Scheda libro Il piacere di D'Annunzio

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Categoria:Generale

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Testo

Gabriele d’Annunzio

Il piacere

L’AUTORE

Nato nel 1863 a Pescara da un’agiata famiglia borghese, frequentò una scuola aristocratica, il collegio Cicognini di Prato. A sedici anni scrisse un libretto di versi, Primo vere, che suscitò una benevola attenzione. Ottenuta la licenza liceale si trasferì a Roma per frequentare l’università ma abbandonò quasi subito gli studi, dedicandosi a salotti mondani e alle redazioni dei giornali. Acquistò subito notorietà, anche grazie ad alcuni articoli che fecero scandalo per i loro contenuti pornografici. Ebbe una vita altrettanto scandalosa fatta di continue avventure galanti, lusso, duelli. Si crea la maschera dell’esteta, dell’individuo superiore che rifugge inorridito dalla mediocrità borghese rifugiandosi in un mondo di pura arte e accettando come regola di vita solo il bello. D’Annunzio attraversa una fase di crisi negli anni 90: lo scrittore cercò nuove soluzioni e le trovò in un nuovo mito, quello del superuomo, rifacendosi in parte alla filosofia di Nietzsche, un mito non più solo di bellezza, ma d’energia eroica, attivistica. Il superuomo resta comunque un vagheggiamento fantastico. D’Annunzio puntava a creare un’immagine di una vita eccezionale, sottratta alle norme del vivere comune. Si creò attorno a lui un alone di mito, dovuto anche ai suoi amori, specie quello lungo e combattuto che lo legò all’attrice Eleonora Duse. Con le sue esibizioni clamorose e i suoi scandali voleva mettersi in primo piano nell’attenzione pubblica per vendere meglio la sua immagine e i suoi prodotti letterari. Il culto della bellezza e del vivere inimitabile erano finalizzati al loro contrario: il denaro. Non si accontentò più di un vivere puramente estetico: vagheggiò anche sogni d’attivismo politico. Nel 1897 diventò parlamentare, come deputato dell’estrema destra coerentemente con le idee affidate ai libri in cui esprimeva il suo disprezzo per i principi democratici e il suo sogno della restaurazione della grandezza di Roma e di una missione imperiale dell’Italia, del dominio di una nuova aristocrazia che ripristinasse il valore della bellezza. Passò dopo allo schieramento di sinistra. Cercando uno strumento con cui agire di più sulle folle, si dedicò al teatro, in grado di raggiungere un pubblico più vasto. Nel 1910, a causa di creditori inferociti, scappò in Francia e qui iniziò a scrivere per il teatro francese. L’occasione tanto attesa per l’azione eroica arrivò con lo scoppio della prima guerra mondiale. Allo scoppio del conflitto tornò in Italia e iniziò una intensa campagna interventistica che ebbe un peso notevole nello spingere l’Italia in guerra. Si arruolò volontario all’età di 52 anni e attirò ancora l’attenzione con imprese clamorose. Anche la sua guerra aveva un che di eccezionale: non la combatté nella polvere e nelle trincee, ma nell’aria, grazie agli aerei. Nel dopoguerra si fece interprete di rancori per la "vittoria mutilata" e instaurò un dominio personale sfidando lo stato italiano. Scacciato con le armi nel 1920 sperò di proporsi come duce di una rivoluzione reazionaria che riportasse ordine nel caos sociale del dopoguerra ma fu scalzato da un politico più abile, Benito Mussolini. Il fascismo lo esaltò come padre della patria ma lo guardò con diffidenza, relegandolo in una sontuosa villa, il "Vittoriale degli italiani". Qui pubblicò alcune opere di memoria e, ossessionato dalla decadenza fisica, morì nel 1938. Influenzò in numerose fasi la letteratura italiana con la sua produzione abbondante; esercitò un importante influsso anche sulla politica poiché elaborò ideologie, atteggiamenti e anche slogan che furono presi dal fascismo. Lasciò anche una importante impronta sul costume, originando il dannunzianesimo, che segnò il comportamento di intere generazioni borghesi; influenzò anche la nascente cultura di massa, come produzione letteraria di consumo. Il cinema, alla sua nascita negli anni dieci, fu profondamente dannunziano.

