Alfred Stieglitz

Materie:Riassunto
Categoria:Fotografia

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Testo

ALFRED STIEGLITZ

Nasce il 1° Gennaio 1864 a Hoboken nel New Yersey da ricchi emigranti tedeschi.
Dopo aver trascorso l’adolescenza a New York si trasferisce nel 1882 a Berlino dove frequenta ingegneria meccanica al Politecnico.
Dal 1883 si dedica totalmente alla fotografia e studia sotto la guida di Hermann Vogel ed è tra i primi a seguire le nuove teorie dell’inglese Emerson.
Dopo incomprensioni e delusioni, sarà Emerson a premiarlo nel 1887 in un concorso londinese per una fotografia fatta in Italia, che viene ritenuta “la sola spontanea” tra quelle presentate.
Nel 1890 crea in Germania un movimento di dilettanti.
Nel 1893 torna a New York ed entra nella redazione di American Amateur Photography dalla quale si dimette per fondare Camera Notes che rivelerà fotografi come Steichen, Coburn e White.
Nel 1894 fa un viaggio in Europa e fotografa Venezia e Parigi.
Nel 1902 fonda il gruppo Photo Secession e diviene editore di Camera Work con Steichen che diverrà direttore della sezione di fotografia del Museum of Modern Art di New York. La Royal Photographic Society gli consegna la Medaglia del Progresso per la sua pubblicazione “the most artistic record of photography ever attempted”.
Dopo un viaggio in Europa, nel 1905 fonda la Piccola Galleria del Photo Secession al 291 della 5° strada con Steichen, dove ospita anche esposizioni di pittori come Matisse, Picasso, Hartley, Rousseau, Renoir, Cézanne, Manet, Braque, O’Keeffe e scultori come Rodin e Brancusi.
Nel 1910 la Albright Art Gallery di Buffalo ospita il gruppo in una mostra internazionale e acquista della fotografie.
Nel 1917 Stieglitz chiude la 291, termina le pubblicazioni di Camera Work con un totale di cinquanta numeri e rompe i rapporti con Photo Secession per tentare nuove esperienze fotografiche: continua l’attività nelle gallerie d’arte di New York e nel 1925 nella 303 della galleria Anderson.
Nel 1937 si ammala gravemente e lascia la macchina fotografica.
Muore nel 1946. Le sue opere sono esposte al Museum of Arts di Boston, al Museum of Modern Art di New York e alla National Gallery of Art di Washington.
Stieglitz comincia ad interessarsi di fotografia in Germania dove si era trasferito diciassettenne per dedicarsi allo studio di ingegneria meccanica alla Technische Hochschule di Berlino. Qui si iscrive al corso di fotografia tenuto da Hermann Wilhlem Vogel, chimico e scienziato al quale spetta il merito degli studi sulle emulsioni ortocromatiche, che ha scritto nel 1891 il primo manuale della fotografia tedesco nel quale un terzo era dedicato all’estetica fotografica. Vogel era seguace delle teorie del fotografo pittorialista H. P. Robinson e da lui Stieglitz apprese non solo una tecnica brillante ma si rese conto delle possibilità artistiche della fotografia.
Di questo periodo tedesco predomina più che la ricerca compositiva, la preoccupazione tecnica, l’ansia di una sperimentazione sempre nuova e continua: i suoi risultati sulle tecniche per intensificare le lastre e sulla stampa con la carta al platino vengono pubblicate sulle riviste specializzate e alcuni esemplari esposti in mostre.
Nel 1881 durante una vacanza in Italia realizza alcuni scatti con delle lastre asciutte 18 x 24 prodotte industrialmente che hanno la caratteristica di assorbire parte dell’azzurro intenso del cielo quando usate con un filtro giallo, che gli permettono di fotografare dei paesaggi alpini molto suggestivi in cui si scorge già un attento studio compositivo e contenutistico. Inoltre decide di scandagliare gli aspetti più quotidiani e comuni della vita di una piccola comunità di un paese italiano ed in questo lavoro già si scorgono degli aspetti delle opere della maturità come una certa estemporaneità e freschezza, nitore e curiosità nel cogliere immagini mobili e attente.
Se in Germania le sue sperimentazioni e la fotografia pittorica non riscuotono molto successo, in Inghilterra la Photographic Society nel 1887 con giudice H.P. Emerson premia in un concorso una fotografia di Stieglitz dal titolo A Good Joke raffigurante un gruppo di bambini italiani.
Emerson così gli scrive: ...è forse tardi per esprimere la mia ammirazione per il lavoro da Voi mandato al concorso. Esso era il solo spontaneo di tutto il concorso ed io ne rimasi soddisfatto in sommo grado...
Un esempio della sua sensibilità artistica di questo periodo è la fotografia intitolata Raggi di sole a Berlino: in una stanza invasa dalla luce del sole, ove le liste di una tenda alla veneziana parzialmente chiuse creano un alterno gioco di luce e ombra, la sua giovane amica è seduta ad un tavolo e scrive e china la testa verso un’immagine che occupa il centro del tavolo. Questa immagine rappresenta , a sua volta, una giovane, forse al stessa che sta scrivendo in una cornice ovale decorata. Potrebbe trattarsi di un dipinto, ma evidentemente non è qui il caso, poiché, appesa alla parete, appena al di sopra della testa della donna, si trova un duplicato della stessa immagine, una seconda stampa della stessa fotografia. A sinistra e un po’ più in basso c’è un’altra immagine della donna, quasi nella stessa posizione ma girata nell’altra direzione, come se si trattasse dello stesso clichè restituito da uno specchio. Da una parte e dall’altra delle immagini si trovano due altre fotografie, questa volta paesaggi, di nuovo riconoscibili come fotografie per la loro esatta somiglianza, il loro perfetto raddoppiamento sulla parete. Inserita nella fotografia di Paula si trova dunque una dimostrazione complessa della riproducibilità che sta al centro stesso del processo fotografico e che, per implicazione, si ripercuote sull’immagine intera che abbiamo sotto gli occhi, di modo che, in un momento ulteriore della sequenza, potrebbe anch’essa prendere posto su quella parete. Il motivo formato dalle striature della persiana modella la luce a strisce alternate di ombra e di luce che la spezzano in forme decorative e rappresentano l’azione della luce come insieme di raggi. C’è poi la finestra stessa, mostrata qui sottoforma di due ante-cornici aperte sulla scena: sembra piuttosto evidente, essendo qui questione di simboli, che ci troviamo di fronte a quello di un otturatore questa apertura meccanica il cui funzionamento permette alla luce di penetrare nella camera oscura della macchina fotografica.
Abbiamo dunque una straordinaria costellazione di segni per mezzo di quali l’immagine rimanda al procedimento che è all’origine del suo essere specifico e che la definisce. E’ abile nel non perdere i contrasti di luce ed ombra , nella nettezza dei particolari e nella composizione, che anticipano i lavori della maturità.
Ritorna in America nel 1890 dove si scontra con una mentalità centrata sul benessere economico e avviata all’industrialismo, ben poco sensibile agli aspetti culturali ed estetici della vecchia Europa.
E’ chiamato a dirigere la Society of Amateur Photographers di New York e comincia a mostrare agli americani le possibilità estetiche della fotografia tramite pubblicazioni, dimostrazioni pratiche, conferenze.
Continua la sua ricerca e il 22 Febbraio 1893 aspetta tre ore con un apparecchio 10 x 12 nella 5° strada sotto una violenta tempesta di neve per fotografare una carrozza tirata da quattro cavalli: sarà la fotografia dichiarata più bella da R.Barthes. Lo stesso Stieglitz scrive che quando si usa un apparecchio portatile il successo dipende dalla pazienza: bisogna saper aspettare e non lasciarsi sfuggire il momento in cui tutto è ben equilibrato, cioè soddisfa il tuo occhio. Inoltre la fotografia è anche risultato di manipolazioni in camera oscura: per Winter on 5° Avenue Stieglitz utilizza meno della metà del negativo originale. Sperimenta fino al limite le possibilità del mezzo espressivo come una sfida.
