traduzioni di Voltaire

Materie:Traduzione
Categoria:Francese

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Testo

Bellezza
Chiedete a un rospo cos’è la bellezza, il bello assoluto, il kalòn. Vi risponderà che è la sua femmina, con i suoi due grossi occhi rotondi sporgenti dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo, il dorso bruno.
Interrogate un negro della Guinea: il bello è per lui una pelle nera, oleosa, gli occhi infossati, il naso schiacciato. Interrogate il diavolo: vi dirà che la bellezza è un paio di corna, quattro artigli e una coda. Consultate infine i filosofi: vi risponderanno con argomenti senza capo né coda; han bisogno di qualcosa conforme all’archetipo del bello in sé, al kalòn.
Assistevo un giorno a una tragedia, seduto accanto a un filosofo. «Quant’è bella!», diceva. «Cosa ci trovate di bello?» domandai. «Il fatto,» rispose, «che l’autore ha raggiunto il suo scopo.» L’indomani egli prese una medicina che gli fece bene. «Essa ha raggiunto il suo scopo,» gli dissi, «ecco una bella medicina!» Capì che non si può dire che una medicina è bella e che per attribuire a qualcosa il carattere della bellezza bisogna che susciti in noi ammirazione e piacere. Convenne che quella tragedia gli aveva ispirato questi due sentimenti e che in ciò stava il kalòn, il bello.
Facemmo un viaggio in Inghilterra: vi si rappresentava la stessa tragedia, perfettamente tradotta, ma qua faceva sbadigliare gli spettatori. «Oh, oh,» disse, «il kalòn non è lo stesso per gli inglesi e per i francesi.» Concluse, dopo molte riflessioni, che il bello è assai relativo, così come quel che è decente in Giappone è indecente a Roma e quel che è di moda a Parigi non lo è a Pechino; e così si risparmiò la pena di comporre un lungo trattato sul bello.
Fanatismo
Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio alla febbre, come le furie alla collera. Chi ha delle estasi, delle visioni, chi scambia i sogni per la realtà, e le immaginazioni per profezie, è un entusiasta; chi sostiene la propria follia con l’omicidio è un fanatico.
Il più disgustoso esempio di fanatismo è quello dei borghesi di Parigi che, la notte di san Bartolomeo, corsero ad assassinare, sgozzare, buttar giù dalle finestre, fare a pezzi i loro concittadini che non andavano a messa.
Esistono fanatici di sangue freddo: sono i giudici che condannano a morte coloro che non hanno commesso altro crimine che quello di non pensarla come loro; e questi giudici sono tanto più colpevoli, tanto più degni dell’esecrazione del genere umano, in quanto, non trovandosi in un accesso di furore come i Clément, i Chatel, i Ravaillac, i Gérard, i Damiens, potrebbero, ci sembra, ascoltare la ragione.
Una volta che il fanatismo ha incancrenito il cervello, la malattia è quasi incurabile. Ho visto certi epilettici che, parlando dei miracoli di san Paride, a poco a poco, loro malgrado, prendevano fuoco; gli occhi si infiammavano, le loro membra tremavano, il furore sfigurava loro il viso, e avrebbero ammazzato chiunque li avesse contraddetti.
A questa malattia epidemica non c’è altro rimedio che lo spirito filosofico, il quale, man mano diffondendosi, addolcirà finalmente i costumi degli uomini, prevenendo gli accessi del male: perché, non appena questo male fa dei progressi, bisogna correr via, e aspettare che l’aria si sia purificata.
Preghiera a Dio
Ma come! sarà dunque permesso a chiunque di credere soltanto alla propria ragione, e di pensare soltanto ciò che questa, illuminata o errante, gli suggerirà? Certo che sí, purché costui non turbi l’ordine: infatti, se non dipende dall’uomo il credere o il non credere, dipende certamente da lui il rispettare gli usi della patria; chi poi affermasse che il non credere nella religione dominante costituisce un crimine, si farebbe egli stesso accusatore dei primi cristiani suoi padri, e giustificherebbe proprio coloro che egli accusa come persecutori.
