Se questo è un uomo

Materie:Scheda libro
Categoria:Generale

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Data:29.01.2001
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Testo

“SE QUESTO E’ UN UOMO”

IL LIBRO: “Se questo è un uomo” è stato scritto da Primo Levi nel 1946 a pochi mesi di distanza dalla liberazione dal Lager, anche se in realtà egli aveva già cominciato a scrivere quand’era ancora nel campo e più precisamente quando cominciò a lavorare in laboratorio. Come sente il bisogno di specificare nella Prefazione, è bene ricordare che niente di tutto quello narrato, né i luoghi, né i personaggi sono inventati, ma sono appunto testimonianze di chi le ha vissute da dentro, di là dal filo spinato che isolava il campo e i suoi “ospiti” dalla vita. L’esigenza di raccontare cos’ha visto, cos’ha subito, di far sapere al mondo cosa avvenne veramente, di rendere partecipe tutti al fine di non dimenticare e non rifare gli stessi errori, sta alla base di “Se questo è un uomo”.
LA POESIA: Il libro si apre con una poesia che coinvolge i lettori in prima persona, contrapponendo la loro confortevole situazione (“Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case…”) a quella di un uomo o una donna non più degni di questo nome, quali i prigionieri del Lager.
LO STILE E IL LINGUAGGIO: Il protagonista parla quindi in prima persona e quasi sempre prevale il punto di vista interno del personaggio più che quello onnisciente del narratore. Proprio per dare sfogo all’istinto di narrare una serie di vicende, senza necessariamente seguire un ordine cronologico, Levi non si cura molto dello stile che risulta così molto diretto: frequente l’uso di periodi brevi o comunque d’immediata comprensione, nonché molte similitudini e figure retoriche in genere, che stimolano l’immaginazione del lettore, per meglio immedesimarlo nella descrizione; ad esempio, il momento della sveglia viene descritto come “un cancro rapido”, oppure i prigionieri in fila dietro al Kapos vengono paragonati a dei “goffi pulcini”, o ancora i prigionieri che si guardano intorno ai primi raggi del Sole estivo, dopo il lungo inverno, sono come i “ciechi che riacquistano la vista”.
Significativi sono, inoltre, i numerosi riferimenti all’Inferno di Dante, che ben si conciliava con la condizione “infernale” del Lager (il guardiano del vagone che trasportava i prigionieri era appunto detto “Caronte”, il traghettatore delle anime).
Infine. è molto frequente l’uso del gergo del Lager, che comprendeva parole di diverse lingue, specie tedesche, o anche espressioni usate dagli Haftlinge; così, il nome “musulmani” stava ad indicare i cosiddetti “sommersi”, cioè i prigionieri destinati sicuramente a soccombere, oppure, per indicare i nuovi arrivati, si usava l’espressione “Grandi numeri”, riferendosi al numero di serie che veniva tatuato ad ogni prigioniero e che diventava il loro nuovo nome. Levi si chiamava 174 517.
Addirittura Levi afferma che, per descrivere la loro condizione di “non-uomini”, di “bestie stanche”, le parole “fame”, “freddo”, “paura” non erano neanche adatte, perché il loro modo d’avere fame, freddo e paura no era quello di un qualunque uomo affamato, infreddolito e impaurito; queste sono “parole libere create da e per gli uomini liberi”, mentre per descrivere il Lager occorrerebbe inventare delle nuove parole.
IL LUOGO: Il preciso scopo di documentare l’umanità sta anche nelle precise e dettagliate descrizioni dei luoghi, dei ritmi, delle regole e delle abitudini di quella “macchina per fabbricare cadaveri” che è il campo di concentramento nazista; si perché i tedeschi hanno uno spiccato senso dell’ordine e della precisione e ogni minima cosa, dal regolamento alle marce (“che giacciono incise nelle nostre menti…”) era stata studiata e premeditata per creare un “esercito di larve” che non avesse più niente di umano (“non pensano, non vogliono: camminano…”).
