i loro aerei pieni di bombe e i suoi piloti migliori, i kamikaze ovvero “vento divino”, e non si curava delle centinaia di migliaia di morti provocati dai bombardamenti americani sulle città. Tutto faceva prevedere che l’inutile massacro di entrambi i contendenti sarebbe durato ancora molti mesi.
Roosevelt morì nell’aprile del 1945 e il nuovo presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, esaminò la possibilità di usare contro la popolazione civile giapponese un’arma di tale potenza da indurre i capi militari alla resa. Dopo 2 anni di lavoro, infatti, une equipe formata dai più grandi fisici dell’epoca e guidata da J. Robert Oppenheimer, aveva appena sperimentato a Los Alamos in California, la 1° bomba atomica.
Truman inviò al Giappone un ultimatum nel quale minacciava la distruzione totale del Paese se l’esercito non si fosse arreso. L’ultimatum, fu respinto e gli Stati Uniti, ottenuto il consenso di Stalin, presero la gravissima decisione di sganciare su due città giapponesi le bombe nucleari.
Il 6 agosto 1945 la prima bomba atomica esplose su Hiroshima. La città fu rasa al suolo, 90.000 persone morirono all’istante e altre 80.000 furono contaminate dalle radiazioni. 3 giorni dopo ne esplose una seconda a Nagasaki.
Solo il 2 settembre 1945 l’imperatore del Giappone Hirohito si rassegnò a firmare la resa, mentre i suoi capi di stato maggiore si suicidavano facendo harakiri, come i loro antenati, cioè pugnalandosi nell’addome.
Ora la guerra era veramente finita. I popoli potevano contare i loro morti più di 55 milioni.
6 AGOSTO – ore 9.35.17 L’INFERNO SCENDE SULLA TERRA
Da un Boeing B.29 il puntatore TOM FEREBEE premuto il pulsante per lo sgancio, contò i 35 secondi necessari alla bomba per raggiungere il suolo, poi da 18 km nel frattempo percorsi, si accinse a guardare fuori l’“effetto”; rimase impietrito. "Mi parve che il sole fosse calato d'improvviso sulla terra, per poi risalire. Dio mio che cosa abbiamo fatto!”.
Un lampo, un ciclone di fuoco, un fungo gigantesco che saliva al cielo, poi un vento della forza di 1200 chilometri e la città scomparve dalla faccia della Terra, non con una morte nera ma con un abbagliante sole sceso sulla terra. Vite umane liquefatte, ritornate atomi, calcinati i corpi, ustionati, piagati e contaminati dalle radiazioni dal punto zero fino a dodici chilometri di raggio. Nemmeno l'Apocalisse aveva mai accennato ad un castigo divino così sterminatore.
Fu questione di un attimo, per molti abitanti appena il tempo di percepire l’immenso lampo luminoso. Nella zona dell’ipocentro la temperatura balzò in meno di un decimo di secondo a 3000-5000 °C. Ogni forma di vita nel raggio di ottocento metri svanì in seguito all’evaporazione dovuta al tremendo calore.
Truman secondo i presenti esclamò "É questo il più grande avvenimento della Storia". Il Giappone invece non si era ancora nemmeno reso conto di quanto era accaduto; una città intera, alla radio, ai telefoni, sembrava scomparsa, volatilizzata; pochi minuti prima era stato segnalato quasi con noncuranza un solo aereo in quella zona, ad altissima quota, ma poi più nulla; la città si era "eclissata".
Ed era proprio così, alcuni esseri umani sull'asfalto avevano lasciato solo l'ombra di un sole devastatore fabbricato da altri umani; la loro anima era salita in cielo insieme al lampo che aveva visto il pilota, e il loro corpo continuava a salire in cielo insieme al grande fungo.
NISHIMA, il fisico nucleare giapponese, quando solo il giorno dopo arrivarono le prime notizie, ebbe un dubbio, ma ebbe appena il tempo di intuire che era stata una esplosione nucleare, che subito su Nagasaki si levò un altro lampo. Altri 102.275 morti e una città in cenere. Un altro "esperimento", questa volta una bomba al Plutonio, un'altra dimostrazione della "favolosa potenza distruttiva" che ora ha l'uomo che "giudica" concepisce un'arma micidiale e "punisce" in questo modo altri uomini.
