Scheda Libro sulla "Coscienza di Zeno"

Materie:Scheda libro
Categoria:Generale

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Data:18.12.2000
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Testo

Italo Svevo

La Coscienza di Zeno

L’AUTORE

Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz, nasce a Trieste nel 1861 da una famiglia ebrea della borghesia commerciale. La sua formazione culturale è fondamentalmente autodidatta (legge opere di Schiller, Heine, Goethe, Richter); frequenta la scuola israelita della sua città, quindi passa in un collegio in Baviera per proseguire gli studi commerciali che completerà in seguito a Trieste e per imparare il tedesco. In questo periodo comincia a scrivere testi teatrali.
In seguito al fallimento del padre, Svevo è costretto ad abbandonare gli studi per impiegarsi, nel 1880, alla Banca Union di Vienna, dove rimane per diciotto anni, anni descritti accuratamente nel romanzo “Una Vita”.
Più che soffermarsi sui grandi classici (Boccaccio, Machiavelli, Guicciardini, De Sanctis, Carducci), Svevo si interessa ai contemporanei, ai naturalisti francesi, soprattutto a Zola. Particolare è soprattutto la sua apertura alla cultura mitteleuropea: da Darwin a Schopenhauer, dai grandi narratori russi fino a Freud. D’altra parte Svevo vive a Trieste, città dell’impero asburgico e quindi di cultura tedesca, ma nello stesso tempo aperta sia al mondo slavo che a quello latino. Ed è proprio questa moderna ricchezza culturale di Svevo a determinare l’incomprensione in Italia. Infatti solo nel 1925 Montale si accorge della novità dei suoi romanzi.
In questo periodo pubblica alcune commedie su modello francese (Courteline, Zola), due novelle, una delle quali (L’assassino di via Belpoggio) diventerà famosa e il suo primo romanzo, “Una vita”.
Il 4 ottobre 1895 muore alle ore 4 e 7 minuti la madre di Svevo; questi numeri ricorreranno in maniera ossessiva nelle sue opere, in quanto egli si sentirà sempre colpevole di aver sofferto poco per la scomparsa della madre (nella Coscienza di Zeno registra il proposito di smettere di fumare alle “4-7 pom.”).
Nel 1896 sposa la cugina Livia Veneziani e nel 1897 nasce la figlia Letizia.
Del 1898 è il suo secondo romanzo, “Senilità”, ma l’insuccesso di quest’opera lo induce a rinunciare per venticinque anni alla letteratura (il cosiddetto “silenzio di Svevo”), a dedicarsi allo studio del violino e dal 1899 inizia a lavorare nell’industria dei suoceri (produttrice di vernice per imbarcazioni). Non abbandona del tutto la letteratura, infatti inizia a scrivere alcune novelle, testi teatrali e appunti per la futura stesura de “La coscienza di Zeno”. Nel frattempo approfondisce lo studio della lingua inglese. A questo periodo risalgono l’amicizia fra Svevo e Joyce, dal quale prende lezioni d’inglese e la lettura di Freud che lo porta a interessarsi della psicanalisi, vista da Svevo come “una grande filosofia” che permette all’artista di rinnovarsi (da qui nascerà la teoria del fraintendimento).
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale turba profondamente Svevo: la famiglia si disperde, la fabbrica di vernici è costretta a chiudere. Solo nel primo dopoguerra ricomincia a scrivere e nel 1919 finisce la stesura de “La coscienza di Zeno”, pubblicato nel 1923, anche se fino al 1925 non otterrà successo. Da questo momento inizia una nuova e feconda stagione creativa con la pubblicazione di novelle e testi teatrali.
Svevo muore nel 1928 in seguito a un incidente d’auto.