Rivolgendosi proprio a loro Levi dice:” Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo; non è stato agevole, non è stato breve ma ci siete riusciti, tedeschi…” Del resto “soccombere era la cosa più semplice”.
Da queste descrizioni ricaviamo proprio le notizie sulla struttura, sulla topografia del Lager: un quadrato di circa 600 m a lato, circondato da filo spinato, percorso da corrente ad alta tensione, costituito da 60 baracche in legno, i Blocks, più la cucina in muratura, le docce e le latrine ( una per ogni gruppo di 6 o 8 Blocks). Vi sono Blocks adibiti a scopi particolari, ad esempio l’infermeria, e i comuni Blocks divisi in “Tagesraum”, l’abitazione del capo-baracca, e dormitorio, con 148 cuccette strette e fitte “come celle di alveare”. Vi è poi la Piazza D’Appello, dove venivano radunati al mattino per l’appello, appunto.
Descrive, inoltre, il Ka-be, ovvero l’ospedale (“relativa parentesi di pace”), la Buna, ovvero la fabbrica a cui lavoravano i prigionieri di Auschwitz, e infine il Laboratorio di Chimica, meravigliosamente simile a qualunque altro laboratorio; per Levi infatti era straordinario e incredibile che in quell’ angolo dimenticato dal mondo ci potesse essere qualcosa di così familiare che lo riporta, con la mente, alla sua vita, ai suoi studi universitari.
IL TEMPO: Le vicende narrate si svolgono in più di un anno, dal dicembre ’43 al gennaio ’45. Il tempo nel Lager, com’è facile immaginare, non passa mai, “ i giorni si somigliano tutti e non è facile contarli…”. Non possedendo più orologi, il tempo è scandito dai ritmi di lavoro (“ … passano i prigionieri inglesi, sarà presto ora di rientrare…”), dalle sirene (“la sirena di mezzogiorno esplode ad esaurire le nostre stanchezze”), dalla sveglia (“…pur senza orologio, siamo in grado di prevederne lo scoccare con grande approssimazione…”), nonché tristemente dalla scomparsa dei compagni.
Non vi è la percezione del tempo, nel Lager non ha più senso contarlo; non si pensa più al passato, i più saggi non si prefigurano più un futuro ( tant’è che nel gergo del campo “mai” si diceva “domani mattina”, ad indicare la precarietà del destino); per loro “la storia si è fermata”, esiste solo il presente e il futuro immediato, con tutto il suo carico di problemi: “quanto si mangerà oggi, se nevicherà…”. Significativa è infatti l’espressione “la vita ha uno scopo: il nostro scopo è di arrivare in Primavera”, in quanto l’inverno aggravava la loro situazione a causa del freddo e delle condizioni disumane di lavoro (“il fango onnipresente”). Bastava poco infatti ai prigionieri per riuscire a trovare uno spiraglio di speranza e andare avanti; infatti Levi dice che “ in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza magari infinitesima ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere…”
Solo nell’ultimo capitolo, con l’approssimarsi della liberazione, si ricomincia a calcolare il tempo, segno che il Lager è ormai morto.
I PERSONAGGI: I personaggi che compaiono nel libro sono molto numerosi, ma la maggior parte viene ricordata da Levi in relazione ad una singola vicenda e solo a volte alcuni personaggi vengono ripresi. Fra quel “campione di umanità“ Levi individua due principali categorie, di cui uno già citato è quello dei “sommersi” o dei “musulmani”, di cui fa parte la stragrande maggioranza degli Haftlinge, ovvero i più deboli, i più sottomessi, quelli per cui vale il detto del Lager “l’unica cosa è obbedire”, quelli che “sono qui di passaggio e di cui non rimarrà che un pugno di cenere…”, che per Levi ben rappresenta l’immagine di tutti i mali del nostro tempo.
Ma ci sono anche i cosiddetti “salvati”, gli “adatti”, i candidati a sopravvivere, quelli per cui vale un altro detto del campo che è “A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto” ( paradossale ma vero! ). Sono quelli che lottano non solo per sopravvivere ma anche per mantenere un briciolo di dignità, di identità, che trovano espedienti per conquistare una razione di pane in più, un litro di zuppa in più, per fuggire ai lavori più duri e per farsi rispettare anche dai Kapos, che spesso trovano in questi soggetti i più forti “alleati” e fanno sì che godano di privilegi o che vengano promossi alle “alte cariche” pur di voltare le spalle ai compagni. Non c’è da meravigliarsi dunque se i “Prominenti” erano quasi tutti ex criminali o comunque persone senza scrupoli.
