I paradossi della fisica

Materie:Tesina
Categoria:Fisica

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Testo

ISTITUTO TECNICO INDUSTRIALE F.CORNI
LICEO SCIENTIFICO- TECNOLOGICO
A.S.1999/2000

STUDENTE: MARCO BERNABEI
CLASSE: 5° A l.s.t.
SCUOLA: I.T.I. F.CORNI
MATERIA: FISICA
PROF.: G.GAGLIANI ……………………..
Introduzione ai paradossi
Le opinioni su quale sia il ruolo dei paradossi divergono: qualcuno pensa che abbiano un’importante e drammatica funzione, annunciando e innescando rivoluzioni del pensiero; secondo alcuni filosofi potrebbero essere le prove, inevitabilmente irreali, del carattere allucinatorio del mondo sostenuto dagli idealisti; secondo altri risultano, a volte, meno frivoli di quello che sembrano; questa è una caratteristica curiosa dei paradossi, che mostrano, dietro la straordinarietà, un evento che cerca una spiegazione non ancora data.
Il paradosso dei paradossi è che il vero paradosso non può esistere: il vero paradosso dovrebbe essere come “l’ordigno fine del mondo”, “l’acido che corrode tutto”, ogni recipiente, la Terra e, in definitiva, anche se stesso.
Forse non c’è un tipo unico di paradossi, infatti le generalizzazioni sono sbagliate non tenendo conto del particolare; d’altra parte se tutte le generalizzazioni sono sbagliate, lo è anche questa appena enunciata, che quindi è falsa; esiste quindi qualche generalizzazione giusta e si può continuare a cercarla. In questo paradosso si vedono gli ingredienti costanti ed essenziali dei paradossi, l’autoriferimento e la negazione.
Nella storia ci sono stati diversi periodi in cui l’attenzione per i paradossi è stata molto viva: nel periodo greco, poi nel Medioevo, di nuovo nel Rinascimento, a cui risalgono numerose raccolte di paradossi, e quindi all’inizio del Novecento.
La parola greca dalla quale deriva la nostra “paradosso” vuol dire “contro l’opinione corrente”, o “contro l’apparenza”, o al di là della stessa. Nella lingua greca esistevano anche altre parole che noi oggi traduciamo con “paradosso”, ad esempio “aporia”. Con “paradosso” s’intende in genere:
-un argomento che appare contraddittorio ma che deve essere accettato;
oppure
-un argomento che appare corretto ma porta ad una contraddizione;
la contraddizione può essere interna, logica, oppure può minare qualche credenza già accettata e diffusa.
Prima parte
Paradossi del senso comune
Un’ampia classe di paradossi è costituita da quelli che contraddicono il senso comune. Einstein ha detto che il senso comune è l’insieme dei pregiudizi che ognuno ha assorbito fino all’età di diciotto anni. Forse è l’insieme delle credenze efficaci che l’essere umano adotta per sopravvivere nell’ambiente, e quindi, ad esempio, per non morire dallo spavento ogni volta che il Sole tramonta.
Non bisogna essere troppo facilmente disposti a considerare paradossi le verità che contraddicono il senso comune, anche inteso come visione del mondo ereditata dalla ricerca scientifica precedente: non si vede infatti perché tale visione non possa cambiare dal momento che è già stata modificata tante volte. Si pensi ad esempio alla teoria copernicana: nel Seicento si parlava del moto della Terra come del paradosso di Copernico. Il vero paradosso è quello che, pur dando luogo ad una contraddizione, ad un effetto assolutamente imprevisto, non va contro le leggi della logica, della matematica e della fisica, ma rappresenta solo una situazione particolare ed eventualmente difficile da comprendere. In definitiva il fatto che un fenomeno sia considerato o no un paradosso, dipende molte volte dalle conoscenze e dalla cultura di chi osserva quel fenomeno: per qualcuno può risultare assurdo e irreale, per altri una conseguenza logica di un evento che si conosce già; ciò non toglie che la stranezza insita in un fenomeno che si dice paradossale possa rimanere presente in entrambi i casi.
Un famoso paradosso del senso comune è il cosiddetto “paradosso del mentitore”, esistente in diverse versioni: consiste, in generale, nell’avere una contraddizione logica che non permette di stabilire univocamente la veridicità o la falsità di una frase. Un esempio famoso, di Aristotele, è quello che viene anche definito “paradosso dello spergiuro”: una persona giura che romperà il suo giuramento; in seguito giura di fare qualcosa ma non la fa, e sostiene di aver così rispettato il giuramento di rompere il giuramento. Secondo Aristotele, chi giura di rompere il proprio giuramento è fedele al giuramento soltanto nel rompere quel giuramento solo, ma nel secondo caso non mantiene il proprio giuramento. Aristotele, tuttavia, non nota che il vero paradosso nasce nel primo giuramento: se infatti questo viene applicato a se stesso, cosa plausibile in quanto non è specificato che debba riguardare un altro giuramento, si ottiene una contraddizione, un’ambiguità, perché non si riesce a capire se questo primo giuramento debba essere mantenuto oppure no.
Un’altra variante del paradosso del mentitore è quella della carta da visita, inventata dal matematico P.B.E.Jourdain, su un lato della quale è scritto che la frase sull’altro lato è vera, e sull’altro lato che la prima frase è falsa. Questa versione con sdoppiamento risale a Buridano, nel Trecento, con le frasi: ”Socrate dice che quello che dice Platone è falso”, e “Platone dice che quello che dice Socrate è vero”. In entrambi i casi non è possibile individuare chi dice il vero e chi dice il falso.
Passiamo ora ad esaminare i paradossi della fisica, quelli più famosi che hanno dato adito a lunghe discussioni e controversie tra gli scienziati anche di epoche diverse; ne propongo, tre che riporto qui di seguito nella seconda parte di questa relazione.