Il Pensiero
Italo Svevo si colloca in un’atmosfera culturale ormai novecentesca e ben distinta da quella decadente di cui rifiuta l’estetismo, il simbolismo, il maledettismo e la fuga della realtà. In particolare Svevo è attratto da Schopenhauer, Darwin, Marx, Freud e, negli ultimi anni, da Einstein. Tuttavia egli pensa che l’artista debba essere libero di “fraintendere” i vari pensatori allo scopo di trovare nuove soluzioni inventive e stilistiche. Così Schopenhauer non è per Svevo l’esaltatore dello spirito contemplativo ma l’assertore del “carattere effimero e inconsistente della nostra volontà e dei nostri desideri”. Più evidente è il fraintendimento di Darwin; infatti, l’applicazione della legge della selezione naturale e della lotta per la vita è vista da Svevo in senso opposto a quello di Darwin. Per Svevo l’uomo incapace di adattarsi all’ambiente rappresenta la punta più alta dell’evoluzione, in quanto è spiritualmente più forte e libero, non deve sacrificare la sua creatività per adeguarsi all’ambiente.
Per quanto riguarda il pensiero marxista, Svevo lo elabora in contesto pessimistico, escludendo la possibilità di integrazione fra individuo e gruppo sociale.
Infine Svevo si avvicina alle teorie sull’inconscio freudiano riproponendo le tematiche dell’inettitudine e della malattia, convinto però dell’immodificabilità del carattere e quindi dell’inefficacia delle terapie psicoanalitiche; resta fondamentale per lui non tanto la guarigione, ma la speranza nella guarigione. Con l’accostamento a queste teorie Svevo importa in Italia il romanzo psicoanalitico, improntato a un inquieto e morboso psicologismo.
L’elabarazione di tutte queste teorie porta alla centralità della figura dell’inetto nell’opera di Svevo, figura i cui tratti si possono ritrovare in Dostoevskij, Schopenhauer e Bourget, interpreti della malattia della volontà, della crisi dell’unità della persona, del disadattamento sociale.

TRAMA DELL’OPERA

Zeno Cosini, appartenente ad una ricca famiglia triestina, ritenuto inetto negli affari, in cura da unopsicanalista -il medico S.- scrive su invito del medico stesso la storia della sua vita. A libro finito arriva però alla conclusione che è inutile guarire dalla malattia e interrompe la cura. E così il suo medico per vendetta pubblica la storia. Il libro inizia proprio con questa lettera del medico di presentazione del libro. La narrazione non segue il tradizionale criterio cronologico, ma è strutturato per capitoli tematici che affrontano di volta in volta un aspetto della vita del protagonista.
“Il fumo”, con gli inutili tentativi di liberarsene con continue e lapidarie affermazioni come “ultima sigaretta”, continuamente smentite.
“La morte di mio padre”, che perseguita continuamente il protagonista nel ricordo perché, morente, il padre ha alzato la mano su di lui come per schiaffeggiarlo e l’equivoco è anche un esempio di come i fatti vengono malamente interpretati e filtrati dall’inconscio.
“La storia del mio matrimonio”, avvenuto per errore e come mezzo di ripiego all’ultimo istante. quando, in una seduta spiritica, crede di confessare il suo amoread A da Malfenti e invece sbaglia persona e si rivolge ad Augusta, la sua sorella brutta e strabica che si rivela però, una moglie premurosa e gentile e comprensiva.
“La moglie e l’amante”: Carla diventa l’amante di Zeno attraverso il pretesto di lezioni musicali e canore. Egli non si decide a scegliere tra moglie e amante (ragazza giovane e spregiudicata), e riesce anche a giustificare razionalmente questa situazione come una compensazione al suo carattere di “inetto”.
“Storia di una associazione commerciale”, egli entra in società con Guido Speier, che aveva sposato la sua Ada, ma Guido tradisce la moglie con la segretaria ed Ada si rivolge anche a Zeno e sembra si ridetermini una fiamma d’amore tra i due in occasione del falso suicidio di Guido. Guido infine si suiciderà davvero ma, anche lì, si tratta forse di un tentativo ingannevole poi terminato tragicamente a causa di una serie di circostanze. La ditta è mezza fallita e Zeno cercherà di tirarla fuori dai guai per salvare i soldi di Ada, ma in realtà il vero scopo è di prendersi una rivincita agli occhi della stessa Ada. Così, giunto in ritardo ai funerali, proprio per raddrizzare le vicende economiche della società, non parteciperà al funerale di Guido (ne segue erroneamente un altro), tirandosi addosso le reprimende di tutti e della stessa Ada.
“Psicoanalisi” è il capitolo che sancisce l'interruzione della psicanalisi e narra che durante la guerra intraprende riusciti commerci, finchè giunge al punto che “non si deve nè comprare nè vendere” e quindi la vita che fa non gli dispiace. La conclusione di Zeno è che “la vita attuale è inquinata alle radici” e sarà un malato che farà esplodere il pianeta collocandovi un ordigno al centro.
Nel romanzo uno stesso periodo della vita di Zeno viene rivisto più volte sotto ottiche diverse, mentre avvenimenti contemporanei tra loro sono raccontati in capitoli diversi, si perde dunque l'unità temporale del racconto, seguendo in questo i meccanismi dell'inconscio, dove non
esiste un tessuto temporale.