TRAMA DELL’OPERA

Libro primo

Il romanzo si apre al centro dell’azione narrata: Andrea Sperelli, il protagonista, è nelle sue stanze, in attesa dell‘ex amante, la duchessa di Scerni, Elena Muti, che ha accettato il suo appuntamento dopo una lunga separazione.
Mentre pregusta la gioia che la visita dell’amante gli procurerà, Andrea ripensa al “giorno del gran commiato”. Elena lo ha lasciato senza una spiegazione, durante una gita romantica “fuori della Porta Pia”, adducendo come unico motivo il fatto che deve partire. I gesti e le parole di entrambi dimostrano che il loro amore non è finito; essi si amano e si desiderano come nei momenti più alti del loro rapporto, eppure quella inebriante relazione deve concludersi. Né Andrea sa opporsi più di tanto alla risoluzione dell’amata, anticipando al lettore i tratti della propria sostanziale fragilità. Quando poi la sera, trovando in casa un oggetto dell’amante, il ricordo dell’abbandono e della sua infelicità divengono insostenibili, non sa fare di meglio che esasperare la sua pena con inutili pensieri.
L’attesa dell’incontro si prolunga, tra paure improvvise e ansie palpitanti; ma dentro di sé Andrea è sicuro che la messinscena predisposta avrà ragione di eventuali ritrosie di Elena: infatti tutto è costruito e sistemato senza nessuna casualità, ma al contrario la scelta degli oggetti e la loro collocazione è frutto di studio, di amore, di sensibilità. Ma il pensiero del protagonista torna subito all’amata: ella nel frattempo si è sposata con un Lord inglese, ponendo improvvisamente fine alla sua allegra vedovanza. Il pensiero dell’amante fra le braccia di un altro gli riesce insopportabile, ma finalmente il lieve, femminile rumore che proviene dalle scale pone fine alla lunga attesa. In quei luoghi, dov’è stata felice, Elena Muti subisce il fascino del ricordo e delle cose predisposte dall’amante; ma cerca disperatamente di resistervi. Ora è un’altra donna, che ha accettato l’invito solo in memoria dell’amore trascorso, per offrirsi ad Andrea non più come amante, ma come “sorella più cara, amica più dolce”. Ama ancora, ricorda con passione l’ebrezza che Andrea le ha donato e ne è attratta, ma è nello stesso tempo decisa a non riallacciare quella relazione. Andrea, invece, abbagliato dal suo splendore presente quanto dal ricordo di una sfrenata passione, è più che mai intenzionato a farla nuovamente sua. La commozione e l’ardore che prova gli suggeriscono parole infiammate, seppur menzognere, tali da accendere l’animo della donna, che tuttavia continua a resistergli. Tanto che, quando l’amante fa diventare più pressanti le sue avances, non esita a porre la “domanda crudele” per fermarlo: “soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo?”. Andrea non può non accusare il colpo; anzi, questo è tale che l’incontro tra i due praticamente si chiude su quella battuta, prima freddamente, poi con uno struggente saluto.
Con la fine del colloquio si conclude il primo dei cinque capitoli da cui è composto il libro primo: da lì inizia il viaggio a ritroso che ha per apertura la descrizione del protagonista: il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta. Rimasto signore di una discreta fortuna in giovane età per la morte del padre, è il nobiluomo alla ricerca del grande amore, educato “al culto della Bellezza”, attento cultore delle Muse. L’incontro con Elena Muti fa presagire il raggiungimento della meta. Il loro è un amore annunciato: entrambi giovani, belli, liberi da vincoli, amanti dei piaceri della vita e squisiti cultori del bello in tutte le sue forme, non possono che arrendersi, e volentieri, alle circostanze. Naturalmente la loro conoscenza, come lo sbocciare del loro amore, sono legati ad un esempio di ricevimenti del bel mondo, un pranzo raffinato offerto dalla cugina di Andrea, Francesca d’Ateleta. Ha poi particolare rilievo un’asta, che ha luogo il giorno successivo a quello della loro conoscenza: fra Lords e gioielli, cammei e pregevoli avori, l’estenuante duetto amoroso consuma un’altra tappa, quella che fa indovinare ad Andrea la sintonia spirituale e artistica con Elena e la loro consonanza di gusto.