Nel 1894 ritorna in Europa: viaggia a Parigi, Olanda. La rammendatrice di reti è la foto di quell’anno più esposta e due volte premiata e così ne parla lo stesso Stieglitz in My favorite picture pubblicato su Photographic Life: “La rammendatrice di reti” fu il risultato di lunghi studi. Esprime la vita di una giovane donna olandese; ogni punto di rammendo nella rete da pesca, elemento fondamentale della sua esistenza, fa emergere un torrente di pensieri poetici in coloro che la contemplano, seduta fra quelle dune ampie, e si direbbe, infinite, mentre attende al suo lavoro con la serietà e la serenità che sono tipiche di quel popolo risoluto. Tutte le sue speranze sono concentrate in questo lavoro: è la sua vita. La fotografia fu fatta nel 1894 a Katwijck in Olanda. Presa su una lastra di cm. 18 x 24, con un obiettivo Zeiss. Le stampe usate per la mostra sono ingrandimenti su carta al carbone, poiché il soggetto esige un grande formato. Racanicchi commenta i lavori di questo periodo come influenzati da “un evidente sentimentalismo di natura deamicisiana”.
Continua il suo lavoro di ricerca sulle planotopie e insieme all’amico J. T. Keiley per ottenere delle sfumature con la glicerina, i sali di mercurio e di uranio.
Nel 1896 si occupa della fusione della Society of Amateurs Photographers con il New York Camera Club in una nuova società, Camera Club di New York, di cui diviene vice presidente,e trasforma la rivista del Club nel trimestrale nazionale Camera Notes.
Nel 1897 Stieglitz gode ormai di fama internazionale e cerca di organizzare in America mostre internazionali di fotografia pittorica e di perorare la sua causa tra i compatrioti e a loro si rivolge con queste parole: ”Noi americani non possiamo concederci di stare inerti...”. Le fotografie americane, come sono designate in tutta Europa i lavori dei fotografi che sono stati scoperti e che frequentano il Club attorno a Stieglitz, tra cui White , Steichen,, Gertrude Kaisebier, vengono giudicate con “un carattere impreciso ed elusivo; la semplice suggestione di forme e di strutture lascia largo spazio all’immaginazione; eppure la delicatezza con cui sono trattate, la scelta, la composizione, nella maggior parte dei casi denotano un sentimento intenso; ma se lo spettatore manca di immaginazione e di sentimento, il loro effetto su di lui è nullo...”
Il 17 Febbraio 1902 costituisce una nuova società a New York al fine di promuovere il riconoscimento della fotografia pittorica come arte, che ha come nome Photo-Secession, per richiamare la posizione dei gruppi d’avanguardia europei. Tra i fondatori c’erano E. Stirling, F. Eugene, C. H. White.
Tre erano gli obiettivi che Photo-Secession si proponeva:
-far progredire la fotografia come espressione pittorica;
-promuovere incontri e associazioni fra gli americani che praticassero l’arte o vi fossero comunque interessati;
-organizzare di quando in quando, in luoghi diversi, esposizioni non necessariamente limitate alle produzioni della Photo-Secession o alle opere americane.
Nello stesso anno si trova costretto a lasciare la redazione di Camera Notes perché accusato dagli altri membri di essere intransigente nella scelta dei lavori da esporre e di amministrare incautamente i fondi del Club: fonda una nuova rivista trimestrale di cui assume personalmente la direzione e la pubblicazione, Camera Work, di cui tra il 1903 e il 1917 escono cinquanta numeri, quasi tutte monografie sia dei membri di Photo-Secession come Steichen e Coburn, sia di eminenti fotografi europei, come Evans e Demachy. La rivista raggiunge un tale prestigio che ogni numero veniva recensito dalla stampa inglese.
Stieglitz inoltre si occupa personalmente dell’organizzazione di mostre soprattutto di photosecessionisti sia negli Stati Uniti che in Europa, in città come Dresda, Parigi, Vienna.
Nel 1905 prende in affitto insiemi ai soci lo studio al numero 291 della Fifth Avenue, e il 5 Novembre si inaugurano le Little Galleries of the Photo-Secession con un’esposizione di fotografie fatte dai soci: la galleria diventa il quartier generale della campagna per il riconoscimento della fotografia in quanto arte. L’attività è intensa e continua come testimonia il direttore della rivista inglese Amateur Photographer: “...in verità le fotografie di Photo-Secession si sono conquistate già il posto più alto nella stima del mondo civile...”.
Infatti qualche anno più tardi nel 1910 la Albright Art Gallery di Buffalo apre al gruppo il suo museo per una grande mostra internazionale e acquista anche delle fotografie esposte. Le spese sostenute per questa manifestazione costringono Stieglitz a dedicarsi con maggior intensità alle esposizioni di pittura. La 291 ospita le opere di Matisse, Picasso, Hartley, Rousseau, Renoir, Cézanne, Manet, Braque e O’Keeffe oltre alle sculture di Rodin e Brancusi: tutta l’attività veniva documentata e valorizzata sulle pagine di Camera Work che vantava tra i suoi collaboratori firme come quella di Shaw e Hartmann.
Stieglitz ottiene così ciò che voleva , cioè di porre sullo stesso piano valutativo la fotografia insieme alle altri arti della visione: nella sua galleria e nella sua rivista si espone e si tratta di fotografia, di pittura e di scultura senza alcuna discriminazione pregiudizio, disertando con libertà su problemi estetici di vario ed ampio respiro tanto che ben meritata giunge la Medaglia del Progresso, che la Royal Photographic Society consegna a Stieglitz soprattutto per la sua pubblicazione “...the most artistic record of photography ever attempted...”.
La novità dei primi anni del ventesimo secolo è il riconoscimento della fotografia pura, diretta, come mezzo artistico “legittimo”.
Così Hartmann, critico d’arte, invitava i fotografi pittorialisti a fare un “lavoro diretto”: ”E quella che io chiamo fotografia diretta (straight photography) come definirla? Beh, è abbastanza facile. Affidatevi al vostro apparecchio, al vostro occhio, al vostro buon gusto, alla vostra conoscenza della composizione, considerate ogni variazione di colori, di luce e di ombra, studiate linee, valori, divisioni degli spazi, aspettate pazientemente che la scena o l’oggetto che vi siete proposti di raffigurare si riveli nel suo supremo momento di bellezza; in poche parole, componete l’immagine in modo tale che il negativo sia assolutamente perfetto e non abbia bisogno di alcuna o tutt’al più di una modestissima manipolazione. Io non mi oppongo al ritocco, alle eliminazioni o alle accentuazioni, fintanto che non interferiscono con le qualità naturali della tecnica fotografica. I segni a le linee del pennello, d’altro canto, non sono elementi naturali della fotografia, e io mi oppongo e sempre mi opporrò a fare uso del pennello, a imbrattare con le dita, a scarabocchiare, scalfire e sgorbiare sulla lastra, nonché al procedimento con la gomma bicromata e con la glicerina, se tali mezzi sono usati soltanto per creare effetti confusi, indistinti.
Non fraintendete le mie parole. Non voglio che l’operatore fotografico stia abbarbicato a metodi prescritti e a modelli accademici. Non voglio che sia meno artista di quanto sia oggi, anzi io voglio che sia artista, ma solo nei modi legittimi...Voglio che la fotografia pittorica sia riconosciuta come arte bella. E’ un ideale che amo...e per il quale combatto da anni, ma sono altrettanto convinto che lo si può raggiungere soltanto con la fotografia pura.”.