Seconda parte
I paradossi della fisica

A) Il paradosso della dualità onda-corpuscolo

La luce è spesso associata alle nozioni di evidenza e di semplicità di cui rimane il simbolo. Tuttavia questo fenomeno, il più direttamente legato alle percezioni visive, si rivelò presto assai misterioso. “Sapremmo molte cose se sapessimo che cos’è un raggio di luce”, scrisse Louis de Broglie. Il problema sta infatti proprio in questo punto: non sappiamo di che cosa è fatta la luce.
Isaac Newton, notando che le ombre degli oggetti sono nette e non vaghe, propose l’idea che fosse formata da piccolissime biglie, ossia da corpuscoli. Egli così spiegò il fenomeno della riflessione su uno specchio, affermando che i corpuscoli rimbalzano sulla sua superficie, proprio come se fossero delle palline che rimbalzano sul muro. Enunciò queste sue idee nell’Opticks, pubblicato nel 1704.
Di diversa opinione era il fisico olandese Christian Huygens, suo contemporaneo, che riteneva che le onde fossero delle onde e pubblicò le sue idee nel Traité de la lumière, nel 1690.
La differenza tra le due teorie è sostanziale: se, dopo aver teso una corda, ne scuotiamo un capo, generiamo un’onda che si propaga lungo la corda, senza che essi lasci la nostra mano per rincorrerla; contrariamente ai corpuscoli le onde non causano moto, non trasportano niente, non fanno altro che trasmettere energia da un punto a un altro.
Inizialmente la teoria di Newton soppiantò quella di Huygens, grazie anche al maggior prestigio del primo; nonostante ciò già nel 1800 si dovette rivedere tale teoria. Il fisico inglese Thomas Young aveva osservato che la luce sovrapposta ad altra luce poteva dare il buio! Era quello uno dei fenomeni che egli battezzò interferenze luminose. La teoria corpuscolare sembrava non poterli spiegare, mentre quella ondulatoria ben giustificava questo fenomeno: quando due treni d’onde si incontrano nell’acqua, ci sono certi punti in cui le onde sono in opposizione di fase, in questi punti le due onde si annullano; per le onde luminose può valere la stessa proprietà che causa, paradossalmente, il buio. Subito questa nuova teoria trovò molte resistenze e fu presa per ridicola; quando, però, il fisico Fresnel riuscì a proporre una spiegazione a quasi tutti i fenomeni luminosi mediante la teoria delle onde, ci si dovette ricredere; fondamentale fu poi la formulazione delle quattro equazioni di Maxwell nella seconda metà dell’ottocento, con le quali egli dimostrava che le onde luminose sono onde elettromagnetiche.
Sembrava, a questo punto, di aver risolto definitivamente il problema; in realtà non fu così: alla fine dell’Ottocento alcuni esperimenti rivelarono un certo numero di fenomeni che la fisica non riusciva a spiegarsi, il più noto dei quali è l’effetto fotoelettrico. A causa di questi esperimenti Einstein propose un audace ritorno alla teoria corpuscolare, e sostenne che l’interazione di un’onda elettromagnetica con la materia avvenisse per mezzo di processi elementari indivisibili, in cui l’irraggiamento avviene per mezzo di corpuscoli detti fotoni, ognuno dei quali possiede un’energia proporzionale alla frequenza ad esso associata. Questa nuova teoria non sostituì però la precedente, in quanto non riusciva a spiegare tutti i fenomeni che trovavano giustificazione con il modello ondulatorio (ad esempio la diffrazione della luce); si dovette così ammettere la coesistenza di entrambi i modelli: corpuscolare e ondulatorio. Il concetto di dualità onda-particella fu introdotto da De Broglie nel 1923, completando quella di Einstein secondo cui nelle onde ci sono particelle, ma non viceversa; si tratta proprio di dualità in quanto i due aspetti sono complementari ma altresì contrastanti ed opposti.

B) Il paradosso dei gemelli
Il paradosso di Langevin, meglio noto come paradosso dei gemelli, è legato alla teoria della relatività ristretta sviluppata da Einstein nel corso del 1905.
Consideriamo due gemelli, Remigio ed Eligio, di vent’anni. Il primo decide di partire per un viaggio nello spazio; dopo il commiato dal fratello, Remigio parte e percorre dalla Terra, in linea retta e a velocità costante, un percorso di sette anni-luce, il suo razzo viaggia alla velocità di 296.794 km/s, ossia al 99% della velocità della luce. Raggiunto il suo obiettivo, egli effettua subito un’inversione di marcia a semicerchio, seguendo la stessa traiettoria dell’andata. Il paradosso sta nel fatto che quando Remigio torna a casa, trova il fratello Eligio molto più vecchio rispetto a lui; il primo ha infatti 22 anni, mentre il secondo ben 34. Questo fatto, per quanto strano, è in perfetto accordo con la teoria della relatività, anche se è piuttosto fantascientifico riuscire a costruire un razzo così veloce.
Questa che segue è la legge fisica che permette di calcolare l’incremento dell’età di uno dei due fratelli, tra il momento della partenza e quello dell’arrivo dell’astronauta, conoscendo l’incremento di età dell’altro gemello:
= v/c= 0,99 /t1 = 14 anni
=t = tt1 * (1- *2)1/2 = 14 * (1- 0,992)1/2 = 2
infatti per il fratello sono trascorsi solo due anni.
La teoria della relatività, postula che la velocità alla quale passa il tempo dipende dalla velocità del sistema di riferimento in cui ci si trova. Per accorgersi delle differenze, però, è necessario uno scarto delle velocità molto evidente, si parla ad esempio di decine di migliaia di chilometri al secondo.
Tornando ai nostri gemelli possiamo pensare che entrambi abbiano al polso un orologio che indica il passare degli anni: se Eligio potesse osservare l’orologio di Remigio, constaterebbe che funziona più lentamente del suo e dovrebbe concludere che Remigio invecchia più lentamente di lui. E’ qui opportuna una precisazione: è sbagliato dire che il gemello viaggiatore invecchia meno lentamente del fratello, in realtà invecchiano allo stesso modo. Si può spiegare questo fenomeno con una analogia. Due amici partono da Parigi e si dirigono verso Digione in automobile; uno sceglie la strada più breve, percorrendo una linea retta, l’altro fa invece una deviazione e compie quindi un tragitto triangolare. Quando si rincontrano a Digione, i fratelli possono osservare che i loro contachilometri non indicano lo stesso numero di chilometri, ovviamente senza stupirsene. Riprendiamo il discorso sui gemelli e tracciamo le loro traiettorie nello spazio-tempo, interessandoci solo, però, dell’asse delle ascisse (lo spazio). Le traiettorie, che possiamo definire linee dell’universo, si dividono quando Remigio decolla e tornano a riunirsi quando l’astronave atterra al termine del viaggio. Gli orologi che i due gemelli portano al polso equivalgono ai contachilometri dei due automobilisti di cui abbiamo parlato: essi, gli orologi, indicano il tempo “proprio” di coloro che li portano. Il fratello che è rimasto a casa segue la linea AC, mentre l’altro segue la linea dell’universo ABC, nella quale il punto B corrisponde al momento e al luogo in cui compie l’inversione di marcia.
tempo C
B

