Schopenhauer

Materie:Tesina
Categoria:Filosofia

Voto:

1.7 (3)
Download:2167
Data:12.06.2006
Numero di pagine:130
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
schopenhauer_13.zip (Dimensione: 105.06 Kb)
readme.txt     59 Bytes
trucheck.it_schopenhauer.doc     392 Kb


Testo

SHOPENHAUER
Vita: Arthur Shopenhauer (1788-1860) subì nella sua formazione la profonda influenza di Goethe, studiò prima a Gottinga e poi a Jena nel 1819 scrisse la sua opera principale: “Il mondo come volontà e rappresentazione”, nel 1820 conseguì una libera docenza a Berlino, ove insegnò senza successo (per il predominio incontrastato di Hegel). Nel 1831 pubblicò un’opera sulle scienze naturali “La volontà nella natura” e nel 1841 una dedicata a problemi morali “I due problemi fondamentali dell’etica”. L’ultima opera “Parerga e paralipomena, scritta nel 1851 con un linguaggio molto semplice gli procurò successo e fama in patria e all’estero. Per comprendere realmente la filosofia di S. È necessario capire come le sue teorie siano state influenzate dalle religioni orientali, che in quel periodo venivano divulgate anche in Europa.
Illusorietà del mondo fenomenico: Per S. Lo studio della realtà doveva partire, a differenza di quanto affermavano Fichte ed Hegel, dall’esperienza intesa non soltanto come esperienza esterna ma anche interiore, da queste basi poi si potrà ricercare un principio unificatore (ricerca spesso soddisfatta dalle varie religioni) colto unicamente dal filosofo tramite l’intuizione. L’opera “Il mondo come volontà e percezione” sintetizza le basi della filosofia shopenhaueriana: in primo luogo infatti il mondo è rappresentazione (ovvero molteplicità di fenomeni) ma esiste anche la volontà (principio esplicativo). Le rappresentazioni non sono le sensazioni, ma la sintesi dei dati dell’esperienza e delle forme a priori, questo concetto rimanda esplicitamente al criticismo Kant anche se per S. Le forme a priori sono solo tre (spazio, tempo, e causalità) e provengono dall’intelletto non distinto dall’intuizione. Da questi presupposti intuitivi (ben costituiti) si muove la ragione, che crea i suoi concetti, questi sono rappresentazioni secondarie e non avrebbero senso se non si riferissero all’esperienza. Da questo deriva che i concetti sono sterili, non costituiscono per l’uomo qualcosa di nuovo, e l’unica reale fonte di conoscenza rimane il mondo fenomenico (in fin dei conti è il ragionamento kantiano della “Critica della ragion pura”). In aggiunta e opposizione a Kant però, la realtà fenomenica di S,. È illusoria, (è Maja il velo ingannatore.). Lo studio della materia quindi potrà spiegare le condizioni che regolano la produzione di sensazioni e rappresentazioni, ma non potrà mai svelare ciò che si nasconde sotto il velo di Maja. Dietro il mondo fenomenico si nasconde infatti la “cosa in sé”, per capire la quale è necessario per S. Fare riferimento ai profondi segreti che sono contenuti nell’interiorità umana. In primo luogo ciascuno scopre che l’uomo è scisso in organismo (essere intuito anche dagli altri nel mondo della rappresentazione) e volontà cieca (insieme di bisogni, sentimenti oscuri, e impulsi a conservare la vita, intuizioni che non possono essere comprese dagli altri). La volontà è influenzata dal tempo ma non in modo radicale, sfugge alle forme a priori, quindi è qualcosa di più profondo, non una verità scientifica, ma filosofica. Essa diventa la “cosa in se” di Kant che pur incomprensibile alla scienza è sentita interiormente da ogni uomo. Essendo poi indipendente dalle forme a priori, non è più individuale, ma è comune a tutti gli esseri viventi.
La natura: come Shelling S. Vede unità nel mondo naturale, che si articola in gradi diversi tramite l’oggettivazione della volontà (istinto di sopravvivenza). Il grado infimo è rappresentato dalla materia inorganica, mentre quello più alto dall’uomo, in cui la volontà, normalmente incosciente, diventa cosciente di sé. Quella di S. È una concezione della natura primo-romantica, concepita secondo un’ottica di tipo attivistico, secondo un evoluzionismo “volontaristico”.