Stieglitz difendeva molti fotografi che manipolavano i negativi e che sperimentavano le stampe con la gomma bicromata e con il procedimento della glicerina: tuttavia negli anni della maturità preferisce attenersi rigidamente alle proprietà fondamentali dell’apparecchio, dell’obbiettivo e dell’emulsione. C. H. Caffin nel 1901 dice di Stieglitz che era un esponente della “fotografia diretta” per convinzione e per istinto ...Lo si può considerare un Impressionista: si fa un’idea precisa dell’immagine prima di coglierla, cerca effetti di una vivida realtà e riduce l’immagine finale alla sua forma d’espressione più semplice.
Nel 1907 Stieglitz realizza The Steerage (Il ponte di terza classe), un’operazione che più tardi giudicherà la più bella fotografia e che testimonia la sua evoluzione nel rapporto con il mezzo e con la realtà in cui si imbatte: stava passeggiando sul ponte di prima classe del transatlantico di lusso Kaiser Wilhelm II in rotta verso l’Europa quando vede, come lui stesso scrive, “una paglietta rotonda, la ciminiera inclinata a sinistra, la scaletta inclinata a destra, la passerella bianca racchiusa tra due file di catene, un paio di bretelle bianche che si incrociavano sulla schiena di un uomo sul ponte sottostante di terza classe, forme rotonde di congegni di ferro, un albero che tagliava il cielo disegnando un triangolo... Vidi tutte queste forme composte in un’immagine, quasi un simbolo della concezione che io avevo della vita.”
Si precipita in cabina a prendere il suo apparecchio Graflex sperando che intanto le figure dell’immagine non si fossero mosse. Al ritorno trova tutto come l’aveva lasciato, e subito fa scattare l’otturatore. La fotografia diviene il risultato di una identificazione immediata di soggetto e forma: “spontaneità di giudizio e composizione dell’occhio” come lo definiva Hartmann. Stieglitz non cerca più le condizioni ambientali, come aveva fatto per Winter on Fifth Avenue, non aspetta pazientemente che tutto sia in equilibrio. Invece, senza esitazione, persino senza un pensiero cosciente, inquadra subito il soggetto e stampa tutto il negativo senza tagliare nulla.
Nel 1917 Photosecession e la 291 in seguito all’abbattimento dell’edificio, chiudono i battenti. Molti membri del gruppo si erano già allontanati: Steichen si unisce alle forze armate americane in Europa, C.H.White apre una scuola di fotografia destinata a d avere grande influenza. Negli anni del dopo guerra Stieglitz dà alla sua fotografia una nuova intensità e nel 1921 allestisce presso la galleria Anderson di New York una mostra che riscuote successo e così descrive le fotografie esposte il critico J.A. Tennant: “lo spettatore ha l’impressione di trovarsi proprio davanti agli uomini raffigurati. Non c’è traccia del fotografo o dei suoi gusti particolari, non trapela nessuno sforzo di interpretazione, nessuna artificiosità di effetti: non vi sono trucchi di obbiettivi o di illuminazione. Non posso definirle in modo migliore o più completo che come fotografie immediate, dirette...” .
Nel catalogo della mostra Stieglitz scrive che lo scopo della stessa è “la messa a fuoco precisa di un’idea... i miei veri maestri sono stati la vita, il lavoro, la sperimentazione continua... ogni stampa che io tiro, anche da un solo negativo, è un’esperienza nuova, un problema nuovo. La fotografia è la mia passione. La ricerca della Verità la mia ossessione.”
Stieglitz tra il 1923 e il 1931 inizia un lavoro che ha come soggetto il cielo e le nuvole.
Le parole di Stieglitz stesso chiarificano questo cambio improvviso di soggetto: “Volevo fotografare le nuvole per scoprire che cosa avessi imparato in quarant’anni di fotografia. Attraverso le nuvole esporre la mia filosofia della vita, mostrare che le mie fotografie non erano dovute al soggetto, non a privilegi speciali: le nuvole erano lì per tutti, non erano soggette a tasse: erano libere.”
Sceglie questi soggetti sui quali non può esercitare alcuna influenza per scagionarsi dall’accusa di esercitare un potere ipnotico sulle persone da ritrarre, e battezza queste immagini con il nome di “Equivalenti”, cioè, “equivalenti ai suoi pensieri, alle sue speranze, alle sue aspirazioni, alle sue disperazioni, ai suoi timori. Pubblica queste fotografie insieme ad altre assai espressive, e spesso evocative, sia per il contenuto sia per il modo in cui vengono trattate: un prato brillante di gocce di pioggia, le palme delle mani di una donna strette l’una contro l’altra fra le ginocchia. Se si guardano obbiettivamente, molte di queste stampe ricche di neri profondi, di grigi scintillanti e di bianchi incandescenti, affascinano per la loro assoluta bellezza formale. Sono astrazioni fotografiche: la forma astrae dal significato illustrativo. Eppure paradossalmente, lo spettatore non si dimentica neppure per un minuto di quello che è stato fotografato. Mentre si sorprende di riconoscere il soggetto, si rende conto quasi subito che la forma dalla quale il suo occhio è affascinato è espressiva, importante, e si meraviglia che tanta bellezza possa celarsi in un soggetto così banale. Questa è la forza della macchina fotografica: può cogliere immagini familiari e dotarle di nuovi significati, con un’espressione particolare, con l’impronta di una personalità.
Fra le ultime fotografie di Stieglitz, costretto ad abbandonare la macchina fotografica per problemi di salute intorno al 1937, figurano immagini di New York prese dalle finestre di un grattacielo, e prati e alberi intorno alla vecchia casa di famiglia a Lake George, dove trascorreva l’estate.
Nel frattempo non smette di sostenere l’arte moderna: nella sua galleria di New York, An American Place, continua a organizzare esposizioni di pittura, insieme a saltuarie mostre fotografiche, fino alla morte, nel 1946.
DA PAULA AGLI EQUIVALENTI
Un aspetto ne è stato dimenticato, un aspetto che , secondo le definizioni ontologiche di alcuni, è essenziale per la definizione della fotografia. Questo aspetto è il riconoscimento del taglio della realtà , del fatto che se la fotografia riproduce sì il mondo , lo fa però per frammenti. Cavell scrive “La macchina , in quanto oggetto finito, taglia una porzione di un campo infinitamente più grande. Una volta ritagliata la fotografia, il resto del mondo è eliminato dal taglio.” Ma nelle fotografie di Stieglitz gli effetti di taglio sono deliberatamente mascherati , dissimulati o resi confusi attraverso gli elementi della composizione interna, dalle verticali della finestra e dell’ombra sul lato destro, e dalle zone buie in alto e in basso, che inquadrano gli elementi dell’immagine nello stesso modo in cui la cornice sul tavolo contiene e trattiene il proprio contenuto.
Ma, se Stieglitz non si è preoccupato o non ha riconosciuto un aspetto tanto essenziale della fotografia come il taglio, pare evidente che è semplicemente perché non gli sembrava essenziale negli anni 80 , né del resto nel corso del primo decennio del secolo. E’ anche perché solo certi sviluppi della fotografia avrebbero potuto rendere essenziale questo aspetto (e quando giunse il momento, i risultati furono in effetti straordinari).
Questi sviluppi sono legati al Pittoricismo in fotografia, e più in particolare agli aspetti di questo movimento cui Stieglitz si è sentito sempre più estraneo: cioè non soltanto agli effetti caratteristici di sfumato artistico che si trova nelle prime fotografie di Steichen, di Coburn o di White, ma anche alla composizione interna derivata naturalmente dalla stessa sensibilità.