A spazio

Come è naturale che i chilometraggi dei due automobilisti siano diversi al loro arrivo, è anche naturale che il tempo proprio AC sia diverso dal tempo proprio ABC. Lo è effettivamente, ma in modo diverso da quello che ci aspetteremmo guardando la figura. Poiché il tragitto ABC è più lungo di AC ci potremmo semmai aspettare che il fratello viaggiatore sia ora più vecchio dell’altro, ma non è così. Si dice che la metrica dello spazio-tempo non è uguale a quella dello spazio ordinario: nello spazio-tempo, ABC è più corto di AC, e Remigio risulta effettivamente più giovane di Eligio. Ma il vero paradosso dei gemelli non è tanto in ciò che ho appena detto, che è perfettamente spiegabile con la relatività, ma in quest’altro problema che adesso esamineremo. Mettiamoci nelle condizioni di Remigio il viaggiatore; a lui, che dopo l’accelerazione iniziale si muove di moto rettilineo uniforme, sembra che sia Eligio ad allontanarsi, poi a fare una conversione a semicerchio e quindi a riavvicinarsi; sembra legittimo perciò pensare che lo stesso discorso fatto prima possa essere riproposto identico per l’altro fratello, si otterrebbe, alla fine, che ognuno dei due vedrebbe l’altro più vecchio di lui, cosa impossibile! In realtà anche questo può essere perfettamente spiegato dalla relatività: il dubbio che ci siamo posti è illegittimo, infatti abbiamo reso simmetrica la condizione dei due fratelli mentre non lo è. Remigio non si muove sempre di moto rettilineo uniforme, compie, a metà del suo viaggio, un’inversione che lo costringe a decelerare, a compiere un tratto circolare e poi a riprendere l’andamento iniziale, in sintesi non si trova sempre in un sistema inerziale o galileiano; è necessario quindi applicare la relatività generale in questo caso, la quale non porta a risultati diversi dai primi.
C) Il paradosso di Olbers o paradosso della notte buia
Il paradosso di Olbers o paradosso della notte buia, è uno di quegli enigmi particolarmente tenaci che per molto tempo hanno tormentato gli scienziati. Pare sia stato scoperto nel Settecento, e per oltre due secoli ha tenuto testa a parecchi tentativi di risoluzione; solo le nostre conoscenze attuali hanno potuto fare più luce su questo problema.
Da sempre gli uomini hanno notato che di sera, dopo il tramonto del Sole, il fondo del cielo diventa nero fra le stelle che scintillano, ossia si oscura. Per quanto sembri terribilmente banale, quest’osservazione pone tuttavia un grave problema cosmologico, che concerne la struttura e la formazione dell’intero universo. Le supposizioni più semplici conducono infatti alla conclusione che il cielo dovrebbe essere estremamente luminoso, anche di notte, e noi potremmo fare a meno del Sole per vederci perfino ventiquattrore su ventiquattro. Immaginiamo per esempio che il nostro universo sia infinito, eterno e popolato uniformemente di stelle, in qualsiasi direzione rivolgessimo lo sguardo, dovremmo allora vedere una stella più o meno lontana, e il cielo sarebbe tappezzato di stelle. Questa semplice considerazione è in contrasto con la più comune delle osservazioni: di notte fa buio.
E’ necessario, per capire le diverse teorie che furono proposte, riassumere i tre differenti sistemi filosofici greci che riguardano il cosmo:
• Il sistema atomistico, delle filosofie pitagorica, ionica e poi epicurea, secondo il quale la materia è composta di elementi fondamentali indivisibili: gli atomi. L’universo è descritto come infinito e omogeneo, e il cosmo è costellato di tantissime stelle distribuite in modo casuale.
• Il sistema aristotelico, che pone la Terra al centro dell’universo e fa girare le stelle e i pianeti attorno ad essa su traiettorie circolari. Le stelle fisse segnano il limite al di là del quale non esiste più nulla, “né spazio, né vuoto, né tempo”; si tratta quindi di un sistema geocentrico e finito.
• Il modello stoico, di Zenone, che descrive l’universo come un volume di spazio finito, circondato da un vuoto infinito; questo schema ha il merito di eliminare i problemi del limite del cosmo e del nulla introdotti da Aristotele.
Il modello aristotelico è rimasto il più in voga fino al basso Medioevo; è quindi comprensibile il fatto che il problema della “notte buia” non sia mai venuto allo scoperto, esso infatti richiede la concezione di un universo infinito e popolato uniformemente di stelle.
Nel Seicento e nel Settecento, periodo fecondo per la scienza, troviamo scienziati con idee diverse. Keplero, pur essendo copernicano, accettò la tesi aristotelica di un universo finito; egli, nel 1610, si interrogò sui segreti della notte buia e si rispose che non esistono abbastanza stelle per coprire totalmente il cielo; Cartesio sostenne la tesi epicurea ma non si pose mai il problema del buio; Newton fu dapprima stoico ma poi passò alla concezione epicurea, poiché l’idea dell’universo finito era in contrasto con la teoria della gravitazione, ma neanch’egli si preoccupò del paradosso di cui ci stiamo interessando.
Il problema dell’oscurità cosmica fu sollevato esplicitamente per la prima volta solo nel 1721, dall’astronomo inglese Halley: egli credette di poterlo risolvere dicendo che la maggior parte delle stelle è così lontana che la loro luce non può essere percepita dai nostri sensi; in realtà questa spiegazione non regge. Anche se, a partire da una certa distanza, le stelle non possono più essere osservate singolarmente dal nostro apparato visivo, la somma dei contributi di un gran numero di stelle deboli dovrebbe apparirci uniformemente brillante. Successivamente, nel 1744, un giovane astronomo svizzero, Chéseaux, pubblicò un saggio notevole: partendo da un’ipotesi di tipo epicureo in cui tutte le stelle sono simili al Sole, calcolò che la luminosità totale della volta celeste dovrebbe essere 90.000 volte quella del Sole; dovremmo quindi vederci benissimo anche di notte. Proseguendo nell’esposizione delle sue cifre, Chéseaux mostrò che la distanza media delle stelle non nascoste da alcun ostacolo alla vista degli astronomi, è di tre milioni di miliardi di anni-luce; questa