ZENO COSINI

E’ il protagonista del romanzo, non solo, ma è anche “il personaggio che dice io”, la voce che narra, attraverso il cui punto di vista, attraverso i cui occhi e la cui memoria noi apprendiamo tutto quanto nel romanzo succede. Lo vediamo, anzitutto, alle prese col vizio del fumo (cap. 3), e già qui egli dimostra alcune sue non secondarie caratteristiche: diviso tra il proponimento di liberarsi del vizio e la fedeltà al vizio stesso, egli, in realtà, resta attaccato a questa divisione o dialettica psicologica, e non si nega nè la libertà di fumare nè la libertà di immaginare un meraviglioso futuro per un se stesso liberato del fumo (si noti di quanti paradossi verbali sul concetto di libertà sia ricco, non a caso, il romanzo). Come ammette egli stesso: “Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quando è l’ultima. Anche le altre hanno un gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su se stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano“. Il suo modo di vivere, insomma, è quello di una lata, comoda e tutta interiore disponibilità a più destini che non vuol tradursi mai in una scelta decisa e pragmatica, perché questo comporterebbe una riduzione ed un impoverimento di sé, la morte di tutto quanto è stato sacrificato alla sola via che si è concretamente ed energicamente intrapresa. Non è che Zeno non voglia guarire, ma non vuole “soltanto” guarire: la sua inettitudine e il suo continuo procrastinare la soluzione dei propri conflitti psicologici sono un modo per garantirsi di poter soddisfare, nel loro continuo alternarsi, i propri desideri contrastanti, nel momento in cui essi si manifestano. Della ricchezza e complessità della sua vita spirituale, così, egli può fare la sua vera “professione”, divenendo un raffinato analista e auscultatore di sé, muovendosi ad accompagnare il più da presso possibile il succedersi dei propri istinti e desideri. Ciò di cui Zeno ha soprattutto paura è la rinuncia definitiva, la fine assoluta. Quando, a vent’anni, ammalato, si sente imporre un’ “assoluta astensione dal fumo”, la parola “assoluta” lo ferisce profondamente, e viene colto da un' “inquietudine enorme”: “Un vuoto grande e niente per resistere all’enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto”. Poco dopo, però, va da un altro medico proprio nella speranza ch’egli gli imponga di smettere di fumare. In proposito, del resto, egli sa essere molto chiaro: “Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: “mai più! “. Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.”: il che è una consolante teoria a che tutto sia mantenuto in vita.
Un comportamento non dissimile Zeno mostra nella sua vita di eterno studente universitario (di cui sempre apprendiamo nel terzo capitolo), che passa con disinvoltura da legge a chimica per poi tornare alla legge, che a trent’anni non abbandona il progetto di “iniziare” a studiare: “M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio. Quest’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo. Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge”. Anche qui la “pazzia”, la “diversità” o l’inettitudine di Zeno significa soprattutto la non-disponibilità a sacrificare, per ragioni d’ordine esterno, pratico o professionale, i propri bisogni spirituali e intellettuali, che sono naturalmente vani ed eclettici, che sono naturalmente contrastanti e si manifestano con vita e tempi propri; la non-disponibilità, ancora, a ridursi volontariamente in una porzione minima del sapere, della vita, rinunciando così a tutto il resto. Com’egli cercherà di spiegare alle Malfenti: “era certo che quando ci si rinchiudeva in una facoltà, la parte maggiore dello scibile restava coperta dall’ignoranza”, e aggiunge: “Se ora su di me non incombesse la serietà della vita - e non dissi che tale serietà io la sentivo da poco tempo, dacché avevo risolto di sposarmi - io sarei passato di facoltà in facoltà”.