15 AGOSTO - Alle ore 16 il Giappone, annunciò alla radio il messaggio di HIRO HITO. Parlò con una voce quasi irreale, piena di dolore ma decisa, commovente ma autorevole; l'imperatore, rivolgendosi a milioni di giapponesi di tutto il paese che ascoltavano nelle piazze, negli uffici, nelle case, sulle navi, nelle caserme, nei campi di battaglia, tutti in ginocchio, lesse la breve capitolazione. Mai, in nessun altro momento della storia umana, così tanta gente irruppe in lacrime. C'era il dolore, l'umiliazione, la tragedia, ma anche l'innegabile senso di sollievo che il terribile incubo del "sole atomico" era finito. La Seconda Guerra Mondiale pure.
Mentre Hiro Hito parlava - in una giornata spettrale e caliginosa che nessuno aveva mai visto prima in vita sua – su milioni di giapponesi in ginocchio, 200.000 esseri umani, inconsapevoli che il loro sacrificio aveva messo la parola fine alla guerra mondiale, si aggiravano ancora sulle loro teste, in atomi e molecole che volteggiavano nell'aria insieme alle nuvole di un cielo tetro; Hiro Hito con la sua voce commosse, ma uomini e donne si sentirono profondamente turbati non solo per questo, ma perchè erano tutti coscienti che a ogni loro respiro, nell'aria, c'era una piccolissima parte di quelle anime volate in cielo in un lampo, e che i loro corpi sottoforma di atomi e molecole erano in quello strano pulviscolo che modellavano quelle stranissime e cupe nuvole.
Qualora le truppe di TITO avessero invaso il Veneto per arrivare poi fino a Milano per unirsi ai comunisti italiani che avevano conquistato già la città, sarebbe bastata una bomba sul Veneto e una su Milano per sbarazzarsi in un colpo solo, dei tedeschi, dei comunisti, dei fascisti e mandato un forte segnale alla Russia, esattamente come in Giappone: infatti a STALIN, con la bomba su Nagasaki e Hiroshima il segnale gli giunse forte e chiaro.
L'Italia avrebbe anticipato Hiroshima? Non lo si esclude alla luce dei fatti del dopo e dei comportamenti avuti in Giappone così molto slegati dalle operazioni militari in corso.
Sarebbe comunque curioso sapere se c'erano, e quanti anglo americani il 25 aprile si trovavano nella Pianura Padana. Le fonti dicono quasi nessuno. Solo alle 12.38 del 25 aprile gli americani varcarono il Po nel passaggio ferrarese di Corbola.
Circa un mese prima dello sgancio, il 16 luglio, sappiamo con certezza che esistevano 12 bombe atomiche negli hangar americani (credibilmente pronte fin da marzo-aprile); 6 all'uranio (1 sganciata su Hiroshima) e 6 al Plutonio (1 sganciata su Nagasaki). A disposizione ne rimanevano 10, pronte ad essere impiegate nel conflitto. Non dimentichiamo che TRUMAN andò al potere il 13 Aprile (12 giorni prima della resa dell'Italia e 24 giorni prima della resa della Germania) e avendo le bombe negli hangar, lui le voleva usare subito per far finire definitivamente la guerra. TRUMAN non voleva più nessun americano morto, né in Italia, né in Germania, né in Giappone.
Successivamente, il 2 settembre - Dopo "sei anni e un giorno" (Hitler l'aveva comin-ciata il 1° settembre 1939) TERMINA LA 2a GUERRA MONDIALE:
55.000.000 di vittime, 35.000.000 di feriti. Paesi e popoli distrutti.
Oltre a questi morti, la grande tragedia degli Ebrei! Nei campi di concentramento si calcola che, nella hitleriana antirazziale "soluzione di massa", nei forni crematori siano scomparsi circa 6.000.000 di individui. In Italia la comunità Ebrea era composta di 47.252 individui, ne deportarono 8369 e a fine guerra ne ritornarono 980.
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II Guerra Mondiale

Esempio



  


  1. Marii

    Tesina su protagonisti della stora e guerra e pace.. Help :(