Tenendo presente quanto detto, si possono considerare le fotografie di nuvole che Stieglitz ha realizzato tra il 1923 e il 1931 e che ha intitolato Equivalenti. Si tratta infatti di opere che dipendono nel modo più radicale e più evidente dall’effetto del taglio, dall’impressione che si ha, potremmo dire di immagini strappate con forza dal tessuto continuo dell’estensione del cielo. Questo riguarda da un lato una caratteristica del cielo stesso, o più esattamente una caratteristica che Stieglitz mette in evidenza un queste immagini: non è più soltanto il fatto che il cielo è vasto e una fotografia ne può presentare solo una parte limitata, è piuttosto che il cielo è per essenza non composto. Queste fotografie non danno solo un’impressione di composizione imprevista, fortuita, secondo il caso di qualche associazione accidentale, fanno sentire la resistenza del loro oggetto a una sintassi interna, postulano l’assenza di fondamento della composizione, esattamente come, per esempio, un readymade di Duchamp cortocircuita qualsiasi discussione a proposito dei rapporti interni tra i suoi elementi.
Il termine rapporti non ha più molto a che vedere qui con il significato abituale che gli si attribuisce nelle arti tradizionali: così come tutto il senso di readymade deriva dal puro cambiamento di contesto e di situazione, tutto il senso di queste immagini, che ci arrivano come un insieme impossibile da analizzare, deriva dal puro fatto che sono ritagliate, da questo gesto che le crea attraverso il taglio.
Ma Stieglitz vuole andare più lontano. Ciò che queste fotografie cercano in modo ripetitivo è di assicurare che l’impatto di questo taglio, di questa dislocazione, di questa separazione, troverà un’eco in ciascuno dei punti dell’immagine. L’incredibile verticalità di queste nuvole che si elevano verso l’alto dell’immagine crea una straordinaria impressione di disorientamento , quasi fino alla vertigine. Non si capisce dov’è l’alto e dov’è il basso, né perché questa immagine che sembra un’immagine della realtà sia priva dell’elemento primordiale del nostro rapporto con essa, cioè del senso indefettibile dell’orientamento con la terra. E’ qui che questo tipo di taglio va più lontano del semplice fatto di strappare una parte da un continuum più vasto. Esso carica l’immagine in modo tale che abbiamo l’impressione che sia a noi che viene strappato qualcosa, la sensazione che questa fotografia no è più ciò che abbiamo sempre creduto che fosse la fotografia, ovvero il prolungamento possibile dell’esperienza della nostra presenza materiale al mondo.
Private del suolo, queste immagini perdono il loro fondamento. A livello più letterale, Stieglitz ha soppresso dal campo dell’immagine ogni riferimento al suolo, alla terra, all’orizzonte. A un altro livello, più grafico, i solchi verticali delle nuvole evocano in noi, parodiandola, l’idea della cosa assente: costruiscono nel campo del cielo un solido sistema di vettori, di linee di orientamento, di assi, e in certe immagini dividono il campo in zone luminose e in zone scure. Fanno dunque appello al nostro bisogno di orientamento e allo stesso tempo ai mezzi abituali di cui ci serviamo per assicurarlo riferendoci ad un orizzonte che organizzi e riaffermi il nostro rapporto con la terra. Le nuvole ci forniscono il ricordo di questa funzione, ma ne falliscono l’adempimento. Perché la nuvola è verticale.
Attraverso la verticalità le nuvole rinviano al significato primo del taglio e lo raddoppiano, o meglio: i due significati si rinviano reciprocamente l’un l’altro e si rafforzano vicendevolmente, perché in entrambe i casi si tratta di mostrare esclusivamente il mondo per mezzo di un’immagine radicalmente separata dai suoi punti di ancoraggio, un’immagine che ha come soggetto il fatto di levare l’ancora. La nuvola, naturalmente, rappresenta anche dell’altro. E’ l’impronta dello stato dell’atmosfera: la direzione dei venti e il grado di umidità sono registrati e resi visibili dalla configurazione delle nuvole, a loro volta rese visibili dalla rifrazione della luce. Nella misura in cui fissano la traccia di qualcosa di invisibile, le nuvole sono segni naturali. In Equivalenti Stieglitz riesce a trasformarle in segni non naturali trasponendoli nel linguaggio culturale della fotografia. E’ chiaro inoltre che questa trasformazione non funziona elemento per elemento come nella fotografia di Paula, dove le diverse componenti dell’insieme visivo finiscono col rappresentare altro. In Equivalenti la trasformazione funziona in blocco, in modo che il cielo nel suo insieme e la fotografia nel suo insieme sono posti in un rapporto simbolico reciproco. Lo strumento estetico da cui dipende questa lettura è il taglio.
In queste fotografie il taglio non è dunque affatto un semplice fenomeno meccanico. E’ l’unica cosa che costituisce l’immagine e che, costituendola, implica che la fotografia è una trasformazione assoluta della realtà. Non perché la fotografia è senza spessore, in bianco e nero, o piccola, ma perché in quanto serie di segni realizzati su carta attraverso la luce, non possiede più orientamento “naturale” in rapporto agli assi del mondo reale di quanto ne possiedano, su un quaderno, i segni che conosciamo sotto il nome di scrittura. Intitolando questa serie Equivalenti, Stieglitz si riferisce evidentemente al linguaggio del simbolismo e ai suoi concetti di corrispondenza e di geroglifico. Ma quello che ha intenzione di realizzare qui è il simbolismo allo stato puro, il simbolismo come visione del linguaggio in quanto assenza fondamentale, assenza del mondo e dei suoi oggetti sostituti dalla presenza del segno.
Non sto assolutamente dicendo che con il taglio possediamo finalmente una definizione di quello che è fondamentalmente, o per essenza, la fotografia. Il taglio è forse un dato della fotografia ma non è più essenziale alle possibilità estetiche di questo medium di altre caratteristiche, come la riproducibilità o il suo statuto semiologico di traccia. A un certo momento un determinato artista ha fatto di questa caratteristica un uso artistico, ha trovato il tipo di esperienza sensibile che solo questo uso poteva registrare. Tale scoperta ha reso molte cose possibili: ha permesso a Stieglitz di prendere questa lunga serie di fotografie di nuvole, ma ha anche fornito un contesto agli straordinari ritratti delle mani di Georgia O’Keeffe, fotografie che trattano della separazione tra l’immagine e il corpo cui queste mani sono legate nella realtà, e che qui è sostituito dal piano della stampa fotografica. In altri casi Stieglitz ha deciso che uno qualsiasi dei quattro lati poteva fare da “alto”.
Per concludere vorrei avanzare una proposta supplementare: ricorrere all’argomento ontologico può nuocere a qualsiasi visione di un medium - che si tratti di fotografia, di pittura , di teatro - in quanto arte, perché definire una categoria a priori - qui la fotografia nel suo rapporto al taglio che essa opera della realtà - è dare l’impressione che tale categoria sia sempre esistita e non aspettava che di essere notata e svolta. Così facendo, mascheriamo un aspetto ben più centrale, quello del rischio inerente alla creazione di ogni opera d’arte, o almeno della grande arte, rischio che consiste spesso nel lavorare alla cieca, senza la minima certezza e garanzia di riuscita. Se non si è visto il rischio che accompagna la vertigine da cui si è colti di fronte alle fotografie di nuvole di Stieglitz, allora non si sono viste queste fotografie, non si è visto ciò a cui l’autore ha dovuto rinunciare per farle funzionare, o in base a che cosa pensava che avrebbero funzionato o affermava che effettivamente funzionano. Vedere il rischio significa invece rendersi conto che, come sempre in arte, lo scacco sarebbe sentito come un’impostura.