Da tale disposizione d’animo, però, Zeno non pare guarito neanche dopo sposato. li capitolo sesto, infatti, narra di com’egli passi in continua altalena dalla moglie all’amante, sentendo il bisogno, appena soddisfatto il desiderio di Carla, di correre da Augusta, per essere ripreso poi poco dopo, accanto ad Augusta, dal bruciante desiderio di Carla. E naturalmente, anche qui, Zeno formula a ogni pie’ sospinto i migliori propositi, di cui poi immancabilmente procrastina l’effettiva attuazione, non riuscendo mai a rinunciare ad alcuno degli “elementi necessari” che fanno la sua “malattia”. Quando, ad un certo punto, si fa avanti il maestro di canto Vittorio Lali a chiedere la mano di Carla, egli viene preso dapprima da una terribile paura di “perdere per sempre la sua amante”, cui fa dunque una grande e falsa scena d’amore; poi, quando ottiene da Carla la decisa assicurazione che a lei, del Lali, non importa nulla, sente subito il bisogno di difendere le parti del povero maestro di canto, non volendo allontanare “troppo” l’idea di un esito vittorioso dei suoi propositi, sbilanciando così l’equilibrio del sistema: “Il mio apparente fervore [profuso nella dichiarazione d’amore] invece che diminuire aumentò, solo per permettermi di dire qualche parola d’ammirazione pel povero Lali. Io non volevo mica perderlo, io volevo salvarlo, ma per il giorno dopo”.
Nel quinto capitolo, invece, apprendiamo di come Zeno sia arrivato a sposarsi con Augusta. Innamoratosi, con gesto volontario, di Ada, deciso a dichiararlesi, si dichiara invece, neI buio, ad Augusta; dall’amata viene, poi, decisamente respinto, essendogli preferito il bello, giovane e disinvolto Guido Speier; fa allora, subito dopo, la stessa proposta di matrimonio ad Alberta, e va incontro ad un secondo rifiuto; si rivolge, infine, ad Augusta, che è innamorata di lui, e mentre sta già pentendosi, naturalmente, della sua arrischiata risoluzione, viene condotto al fidanzamento dal deciso assenso della ragazza. li matrimonio, nato per caso, sarà felicissimo, mentre quello di Ada e Guido si rivelerà disastroso: alle rovine di questo si assiste nel capitolo settimo, ove si narra, del resto, dell’evoluzione davvero “originale” (un totale capovolgimento, in un certo senso) dei destini dei personaggi.
La Storia di un’associazione commerciale è il racconto delle intraprese affaristiche dello Speier: costui, partito con grandi e “serie” ambizioni, si rivela un assoluto incapace e fallisce miseramente; Zeno invece, considerato da tutta la famiglia come un assoluto inetto alla vita pratica, come un individuo che avrebbe fatto bene ad astenersi da qualsiasi affare, è il solo che si faccia avanti generosamente ad aiutare il cognato, ed è proprio colui, di più, che miracolosamente riesce a rimediare, grazie ad arrischiate operazioni di Borsa, alle disastrose perdite del fallito.
Nell’ultimo capitolo, infine, Zeno racconta di come abbia deciso di abbandonare la psicanalisi, in cui non riponeva più alcuna fiducia, ch’era diventata per lui una tortura, e che lo ha lasciato più malato di prima. Scoppia, poi, la guerra, ed egli si ritrova solo e deve badare in prima persona ai suoi affari. Dopo un primo momento di attonita inerzia, egli si lancia con decisione nel commercio, e fa lucrosissimi affari: dalla sua intensa attività e dal suo trionfo ricava la convinzione d’essere perfettamente “sano", e di ciò vuol dar notizia al dottor S., scrivendogli di non avere più alcun bisogno di psicanalisi.
In conclusione però, anche per mettere meglio in luce il senso della “fortuna” di Zeno, conviene riportare quello che è forse il più efficace ritratto che di lui sia stato steso, ad opera, dei resto, dei suo stesso creatore: “Zeno è evidentemente un fratello di Emilio e di Alfonso. Si distmgue da loro per la sua età più avanzata e anche perché è ricco. Potrebbe fare a meno della lotta per la vita e stare in riposo a contemplare la lotta degli altri. Ma si sente infeiicissimo di non poter parteciparvi. E’ forse ancora più abulico degli altri due. Passa continuamente dai propositi più eroici alle disfatte più sorpredenti. Sposa ed anche ama quando non vorrebbe. Passa la sua vita a fumare l’ultima sigaretta. Non lavora quando dovrebbe e lavora quando farebbe meglio ad astenersene. Adora il padre e gli fa la vita e la morte infelicissima. Rasenta una caricatura, questa rappresentazione; e infatti il Crémieux lo metteva accanto a Charlot, perché veramente Zeno inciampa nelle cose. Ma fu già riconosciuto che abbandonando Zeno dopo di averlo visto moversi, si ha l’impressione evidente del carattere effimero e inconsistente della nostra volontà e dei nostri desideri. Ed è il destino di tutti gli uomini d’ingannare se stessi sulla natura delle proprie preferenze per attenuare il dolore dei disinganni che la vita apporta a tutti. E scoprendo tanto imprecisa la nostra personalità piuttosto oscurata che chiarita dalle nostre intenzioni che non arrivano ad atteggiare la nlostra vita, finiamo coI ridere dell’attività umana in generale. Ma Zeno si crede un malato eccezionale di una malattia a percorso lungo. E il romanzo è la storia della sua vita e delle sue cure“.