Non mi rivolgerò dunque piú agli uomini; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi e di tutti i tempi: se è permesso a deboli creature perdute nell’immensità e impercettibili al resto dell’Universo, osare di domandarti qualcosa, a te che tutto hai donato, a te i cui decreti sono immutabili quanto eterni, dégnati di considerare pietosamente gli errori connessi alla nostra natura; che questi errori non siano per noi fonte perenne di calamità. Tu non ci hai dato un cuore perché ci odiassimo, mani perché ci sgozzassimo; fa’ che sappiamo aiutarci vicendevolmente a sopportare il fardello d’una vita penosa e breve; che le piccole differenze intercorrenti fra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, fra i nostri imperfetti linguaggi, fra tutte le nostre ridicole usanze, fra tutte le nostre leggi imperfette, fra tutte le nostre opinioni insensate, fra tutte le nostre condizioni cosí disparate agli occhi nostri e cosí uguali ai tuoi; che tutte le lievi sfumature distinguenti quegli atomi chiamati uomini, non siano segnacoli di odio e di persecuzione. Che coloro i quali accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si contentano della luce del tuo Sole; che coloro i quali ricoprono le loro tonache con una tela bianca per significare che bisogna amarti, non odino coloro i quali affermano la stessa cosa ricoperti da un mantello di lana nera; che sia considerata la stessa cosa l’adorarti servendosi di un’antica lingua, o adoperandone una piú recente; che gli uomini rivestiti di abiti rossi o violetti, che dominano su una piccola parte del piccolo ammasso di fango di questo mondo, che posseggono qualche tondeggiante frammento di un certo metallo, godano senza orgoglio di ciò ch’essi chiamano grandezza e ricchezza; e che gli altri uomini li sopportino senza invidia: tu sai infatti che in tali vanità non c’è nulla da invidiare né di cui inorgoglirsi.
Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli!
Lettera
Tra Roma e l’Inghilterra c’è poi una differenza più essenziale, tutta a vantaggio di quest’ultima: ed è che a Roma il frutto delle guerre civili fu la schiavitù, e in Inghilterra la libertà. La nazione inglese è l’unica al mondo che sia riuscita a regolamentare il potere dei re opponendo loro resistenza, e che faticosamente abbia alfine instaurato quel saggio governo in cui il principe, onnipotente per fare del bene, ha le mani legate per fare il male [2], in cui i signori sono grandi senza insolenza e senza vassalli, e il popolo prende parte al governo senza confusione.
La Camera dei Pari e quella dei Comuni sono gli Arbitri della nazione, il re è il superarbitro. Questo equilibrio mancava ai Romani: a Roma i grandi e il popolo erano sempre divisi, senza avere un potere intermediario che potesse metterli d’accordo. Il Senato di Roma, che aveva l’ingiusto e punibile orgoglio di non voler spartire nulla coi plebei, non conosceva altro espediente per allontanarli dal governo che tenerli sempre occupati nelle guerre straniere. Essa considerava il popolo come una bestia feroce da scagliare contro i vicini, per paura che divorasse i suoi padroni. Così, il maggior difetto del governo dei Romani fece di essi dei conquistatori: è perché erano infelici a casa propria che divennero padroni del mondo, finché alla fine i loro contrasti li resero schiavi.
Il governo d’Inghilterra non è fatto certo né per un così grande splendore, né per una fine così funesta; la sua meta non è la brillante follia di fare conquiste, ma d’impedire che ne facciano i loro vicini. Questo popolo è geloso non soltanto della propria libertà, ma anche di quella degli altri. Gli Inglesi si accanirono contro Luigi XIV unicamente perché lo accusavano di ambizione. Gli hanno fatto la guerra a cuor leggero, sicuramente senza alcun interesse.
È costato molto, senza dubbio, instaurare la libertà in Inghilterra; è in mezzo a mari di sangue ch’è annegato l’idolo del potere dispotico; ma gli Inglesi non ritengono affatto di aver pagato un prezzo troppo alto per acquistare delle buone leggi. Gli altri popoli non hanno avuto meno torbidi, non hanno versato meno sangue di loro; ma il sangue da essi sparso per la causa della loro libertà non ha fatto che cementare la loro servitù.
Lettera
In Francia è marchese chiunque lo voglia; e chiunque giunga a Parigi dal fondo d’una provincia con denaro da spendere e un nome in ac o in ille, può dire “un uomo come me, un uomo della mia qualità”, e disprezzare sovranamente un commerciante; questi a sua volta sente parlare così spesso della sua professione con disprezzo, ch’è tanto sciocco da arrossirne. Eppure io non so chi sia più utile a uno Stato, se un signore bene incipriato che sa con precisione a che ora il re si alza e a che ora si corica, e che si dà arie di grandezza facendo la parte dello schiavo nell’anticamera d’un ministro, ovvero un commerciante che arricchisce il proprio paese, impartisce dal proprio banco ordini a Surat e al Cairo, e contribuisce al benessere del mondo.

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