Pessimismo: per S. Alla base del mondo fenomenico vi è la lotta continua che si consuma tra gli esseri viventi, in cui si manifesta la volontà (Hobbes b homo homini lupus). La volontà infatti, pur essendo il principio universale, si lacera nei particolarismi, questa sua limitazione si manifesta così con la mancanza, il dolore e il bisogno. Sotto questa ottica il piacere non rappresenta altro che uno stato negativo: il momentaneo appagamento del bisogno o la momentanea cessazione del dolore, se nella vita poi non si presenta né la felicità ne il dolore subentra la noia. La filosofia di S. In particolare polemizza contro l’ottimismo hegeliano a cui contrappone una visione del mondo in cui il dolore è una condizione universale, e in cui non esiste una forza che governi la storia, per S. Non esiste un fine per la storia dell’umanità, che non è guidata né dalla provvidenza né dalla ragione ,ma soltanto dal destino.
La liberazione dal dolore La liberazione dalla volontà cieca è per S. L’unica affermazione possibile di libertà: l’unico obiettivo quindi non può essere che trascendere l’esperienza liberandosi dalle illusioni, tramite tre vie: la moralità, l’arte e l’ascetismo.. La moralità è una conoscenza più profonda dell’intelletto e della ragione il suo principio fondamentale è la pietà grazie la quale l’uomo comprende intuitivamente l’unità di tutti gli esseri e libera il proprio animo dalla malvagità (l’azione negativa della pietà è la giustizia, quella positiva la carità). L’arte è la contemplazione delle cose nel loro carattere ideale ossia la contemplazione delle idee, termine platonico con cui S. Indica gli oggetti puri ed eterni sui quali si modellerebbero gli esseri individuali, esse non sono ricavate per astrazione dal mondo fenomenico (come i concetti) ma sono l’oggettivazione immediata della volontà (chi si eleva a questa contemplazione dimentica se stesso, non sa più chi è, sa solo che contempla). L’arte più elevata è per S. La musica (periodo romantico) di cui difende l’autonomia linguistica come linguaggio dell’irrazionale: così la musica si libera della parola e da sola spiega “l’in se del mondo”. L’ascetismo è il più alto grado raggiungibile, rappresenta la massima riduzione della volontà di vivere, consiste nella negazione di ogni aspetto della realtà fenomenica per tanto è in grado di liberare l’uomo non temporaneamente dalle illusioni del velo di Maja. La negazione ascetica non è il suicidio che al contrario rappresenta la suprema affermazione di sé, ma è la distruzione della volontà individuale, il superamento di una volontà lacerata in cui la stessa volontà si trasforma in “noluntas”. Questa ascesi molto simile al “nirvana” delle religioni orientali non corrisponde a quella cristiana, non è un “iter mentis in deum” ma l’annullamento della personalità
La crisi dell'io
La cultura dell'Ottocento è saldamente ancorata a una concezione forte dell'io, inteso come sostanza razionale e unitaria. Tale concezione si era formata gradualmente nel corso dell'epoca moderna, ma, nel XIX secolo, aveva compiuto un salto di qualità; mai come in questo secolo, infatti, il pensiero umano aveva considerato tanto potente la soggettività razionale, attribuendole - almeno in linea di principio - una pressoché assoluta capacità di dominio sulla propria coscienza, sul proprio corpo e sul mondo naturale. Già nel corso dell'Ottocento, tuttavia, non erano mancate autorevoli voci controcorrente, precorritrici della successiva evoluzione culturale, che rimasero non a caso isolate, incomprese 'e a volte perfino misconosciute fino all'ultimo trentennio del secolo. È infatti solo in questo periodo che I immagine forte dell'io comincia a vacillare sotto i colpi della filosofia di Nietzsche e della psicoanaiisi di Freud. Nella prima metà del Novecento, la crisi dell'io esplode diventando il nuovo leit-motiv della cultura europea.