cifra gli sembrò così grande da ritenersi autorizzato a concludere che l’assorbimento ad opera del mezzo interstellare, l’etere, è sufficiente a cancellare la luce delle stelle lontane. Questa spiegazione fu ripresa nel 1823 da un medico tedesco appassionato di astronomia: Olbers; egli riformulò il paradosso menzionato da Chéseaux in termini molto simili, il paradosso porta oggi il suo nome, ma senza dubbio illegittimamente. Per un secolo si credette che quest’idea, secondo la quale il mezzo interstellare assorbirebbe la luce delle stelle lontane, fosse la soluzione esatta al quesito. Con la nascente termodinamica ci si accorse però che questa spiegazione non poteva funzionare. Assorbendo l’irraggiamento delle stelle, il mezzo interstellare si riscalda fino a raggiungere una temperatura di equilibrio: emette allora tanto quanto assorbe, e non riduce quindi la luminosità del cielo. Nel 1848 l’astronomo inglese Herschel propose un approccio fondamentalmente nuovo al problema, la sua soluzione fu ripresa e convalidata da matematici e la sua formulazione più raffinata si basa oggi sulla teoria dei frattali; essa esige un universo organizzato in un modo molto particolare ma relativamente conforme alla struttura che gli attribuiamo: le stelle devono essere organizzate in galassie, e le distanze intergalattiche devono essere molto superiori a quelle intragalattiche; le galassie devono formare ammassi, separati da distanze molto superiori alle loro dimensioni; gli ammassi sono al loro volta raggruppati in superammassi, e così di seguito in un’infinità di livelli gerarchici. Si dimostra allora che, in certe condizioni (una di queste è che in un ammasso non devono esserci troppe stelle), un tale universo è buio. Benché sia infinito e contenga un’infinità di stelle, il cielo non ne è completamente tappezzato, ma solo cosparso di puntini luminosi su uno sfondo dominante nero. Il paradosso è così eliminato in modo elegante. Questo, però, è un concetto difficile da afferrare, e perciò ha avuto scarso successo tra gli astronomi.
Alla fine del Seicento si era presa coscienza del carattere finito della velocità della luce. I fisici sapevano che, poiché la luce percorre in un tempo finito solo una distanza finita, l’osservazione delle stelle rivela solo il loro passato, mai il loro presente. Certi astri che oggi risplendono di viva luce sono in realtà già spenti. Si profila allora una spiegazione semplicissima del paradosso: se l’universo esiste solo da un tempo finito, diciamo T anni, la luce delle stelle situate a più di T anni-luce da noi non hanno ancora raggiunto il nostro pianeta. Noi vediamo quindi soltanto le stelle situate all’interno di una sfera di raggio T anni-luce; se queste stelle non sono abbastanza numerose per coprire l’intero cielo è normale che questo sia nero. E’ strano, tra l’altro, venire a sapere che questa spiegazione è dovuta a Edgar Allan Poe, nessuno prima di lui aveva pensato a considerare il valore finito della velocità della luce. Lord Kelvin riformulò in modo più rigoroso l’intuizione di Poe poco dopo il 1900; oggi questa è considerata una delle cause maggiori dell’oscurità del cielo notturno.
Fu proposta però anche un’altra soluzione: quella dello spostamento verso il rosso; essa prendeva l’avvio da un modello cosmologico che considerava l’universo infinito, in espansione e di età infinita (quest’ultimo punto invalidava la teoria di Poe), e popolato da stelle eternamente splendenti (tesi non certamente condivisa dalla termodinamica). L’idea dell’espansione nacque dopo che Edwin Hubble ebbe stabilito, con l’aiuto di un telescopio, che lo spettro delle galassie presenta uno spostamento sistematico verso il rosso, proporzionale alla loro distanza. La luce delle galassie ci giunge con una lunghezza d’onda maggiore rispetto al momento della sua emissione; questo fatto è spiegato con la teoria dell’espansione dell’universo: nel corso del tempo tutte le distanze aumentano. In particolare la lunghezza d’onda della luce delle stelle lontane aumenta, nel corso del suo viaggio intergalattico, con lo stesso ritmo con cui si espande l’universo: quanto può una stella è lontana, tanto più a lungo la sua luce ha viaggiato e tanto più, al suo arrivo sulla Terra, il suo spettro è spostato verso il rosso. Si può dunque immaginare che, se la distanza è sufficientemente grande, la luce visibile emessa dalla stella ci arrivi con uno spettro abbastanza spostato, verso il rosso e oltre, da risultare invisibile a occhio nudo; il messaggio visivo che molte stelle ci inviano si cancella a poco a poco, e ci arriva con sempre maggiore difficoltà. Questa soluzione è molto attraente ma il suo credito si attenuò con l’avvento della teoria del big bang, la quale propone un universo prodotto da una gigantesca esplosione cosmica, paragonabile a una sfera di dimensioni finite ma in continua espansione, e di un’età di circa 15 miliardi di anni.
L’astrofisico americano Edward Harrison è riuscito a stabilire che la velocità limitata della luce è la spiegazione principale dell’enigma, e che lo spostamento verso il rosso contribuisce solo in misura minore al buio notturno. Poté dimostrare inoltre che le stelle, quand’anche bruciassero tutto il loro combustibile nucleare, non riuscirebbero a diffondere una luminosità paragonabile a quella del Sole. La loro durata di vita è troppo breve rispetto all’età dell’universo per saturare lo spazio con il loro irraggiamento; affinché il cielo possa risplendere come il Sole, sia la durata media della vita delle stelle sia la loro densità nello spazio dovrebbero essere circa dieci volte maggiori; per questi motivi, quindi, la notte è buia o semplicemente ornata da qualche astro.
BIBLIOGRAFIA
-LOLLI G., “Il riso di Talete, matematica e umorismo”, ed. Bollati-Boringhieri,1998.
-KLEIN E., “Conversazioni con la sfinge, il ruolo dei paradossi nelle rivoluzioni scientifiche”, ed. Il Saggiatore, Milano, 1993.
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ISTITUTO TECNICO INDUSTRIALE F.CORNI
LICEO SCIENTIFICO- TECNOLOGICO
A.S.1999/2000