BIBLIOGRAFIA
Barthes Roland, La camera chiara, Einaudi, Torino, 1980
Chiaramonte Giovanni, Storia della fotografia, Jaca Book, Milano, 1983
Krauss Rosalind, (a cura di Elio Grazioli) Stieglitz: equivalenti, in Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996
Lemagny Jean Claude; Rouille Andre, Storia della fotografia, Sansoni, Firenze, 1988
Newhall Beamount, Storia della fotografia, Einaudi, Torino, 1984
Pollack Peter, Storia della fotografia dalle origii a oggi, Garzanti, Milano, 1959
Racanicchi Piero; Donzelli Pietro, Alfred Stieglitz, da Popular Photography, 1963
Stieglitz Alfred, New York 1979, in October, n. 11, inverno 1979

ALFRED STIEGLITZ

Nasce il 1° Gennaio 1864 a Hoboken nel New Yersey da ricchi emigranti tedeschi.
Dopo aver trascorso l’adolescenza a New York si trasferisce nel 1882 a Berlino dove frequenta ingegneria meccanica al Politecnico.
Dal 1883 si dedica totalmente alla fotografia e studia sotto la guida di Hermann Vogel ed è tra i primi a seguire le nuove teorie dell’inglese Emerson.
Dopo incomprensioni e delusioni, sarà Emerson a premiarlo nel 1887 in un concorso londinese per una fotografia fatta in Italia, che viene ritenuta “la sola spontanea” tra quelle presentate.
Nel 1890 crea in Germania un movimento di dilettanti.
Nel 1893 torna a New York ed entra nella redazione di American Amateur Photography dalla quale si dimette per fondare Camera Notes che rivelerà fotografi come Steichen, Coburn e White.
Nel 1894 fa un viaggio in Europa e fotografa Venezia e Parigi.
Nel 1902 fonda il gruppo Photo Secession e diviene editore di Camera Work con Steichen che diverrà direttore della sezione di fotografia del Museum of Modern Art di New York. La Royal Photographic Society gli consegna la Medaglia del Progresso per la sua pubblicazione “the most artistic record of photography ever attempted”.
Dopo un viaggio in Europa, nel 1905 fonda la Piccola Galleria del Photo Secession al 291 della 5° strada con Steichen, dove ospita anche esposizioni di pittori come Matisse, Picasso, Hartley, Rousseau, Renoir, Cézanne, Manet, Braque, O’Keeffe e scultori come Rodin e Brancusi.
Nel 1910 la Albright Art Gallery di Buffalo ospita il gruppo in una mostra internazionale e acquista della fotografie.
Nel 1917 Stieglitz chiude la 291, termina le pubblicazioni di Camera Work con un totale di cinquanta numeri e rompe i rapporti con Photo Secession per tentare nuove esperienze fotografiche: continua l’attività nelle gallerie d’arte di New York e nel 1925 nella 303 della galleria Anderson.
Nel 1937 si ammala gravemente e lascia la macchina fotografica.
Muore nel 1946. Le sue opere sono esposte al Museum of Arts di Boston, al Museum of Modern Art di New York e alla National Gallery of Art di Washington.
Stieglitz comincia ad interessarsi di fotografia in Germania dove si era trasferito diciassettenne per dedicarsi allo studio di ingegneria meccanica alla Technische Hochschule di Berlino. Qui si iscrive al corso di fotografia tenuto da Hermann Wilhlem Vogel, chimico e scienziato al quale spetta il merito degli studi sulle emulsioni ortocromatiche, che ha scritto nel 1891 il primo manuale della fotografia tedesco nel quale un terzo era dedicato all’estetica fotografica. Vogel era seguace delle teorie del fotografo pittorialista H. P. Robinson e da lui Stieglitz apprese non solo una tecnica brillante ma si rese conto delle possibilità artistiche della fotografia.
Di questo periodo tedesco predomina più che la ricerca compositiva, la preoccupazione tecnica, l’ansia di una sperimentazione sempre nuova e continua: i suoi risultati sulle tecniche per intensificare le lastre e sulla stampa con la carta al platino vengono pubblicate sulle riviste specializzate e alcuni esemplari esposti in mostre.
Nel 1881 durante una vacanza in Italia realizza alcuni scatti con delle lastre asciutte 18 x 24 prodotte industrialmente che hanno la caratteristica di assorbire parte dell’azzurro intenso del cielo quando usate con un filtro giallo, che gli permettono di fotografare dei paesaggi alpini molto suggestivi in cui si scorge già un attento studio compositivo e contenutistico. Inoltre decide di scandagliare gli aspetti più quotidiani e comuni della vita di una piccola comunità di un paese italiano ed in questo lavoro già si scorgono degli aspetti delle opere della maturità come una certa estemporaneità e freschezza, nitore e curiosità nel cogliere immagini mobili e attente.
Se in Germania le sue sperimentazioni e la fotografia pittorica non riscuotono molto successo, in Inghilterra la Photographic Society nel 1887 con giudice H.P. Emerson premia in un concorso una fotografia di Stieglitz dal titolo A Good Joke raffigurante un gruppo di bambini italiani.
Emerson così gli scrive: ...è forse tardi per esprimere la mia ammirazione per il lavoro da Voi mandato al concorso. Esso era il solo spontaneo di tutto il concorso ed io ne rimasi soddisfatto in sommo grado...
Un esempio della sua sensibilità artistica di questo periodo è la fotografia intitolata Raggi di sole a Berlino: in una stanza invasa dalla luce del sole, ove le liste di una tenda alla veneziana parzialmente chiuse creano un alterno gioco di luce e ombra, la sua giovane amica è seduta ad un tavolo e scrive e china la testa verso un’immagine che occupa il centro del tavolo. Questa immagine rappresenta , a sua volta, una giovane, forse al stessa che sta scrivendo in una cornice ovale decorata. Potrebbe trattarsi di un dipinto, ma evidentemente non è qui il caso, poiché, appesa alla parete, appena al di sopra della testa della donna, si trova un duplicato della stessa immagine, una seconda stampa della stessa fotografia. A sinistra e un po’ più in basso c’è un’altra immagine della donna, quasi nella stessa posizione ma girata nell’altra direzione, come se si trattasse dello stesso clichè restituito da uno specchio. Da una parte e dall’altra delle immagini si trovano due altre fotografie, questa volta paesaggi, di nuovo riconoscibili come fotografie per la loro esatta somiglianza, il loro perfetto raddoppiamento sulla parete. Inserita nella fotografia di Paula si trova dunque una dimostrazione complessa della riproducibilità che sta al centro stesso del processo fotografico e che, per implicazione, si ripercuote sull’immagine intera che abbiamo sotto gli occhi, di modo che, in un momento ulteriore della sequenza, potrebbe anch’essa prendere posto su quella parete. Il motivo formato dalle striature della persiana modella la luce a strisce alternate di ombra e di luce che la spezzano in forme decorative e rappresentano l’azione della luce come insieme di raggi. C’è poi la finestra stessa, mostrata qui sottoforma di due ante-cornici aperte sulla scena: sembra piuttosto evidente, essendo qui questione di simboli, che ci troviamo di fronte a quello di un otturatore questa apertura meccanica il cui funzionamento permette alla luce di penetrare nella camera oscura della macchina fotografica.
Abbiamo dunque una straordinaria costellazione di segni per mezzo di quali l’immagine rimanda al procedimento che è all’origine del suo essere specifico e che la definisce. E’ abile nel non perdere i contrasti di luce ed ombra , nella nettezza dei particolari e nella composizione, che anticipano i lavori della maturità.
Ritorna in America nel 1890 dove si scontra con una mentalità centrata sul benessere economico e avviata all’industrialismo, ben poco sensibile agli aspetti culturali ed estetici della vecchia Europa.
E’ chiamato a dirigere la Society of Amateur Photographers di New York e comincia a mostrare agli americani le possibilità estetiche della fotografia tramite pubblicazioni, dimostrazioni pratiche, conferenze.