I precursori: Schopenhauer, Kierkegaard e Leopardi
La filosofia dell'Ottocento è dominata dall'idealismo e dal positivismo. Per quanto antagoniste, queste due correnti fìlosofiche condividono una concezione forte dell'io. La filosofia ottocentesca, tuttavia, comprende anche due grandi voci controcorrente: Schopenhauer e Kierkegaard. L'attacco di Arthur Schopenhauer (1788-1860) all'io assoluto, teorizzato dall'idealismo tedesco e soprattutto da G.WT. Hegel (1770-1831), è frontale e radicalmente distruttivo. Schopenhauer, ne // mondo come volontà, e rappresentazione (1818) riduce il soggetto umano a semplice manifestazione di un principio metafìsico, impersonale e del tutto irrazionale: la volontà di vita. Da ciò scaturiscono due conseguenze: 1) la razionalità viene considerata come uno strumento dell'istinto di sopravvivenza; 2) l'agire del soggetto umano viene considerato come un prodotto dei bisogni e delle pulsioni naturali in cui si manifesta la volontà. Se è vero che in Schopenhauer è presente anche una valorizzazione dell'io - in quanto capace di seguire un diffi- cile cammino di liberazione dalla volontà -, è altrettanto vero che l'obiettivo finale di questa liberazione consiste nella rinuncia stessa all'io, nel suo annullamento attraverso un percorso che conduce all'ascesi. Meno drastica, ma non meno incisiva, è la critica condotta all'io dal filosofo danese Seren Kierkegaard (1813-1855) che, sulla base di una rigorosa analisi del vissuto esistenziale, mette a fuoco i limiti invalicabili della soggettività individuale: dal punto di vista della sua relazione con il mondo esterno, l'io si trova infatti costantemente di fronte alla possibilità di scegliere tra il bene e il male, con la consapevolezza del rischio di errore e annientamento insito m ogni scelta. Ancora più profondo e insuperabile è però il limite che l'io incontra nel suo rapporto con se stesso e che si manifesta nella disperazione. L'io, infatti, non può ne essere pienamente se stesso, cioè realizzarsi compiutamente come singola personalità, ne essere diverso da se stesso, cioè tentare di mutare la propria costituzione individuale: l'uomo, infatti, non ha in se stesso la propria origine, ma deriva e dipende da Dio. Pertanto, solo nel rapporto di fede con Dio il singolo può trovare la sua realizzazione. Il rapporto di fede si fonda dunque proprio sul riconoscimento della radicale insufficienza dell'io e presuppone che il credente rinunci a ogni garanzia fornita dalla razionalità.
^- Vedi sul manuale di filosofia i capitoli su Schopenhauer e Kierkegaard, in particolare di quest'ultimo II concetto dell'angoscia (1844), in cui, a partire dalla "
tematica del peccato originale, il filosofo esplora la dimensione dell'angoscia e della disperazione come costitutive dell'essenza dell'uomo.
Anche nella letteratura ottocentesca il tema della crisi della soggettività è prerogativa ancora di pochi. In particolare esso emerge in Giacomo Leopardi (1798-1837). Come per Schopenhauer, anche per Leopardi l'uomo vive in una situazione di ignoranza e di "inganno". Il principio sconosciuto e imperscrutabile che ha originato il cosmo, da un lato, pone l'uomo in una condizione di strutturale dolore, dall'altro, lo vincola alla vita suscitando in
lui continue illusioni prive di fondamento e destinate a risolversi nella delusione e nel pessimismo. Che la vita dell'uomo sia consegnata al dolore è per Leopardi conseguenza del conflitto che il soggetto sperimenta tra l'infinitezza delle sue aspirazioni e la finitezza insuperabile delle sue possibilità di realizzazione. L'uomo, infatti, non solo non è in grado di dominare la natura, ma è anzi succube del suo dominio che lo limita, lo condiziona, lo fa soffrire e può annientarlo in ogni momento. L'unica possibilità di riscatto del soggetto umano risiede, per Leopardi, nella capacità di comprendere lucidamente la propria condizione, rinunciando a ogni illusione. Ciò significa, paradossalmente, che la sola grandezza dell'uomo consiste nel riconoscere la propria miseria, la propria insuperabile nullità; e, infatti, l'unico vero rimedio alla sofferenza consiste per Leopardi nella morte, cioè nell'annullamento dell'io.