Quando lo scenario cambia non perde in raffinatezza: Andrea sosta nella sua dimora romana, palazzo Zuccari, e si rende conto che la duchessa “amerà la sua casa”, con quell’artistico lusso. A questo punto si reca subito in casa Doria, dove i balli e i pettegolezzi si snodano tra busti dei Cesari e affreschi di Annibale Caracci. Là si reca anche Elena, pur se già sofferente per un’indisposizione, al fin di ascoltare le rinnovate profferte d’amore e per confessare: “Son venuta qui per voi soltanto”.
La malattia impedisce loro per qualche giorno di vedersi, ma l’impazienza di Andrea non conosce ostacoli, così si reca direttamente a casa della donna e viene ricevuto, a differenza dei precedenti visitatori, nella camera dell’inferma. Sarà lì che si consuma per la prima volta il loro amore, tra dolcezze estenuanti e tristezze già incombenti, con segnali non secondari della tendenza dannunziana ad una certa perversione: come la preparazione ed il finale dell’episodio, tristi e funerei a dispetto della centralità della scena d’amore, la citazione di un “soggolo monacale”, il possesso che avviene durante la malattia della donna.
La relazione prende quota e per un po’ sembra dimentica del mondo. Pur sempre in presenza di ombre, l’amore si esalta al punto di stimolare le aspirazioni artistiche dello Sperelli, che si diletta nell’incidere e nel versificare. Prende così corpo una forma di identificazione con l’autore che diventerà poi più evidente ed addirittura esplicita, fino a giungere all’autocitazione. Ma nel frattempo giunge l’addio di Elena, improvviso e immotivato, proprio quando l’amore è al culmine e la stagione primaverile, ingentilendo le cose, sembra preludere a una nuova fase del loro rapporto. Il colpo inatteso tramortisce Andrea, che ne resta sbigottito e che per reazione si lancia in una serie di avventure, agevolate dalla fama ormai acquisita di conquistatore. Naturalmente le “prede” sono tutte titolate e bellissime. “Ciascuno di questi amori portò a lui una degenerazione novella; ciascuno l’inebriò d’una cattiva ebrezza, senza appagarlo; ciascuno gli insegnò una qualche particolarità e sottilità del vizio a lui ancora ignota. Egli aveva in sé i germi di tutte le infezioni”. Gettatosi a capofitto nel “Piacere”, non riesce a stordirsi a sufficienza, non tanto almeno da dimenticare l’amata, delle cui seconde nozze gli giunge intanto notizia. Corteggia così impetuosamente Donna Ippolita Albonico, stimolato dal solo nome, dal capriccio di donarle il gioiello comprato all’asta sul quale era incisa la scritta: “Tibi, Hippolyta”. La conquista, non più difficile delle altre, trova però l’ostacolo della gelosia dell’amante della donna, tanto che i rivali giungono a sfifarsi a duello; prima però sono costretti dalle circostanze ad affrontarsi in una corsa a cavallo riservata ai gentiluomini, nella quale Andrea vince con facilità. Il duello, col suo rituale di medici, di secondi e di regole, ha luogo in un’ennesima villa, Villa Sciarra. Dall’alto della sua migliore impostazione tecnica Andrea domina facilmente l’avversario, toccandolo a più riprese con lucida freddezza; ma un colpo fortuito e rabbioso del rivale lo tramortisce. Impeccabile il referto: “Ferita toracica, al quarto spazio intercostale destro, penetrante in cavità, con lesione superficiale del polmone”.