STUDENTE: MARCO BERNABEI
CLASSE: 5° A l.s.t.
SCUOLA: I.T.I. F.CORNI
MATERIA: FISICA
PROF.: G.GAGLIANI ……………………..
Introduzione ai paradossi
Le opinioni su quale sia il ruolo dei paradossi divergono: qualcuno pensa che abbiano un’importante e drammatica funzione, annunciando e innescando rivoluzioni del pensiero; secondo alcuni filosofi potrebbero essere le prove, inevitabilmente irreali, del carattere allucinatorio del mondo sostenuto dagli idealisti; secondo altri risultano, a volte, meno frivoli di quello che sembrano; questa è una caratteristica curiosa dei paradossi, che mostrano, dietro la straordinarietà, un evento che cerca una spiegazione non ancora data.
Il paradosso dei paradossi è che il vero paradosso non può esistere: il vero paradosso dovrebbe essere come “l’ordigno fine del mondo”, “l’acido che corrode tutto”, ogni recipiente, la Terra e, in definitiva, anche se stesso.
Forse non c’è un tipo unico di paradossi, infatti le generalizzazioni sono sbagliate non tenendo conto del particolare; d’altra parte se tutte le generalizzazioni sono sbagliate, lo è anche questa appena enunciata, che quindi è falsa; esiste quindi qualche generalizzazione giusta e si può continuare a cercarla. In questo paradosso si vedono gli ingredienti costanti ed essenziali dei paradossi, l’autoriferimento e la negazione.
Nella storia ci sono stati diversi periodi in cui l’attenzione per i paradossi è stata molto viva: nel periodo greco, poi nel Medioevo, di nuovo nel Rinascimento, a cui risalgono numerose raccolte di paradossi, e quindi all’inizio del Novecento.
La parola greca dalla quale deriva la nostra “paradosso” vuol dire “contro l’opinione corrente”, o “contro l’apparenza”, o al di là della stessa. Nella lingua greca esistevano anche altre parole che noi oggi traduciamo con “paradosso”, ad esempio “aporia”. Con “paradosso” s’intende in genere:
-un argomento che appare contraddittorio ma che deve essere accettato;
oppure
-un argomento che appare corretto ma porta ad una contraddizione;
la contraddizione può essere interna, logica, oppure può minare qualche credenza già accettata e diffusa.
Prima parte
Paradossi del senso comune
Un’ampia classe di paradossi è costituita da quelli che contraddicono il senso comune. Einstein ha detto che il senso comune è l’insieme dei pregiudizi che ognuno ha assorbito fino all’età di diciotto anni. Forse è l’insieme delle credenze efficaci che l’essere umano adotta per sopravvivere nell’ambiente, e quindi, ad esempio, per non morire dallo spavento ogni volta che il Sole tramonta.
Non bisogna essere troppo facilmente disposti a considerare paradossi le verità che contraddicono il senso comune, anche inteso come visione del mondo ereditata dalla ricerca scientifica precedente: non si vede infatti perché tale visione non possa cambiare dal momento che è già stata modificata tante volte. Si pensi ad esempio alla teoria copernicana: nel Seicento si parlava del moto della Terra come del paradosso di Copernico. Il vero paradosso è quello che, pur dando luogo ad una contraddizione, ad un effetto assolutamente imprevisto, non va contro le leggi della logica, della matematica e della fisica, ma rappresenta solo una situazione particolare ed eventualmente difficile da comprendere. In definitiva il fatto che un fenomeno sia considerato o no un paradosso, dipende molte volte dalle conoscenze e dalla cultura di chi osserva quel fenomeno: per qualcuno può risultare assurdo e irreale, per altri una conseguenza logica di un evento che si conosce già; ciò non toglie che la stranezza insita in un fenomeno che si dice paradossale possa rimanere presente in entrambi i casi.
Un famoso paradosso del senso comune è il cosiddetto “paradosso del mentitore”, esistente in diverse versioni: consiste, in generale, nell’avere una contraddizione logica che non permette di stabilire univocamente la veridicità o la falsità di una frase. Un esempio famoso, di Aristotele, è quello che viene anche definito “paradosso dello spergiuro”: una persona giura che romperà il suo giuramento; in seguito giura di fare qualcosa ma non la fa, e sostiene di aver così rispettato il giuramento di rompere il giuramento. Secondo Aristotele, chi giura di rompere il proprio giuramento è fedele al giuramento soltanto nel rompere quel giuramento solo, ma nel secondo caso non mantiene il proprio giuramento. Aristotele, tuttavia, non nota che il vero paradosso nasce nel primo giuramento: se infatti questo viene applicato a se stesso, cosa plausibile in quanto non è specificato che debba riguardare un altro giuramento, si ottiene una contraddizione, un’ambiguità, perché non si riesce a capire se questo primo giuramento debba essere mantenuto oppure no.
Un’altra variante del paradosso del mentitore è quella della carta da visita, inventata dal matematico P.B.E.Jourdain, su un lato della quale è scritto che la frase sull’altro lato è vera, e sull’altro lato che la prima frase è falsa. Questa versione con sdoppiamento risale a Buridano, nel Trecento, con le frasi: ”Socrate dice che quello che dice Platone è falso”, e “Platone dice che quello che dice Socrate è vero”. In entrambi i casi non è possibile individuare chi dice il vero e chi dice il falso.
Passiamo ora ad esaminare i paradossi della fisica, quelli più famosi che hanno dato adito a lunghe discussioni e controversie tra gli scienziati anche di epoche diverse; ne propongo, tre che riporto qui di seguito nella seconda parte di questa relazione.