^- Vedi l'opera di Giacomo Leopardi, in particolare il Canto notturno di un pastore errante per l'Asia (1830): in questo canto il pastore, in cui si ritrova il poeta stesso, vaga in un'atmosfera irreale alla ricerca del senso del vivere e nel tentativo di penetrarne il mistero. In A se stesso (1830) e in // tramonto della luna (1833) la ; morte è cantata come unico rimedio al dolore della condizione umana.
Il contesto storico: la crisi economica e le conseguenze sociali
I presupposti storici della crisi della soggettività borghese emergono nell'ultimo trentennio dell'Ottocento. Dal 1873 al 1896 l'economia europea fu colpita da una nuova crisi di sovrapproduzione, che innescò enormi processi di ristrutturazione e riconversione industriale: il fallimento delle piccole e medie imprese, la formazione di monopoli e oligopoli - anche attraverso la costituzione di trust e cartelli -, la concentrazione del capitale e l'ingrandimento degli impianti industriali, l'adozione del taylorismo, il peso maggiore del capitale finanziario nel controllo azionario delle aziende furono processi che provocarono vasti rivolgimenti sociali, non solo tra gli strati inferiori della società, ma anche all'interno della stessa borghesia, provocando fenomeni di declassamento e diffondendo un senso di inquietudine, insicurezza, precarietà. Ad aggravarlo si aggiunse la guerra commerciale tra le economie nazionali in seguito all'adozione del protezionismo da parte dei governi delle grandi potenze europee.
> Vedi sul manuale di storia il capitolo dedicato alla "grande depressione" e alla
Seconda rivoluzione industriale.
Ma l'attacco più forte alla saldezza della coscienza borghese venne indubbiamente dal movimento operaio, in seguito al grande rafforzamento sia dei
sindacati sia dei partiti socialisti. L'episodio della Comune di Parigi del
1871 è il primo caso di rivoluzione socialista della storia moderna. Nonostante i suoi indubbi limiti spaziali e temporali e il suo fallimento finale, l'evento ebbe una forte valenza simbolica per la società dell'epoca, aumentando l'inquietudine delle classi borghesi e alimentando la diffusione del mito rivoluzionario tra le classi proletarie. Nel trentennio successivo si formarono i grandi sindacati e i grandi partiti socialisti di ispirazione marxista in tutti i principali paesi europei. Il culmino di questo processo di espansione e organizzazione del movimento operaio fu la costituzione della Seconda Intemazionale socialista nel 1889. Schiacciata tra il potenziamento dell'alta borghesia da un lato e l'avanzata del proletariato dall'altro, la piccola borghesia avvertì sempre più profondamente un forte disagio sociale, che si ripercosse anche a livello individuale favorendo la messa in crisi dell'identità borghese.
^- Vedi sul manuale di storia il capitolo dedicato alla nascita e allo sviluppo dei
partiti socialisti.