Libro secondo

Dopo la ferita mortale Andrea rinasceva a poco a poco, quasi con un altro corpo e un altro spirito.
La già marcata tendenza all'estetismo si fortifica così sul versante più propriamente mistico-spirituale; immerso nella contemplazione e nello studio, fra gli altri, dei libri sacri indiani, si purifica, rinnegando la vita precedente, il piacere, il desiderio. La sua vita gli pare però completamente inutile, perduta; Andrea si sente improvvisamente solo, senza legami certi, senza speranze. La vita vissuta è tutta una continua degradazione di cui il suo animo adesso si vergogna, ma è sufficiente una notte di profondo riposo per risorgere alla speranza, per ritrovare il senso del desiderio. La poesia, il verso, gli appaiono come il punto di arrivo, come lo stesso d'Annunzio, “un poeta contemporaneo”, aveva teorizzato. Così Sperelli-d’Annunzio, svelata la sua abitudine di iniziare i componimenti poetici prendendo spunto da “una intonazione musicale datagli da un altro poeta”, si getta nuovamente nella fatica-ebrezza della composizione. Questo è sufficiente per ricondurlo alla serenità, così che il racconto, tutto vissuto interiormente dopo il duello, può ritornare a una dimensione collettiva. Apprendiamo così che la convalescenza di Andrea sta trascorrendo nella campagna di Rovigliano, a villa Schifanoja, sotto le vigili cure di sua cugina, la marchesa Francesca d’Ateleta. Ormai chiusa quindi la fase di vera e propria convalescenza, dell’anima e del corpo, la narrazione si apre ad un nuovo personaggio, destinato a divenire centrale nel romanzo. Giunge infatti a Schifanoja un’amica di Francesca, Donna Maria Ferres, la moglie del ministro plenipotenziario di Guatemala. Non è ancora giunta che Andrea riscopre d’un tratto tutto il potere dell’”eterno feminio”: vederla e ascoltare la sua voce (che ricorda quella di Elena) fanno il resto. Riprende quindi la gara con se stesso e con la dama, tramite stavolta la passione musicale di lei, abile al pianoforte e dalla voce melodiosa. La sua cosa più bella sono i capelli, il suo amore più dolce è per la figlia, il suo aspetto è monacale, la sua ritrosia è assoluta: è insomma l’esatto contrario di tutte quelle donne che sono passate nel letto e nel cuore di Andrea e proprio per questo egli fortemente se ne invaghisce, pur se continua inconsciamente a pensare ad Elena. Il corteggiamento indiretto è attento e squisito, ma, non appena se ne presenta l’occasione, il conte si lascia andare a una controllatissima dichiarazione: il tramite è naturalmente fornito dalla sua poesia, che egli sfrutta abilmente per commuovere l’amata. La “finzione” di Andrea è naturale, non precostituita: le sue contraddizioni lo conducono a una sorta di sincerità interna alla finzione, per cui non solo risulta convincente per i diversi destinatari della propria eloquenza sentimentale, ma è del tutto convincente proprio in quanto egli stesso è trascinato dalla foga e dall’entusiasmo. Le sue parole sono assai calibrate: esplicite nel dichiarare l’amore, ma contenute nella forma e negli atteggiamenti; pronte per essere interpretate come irresistibile slancio passionale, ma contemporaneamente del tutto rispettose e testimoni della disposizione al sacrificio, alla rinuncia. L’ingenua e casta Maria è in grande affanno, travolta dagli eventi che la vedono in bilico tra una pruderie radicata fin nel midollo e il turbine di sensazioni nuove e