Tanto per citare qualche personaggio possiamo dire che dello sterminato gregge di musulmani facevano parte ad esempio Kraus, “l’uomo Kraus” ( ricordando la definizione data da Levi ai prigionieri: i non-uomini ) o anche lo stesso autore, che pur tuttavia è sopravvissuto; mentre fra il ristretto gruppo di “salvati” egli esamina quattro personaggi significativi: Schepschel che viveva di piccoli espdienti, come rubare una scopa e rivenderla, ma che, sempre per le caratteristiche dette prima, non esitò a far condannare un compagno e complice pur di ottenere una buona reputazione; l’ingegner Alfred L., il quale aveva elaborato e portato a termine un piano ben preciso, che consisteva nel curare meticolosamente il suo aspetto, per distinguersi dalla massa, e cerare di mettersi in mostra in quanto a disciplina, conoscendo l’esasperata dedizione all’ordine dei tedeschi, per guadagnarne infine il rispetto. Poi vi è Elias Lindzin che era “l’esemplare umano più idoneo a questo modo di vivere”, in quanto possedeva un fisico eccezionale che, per un’assurda legge del Lager, gli consentì di essere esonerato dal lavoro più faticoso. Infine vi è Henri, secondo il quale per sopravvivere nel Lager, vi sono tre regole: l’organizzazione, il furto e la pietà. Quest’ultima era il suo punto forte: egli sapeva come rigirare chiunque volesse, persino i tedeschi, e così godeva di molte amicizie e di molti protettori.
Questi, specie tra i lavoratori civili delle fabbrica, erano numerosi e in stretto contatto con i prigionieri, con i quali contrattavano scambi, per così dire “commerciali” o semplicemente ai quali offrivano ogni giorno qualche razione di cibo in più.
Lorenzo era appunto il protettore di Levi, ma con lui non aveva il solito rapporto tra prigioniero e civile; egli era semplicemente buono, “non pensava si dovesse fare del bene per una ricompensa”; Levi lo ricorda con infinita gratitudine perché, dice, proprio a Lorenzo deve di essere vivo, non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avergli fatto capire che ancora esisteva qualcosa o qualcuno di buono nel mondo. Lorenzo, infatti, è il solo “uomo” tra i personaggi del libro e grazie a lui, dice Levi, “… mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.”.
Il personaggio più importante e più presente nel ricordo del protagonista, però, è Alberto, “il mio amico non domato”, quello che per primo “ha capito che questa vita è guerra”. Alberto infatti era il miglior amico di Primo, erano inseparabili, venivano chiamati ”i due italiani” e, come dice l’autore stesso, rappresenta per Levi “la rara figura dell’uomo forte e mite”, un esempio. Era due anni più piccolo di lui, era al quarto anno di Chimica all’università e con Primo condivideva tutto: il ”protettorato” di Lorenzo, il cibo, le “imprese”; solo il ricovero per scarlattina di Primo non poté condividere e così, nella notte del 18 gennaio, partì insieme a tutti i sani, mentre Primo rimase con i malati nel Ka-be ormai abbandonato; quella fu la prima ed ultima volta che i due amici si separarono.

Se dovessi ridare un titolo al libro probabilmente sceglierei un’espressione ripresa da Levi in una delle sue domande retoriche: “STORIE DI UNA NUOVA BIBBIA”. Nel capitolo 6 ,Levi parla di un altro personaggio, Resnyk, e dice di aver dimenticato la sua storia, ma che certamente era uguale a tutte le altre storie, simili a quelle della Bibbia. Il riferimento è dunque alla persecuzione degli Ebrei e al rapporto di continuità tra il passato e il presente.

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