La nuova poetica del decadentismo
In ambito letterario, la crisi della coscienza borghese ottocentesca si manifesta nel vasto e diversificato movimento del decadentismo, che si sviluppò a cavallo dei secoli XIX e XX. Per quanto riguarda il romanzo, un esempio emblematico è rappresentato da // ritratto di Dorian Gray (1891), di Oscar Wilde (1854-1900). In quest'opera la crisi dell'io borghese è parricolarmente evidente sia nella fuga del protagonista dalla dimensione sociale a favore di una vita dedicata totalmente al piacere estetico sia nel programmatico immoralismo, che lo porta ai crimini più efferati, sia, soprattutto, nel suicidio finale. Il ritratto - che invecchia e si corrompe mentre Dorian conserva la bellezza di un'illusoria giovinezza -, è il simbolo evidente della sua coscienza, di cui cerca in ogni modo di liberarsi; tale progetto è tuttavia destinato al fallimento poiché nel momento in cui Dorian Gray lo distrugge non fa altro che distruggere se stesso. Sempre nell'ambito del decadentismo, ma a livello poetico, è Giovanni Pascoli (1855-1912) una delle voci più significative nell'esprimere la crisi della^soggettività razionale. Il poeta viene identificato da Pascoli con un fanciullino; come tale egli rifiuta la razionalità oggettiva dell'adulto e si affida a una sensibilità infantile che non coglie le cose come sono, ma come le sente, in modo istintivo, immediato. Il poeta diventa così un "veggente" capace di intendere il linguaggio simbolico delle cose, che sogna a occhi aperti, mettendo sullo stesso piano reale e irreale; con il concetto di fanciullino Pascoli sembra riferirsi a qualcosa di analogo a ciò che il suo contemporaneo Freud denomina inconscio o Es, ed è portato a contrapporre, a una poesia dell'io cosciente, una poesia dell'inconscio. Sul piano formale, la poetica del fanciullino si traduce in una rottura con la tradizione e in una radicale innovazione linguistica. Se il poeta è un fanciullino, il linguaggio della poesia deve essere quello del fanciullo; questi percepisce la realtà in modo alogico, sconnesso, frammentario e dunque, analogamente, la poesia deve rinunciare alla sintassi per la parafassi e per l'analogia. Anche il lessico deve essere quello fanciullesco, semplice, elementare, dialettale, gergale, ricco di onomatopee. Il metro poetico, a sua volta, viene utilizzato per esprimere cantilene e il verso viene spezzettato per conferirgli un andamento singhiozzante. Il depotenziamento dell'io razionale non si manifesta dunque solo e tanto nel contenuto, ma soprattutto nella forma. Il linguaggio di Pascoli è infatti quello onirico proprio dell'inconscio, caratterizzato dall'autonomia e dalla superiorità del significante fonico rispetto al significato logico.
> Vedi, di Pascoli, la prosa IIfanciullino (1897), in cui il poeta esprime la poetica dell'inconscio, e la poesia Dialogo, da Myricae (1891), importante come esempio sia del linguaggio pascoliano sia della concezione visionaria e fanciullesca della natura.
Il pensiero critico di Nietzsche e la scoperta dell'inconscio
Dopo gli annunci di Schopenhauer e Kierkegaard, la crisi dell'io giunge a piena e radicale consapevolezza - proprio negli stessi anni in cui nasceva il decadentismo - nella filosofia di Friedrich Nietzsche (1844-1900). Mirando a una severa critica della morale convenzionale, nell'opera Genealogia della morale (1887) Nietzsche mette in dubbio che l'io possa avere una coscienza piena del significato delle proprie azioni sino a negare la libertà del volere. Già in questa fase emerge la tesi - di origine schopenhaueriana - secondo la quale il comportamento umano dipende da un istinto di conser- vazione che sfugge al controllo conoscitivo e pratico dell'io. Ridotto a una funzione di tale istinto, l'io perde non solo il suo carattere di sostanza, ma anche quello di unità: l'io, sostiene Nietzsche, è solo un palcoscenico sul quale si agita disordinatamente una molteplicità di impulsi e di motivazioni. Successivamente, Nietzsche chiarisce come l'io nasca e si formi per rispondere al bisogno di comunicazione legato alla condizione sociale. La coscienza viene intesa come una funzione dei rapporti sociali, in particolare dell'ordine gerarchico che controlla la società. Ma è soprattutto nell'ultima fase della sua produzione filosofica che Nietzsche sferra un attacco radicale all'io, sostenendo che il pensiero nasce in modo del tutto indipendente dalla coscienza individuale. Bisogna pertanto sostituire l'espressione "io penso" con "esso pensa" e, addirittura, si dovrebbe eliminare lo stesso pronome "esso", in quanto contiene pur sempre una forma di razionalizzazione di un processo che, per principio, sfugge alla razionalità. Può sembrare un clamoroso paradosso culturale che, pochi anni dopo, Sigmund Freud (1856-1939) arrivi a formulare tesi molto vicine a quelle di Nietzsche non solo senza mai averne letto - per scelta intenzionale - le opere, ma addirittura partendo da presupposti culturali antitetici e cioè da una cultura positivista e da una formazione medica. In realtà, ciò rappresenta un segno evidente che la crisi dell'io era ormai un fenomeno epocale, l'espressione di una situazione storico-culturale. Freud conferma infatti e approfondisce su un piano scientifico le intuizioni filosofiche di Schopenhauer e Nietzsche sulla dipendenza dell'io da un principio istintivo, inconscio e irrazionale. Tale principio è da Freud denominato Es - l'"esso" già temarizzato da Nietzsche - e caratterizzato come libido inconscia, cioè come un'energia sessuale polimorfa che agisce al di fuori della consapevolezza e del controllo dell'io razionale. Freud afFerma infatti esplicitamente che «l'Io non è più padrone nemmeno in casa propria». In questo modo, secondo lo psicoanalista viennese, la psicoanalisi ha inferro una terza e più profonda ferita narcisisrica alla coscienza umana, dopo quelle dell'eliocentrismo di Copernico e dell'evoluzionismo di Darwin. Se Copernico aveva infranto la credenza nella centralità cosmica dell'uomo come abitante della Terra e Darwin quella della superiorità della specie umana rispetto al mondo naturale, Freud ritiene di aver abbattuto la credenza nel dominio dell'io cosciente sul comportamento dell'uomo.