TEMI PRINCIPALI

L’ INCOMPARABILE ORIGINALITÀ DELLA VITA
Quando Zeno e Guido, dopo la verifica del disastroso bilancio della loro “associazione commerciale”, compiono insieme una seconda passeggiata notturna, ricalcando esattamente gli itinerari della loro prima, ch’era seguita alla seduta spiritica, Guido, ad un certo punto, provato dalle sue disgrazie finanziarie e familiari, esclama: “La vita è ingiusta e dura!”. Ma Zeno replica, favorito, al principio, da un’ispirazione un po’ casuale: “La vita non è nè brutta nè bella, ma è originale!”. Pensandoci, poi, e cominciando a trovare nel ragionamento le prime infallibili conferme alla sua affermazione, ha presto il sentimento di “aver detta una cosa importante", d’essersi impossessato di una di quelle chiavi di interpretazione della vita che “funzionano”, grazie alle quali il reale può venir colto in una sua sistematica e puntuale coerenza. Tanto che, in pratica, i vari casi narrati nel romanzo possono essere invocati ad esempio ed, anzi, giustificare l’affermazione che del romanzo Zeno abbia qui riassunta e reso esplicita una delle idee fondamentali e più generalmente diffuse, messa in campo in episodi e particolari minimi quanto nelle vicende che coprono l’intero arco dell’opera. Zeno per primo, con quel suo muoversi da “caricatura” un po’ “charlottiana", è la prima incarnazione, la dimostrazione vivente dell’ ”incomparabile originalità della vita”, sempre fuori tempo e fuori posto com’è rispetto alle situazioni reali ed al loro svolgersi, toccato da eventi che sono sovente l’opposto di quanto attendeva o desiderava. Gli esempi sono molti e sono stati più volte elencati: si ricordi soltanto l’episodio paradossale delle azioni della fabbrica di zucchero, per cui Zeno, per clamorosa sbadataggine, dimentica per vari giorni di vendere, come ragionevolmente gli era stato consigliato da Giovanni; poi, costretto da un acquazzone, si rifugia al Tergesteo e qui, del tutto per caso, incontra il suo agente che gli comunica che il valore delle azioni, nel frattempo, è quasi raddoppiato. O altrimenti, ma nel segno opposto, lo schiaffo ch’egli riceve dal padre in punto di morte, proprio nel momento in cui più profondamente sente l’affetto che lo lega al babbo e più teneramente vorrebbe dimostrarlo.
Si potrebbe argomentare in proposito, come è stato fatto, che tutto ciò è specchio dell’incapacità di Zeno, della “tara” tipica dell’eroe sveviano: “Una tale inettitudine, agli occhi di chi ne è afflitto, o anche di chi ne controlli i drammatici risultati, si solidifica nella maschera di una fatalità esterna: come se la vita, il mondo, il terreno della pratica, per una misteriosa erosione, si sgretolassero e fuggissero sotto il piede che, cautamente o impulsivamente, ma pur sempre in una maniera che pareva rispettare le regole del giuoco, si era avanzato per calcarli e impossessarsene”. Ma è anche vero che lo Zeno che scrive, lo Zeno che riguarda con l’occhio della memoria le vicende sue ed altrui, non può non cogliere le tracce di questa “originalità” un po’ dappertutto, anche nei casi di altri che pur poco sanno della “malattia" di Alfonso, Emilio e dello stesso Zeno. Il protagonista che scrive dimostra un orecchio, ormai, panicolarmente sensibile ed allenato a cogliere i suoni di questa “melodia della dissonanza”: che possono emanare, anche, da un “personaggio” decisamente “minore” come il violino di Guido: prima romanticissimo Galeotto che conquista il cuore di Ada, simbolo e artefice dell’unione tra i due (è Ada che, prima dell’esecuzione, porge a Guido lo strumento “con un sorriso di ringraziamento”, per poi riceverlo ancora dalle mani del musicista e ridiventarne amorosa e gelosissima custode: “Guido, prima di seguire gli altri, aveva posto