Continua la sua ricerca e il 22 Febbraio 1893 aspetta tre ore con un apparecchio 10 x 12 nella 5° strada sotto una violenta tempesta di neve per fotografare una carrozza tirata da quattro cavalli: sarà la fotografia dichiarata più bella da R.Barthes. Lo stesso Stieglitz scrive che quando si usa un apparecchio portatile il successo dipende dalla pazienza: bisogna saper aspettare e non lasciarsi sfuggire il momento in cui tutto è ben equilibrato, cioè soddisfa il tuo occhio. Inoltre la fotografia è anche risultato di manipolazioni in camera oscura: per Winter on 5° Avenue Stieglitz utilizza meno della metà del negativo originale. Sperimenta fino al limite le possibilità del mezzo espressivo come una sfida.
Nel 1894 ritorna in Europa: viaggia a Parigi, Olanda. La rammendatrice di reti è la foto di quell’anno più esposta e due volte premiata e così ne parla lo stesso Stieglitz in My favorite picture pubblicato su Photographic Life: “La rammendatrice di reti” fu il risultato di lunghi studi. Esprime la vita di una giovane donna olandese; ogni punto di rammendo nella rete da pesca, elemento fondamentale della sua esistenza, fa emergere un torrente di pensieri poetici in coloro che la contemplano, seduta fra quelle dune ampie, e si direbbe, infinite, mentre attende al suo lavoro con la serietà e la serenità che sono tipiche di quel popolo risoluto. Tutte le sue speranze sono concentrate in questo lavoro: è la sua vita. La fotografia fu fatta nel 1894 a Katwijck in Olanda. Presa su una lastra di cm. 18 x 24, con un obiettivo Zeiss. Le stampe usate per la mostra sono ingrandimenti su carta al carbone, poiché il soggetto esige un grande formato. Racanicchi commenta i lavori di questo periodo come influenzati da “un evidente sentimentalismo di natura deamicisiana”.
Continua il suo lavoro di ricerca sulle planotopie e insieme all’amico J. T. Keiley per ottenere delle sfumature con la glicerina, i sali di mercurio e di uranio.
Nel 1896 si occupa della fusione della Society of Amateurs Photographers con il New York Camera Club in una nuova società, Camera Club di New York, di cui diviene vice presidente,e trasforma la rivista del Club nel trimestrale nazionale Camera Notes.
Nel 1897 Stieglitz gode ormai di fama internazionale e cerca di organizzare in America mostre internazionali di fotografia pittorica e di perorare la sua causa tra i compatrioti e a loro si rivolge con queste parole: ”Noi americani non possiamo concederci di stare inerti...”. Le fotografie americane, come sono designate in tutta Europa i lavori dei fotografi che sono stati scoperti e che frequentano il Club attorno a Stieglitz, tra cui White , Steichen,, Gertrude Kaisebier, vengono giudicate con “un carattere impreciso ed elusivo; la semplice suggestione di forme e di strutture lascia largo spazio all’immaginazione; eppure la delicatezza con cui sono trattate, la scelta, la composizione, nella maggior parte dei casi denotano un sentimento intenso; ma se lo spettatore manca di immaginazione e di sentimento, il loro effetto su di lui è nullo...”
Il 17 Febbraio 1902 costituisce una nuova società a New York al fine di promuovere il riconoscimento della fotografia pittorica come arte, che ha come nome Photo-Secession, per richiamare la posizione dei gruppi d’avanguardia europei. Tra i fondatori c’erano E. Stirling, F. Eugene, C. H. White.
Tre erano gli obiettivi che Photo-Secession si proponeva:
-far progredire la fotografia come espressione pittorica;
-promuovere incontri e associazioni fra gli americani che praticassero l’arte o vi fossero comunque interessati;
-organizzare di quando in quando, in luoghi diversi, esposizioni non necessariamente limitate alle produzioni della Photo-Secession o alle opere americane.
Nello stesso anno si trova costretto a lasciare la redazione di Camera Notes perché accusato dagli altri membri di essere intransigente nella scelta dei lavori da esporre e di amministrare incautamente i fondi del Club: fonda una nuova rivista trimestrale di cui assume personalmente la direzione e la pubblicazione, Camera Work, di cui tra il 1903 e il 1917 escono cinquanta numeri, quasi tutte monografie sia dei membri di Photo-Secession come Steichen e Coburn, sia di eminenti fotografi europei, come Evans e Demachy. La rivista raggiunge un tale prestigio che ogni numero veniva recensito dalla stampa inglese.
Stieglitz inoltre si occupa personalmente dell’organizzazione di mostre soprattutto di photosecessionisti sia negli Stati Uniti che in Europa, in città come Dresda, Parigi, Vienna.
Nel 1905 prende in affitto insiemi ai soci lo studio al numero 291 della Fifth Avenue, e il 5 Novembre si inaugurano le Little Galleries of the Photo-Secession con un’esposizione di fotografie fatte dai soci: la galleria diventa il quartier generale della campagna per il riconoscimento della fotografia in quanto arte. L’attività è intensa e continua come testimonia il direttore della rivista inglese Amateur Photographer: “...in verità le fotografie di Photo-Secession si sono conquistate già il posto più alto nella stima del mondo civile...”.
Infatti qualche anno più tardi nel 1910 la Albright Art Gallery di Buffalo apre al gruppo il suo museo per una grande mostra internazionale e acquista anche delle fotografie esposte. Le spese sostenute per questa manifestazione costringono Stieglitz a dedicarsi con maggior intensità alle esposizioni di pittura. La 291 ospita le opere di Matisse, Picasso, Hartley, Rousseau, Renoir, Cézanne, Manet, Braque e O’Keeffe oltre alle sculture di Rodin e Brancusi: tutta l’attività veniva documentata e valorizzata sulle pagine di Camera Work che vantava tra i suoi collaboratori firme come quella di Shaw e Hartmann.
Stieglitz ottiene così ciò che voleva , cioè di porre sullo stesso piano valutativo la fotografia insieme alle altri arti della visione: nella sua galleria e nella sua rivista si espone e si tratta di fotografia, di pittura e di scultura senza alcuna discriminazione pregiudizio, disertando con libertà su problemi estetici di vario ed ampio respiro tanto che ben meritata giunge la Medaglia del Progresso, che la Royal Photographic Society consegna a Stieglitz soprattutto per la sua pubblicazione “...the most artistic record of photography ever attempted...”.
La novità dei primi anni del ventesimo secolo è il riconoscimento della fotografia pura, diretta, come mezzo artistico “legittimo”.
Così Hartmann, critico d’arte, invitava i fotografi pittorialisti a fare un “lavoro diretto”: ”E quella che io chiamo fotografia diretta (straight photography) come definirla? Beh, è abbastanza facile. Affidatevi al vostro apparecchio, al vostro occhio, al vostro buon gusto, alla vostra conoscenza della composizione, considerate ogni variazione di colori, di luce e di ombra, studiate linee, valori, divisioni degli spazi, aspettate pazientemente che la scena o l’oggetto che vi siete proposti di raffigurare si riveli nel suo supremo momento di bellezza; in poche parole, componete l’immagine in modo tale che il negativo sia assolutamente perfetto e non abbia bisogno di alcuna o tutt’al più di una modestissima manipolazione. Io non mi oppongo al ritocco, alle eliminazioni o alle accentuazioni, fintanto che non interferiscono con le qualità naturali della tecnica fotografica. I segni a le linee del pennello, d’altro canto, non sono elementi naturali della fotografia, e io mi oppongo e sempre mi opporrò a fare uso del pennello, a imbrattare con le dita, a scarabocchiare, scalfire e sgorbiare sulla lastra, nonché al procedimento con la gomma bicromata e con la glicerina, se tali mezzi sono usati soltanto per creare effetti confusi, indistinti.
Non fraintendete le mie parole. Non voglio che l’operatore fotografico stia abbarbicato a metodi prescritti e a modelli accademici. Non voglio che sia meno artista di quanto sia oggi, anzi io voglio che sia artista, ma solo nei modi legittimi...Voglio che la fotografia pittorica sia riconosciuta come arte bella. E’ un ideale che amo...e per il quale combatto da anni, ma sono altrettanto convinto che lo si può raggiungere soltanto con la fotografia pura.”.