> Vedi, in particolare, di Freud, L'interpretazione dei sogni (1900), opera in cui
Fautore identifica i sogni come "via regia" per mettere in rilievo i contenuti dell'inconscio e le sue strutture profonde.
Le espressioni figurative del disagio esistenziale
Un grande interprete della crisi dell'io tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento fu il pittore norvegese Edvard Munch (1863-1944), esponente della corrente esistenziale del movimento simbolista e precursore dell'espressionismo. Munch si ispirò alla filosofia di Kierkegaard e ha il merito di aver contribuito alla sua diffusione al di fuori dei paesi scandinavi, all'interno dei quali era rimasta confinata per tutto l'Ottocento. Nei suoi quadri Munch esprime infatti i temi dell'esistenzialismo cristiano di Kierkegaard e, in particolare, quelli dell'angoscia e della disperazione in quanto sentimenti che manifestano la finitezza e la conflittualità interna dell'io.
> Vedi, in particolare, di Munch, i dipinti L'urlo (1893) e Ansietà (1894), in cui sono rappresentati i temi kierkegaardiani dell'angoscia e della disperazione.
Il Novecento e l'esplosione della crisi
II contesto storico
La prima meta del Novecento è segnata da due catastrofiche guerre mondiali, dalla Rivoluzione russa e dalla successiva guerra civile, dalla prima grande crisi economica di livello mondiale, da conflitti sociali violenti che spesso sfociarono in tentativi insurrezionali falliti o repressi, da genocidi tecnologicamente pianificati, da regimi dittatoriali e totalitari dimisi che facevano della violenza sistematica uno strumento quotidiano di governo. Gli effetti distruttivi di questi cruenti fenomeni storici toccarono livelli mai prima raggiunti in così poco tempo, sia in termini di vite umane sia in termini di beni materiali. In questo contesto storico il mito ottocentesco di un io razionale capace di esercitare un controllo sugli istinti attraverso la morale e la politica, e sulle forze della natura grazie alla scienza e alla tecnica, si frantumò definitivamente.
> Vedi sul manuale di storia i dati relativi alle vittime delle guerre mondiali, dell'Olocausto ebraico, del genocidio degli armeni, della Rivoluzione russa, e ricostruisci la situazione materiale e spirituale dell'Europa fra le due guerre.