Seconda parte
I paradossi della fisica

A) Il paradosso della dualità onda-corpuscolo

La luce è spesso associata alle nozioni di evidenza e di semplicità di cui rimane il simbolo. Tuttavia questo fenomeno, il più direttamente legato alle percezioni visive, si rivelò presto assai misterioso. “Sapremmo molte cose se sapessimo che cos’è un raggio di luce”, scrisse Louis de Broglie. Il problema sta infatti proprio in questo punto: non sappiamo di che cosa è fatta la luce.
Isaac Newton, notando che le ombre degli oggetti sono nette e non vaghe, propose l’idea che fosse formata da piccolissime biglie, ossia da corpuscoli. Egli così spiegò il fenomeno della riflessione su uno specchio, affermando che i corpuscoli rimbalzano sulla sua superficie, proprio come se fossero delle palline che rimbalzano sul muro. Enunciò queste sue idee nell’Opticks, pubblicato nel 1704.
Di diversa opinione era il fisico olandese Christian Huygens, suo contemporaneo, che riteneva che le onde fossero delle onde e pubblicò le sue idee nel Traité de la lumière, nel 1690.
La differenza tra le due teorie è sostanziale: se, dopo aver teso una corda, ne scuotiamo un capo, generiamo un’onda che si propaga lungo la corda, senza che essi lasci la nostra mano per rincorrerla; contrariamente ai corpuscoli le onde non causano moto, non trasportano niente, non fanno altro che trasmettere energia da un punto a un altro.
Inizialmente la teoria di Newton soppiantò quella di Huygens, grazie anche al maggior prestigio del primo; nonostante ciò già nel 1800 si dovette rivedere tale teoria. Il fisico inglese Thomas Young aveva osservato che la luce sovrapposta ad altra luce poteva dare il buio! Era quello uno dei fenomeni che egli battezzò interferenze luminose. La teoria corpuscolare sembrava non poterli spiegare, mentre quella ondulatoria ben giustificava questo fenomeno: quando due treni d’onde si incontrano nell’acqua, ci sono certi punti in cui le onde sono in opposizione di fase, in questi punti le due onde si annullano; per le onde luminose può valere la stessa proprietà che causa, paradossalmente, il buio. Subito questa nuova teoria trovò molte resistenze e fu presa per ridicola; quando, però, il fisico Fresnel riuscì a proporre una spiegazione a quasi tutti i fenomeni luminosi mediante la teoria delle onde, ci si dovette ricredere; fondamentale fu poi la formulazione delle quattro equazioni di Maxwell nella seconda metà dell’ottocento, con le quali egli dimostrava che le onde luminose sono onde elettromagnetiche.
Sembrava, a questo punto, di aver risolto definitivamente il problema; in realtà non fu così: alla fine dell’Ottocento alcuni esperimenti rivelarono un certo numero di fenomeni che la fisica non riusciva a spiegarsi, il più noto dei quali è l’effetto fotoelettrico. A causa di questi esperimenti Einstein propose un audace ritorno alla teoria corpuscolare, e sostenne che l’interazione di un’onda elettromagnetica con la materia avvenisse per mezzo di processi elementari indivisibili, in cui l’irraggiamento avviene per mezzo di corpuscoli detti fotoni, ognuno dei quali possiede un’energia proporzionale alla frequenza ad esso associata. Questa nuova teoria non sostituì però la precedente, in quanto non riusciva a spiegare tutti i fenomeni che trovavano giustificazione con il modello ondulatorio (ad esempio la diffrazione della luce); si dovette così ammettere la coesistenza di entrambi i modelli: corpuscolare e ondulatorio. Il concetto di dualità onda-particella fu introdotto da De Broglie nel 1923, completando quella di Einstein secondo cui nelle onde ci sono particelle, ma non viceversa; si tratta proprio di dualità in quanto i due aspetti sono complementari ma altresì contrastanti ed opposti.

B) Il paradosso dei gemelli
Il paradosso di Langevin, meglio noto come paradosso dei gemelli, è legato alla teoria della relatività ristretta sviluppata da Einstein nel corso del 1905.
Consideriamo due gemelli, Remigio ed Eligio, di vent’anni. Il primo decide di partire per un viaggio nello spazio; dopo il commiato dal fratello, Remigio parte e percorre dalla Terra, in linea retta e a velocità costante, un percorso di sette anni-luce, il suo razzo viaggia alla velocità di 296.794 km/s, ossia al 99% della velocità della luce. Raggiunto il suo obiettivo, egli effettua subito un’inversione di marcia a semicerchio, seguendo la stessa traiettoria dell’andata. Il paradosso sta nel fatto che quando Remigio torna a casa, trova il fratello Eligio molto più vecchio rispetto a lui; il primo ha infatti 22 anni, mentre il secondo ben 34. Questo fatto, per quanto strano, è in perfetto accordo con la teoria della relatività, anche se è piuttosto fantascientifico riuscire a costruire un razzo così veloce.
Questa che segue è la legge fisica che permette di calcolare l’incremento dell’età di uno dei due fratelli, tra il momento della partenza e quello dell’arrivo dell’astronauta, conoscendo l’incremento di età dell’altro gemello:
= v/c= 0,99 /t1 = 14 anni
=t = tt1 * (1- *2)1/2 = 14 * (1- 0,992)1/2 = 2
infatti per il fratello sono trascorsi solo due anni.
La teoria della relatività, postula che la velocità alla quale passa il tempo dipende dalla velocità del sistema di riferimento in cui ci si trova. Per accorgersi delle differenze, però, è necessario uno scarto delle velocità molto evidente, si parla ad esempio di decine di migliaia di chilometri al secondo.
Tornando ai nostri gemelli possiamo pensare che entrambi abbiano al polso un orologio che indica il passare degli anni: se Eligio potesse osservare l’orologio di Remigio, constaterebbe che funziona più lentamente del suo e dovrebbe concludere che Remigio invecchia più lentamente di lui. E’ qui opportuna una precisazione: è sbagliato dire che il gemello viaggiatore invecchia meno lentamente del fratello, in realtà invecchiano allo stesso modo. Si può spiegare questo fenomeno con una analogia. Due amici partono da Parigi e si dirigono verso Digione in automobile; uno sceglie la strada più breve, percorrendo una linea retta, l’altro fa invece una deviazione e compie quindi un tragitto triangolare. Quando si rincontrano a Digione, i fratelli possono osservare che i loro contachilometri non indicano lo stesso numero di chilometri, ovviamente senza stupirsene. Riprendiamo il discorso sui gemelli e tracciamo le loro traiettorie nello spazio-tempo, interessandoci solo, però, dell’asse delle ascisse (lo spazio). Le traiettorie, che possiamo definire linee dell’universo, si dividono quando Remigio decolla e tornano a riunirsi quando l’astronave atterra al termine del viaggio. Gli orologi che i due gemelli portano al polso equivalgono ai contachilometri dei due automobilisti di cui abbiamo parlato: essi, gli orologi, indicano il tempo “proprio” di coloro che li portano. Il fratello che è rimasto a casa segue la linea AC, mentre l’altro segue la linea dell’universo ABC, nella quale il punto B corrisponde al momento e al luogo in cui compie l’inversione di marcia.
tempo C
B