il suo prezioso violino nelle mani di Ada. Volete dare a me quel violino? Domandai io ad Ada vedendola esitante se seguire gli altri. Ella esitò, ma poi una sua ‘strana diffidenza ebbe il sopravvento. Trasse il violino ancor meglio a sé; poi, al contrario, simbolo e artefice della disunione e della distanza tra i coniugi, e strumento utile ai tradimenti del marito (“Non soltanto Guido la tradiva, ma quando era in casa suonava sempre il violino. Quel violino, che m’aveva fatto tanto soffrire, era una specie di lancia d’Achille per la varietà delle sue prestazioni. Appresi ch’era passato anche per il nostro ufficio ove aveva promossa la corte a Carmen con delle bellissime variazioni sul Barbiere. Poi era ripartito perché in ufficio non occorreva più ed era ritornato a casa ove risparmiava a Guido la noia di dover conversare con la moglie“); oggetto, da ultimo, di un odio tutto speciale proprio da parte di colei che l’aveva cullato con tanto amore: “C’era una cosa che Ada specialmente odiava: il violino di Guido. Essa sopportava i vagiti dei bambini, ma soffriva orrendamente per il suono del violino. Aveva detto ad Augusta: Mi sentirei di abbaiare come un cane contro quei suoni!”. Lo strumento, naturalmente, non è che il “segno” dell’originale evolversi delle situazioni dei personaggi che ad esso sono legati. Di fronte alla sorte di Ada, travolta dalla malattia, Zeno si arresta con un sentimento di sorpresa: “Povera Ada! M’era apparsa come la figurazione della salute e dell’equilibrio, tanto che per lungo tempo avevo pensato avesse scelto il marito con lo stesso animo freddo col quale suo padre sceglieva la sua merce ed ora era stata afferrata da una malattia che la trascinava a tutt’altro regime: Le perversioni psichiche!”. Né meno sorpreso il protagonista deve trovarsi quando, appena formulata la sua teoria, vede Guido sdraiato sullo stesso muretto ove si era poggiato tempo prima, in identica posizione, la notte del fidanzamento suo con Augusta, quand’egli aveva desiderato di ucciderlo: confrontando la situazione di allora con quella presente, misurando il grande “improbabile” mutamento, egli non può che apprezzare una conferma tanto adeguata. Pensandoci, Zeno vede la sua idea scaturire altrettanto bene da un’osservazione dal di fuori e da un’osservazione dal di dentro: “Se l’avessi raccontata [la vita] a qualcuno che non vi fosse stato abituato e fosse perciò privo del nostro senso comune, sarebbe rimasto senza fiato dinanzi all’enorme costruzione priva di scopo. Mi avrebbe domandato: “Ma come l’avete sopportata?”. E, inforrnatosi di ogni singolo dettaglio, da quei corpi celesti appesi lassù perché si vedano ma non si tocchino, fine al mistero che circonda la morte, avrebbe certamente esclamato: “Molto originale!”. E non occorreva mica venire dal di fuori per vederla messa insieme in un modo tanto bizzarro. Bastava ricordare tutto quello che noi uomini dalla vità si è aspettato, per vederla tanto strana da arrivare alla conclusione che forse l’uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene “. Il senso dell’ “originalità della vita", allora, nasce dall’enorme mistero in cui essa, ai nostri occhi, è immersa, tanto da negarci la comprensione del suo scopo; e, che è poi lo stesso, dallo “scompenso” tra le nostre attese e “la curva che poi [essa] descrive, tra la nostra logica e la sua logica: un po’ come dice la umile storia della fantesca Maria, di cui Zeno ricorda: “Maria era una di quelle fantesche come non se ne trovano più. Era da noi da una quindicina d’anni. Metteva mensilmente alla Cassa di Risparmio una parte della sua paga per i suoi vecchi anni, risparmi che però non le servirono, perché morì in casa nostra poco dopo il mio matrimonio sempre lavorando... “.