La filosofia esistenzialista
In ambito filosofie» l'espressione più diretta e consapevole della crisi della civiltà occidentale fu l'esistenzialismo. Al suo interno fu Jean Paul Sartre (1905-1980) a teorizzare nel modo più radicale la crisi dell'io. Per Sartre «l'io non è un abitante della coscienza», in quanto l'io proprio è un elemento del mondo tanto quanto l'io di un altro uomo. Ciò significa che l'io non è sostanza o autocoscienza, e non è neppure un ente dotato di contenuti conoscitivi propri e di un'attività intuitiva interna, ma è costantemente teso a superare l'opacità del mondo esterno, che si pone come dato insuperabile e ineliminabile. Sartre connota tale completa apertura della coscienza come "nulla", in quanto assenza di una determinazione data e tensione verso il superamento dell'oggetto. Sul piano pratico ciò significa che l'io, a differenza degli altri enti mondani, è assolutamente libero, aperto a ogni possibilità. L'angoscia diviene pertanto il sentimento costitutivo dell'io, in quanto esprime al contempo la coscienza del suo nulla e della sua libertà incondizionata. Ma proprio perché fondata sul nulla, la libertà umana è destinata a sfociare nel fallimento. L'io progetta sì di farsi Dio, cioè di diventare fondamento di se stesso e del mondo, ma ciò è impossibile, perché l'io dipende dal mondo, ed è solo possibilità di negare il mondo, trascendendolo, ma non di produrlo. Dunque, conclude Sartre, «è la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli», tutte le imprese umane sono equivalenti e l'uomo è solo «una passione inutile».
> Vedi sul manuale di filosofia l'opera di Sanre, e in particolare L'essere e il nulla (1943), opera in cui emerge in modo netto l'immagine di un soggetto che è solo coscienza del mondo esterno, un ente mondano in mezzo ad altri; il soggetto, in quanto riflette qualcosa che non è coscienza, è di per sé nulla e possiede un potere nullificante che consiste nel negare la realtà come puro dato, per attribuirle i propri significati.
L'antieroe, protagonista del romanzo novecentesco
Nel primo Novecento il tema della crisi dell'io è il leitmotiv dei grandi romanzi europei: dalYUlisse (1922) di James Joyce (1882-1941) al Processo (1924) di Franz Kafka (1883-1924), da La coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo (1861-1928) all'Uomo senza qualità (1930) di Robert Musil (1880-1942). L'eroe del romanzo ottocentesco si trasforma in antieroe, l'inetto, l'escluso, l'uomo senza qualità, e, parallelamente, viene attuata una rivoluzione nella forma romanzesca: il narratore onnisciente viene sostituito dallo stream of consciousness (lett. "flusso di coscienza"), dalla mera registrazione dei mutevoli stati dell'io, che disarticola in tal modo la continuità spaziotemporale della narrazione. L'autore che, almeno sul piano del contenuto, ha forse espresso con più radicalità la dissoluzione dell'io - e con largo anticipo sugli altri - è Luigi Pirandello (1867-1936), in particolare nei due romanzi II fu. Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e contornila (1925). I personaggi di Pirandello sono uomini disgregati, dalla personalità alterata, maniacale, emblemi del caos dell'esistenza. Mattia Pascal rappresenta un caso di sdoppiamento della personalità, egli ha infatti abbandonato un io per costruirsene artificialmente un altro, ma è destinato a rimanere spaccato tra il suo io passato e quello presente, senza poter essere ne l'uno ne l'altro. Vitangelo Moscarda, protagomsta di Uno, nessuno e centomila, scopre l'inconsistenza del proprio io, il suo essere un flusso di percezioni mutevoli, un susseguirsi di frammenti in perenne mutamento, il frutto delle innumerevoli proiezioni del suo ambiente sociale. In altre parole, il soggetto si frantuma in una miriade di sensazioni, si sfarina nelle cose che riflette, in un libro, in un albero, in una nuvola.
L'astrattismo nelle arti figurative
Nelle arti figurative la crisi del soggetto razionale si manifesta soprattutto nell'astrattismo, corrente pittorica che rappresenta una delle più radicali innovazioni artistiche del Novecento; in particolare, ciò si evidenzia nella poetica di Kandinskij, fondatore di questa corrente. Per l'artista russo scopo della pittura non è più quello di imitare o trasfigurare la realtà esterna, ma quello di rappresentare l'universo intcriore della psiche umana, che non si configura come coscienza razionale, esprimibile in forme chiare e distinte, bensì - freudianamente - come Es, inconscio contenente forze misteriose e irrazionali. Il ricorso alla pittura "astratta" è l'unico modo per cogliere e riprodurre tali forze, il linguaggio astratto si configura come linguaggio dell'inconscio. In questo modo l'astrattismo porta alle estreme conseguenze quella tendenza artistica a valorizzare il significante a scapito del significato che è l'altra faccia - quella formale - della crisi sostanziale della concezione ottocentesca dell'io.