Stieglitz difendeva molti fotografi che manipolavano i negativi e che sperimentavano le stampe con la gomma bicromata e con il procedimento della glicerina: tuttavia negli anni della maturità preferisce attenersi rigidamente alle proprietà fondamentali dell’apparecchio, dell’obbiettivo e dell’emulsione. C. H. Caffin nel 1901 dice di Stieglitz che era un esponente della “fotografia diretta” per convinzione e per istinto ...Lo si può considerare un Impressionista: si fa un’idea precisa dell’immagine prima di coglierla, cerca effetti di una vivida realtà e riduce l’immagine finale alla sua forma d’espressione più semplice.
Nel 1907 Stieglitz realizza The Steerage (Il ponte di terza classe), un’operazione che più tardi giudicherà la più bella fotografia e che testimonia la sua evoluzione nel rapporto con il mezzo e con la realtà in cui si imbatte: stava passeggiando sul ponte di prima classe del transatlantico di lusso Kaiser Wilhelm II in rotta verso l’Europa quando vede, come lui stesso scrive, “una paglietta rotonda, la ciminiera inclinata a sinistra, la scaletta inclinata a destra, la passerella bianca racchiusa tra due file di catene, un paio di bretelle bianche che si incrociavano sulla schiena di un uomo sul ponte sottostante di terza classe, forme rotonde di congegni di ferro, un albero che tagliava il cielo disegnando un triangolo... Vidi tutte queste forme composte in un’immagine, quasi un simbolo della concezione che io avevo della vita.”
Si precipita in cabina a prendere il suo apparecchio Graflex sperando che intanto le figure dell’immagine non si fossero mosse. Al ritorno trova tutto come l’aveva lasciato, e subito fa scattare l’otturatore. La fotografia diviene il risultato di una identificazione immediata di soggetto e forma: “spontaneità di giudizio e composizione dell’occhio” come lo definiva Hartmann. Stieglitz non cerca più le condizioni ambientali, come aveva fatto per Winter on Fifth Avenue, non aspetta pazientemente che tutto sia in equilibrio. Invece, senza esitazione, persino senza un pensiero cosciente, inquadra subito il soggetto e stampa tutto il negativo senza tagliare nulla.
Nel 1917 Photosecession e la 291 in seguito all’abbattimento dell’edificio, chiudono i battenti. Molti membri del gruppo si erano già allontanati: Steichen si unisce alle forze armate americane in Europa, C.H.White apre una scuola di fotografia destinata a d avere grande influenza. Negli anni del dopo guerra Stieglitz dà alla sua fotografia una nuova intensità e nel 1921 allestisce presso la galleria Anderson di New York una mostra che riscuote successo e così descrive le fotografie esposte il critico J.A. Tennant: “lo spettatore ha l’impressione di trovarsi proprio davanti agli uomini raffigurati. Non c’è traccia del fotografo o dei suoi gusti particolari, non trapela nessuno sforzo di interpretazione, nessuna artificiosità di effetti: non vi sono trucchi di obbiettivi o di illuminazione. Non posso definirle in modo migliore o più completo che come fotografie immediate, dirette...” .
Nel catalogo della mostra Stieglitz scrive che lo scopo della stessa è “la messa a fuoco precisa di un’idea... i miei veri maestri sono stati la vita, il lavoro, la sperimentazione continua... ogni stampa che io tiro, anche da un solo negativo, è un’esperienza nuova, un problema nuovo. La fotografia è la mia passione. La ricerca della Verità la mia ossessione.”
Stieglitz tra il 1923 e il 1931 inizia un lavoro che ha come soggetto il cielo e le nuvole.
Le parole di Stieglitz stesso chiarificano questo cambio improvviso di soggetto: “Volevo fotografare le nuvole per scoprire che cosa avessi imparato in quarant’anni di fotografia. Attraverso le nuvole esporre la mia filosofia della vita, mostrare che le mie fotografie non erano dovute al soggetto, non a privilegi speciali: le nuvole erano lì per tutti, non erano soggette a tasse: erano libere.”
Sceglie questi soggetti sui quali non può esercitare alcuna influenza per scagionarsi dall’accusa di esercitare un potere ipnotico sulle persone da ritrarre, e battezza queste immagini con il nome di “Equivalenti”, cioè, “equivalenti ai suoi pensieri, alle sue speranze, alle sue aspirazioni, alle sue disperazioni, ai suoi timori. Pubblica queste fotografie insieme ad altre assai espressive, e spesso evocative, sia per il contenuto sia per il modo in cui vengono trattate: un prato brillante di gocce di pioggia, le palme delle mani di una donna strette l’una contro l’altra fra le ginocchia. Se si guardano obbiettivamente, molte di queste stampe ricche di neri profondi, di grigi scintillanti e di bianchi incandescenti, affascinano per la loro assoluta bellezza formale. Sono astrazioni fotografiche: la forma astrae dal significato illustrativo. Eppure paradossalmente, lo spettatore non si dimentica neppure per un minuto di quello che è stato fotografato. Mentre si sorprende di riconoscere il soggetto, si rende conto quasi subito che la forma dalla quale il suo occhio è affascinato è espressiva, importante, e si meraviglia che tanta bellezza possa celarsi in un soggetto così banale. Questa è la forza della macchina fotografica: può cogliere immagini familiari e dotarle di nuovi significati, con un’espressione particolare, con l’impronta di una personalità.
Fra le ultime fotografie di Stieglitz, costretto ad abbandonare la macchina fotografica per problemi di salute intorno al 1937, figurano immagini di New York prese dalle finestre di un grattacielo, e prati e alberi intorno alla vecchia casa di famiglia a Lake George, dove trascorreva l’estate.
Nel frattempo non smette di sostenere l’arte moderna: nella sua galleria di New York, An American Place, continua a organizzare esposizioni di pittura, insieme a saltuarie mostre fotografiche, fino alla morte, nel 1946.
DA PAULA AGLI EQUIVALENTI
Un aspetto ne è stato dimenticato, un aspetto che , secondo le definizioni ontologiche di alcuni, è essenziale per la definizione della fotografia. Questo aspetto è il riconoscimento del taglio della realtà , del fatto che se la fotografia riproduce sì il mondo , lo fa però per frammenti. Cavell scrive “La macchina , in quanto oggetto finito, taglia una porzione di un campo infinitamente più grande. Una volta ritagliata la fotografia, il resto del mondo è eliminato dal taglio.” Ma nelle fotografie di Stieglitz gli effetti di taglio sono deliberatamente mascherati , dissimulati o resi confusi attraverso gli elementi della composizione interna, dalle verticali della finestra e dell’ombra sul lato destro, e dalle zone buie in alto e in basso, che inquadrano gli elementi dell’immagine nello stesso modo in cui la cornice sul tavolo contiene e trattiene il proprio contenuto.
Ma, se Stieglitz non si è preoccupato o non ha riconosciuto un aspetto tanto essenziale della fotografia come il taglio, pare evidente che è semplicemente perché non gli sembrava essenziale negli anni 80 , né del resto nel corso del primo decennio del secolo. E’ anche perché solo certi sviluppi della fotografia avrebbero potuto rendere essenziale questo aspetto (e quando giunse il momento, i risultati furono in effetti straordinari).
Questi sviluppi sono legati al Pittoricismo in fotografia, e più in particolare agli aspetti di questo movimento cui Stieglitz si è sentito sempre più estraneo: cioè non soltanto agli effetti caratteristici di sfumato artistico che si trova nelle prime fotografie di Steichen, di Coburn o di White, ma anche alla composizione interna derivata naturalmente dalla stessa sensibilità.