sconvolgenti da cui non sa difendersi. L’alternata presenza della figlia può ancora toglierla d’impaccio, lasciando Andrea senza una risposta, senza un’indicazione certa dei suoi sentimenti. Tanto che d’Annunzio, pur avendo fatto ampiamente intuire il turbamento della donna e presagire il suo cedimento, ricorre a questo punto ad un espediente narrativo non strettamente indispensabile, inserendo nel testo pagine di diario della Ferres, che ripercorrono le stesse vicende, più alcune seguenti, fino alla partenza di tutti gli ospiti da villa Schifanoja. Nei primissimi giorni il conte non compare nel diario se non sporadicamente, come cugino dell’amica e ospite; ma è già presente nella donna un’evidente eccitazione, apparentemente immotivata, che le procura giornate deliziose. Subito il convalescente trova però ampio spazio grazie alla sua vena artistica, come autore di raffinate poesie e di pregevoli incisioni, come fine musicologo e brillante conversatore. Gli atteggiamenti dello Sperelli, quasi innavertitamente, ma con somma sapienza, stimolano di continuo la curiosità della donna, la provocano o la blandiscono, le danno talora la sensazione di rappresentare il centro dell’universo o la ignorano deliberatamente e misteriosamente. Così, dopo appena una settimana, tutto il lavoro preliminare dell’amore è già compiuto. Maria si illude che il rapporto con Andrea, da cui è fortemente tentata, possa avere un suo percorso silenzioso, del tutto platonico e neppure manifestato: una comunione di anime che escluda la comunione dei corpi. Rendendosi conto che il suo progetto è irrealizzabile, ella si convince che l’unica salvezza possibile è la totale rinuncia a quell’amore. Si rifugia allora nella fede religiosa e nell’amore verso la figlia, ma non sono rimedi sufficienti né idonei per guarire da una malattia che non ha ancora toccato il suo apice. Andrea incalza l’amata, non le dà tregua, rinnova le sue profferte d’amore trasformandole in moto passionale incontenibile: Maria confessa il suo amore e fugge piangendo. Quando ancora non si è ripresa dallo choc di avere dovuto rivelare il suo terribile segreto, un altro dolore la tormenta, altrettanto amaro e senza nessun risvolto di possibile sollievo: si rende conto infatti che Francesca, l'adorabile amica, soffre in silenzio per suo conto della situazione, essendo segretamente innamorata del cugino. Almeno questo dolore potrà essere alleviato dalla reciproca, tacita comprensione delle due amiche, che si sciolgono in pianto commiserandosi senza bisogno di formulare parola. L’amore di Francesca, esplicito solo in queste poche pagine e solo nelle supposizioni dell’amica, in realtà accompagna il protagonista fin dall’inizio. Ma in forma così discreta, non evidente, anzi abilmente sfumata, che era facile scambiarlo per una normale affezione fra consanguinei; poi all’improvviso, pur se non in maniera inattesa, in modo altrettanto placido ritorna ad essere patrimonio esclusivo della fiera marchesa, che lo custodisce senza perdere la capacità di scherzare col cugino perfino dei suoi amori. Diversamente accade per Maria Ferres, che vede nell’imminente partenza da Schifanoja una fuga salutare e opportuna: ma al tempo stesso la separazione dalla persona amata la sconcerta e l’addolora, così che le pagine del diario si chiudono con l’ulteriore conferma di un amore che ormai è disposto a tutto, almeno inconsciamente, pur di realizzarsi.