L’IRONIA
E’ proprio assumendo su di sé, nei limiti del possibile, I’atteggiamento dei due osservatori sopra ricordati, quello esterno libero dalla cecità e dall’insensibilità ai fenomeni che vengono dall’abitudine ad essi, e quello interno, che non dimentica, di fronte ai risultati, le attese degli uomini, che Svevo-Zeno può sentire tutta la stranezza della vita, e renderne intero il senso nel suo racconto: l’ironia di tale racconto, allora, restituisce la stessa, intera ironia della sorte. Conformemente a ciò, il tono dominante della Coscienza non sarà di pesante drammatizzazione degli eventi; c’è piuttosto, ed è fondamentale, il distacco di un osservatore analitico, di chi racconta cose già vissute ed organizzate nella memoria, e, un po’, ha già assimilato la lezione, pur sapendo ogni volta rinnovare in sé il “sentimento” dell’imponderabilità del reale.
In un momento profondamente drammatico, come quello che immediatamente prelude alla morte
deI padre, Zeno racconta deII’ “ispirazione religiosa”, del “sentimento di una propria altissima intelligenza” che pervade l’animo dell’anziano genitore; ma non dimentica di aggiungere che “quel sentimento era il primo sintomo dell’edema cerebrale". Il “mistico indugio”, come scrisse Montale, viene “corretto” dalla notazione rudemente realistica: il distacco di Svevo-Zeno fa sì che esploda la grandiosa ironia della vita, per cui l’ultimo, altissimo momento di intelligenza dell’uomo coincide esattamente col primo segno del disfacimento delle sue facoltà cerebrali.
Ma, c’è da aggiungere, il distacco analitico di Zeno (dello Zeno che scrive), il suo occhio attento e disincantato, è esso stesso fonte di un’ironia “attiva”, quasi costante, quella per esempio con cui vengono messi a nudo certi propri atteggiamenti. Ricorda tra l’altro Zeno di sé che, innamorato di Ada, saliva le scale che lo conducevano dai Malfenti: “contavo gli scalini che mi conducevano a quel primo piano dicendomi che se erano dispari ciò avrebbe provato ch’essa mi amava; ed erano sempre dispari essendovene quarantatre”; o altrimenti, quando cercava di trattenere a sé Carla decisa a sposare il Lali: “Era evidente che la mia donna correva via, sempre più lontano da me. Io le corsi dietro follemente, con certi salti simili a quelli di un cane cui venga conteso un saporito pezzo di carne”. Ed è anche ovvio che la stessa ironia “attiva” (questa volta condivisa, spesso, anche dallo Zeno-personaggio), il protagonista metta in campo, col suo acuto e cinico spirito critico, per smontare le pantomime o le ridicole illusioni degli altri, per far crollare le loro sicurezze di carta, per evidenziare le loro più o meno gravi miserie. Già si è detto, per esempio, dell’ironia, pur via via sempre più ‘indulgente, con cui viene rivelata tutta la fragilità di Guido, la natura fanciullesca e comica di molti suoi atteggiamenti. E già si è detto, del pari, della talvolta feroce ironia da cui sono bersagliati i dottori, o dei presuntuosi come il Nilini. Sembra, allora, che l’ironia di Zeno sia un modo più saggio e avveduto di “stare dalla parte della vita“, adeguandosi nel profondo alla sua misteriosa complessità e “incomparabile originalità": l’atteggiamento più consono, insomma, di fronte all’enorme ironia del reale.