Tenendo presente quanto detto, si possono considerare le fotografie di nuvole che Stieglitz ha realizzato tra il 1923 e il 1931 e che ha intitolato Equivalenti. Si tratta infatti di opere che dipendono nel modo più radicale e più evidente dall’effetto del taglio, dall’impressione che si ha, potremmo dire di immagini strappate con forza dal tessuto continuo dell’estensione del cielo. Questo riguarda da un lato una caratteristica del cielo stesso, o più esattamente una caratteristica che Stieglitz mette in evidenza un queste immagini: non è più soltanto il fatto che il cielo è vasto e una fotografia ne può presentare solo una parte limitata, è piuttosto che il cielo è per essenza non composto. Queste fotografie non danno solo un’impressione di composizione imprevista, fortuita, secondo il caso di qualche associazione accidentale, fanno sentire la resistenza del loro oggetto a una sintassi interna, postulano l’assenza di fondamento della composizione, esattamente come, per esempio, un readymade di Duchamp cortocircuita qualsiasi discussione a proposito dei rapporti interni tra i suoi elementi.
Il termine rapporti non ha più molto a che vedere qui con il significato abituale che gli si attribuisce nelle arti tradizionali: così come tutto il senso di readymade deriva dal puro cambiamento di contesto e di situazione, tutto il senso di queste immagini, che ci arrivano come un insieme impossibile da analizzare, deriva dal puro fatto che sono ritagliate, da questo gesto che le crea attraverso il taglio.
Ma Stieglitz vuole andare più lontano. Ciò che queste fotografie cercano in modo ripetitivo è di assicurare che l’impatto di questo taglio, di questa dislocazione, di questa separazione, troverà un’eco in ciascuno dei punti dell’immagine. L’incredibile verticalità di queste nuvole che si elevano verso l’alto dell’immagine crea una straordinaria impressione di disorientamento , quasi fino alla vertigine. Non si capisce dov’è l’alto e dov’è il basso, né perché questa immagine che sembra un’immagine della realtà sia priva dell’elemento primordiale del nostro rapporto con essa, cioè del senso indefettibile dell’orientamento con la terra. E’ qui che questo tipo di taglio va più lontano del semplice fatto di strappare una parte da un continuum più vasto. Esso carica l’immagine in modo tale che abbiamo l’impressione che sia a noi che viene strappato qualcosa, la sensazione che questa fotografia no è più ciò che abbiamo sempre creduto che fosse la fotografia, ovvero il prolungamento possibile dell’esperienza della nostra presenza materiale al mondo.
Private del suolo, queste immagini perdono il loro fondamento. A livello più letterale, Stieglitz ha soppresso dal campo dell’immagine ogni riferimento al suolo, alla terra, all’orizzonte. A un altro livello, più grafico, i solchi verticali delle nuvole evocano in noi, parodiandola, l’idea della cosa assente: costruiscono nel campo del cielo un solido sistema di vettori, di linee di orientamento, di assi, e in certe immagini dividono il campo in zone luminose e in zone scure. Fanno dunque appello al nostro bisogno di orientamento e allo stesso tempo ai mezzi abituali di cui ci serviamo per assicurarlo riferendoci ad un orizzonte che organizzi e riaffermi il nostro rapporto con la terra. Le nuvole ci forniscono il ricordo di questa funzione, ma ne falliscono l’adempimento. Perché la nuvola è verticale.
Attraverso la verticalità le nuvole rinviano al significato primo del taglio e lo raddoppiano, o meglio: i due significati si rinviano reciprocamente l’un l’altro e si rafforzano vicendevolmente, perché in entrambe i casi si tratta di mostrare esclusivamente il mondo per mezzo di un’immagine radicalmente separata dai suoi punti di ancoraggio, un’immagine che ha come soggetto il fatto di levare l’ancora. La nuvola, naturalmente, rappresenta anche dell’altro. E’ l’impronta dello stato dell’atmosfera: la direzione dei venti e il grado di umidità sono registrati e resi visibili dalla configurazione delle nuvole, a loro volta rese visibili dalla rifrazione della luce. Nella misura in cui fissano la traccia di qualcosa di invisibile, le nuvole sono segni naturali. In Equivalenti Stieglitz riesce a trasformarle in segni non naturali trasponendoli nel linguaggio culturale della fotografia. E’ chiaro inoltre che questa trasformazione non funziona elemento per elemento come nella fotografia di Paula, dove le diverse componenti dell’insieme visivo finiscono col rappresentare altro. In Equivalenti la trasformazione funziona in blocco, in modo che il cielo nel suo insieme e la fotografia nel suo insieme sono posti in un rapporto simbolico reciproco. Lo strumento estetico da cui dipende questa lettura è il taglio.
In queste fotografie il taglio non è dunque affatto un semplice fenomeno meccanico. E’ l’unica cosa che costituisce l’immagine e che, costituendola, implica che la fotografia è una trasformazione assoluta della realtà. Non perché la fotografia è senza spessore, in bianco e nero, o piccola, ma perché in quanto serie di segni realizzati su carta attraverso la luce, non possiede più orientamento “naturale” in rapporto agli assi del mondo reale di quanto ne possiedano, su un quaderno, i segni che conosciamo sotto il nome di scrittura. Intitolando questa serie Equivalenti, Stieglitz si riferisce evidentemente al linguaggio del simbolismo e ai suoi concetti di corrispondenza e di geroglifico. Ma quello che ha intenzione di realizzare qui è il simbolismo allo stato puro, il simbolismo come visione del linguaggio in quanto assenza fondamentale, assenza del mondo e dei suoi oggetti sostituti dalla presenza del segno.
Non sto assolutamente dicendo che con il taglio possediamo finalmente una definizione di quello che è fondamentalmente, o per essenza, la fotografia. Il taglio è forse un dato della fotografia ma non è più essenziale alle possibilità estetiche di questo medium di altre caratteristiche, come la riproducibilità o il suo statuto semiologico di traccia. A un certo momento un determinato artista ha fatto di questa caratteristica un uso artistico, ha trovato il tipo di esperienza sensibile che solo questo uso poteva registrare. Tale scoperta ha reso molte cose possibili: ha permesso a Stieglitz di prendere questa lunga serie di fotografie di nuvole, ma ha anche fornito un contesto agli straordinari ritratti delle mani di Georgia O’Keeffe, fotografie che trattano della separazione tra l’immagine e il corpo cui queste mani sono legate nella realtà, e che qui è sostituito dal piano della stampa fotografica. In altri casi Stieglitz ha deciso che uno qualsiasi dei quattro lati poteva fare da “alto”.
Per concludere vorrei avanzare una proposta supplementare: ricorrere all’argomento ontologico può nuocere a qualsiasi visione di un medium - che si tratti di fotografia, di pittura , di teatro - in quanto arte, perché definire una categoria a priori - qui la fotografia nel suo rapporto al taglio che essa opera della realtà - è dare l’impressione che tale categoria sia sempre esistita e non aspettava che di essere notata e svolta. Così facendo, mascheriamo un aspetto ben più centrale, quello del rischio inerente alla creazione di ogni opera d’arte, o almeno della grande arte, rischio che consiste spesso nel lavorare alla cieca, senza la minima certezza e garanzia di riuscita. Se non si è visto il rischio che accompagna la vertigine da cui si è colti di fronte alle fotografie di nuvole di Stieglitz, allora non si sono viste queste fotografie, non si è visto ciò a cui l’autore ha dovuto rinunciare per farle funzionare, o in base a che cosa pensava che avrebbero funzionato o affermava che effettivamente funzionano. Vedere il rischio significa invece rendersi conto che, come sempre in arte, lo scacco sarebbe sentito come un’impostura.

BIBLIOGRAFIA
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Racanicchi Piero; Donzelli Pietro, Alfred Stieglitz, da Popular Photography, 1963
Stieglitz Alfred, New York 1979, in October, n. 11, inverno 1979

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