Libro terzo

L’attenzione dello Sperelli è ora rivolta a riconquistare la città: la vecchia vita, addormentata dalla lunga convalescenza, torna a sorridergli e a tentarlo. C’è subito l’opportunità di tuffarsi nel clima, un po’ goliardico un po’ ricercato, di Roma grazie alla visita di tre amici, compagni di avventure. Naturalmente la conversazione, superati facilmente i convenevoli, ha per oggetto le donne. Le lunghe e piccanti confidenze sono il prologo del rientro di Andrea in società; nel prepararsi a una cena con gli amici e a una notte con una vecchia fiamma, egli sente un po’ di rammarico, sfiorato dal ricordo della Ferres. Ma per il momento mette da parte ogni scrupolo e si getta nella vita di un tempo con un entusiasmo sforzato. Il ritorno in grande stile al Piacere non soddisfa più di tanto Andrea: donne, bella vita, Roma, Londra e Parigi, gli lasciano ora un senso di vuoto e di nausea; ciononostante non riesce a distaccarsene. E’ a questo punto che l’azione prende il giusto andamento cronologico; l’incontro con Elena Muti riporta infatti il livello narrativo al momento originario, all’indomani dell’incontro col quale si era aperto il romanzo. Elena è sempre rimasta presente nei pensieri di Andrea, che non è mai riuscito a capire il perché di un abbandono avvenuto quando il loro amore sembrava al culmine. Soltanto adesso scopre la verità, cioè che la donna, sull’orlo di una gravissima crisi finanziaria, ha potuto trarsi d’impaccio solo grazie a un matrimonio d’interesse con Lord Heathfield, un ricchissimo nobiluomo inglese. Andrea si sente offeso, ingannato e tradito; così, mentre il desiderio per la donna cresce, anche a condizione di doverla dividere col marito, una rabbia violenta e impotente lo attanaglia. Mentre cammina per le strade della città rivive disperatamente il recente colloquio, che conferma nel suo animo l’idea di un’Elena crudele e ingannatrice: quasi per contrasto, allora, ritorna l’immagine dolce di Maria Ferres e le due donne, come già è avvenuto, tendono a sovrapporsi nel suo animo. Ma l’idea della vecchia amante è ancora troppo forte, tanto che Andrea, tornato a casa, non trova riposo al pensiero di lei tra le braccia del marito. Giunge infine alla conclusione, per lui sorprendente, che “penetrando nell’animo della donna, egli penetrava nell’anima sua propria e ritrovava la propria falsità nella falsità di lei; tanta era l’affinità delle due nature”. Ne consegue che il loro rapporto non potrà più essere un rapporto completo, perché “ingannare sapendo d’essere ingannato è una sciocca e sterile pratica, è un giuoco noioso e inutile”. Si ripromette così di conquistarla nuovamente, senza affrettare i tempi e senza la pretesa di ritrovare un amore che, nella sua più completa accezione, è ormai perduto. Ma la passione per Elena continua a bruciare; nei giorni seguenti la incontra a teatro e, con un significativo distacco da parte della donna, Andrea riesce a ottenere un nuovo appuntamento. A palazzo Barberini egli trova la donna in compagnia del marito, entrambi intenti a disporre l’arredamento nella casa che intendono abitare: a contraggenio è costretto a fornire la sua consulenza di nobiluomo dai gusti raffinati, mentre cresce la sua rabbia contro la donna. Quasi per bilanciare la profonda delusione, la sera stessa viene a sapere, da un incontro occasionale col marito, che Maria Ferres è appena tornata a Roma. Intanto gli giunge anche notizia della prematura morte di Donna Ippolita, per la quale aveva rischiato la vita nel duello con Giannetto Rutolo.
Già dal giorno successivo Andrea si accerta dell’animo di Maria, per capire se la lontananza abbia indebolito il potere che ha cominciato ad esercitare su di lei: l’incontro conferma che niente è cambiato, anche se perdura nella senese una ferrea volontà di opporsi al suo desiderio. Ma Andrea ha ormai ben compreso quel carattere, per cui non corre il rischio di rovinare tutta la sua applicazione con mosse premature. Programma quindi innocenti incontri, come la presenza ad un concerto cui assiste casualmente anche Elena. Tale combinazione lo stimola, pur imbarazzandolo al quanto e fa comunque nascere più chiaramente l’idea della fusione di quei due amori fortemente voluti, anche grazie alla nascita di una punta di gelosia che gli sembra di scorgere in entrambe. La conferma della gelosia gli viene dall’insistenza di Maria nel sottolineare la bellezza della Muti, così come dall’invito di quella nella propria carrozza, dopo che Maria se né andata. E infatti, dopo tanto ritrosia e freddezza, Elena bacia appassionatamente Andrea, pur lasciandolo subito dopo un po’ spaesato ma felice. Seppur attratto dall’improvviso bacio di Elena, la preda più ambita continua ad essere la Ferres, nei confronti della quale Andrea prosegue l’opera iniziata senza alcuno scrupolo, senza preoccuparsi delle continue menzogne e della perdizione cui conduce se stesso e la donna. L’eccitazione della possibile conquista e il gusto della caccia lo spinge a privilegiare il corteggiamento assiduo della senese, che è sempre in bilico tra la radicata castità e un’attrazione che diviene, giorno dopo giorno, sempre più sensuale, da intellettuale che era. Intanto Elena lo invita un po’ misteriosamente per la notte davanti al suo palazzo: egli in quel momento “inchinava più verso la senese che verso l’altra”, ma l’invito è ugualmente troppo stimolante per non stuzzicarlo. Aspetta incuriosito in carrozza abbandonandosi ad arditi pensieri riguardo le due donne, ma poi egli si adira per l’inutilità di quell’appuntamento, resa evidente dal fatto che nel frattempo Elena ha fatto tranquillamente ritorno a casa, nella sua carrozza, senza poi recarsi da lui. Avendo ormai Andrea scelto in cuor suo, per quella notte, l’altra donna, la rabbia è dovuta più all’aver predisposto una scena d’amore inutilmente, che alla delusione che gli deriva dal mancato appagamento. Le rose bianche predisposte per l’amore, in perfetta sintonia con la nevicata notturna, andranno allora a rendere il doveroso omaggio altrove, gettate a fascio davanti alla porta della Ferres. La donna, quasi in attesa di un simile gesto in una notte come quella, sta spiando dai vetri la strada sottostante: vedere l’amato compiere un tale gesto la convince dell’inevitabilità di quel rapporto. Per questo i loro incontri si intensificano, permettendo ad Andrea di condurla sugli itinerari preferiti dal suo cuore, quegli stessi su cui aveva condotto per mano Elena, appena due anni prima, nei giorni del loro amore.