CONTEMPLAZIONE E LOTTA
A proposito dell’affermazione con cui Zeno proclama, alla fine del libro di essere “guarito”, c’è da notare che l’antinomia malattia-salute è poi solo un’ulteriore ipostasi del rapporto senilità-gioventù o contemplazione-lotta. Anche a Zeno, infatti, è toccata quella malattia che già era stata di Alfonso ed Emilio, di non sapere cioè (o non volere) partecipare alla lotta per la vita, di non essere un lottatore. Nel primo romanzo, “Una vita”, il protagonista Alfonso Nitti conosce un certo avvocato Macario, che ha eretto a propria filosofia i principi della struggle for life, che disprezza tutto quanto sia estraneo alla concreta e immediata competizione per il successo. Da lui ascolta, tra l’altro, una “lezione” che trae lo spunto dalla feroce rapidità con cui i gabbiani pescano il loro nutrimento: “Che cosa ci ha da fare il cervello? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono più. Chi non sa piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri”. Questa dura antitesi tra studio e caccia, tra pensiero e azione, tra contemplazione e lotta non è estranea, del resto, alla stessa vita di Svevo: la scomposizione, anzi, è tra due termini inconciliabili quando egli deve ammettere di non aver potuto dedicarsi alla propria vocazione letteraria, per un lungo periodo; per il timore di guastare la sua opera “attiva” di lavoratore esemplare: “Era una questione di onestà, perché poco ci voleva ad accorgersi che se scrivevo o leggevo una sola linea il mio lavoro era rovinato per una intera settimana". Altrettanto esplicite sono le parole da lui impiegate quando, nel dicembre 1902, pronuncia una sorta di atto di abbandono della letteratura: “Io, a quest’ora e definitivamente, ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. L’abitudine mia e di tutti gli impotenti di non saper pensare che con la penna in mano (come se il pensiero non fosse più utile e necessario al momento dell’azione) mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere. Poi la getterò per sempre e voglio saper abituarmi a pensare nell’attitudine stessa dell’azione: in corsa, fuggendo da un nemico o perseguitandolo, il pugno alzato per colpire o per parare". L’antinomia, però, ci pare ancora ben operante al livello dello Zeno, ove, anzi, è la chiave essenziale su cui viene condotto il rapporto tra Zeno e Giovanni (che è un po’ la reviviscenza, pur assai diversamente evoluta, del confronto tra Alfonso e Macario). Il Malfenti è un commerciante di successo, “ignorante ed attivo”, che “dalla sua ignoranza” trae “forza e serenità”. Ha in testa solo poche idee che sono diventate tutt’uno con la sua attività e con il suo stesso corpo: non c’è in lui, insomma, un pensiero distinto dall’azione e dal corpo, egli è un organismo del tutto omogeneo e compatto, un blocco di competitività pura: “Il Malfenti aveva allora circa cinquant’anni, una salute ferrea, un corpo enorme alto e grosso del peso di un quintale e più. Le poche idee che gli si movevano nella grossa testa erano svolte da lui con tale chiarezza, sviscerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi affari di ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere”. Per il Malfenti anche la lettura coincide perfettamente con la difesa del proprio interesse, è essa stessa attività e momento della lotta, mentre per Zeno è fonte di suggestioni che muovono il pensiero astratto, che distraggono e non si conciliano con l’attenzione al combattimento: “[Giovanni] pensava che tutti leggendo i giornali ricordino i propri interessi. Invece io, quando leggo un giornale, mi sento trasformato in opinione pubblica e vedendo la riduzione di un dazio ricordo Cobden e il liberismo. E’ un pensiero tanto importante che non resta altro posto per ricordare la mia merce”. Fino a Zeno, dunque, è giunta la malattia del contemplatore. Ma è proprio tutta la vicenda dello Zeno più chiaramente rispetto ai due precedenti romanzi, ad esprimere che, in fondo, da una tale “malattia" può anche non valer la pena di guarire: secondo ciò che scrisse lo stesso Svevo, in una lettera a Valerio Jahier del dicembre del ‘27: “E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio? Io credo sicuramente che il vero successo che mi ha dato la pace è consistito in questa convinzione. [...] Il primo che seppe di noi è anteriore al Nietzsche: Schopenauer, e considerò il contemplatore come un prodotto della natura, finito quanto il lottatore. Non c’è cura che valga. Se c’è sofferenza allora la cosa è differente: ma se questa può scomparire per un successo (per esempio la scoperta d’essere l’uomo più umano che sia stato creato) allora si tratta proprio di quel cigno della novella di Andersen che si credeva un’anitra male riuscita perché era stato covato da un’anitra. Che guarigione quando arrivò tra i cigni!”.

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