A spazio

Come è naturale che i chilometraggi dei due automobilisti siano diversi al loro arrivo, è anche naturale che il tempo proprio AC sia diverso dal tempo proprio ABC. Lo è effettivamente, ma in modo diverso da quello che ci aspetteremmo guardando la figura. Poiché il tragitto ABC è più lungo di AC ci potremmo semmai aspettare che il fratello viaggiatore sia ora più vecchio dell’altro, ma non è così. Si dice che la metrica dello spazio-tempo non è uguale a quella dello spazio ordinario: nello spazio-tempo, ABC è più corto di AC, e Remigio risulta effettivamente più giovane di Eligio. Ma il vero paradosso dei gemelli non è tanto in ciò che ho appena detto, che è perfettamente spiegabile con la relatività, ma in quest’altro problema che adesso esamineremo. Mettiamoci nelle condizioni di Remigio il viaggiatore; a lui, che dopo l’accelerazione iniziale si muove di moto rettilineo uniforme, sembra che sia Eligio ad allontanarsi, poi a fare una conversione a semicerchio e quindi a riavvicinarsi; sembra legittimo perciò pensare che lo stesso discorso fatto prima possa essere riproposto identico per l’altro fratello, si otterrebbe, alla fine, che ognuno dei due vedrebbe l’altro più vecchio di lui, cosa impossibile! In realtà anche questo può essere perfettamente spiegato dalla relatività: il dubbio che ci siamo posti è illegittimo, infatti abbiamo reso simmetrica la condizione dei due fratelli mentre non lo è. Remigio non si muove sempre di moto rettilineo uniforme, compie, a metà del suo viaggio, un’inversione che lo costringe a decelerare, a compiere un tratto circolare e poi a riprendere l’andamento iniziale, in sintesi non si trova sempre in un sistema inerziale o galileiano; è necessario quindi applicare la relatività generale in questo caso, la quale non porta a risultati diversi dai primi.
C) Il paradosso di Olbers o paradosso della notte buia
Il paradosso di Olbers o paradosso della notte buia, è uno di quegli enigmi particolarmente tenaci che per molto tempo hanno tormentato gli scienziati. Pare sia stato scoperto nel Settecento, e per oltre due secoli ha tenuto testa a parecchi tentativi di risoluzione; solo le nostre conoscenze attuali hanno potuto fare più luce su questo problema.
Da sempre gli uomini hanno notato che di sera, dopo il tramonto del Sole, il fondo del cielo diventa nero fra le stelle che scintillano, ossia si oscura. Per quanto sembri terribilmente banale, quest’osservazione pone tuttavia un grave problema cosmologico, che concerne la struttura e la formazione dell’intero universo. Le supposizioni più semplici conducono infatti alla conclusione che il cielo dovrebbe essere estremamente luminoso, anche di notte, e noi potremmo fare a meno del Sole per vederci perfino ventiquattrore su ventiquattro. Immaginiamo per esempio che il nostro universo sia infinito, eterno e popolato uniformemente di stelle, in qualsiasi direzione rivolgessimo lo sguardo, dovremmo allora vedere una stella più o meno lontana, e il cielo sarebbe tappezzato di stelle. Questa semplice considerazione è in contrasto con la più comune delle osservazioni: di notte fa buio.
E’ necessario, per capire le diverse teorie che furono proposte, riassumere i tre differenti sistemi filosofici greci che riguardano il cosmo:
• Il sistema atomistico, delle filosofie pitagorica, ionica e poi epicurea, secondo il quale la materia è composta di elementi fondamentali indivisibili: gli atomi. L’universo è descritto come infinito e omogeneo, e il cosmo è costellato di tantissime stelle distribuite in modo casuale.
• Il sistema aristotelico, che pone la Terra al centro dell’universo e fa girare le stelle e i pianeti attorno ad essa su traiettorie circolari. Le stelle fisse segnano il limite al di là del quale non esiste più nulla, “né spazio, né vuoto, né tempo”; si tratta quindi di un sistema geocentrico e finito.
• Il modello stoico, di Zenone, che descrive l’universo come un volume di spazio finito, circondato da un vuoto infinito; questo schema ha il merito di eliminare i problemi del limite del cosmo e del nulla introdotti da Aristotele.
Il modello aristotelico è rimasto il più in voga fino al basso Medioevo; è quindi comprensibile il fatto che il problema della “notte buia” non sia mai venuto allo scoperto, esso infatti richiede la concezione di un universo infinito e popolato uniformemente di stelle.
Nel Seicento e nel Settecento, periodo fecondo per la scienza, troviamo scienziati con idee diverse. Keplero, pur essendo copernicano, accettò la tesi aristotelica di un universo finito; egli, nel 1610, si interrogò sui segreti della notte buia e si rispose che non esistono abbastanza stelle per coprire totalmente il cielo; Cartesio sostenne la tesi epicurea ma non si pose mai il problema del buio; Newton fu dapprima stoico ma poi passò alla concezione epicurea, poiché l’idea dell’universo finito era in contrasto con la teoria della gravitazione, ma neanch’egli si preoccupò del paradosso di cui ci stiamo interessando.
Il problema dell’oscurità cosmica fu sollevato esplicitamente per la prima volta solo nel 1721, dall’astronomo inglese Halley: egli credette di poterlo risolvere dicendo che la maggior parte delle stelle è così lontana che la loro luce non può essere percepita dai nostri sensi; in realtà questa spiegazione non regge. Anche se, a partire da una certa distanza, le stelle non possono più essere osservate singolarmente dal nostro apparato visivo, la somma dei contributi di un gran numero di stelle deboli dovrebbe apparirci uniformemente brillante. Successivamente, nel 1744, un giovane astronomo svizzero, Chéseaux, pubblicò un saggio notevole: partendo da un’ipotesi di tipo epicureo in cui tutte le stelle sono simili al Sole, calcolò che la luminosità totale della volta celeste dovrebbe essere 90.000 volte quella del Sole; dovremmo quindi vederci benissimo anche di notte. Proseguendo nell’esposizione delle sue cifre, Chéseaux mostrò che la distanza media delle stelle non nascoste da alcun ostacolo alla vista degli astronomi, è