Libro quarto

Non bastano al conte le crescenti dimostrazioni d’affetto di Maria per dimenticare l’amante infedele. L’inutile attesa nella carrozza, se sul momento è stata assorbita dal pensiero dell’altra donna, ha tuttavia ancora di più esacerbato il suo desiderio. Così egli si trova a dovere sopportare le manie di raffinato collezionista del marchese suo consorte, pur di avere occasioni per starle vicino, per chiedere spiegazioni e riallacciare i contatti. Tali momenti sono per Andrea una vera tortura, perché gli atteggiamenti (e le collezioni) del marchese sono così sfacciatamente improntati alla perversione, ad una sensualità così sfrenata, che egli mal sopporta l’idea dei rapporti coniugali di lui con la divina Elena. La rabbia e il disgusto sono tali che non sorprende l’esasperazione del pensiero di uccidere lui, possedere lei e poi uccidere se stesso.
Nel frattempo Maria ha finalmente ceduto, però è gelosa, non solo di quello che ha da essere, del presente, ma perfino dell’immutabile passato: pertanto la sua situazione non è delle più serene, oppressa come si trova tra sensi di colpa, gelosie, pentimenti e grandi gioie che si alternano a grandi delusioni. Resta il fatto che il rapporto con Andrea le ha dischiuso nuovi orizzonti, è ancora in grado di fornirle stimoli e sensazioni sempre nuovi e rinnovati. La raffinatezza dell’amante è sempre all’altezza della fama che si è conquistato, per cui Maria continua a subire il fascino di quel superbo ingannatore. Infatti la mente di Andrea, ora che possiede il corpo di Maria, ritorna inevitabilmente e in modo ossessivo a quello di Elena. La Ferres diventa quindi soltanto un inconsapevole strumento per placare la sua smania, tanto che subisce la violenza dell’amante, reso quasi pazzo dal ricordo della Muti.
Continuando a frequentare il bel mondo, viene intanto a conoscenza del fatto che don Manuel Ferres, il marito di Maria, sta per essere travolto da un grave scandalo, essendo stato sorpreso mentre barava al gioco. Chi gli racconta il fatto è proprio il giovane gentiluomo che sta per prendere il suo posto come amante della Muti; egli riesce a scherzare sull’argomento con ben celata indifferenza, arrivando perfino a dare consigli al rivale; ma il tarlo di quel mancato possesso, in presenza di chi invece ne potrà godere, lo rode ancora più atrocemente. L’amore di Maria gli è ormai quasi indifferente, se non nella misura in cui approfitta del suo corpo per illudersi di possedere l’altra.
Intanto Maria deve affrontare la bufera dello scandalo legato al marito; il diplomatico si è nel frattempo dileguato, lasciando la moglie sola a combattere contro la rovina morale ed economica. Ella viene infatti perseguitata dai numerosi creditori del marito, rifiutata dalla società romana in cui ha vissuto gli ultimi tempi, ma non si perde d’animo e affronta tutto convinta di subire una giusta punizione per il suo comportamento. Rivelando un’insospettata forza d’animo e un’energia che la natura dolce non faceva presagire, si carica di tutte le responsabilità e vi fa fronte allontanando la figlia e rifiutando aiuti da tutti, perfino da Andrea. Ormai si trattiene a Roma solo il tempo necessario per ultimare la definizione delle pendenze del tracollo, in attesa di recarsi definitivamente a Siena per raggiungere la figlia e la madre. Ai molti debiti risponde con la messa all’asta dei suoi beni, mentre il cuore si concentra sempre più sull’amante, che è l’unico a non averla abbandonata a se stessa, seppur per motivi che lei neppure lontanamente sospetta. Cerca quindi di ricevere da quel rapporto tutte le dolcezze possibili prima di una separazione che sente come definitiva, nonostante le promesse di Andrea. Non mancano tra i due momenti di struggente tenerezza, anche se l’amante, preso dalla sua folle necessità di sovrapporre l’immagine delle due donne, la costringe spesso ad amplessi furibondi. Si scontrano quindi la perversa attrazione psico-fisica di Andrea e la legittima e sognante voglia di lei di un rapporto affettuoso, che risponda al desiderio di sentirsi protetta. Anche se Andrea, egoisticamente e brutalmente, giunge al punto di morsicarla con violenza durante l’amore per trattenere in gola il nome di Elena, Maria subisce trasognata, accontentandosi magari di una visita al cimitero inglese per rendere omaggio alla tomba di Shelley, il poeta che aveva tenuto a battesimo il loro amore.
Entrambi vivono dunque una specie di sogno, riponendo l’uno nell’altro desideri e aspettative che appartengono soltanto alla loro fantasia, ma di cui non sono più capaci di fare a meno. Andrea è talmente ossessionato che, ricevuta in confidenza la conferma che Elena ha ormai un nuovo amante, la segue mentre si reca all’appuntamento d’amore. Poi, con la morte nel cuore e l’immagine di lei nella mente, attende Maria per scaricare su di lei il suo impossibile sogno. Ma stavolta Sperelli è troppo fuori di sé, tanto che il nome così lungamente trattenuto gli sfugge di bocca. Maria, in un attimo, comprende tutto; piena di orrore e di pena, talmente sconvolta da apparire fuori di sé, come un automa se ne va, mentre Andrea disperandosi cerca inutilmente di trattenerla. E’ l’epilogo. Non resta infatti ormai niente altro che il tempo per compiangersi. Lo Sperelli lo fa visitando la casa ormai vuota di Maria, mentre rigattieri e usurai si contendono all’asta le sue cose. Ormai fuori poso ovunque, si aggira nelle sale sfuggendo agli sguardi degli amici di un tempo, quasi vergognoso e timoroso. Acquista alcuni oggetti della donna e poi fugge, consapevole del completo fallimento della sua vita, nonché della crisi irreversibile di quel mondo fatato in cui ha condotto l’esistenza.

COMMENTO

“Il piacere” (1889) è il primo romanzo dannunziano e il primo di una trilogia, “I romanzi della Rosa”, che comprende “L’innocente” (1892) e “Il trionfo della morte (1894).
L’importanza dell’opera trattata, non solo sul piano letterario, ma anche su quello del costume, consiste anzitutto nel fatto che con essa viene introdotto in Italia quel tipo di eroe decadente esemplificato già in Francia da Des Esseintes e, qualche anno dopo, in Inghilterra da Dorian Gray: raffinato e gelido, cultore solo di quel bello che, attraverso l’artificio sia riscattato dalla piatta dimensione naturale, aristocratico spregiatore del “grigio diluvio democratico odierno che tante belle cose e rare sommerge miseramente"” Ma il romanzo ha un altro motivo d'’nteresse: la carica vitalistica e sensuale delle prime raccolte di versi dell’autore si è complicata e corrotta: il sessualismo diventa lussuria, la disponibilità alle sollecitazioni sensoriali della natura diventa ricerca dell’artificio. Con Andrea Sperelli comunque D’Annunzio ha creato un mito umano perennemente ricorrente nella sua produzione, destinato da lì a qualche anno ad arrichirsi di altre caratteristiche: quelle derivanti dall’ideologia del superuomo.
D’Annunzio coglie alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche forzandoli entro un sistema di concezioni: il rifiuto del conformismo borghese, dei principi ugualitari che livellano la personalità; l’esaltazione dello spirito dionisiaco, cioè un vitalismo gioioso, libero dalla morale comune; il rifiuto dell’etica della pietà, dell’altruismo che mascherano l’incapacità di godere la gioia dionisiaca del vivere; l’esaltazione della volontà di potenza, dello spirito della lotta e dell’affermazione di sé; il mito del superuomo, un nuovo tipo di umanità liberata e gioiosa. Si scaglia contro la realtà borghese del nuovo stato unitario in cui lo spirito affaristico contamina il senso della bellezza, il gusto dell’azione eroica e del dominio che appartenevano alle passate élite dominanti. Vagheggia l’affermazione di una nuova aristocrazia, che sappia tenere schiava la moltitudine degli esseri comuni ed elevarsi a superiori forme di vita attraverso il culto del bello e l’esercizio della vita attiva ed eroica. Il superuomo è interpretato nel diritto di pochi esseri eccezionali ad affermarsi sprezzando le leggi comuni del bene e del male. Il dominio di questi esseri privilegiati deve tendere ad una nuova politica aggressiva dello Stato italiano che strappi la nazione alla sua mediocrità e la avvii verso destini imperiali di dominio del mondo, come l’antica Roma. Il nuovo superuomo non nega la precedente immagine dell’esteta, ma la ingloba in sé, conferendole una diversa funzione. L’estetismo non sarà più rifiuto sdegnoso della realtà, ma strumento di una volontà di dominio sulla realtà. Non si accontenta più di vagheggiare la bellezza in una dimensione appartata, rifuggendo dalla vita sociale ma si adopera per imporre il dominio di un’élite violenta e raffinata su un mondo meschino e vile come quello borghese. È sempre un tentativo di reagire alle tendenze, in atto nella società capitalistica moderna, a emarginare e a degradare l’intellettuale; ma è un tentativo che va in direzione opposta rispetto a quella che proponeva il mito dell’esteta, poiché affida all’artista – superuomo una funzione di "vate", di guida in questa realtà, ed anche compiti più pratici, una missione politica, seppure alquanto vaga. Mentre la figura dell’esteta era in netta opposizione rispetto alla realtà dominante, la figura del superuomo, pur con la sua critica antiborghese, offre soluzioni che possono facilmente accordarsi con le tendenze profonde dell’età dell’imperialismo, del colonialismo. D’Annunzio non si piega ad accettare la sorte comune ma ambisce a rovesciarla, a ritrovare un ruolo sociale. Egli si autodelega a tale ruolo, attribuendosi il compito di profeta di un ordine nuovo: l’artista, proprio mediante la sua attività intellettuale, deve capire la strada del dominio delle nuove élite, che ponga fine al caos del liberalismo borghese, della democrazia, dell’egualitarismo, e di tali élite deve egli stesso entrare a far parte. Il risarcimento della declassazione attraverso la letteratura non è più solo immaginario come nella fase dell’estetismo, ma pretende di calarsi nella realtà e trasformarsi in azione.

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  1. don

    buono molto interresante e approfindito