di tre milioni di miliardi di anni-luce; questa cifra gli sembrò così grande da ritenersi autorizzato a concludere che l’assorbimento ad opera del mezzo interstellare, l’etere, è sufficiente a cancellare la luce delle stelle lontane. Questa spiegazione fu ripresa nel 1823 da un medico tedesco appassionato di astronomia: Olbers; egli riformulò il paradosso menzionato da Chéseaux in termini molto simili, il paradosso porta oggi il suo nome, ma senza dubbio illegittimamente. Per un secolo si credette che quest’idea, secondo la quale il mezzo interstellare assorbirebbe la luce delle stelle lontane, fosse la soluzione esatta al quesito. Con la nascente termodinamica ci si accorse però che questa spiegazione non poteva funzionare. Assorbendo l’irraggiamento delle stelle, il mezzo interstellare si riscalda fino a raggiungere una temperatura di equilibrio: emette allora tanto quanto assorbe, e non riduce quindi la luminosità del cielo. Nel 1848 l’astronomo inglese Herschel propose un approccio fondamentalmente nuovo al problema, la sua soluzione fu ripresa e convalidata da matematici e la sua formulazione più raffinata si basa oggi sulla teoria dei frattali; essa esige un universo organizzato in un modo molto particolare ma relativamente conforme alla struttura che gli attribuiamo: le stelle devono essere organizzate in galassie, e le distanze intergalattiche devono essere molto superiori a quelle intragalattiche; le galassie devono formare ammassi, separati da distanze molto superiori alle loro dimensioni; gli ammassi sono al loro volta raggruppati in superammassi, e così di seguito in un’infinità di livelli gerarchici. Si dimostra allora che, in certe condizioni (una di queste è che in un ammasso non devono esserci troppe stelle), un tale universo è buio. Benché sia infinito e contenga un’infinità di stelle, il cielo non ne è completamente tappezzato, ma solo cosparso di puntini luminosi su uno sfondo dominante nero. Il paradosso è così eliminato in modo elegante. Questo, però, è un concetto difficile da afferrare, e perciò ha avuto scarso successo tra gli astronomi.
Alla fine del Seicento si era presa coscienza del carattere finito della velocità della luce. I fisici sapevano che, poiché la luce percorre in un tempo finito solo una distanza finita, l’osservazione delle stelle rivela solo il loro passato, mai il loro presente. Certi astri che oggi risplendono di viva luce sono in realtà già spenti. Si profila allora una spiegazione semplicissima del paradosso: se l’universo esiste solo da un tempo finito, diciamo T anni, la luce delle stelle situate a più di T anni-luce da noi non hanno ancora raggiunto il nostro pianeta. Noi vediamo quindi soltanto le stelle situate all’interno di una sfera di raggio T anni-luce; se queste stelle non sono abbastanza numerose per coprire l’intero cielo è normale che questo sia nero. E’ strano, tra l’altro, venire a sapere che questa spiegazione è dovuta a Edgar Allan Poe, nessuno prima di lui aveva pensato a considerare il valore finito della velocità della luce. Lord Kelvin riformulò in modo più rigoroso l’intuizione di Poe poco dopo il 1900; oggi questa è considerata una delle cause maggiori dell’oscurità del cielo notturno.
Fu proposta però anche un’altra soluzione: quella dello spostamento verso il rosso; essa prendeva l’avvio da un modello cosmologico che considerava l’universo infinito, in espansione e di età infinita (quest’ultimo punto invalidava la teoria di Poe), e popolato da stelle eternamente splendenti (tesi non certamente condivisa dalla termodinamica). L’idea dell’espansione nacque dopo che Edwin Hubble ebbe stabilito, con l’aiuto di un telescopio, che lo spettro delle galassie presenta uno spostamento sistematico verso il rosso, proporzionale alla loro distanza. La luce delle galassie ci giunge con una lunghezza d’onda maggiore rispetto al momento della sua emissione; questo fatto è spiegato con la teoria dell’espansione dell’universo: nel corso del tempo tutte le distanze aumentano. In particolare la lunghezza d’onda della luce delle stelle lontane aumenta, nel corso del suo viaggio intergalattico, con lo stesso ritmo con cui si espande l’universo: quanto può una stella è lontana, tanto più a lungo la sua luce ha viaggiato e tanto più, al suo arrivo sulla Terra, il suo spettro è spostato verso il rosso. Si può dunque immaginare che, se la distanza è sufficientemente grande, la luce visibile emessa dalla stella ci arrivi con uno spettro abbastanza spostato, verso il rosso e oltre, da risultare invisibile a occhio nudo; il messaggio visivo che molte stelle ci inviano si cancella a poco a poco, e ci arriva con sempre maggiore difficoltà. Questa soluzione è molto attraente ma il suo credito si attenuò con l’avvento della teoria del big bang, la quale propone un universo prodotto da una gigantesca esplosione cosmica, paragonabile a una sfera di dimensioni finite ma in continua espansione, e di un’età di circa 15 miliardi di anni.
L’astrofisico americano Edward Harrison è riuscito a stabilire che la velocità limitata della luce è la spiegazione principale dell’enigma, e che lo spostamento verso il rosso contribuisce solo in misura minore al buio notturno. Poté dimostrare inoltre che le stelle, quand’anche bruciassero tutto il loro combustibile nucleare, non riuscirebbero a diffondere una luminosità paragonabile a quella del Sole. La loro durata di vita è troppo breve rispetto all’età dell’universo per saturare lo spazio con il loro irraggiamento; affinché il cielo possa risplendere come il Sole, sia la durata media della vita delle stelle sia la loro densità nello spazio dovrebbero essere circa dieci volte maggiori; per questi motivi, quindi, la notte è buia o semplicemente ornata da qualche astro.
BIBLIOGRAFIA
-LOLLI G., “Il riso di Talete, matematica e umorismo”, ed. Bollati-Boringhieri,1998.
-KLEIN E., “Conversazioni con la sfinge, il ruolo dei paradossi nelle rivoluzioni scientifiche”, ed. Il Saggiatore, Milano, 1993.
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