^ Vedi, di Vasilij Kandinskij (1866-1944), Primo acquerello astratto (1910), il dipinto che inaugura l'astrattismo moderno e il suo tentativo di rappresentare il linguaggio dell'inconscio, nel quale linee, figure e forme non hanno più nessun legame con la rappresentazione naturalistica della realtà.
SCHOPENHAUER E KIERKEGAARD
S. e K. furono due forti oppositori dell’idealismo e in particolare quello di Hegel ed entrambi contestavano il principio ispiratore della filosofia di quest’ultimo : il razionalismo. Sch. opponeva che la realtà fosse dominata da un principio irrazionale ,la Volontà, mentre K. sosteneva che la vita umana non fosse dominata necessità dialettica ma dall’indeterminatezza ,legata alle scelte dell’uomo. In questo modo l’uomo per S. si presenta assoggettato ad un principio infinito e di cons. la sua realizz. come uomo è assai difficile, mentre per K. invece è l’uomo che diventa l’unico punto di vista da cui affrontare i problemi della filo. Inoltre entrambi si opposero allo storicismo ,un importante tema dell’ hegelismo.Per S. lo sto. sbaglia nel voler dare un senso e un fine alla vita che invece è irraz., mentre per K .sbaglia nel voler inserire in una vicenda collettiva problemi che invece ogni uomo deve affrontare singolarmente.
SCHOPENAUER
La filosofia per S. deve basarsi sull’esperienza ,non solo quella esterna ma anche quella interiore, e cercare in essa un principio unico cui ricondurre tutto il mondo dell’esperienza.
Il mondo è da un lato rappresentazione ossia un inesauribile insieme di fenomeni ,dall’altro è volontà, la quale costituisce il principio unico di tutta la realtà. Il mondo fenomenico è costituito da rappresentazioni intuitive concrete, che non sono semplici sensazioni, ma l’unione dei dati forniti dai sensi con le forme unificatrici a priori .Riprendendo il criticismo di Kant afferma che le forme a priori sono soltanto tre (spazio, tempo, causalità)le quali provengono dall’intelletto. Mentre l’intelletto coglie le rappres. mediante una funzione intuitiva ed immediata ,la funzione della ragione è quella di elaborare i concetti partendo dalle rappres. ben conosciute. A sua volta i concetti sono rappres. secondarie ricavate per astrazione dalle vere e proprie rappresentazioni e non hanno alcun valore se non riconducono a tali rappres. S. infine conclude che possiamo conoscere solo i fenomeni poiché esclude che la ragione possa condurci a qualcosa di nuovo rispetto al mondo delle rappres. ed arriva sostenere che la realtà è pura illusione.
Il mondo come volontà : Dal momento che il mondo fenomenico è illusorio ,non ha senso affermare che la vera realtà è nella materia =>rifiuta il materialismo .La via dunque per giungere alla vera realtà ,ossia la “cosa in sé” kantiana deriva dalla scoperta di un doppio aspetto dell’essere :l’organismo ,intuibile da chiunque nel mondo delle rappres. e la volontà che rappresenta l’insieme dei bisogni, impulsi che tendono a conservare la vita ed è l’aspetto più profondo e più reale dell’essere. Tale volontà per S. non ha un fondamento scientifico ma più che altro rappresenta “la verità filosofica” per eccellenza e cosa più importante essa costituisce la “cosa in sé” kantiana. In essa va cercata la realtà profonda di qualsiasi essere e inoltre essa si sottrae alle 3 forme a priori poiché risulta una sola in tutti i vari esseri ,non è sottoposta alla causalità e agisce liberamente, senza alcuna motivazione .
La natura : Come Schelling ,vede nel mondo naturale una profonda unità che parte dal grado più basso verso altri sempre più elevati, ma ciò che lo distacca da Sch. è l’identificazione di realtà e volontà che lo porta ad esaltare la forza inesauribile presente in ogni fenomeno. Il grado infimo è la natura inorganica in cui la volontà si manifesta pura causalità meccanica .Natura organica :il rapporto causale si manifesta come eccitazione ; essa si articola in gradi diversi che vanno dalla vita vegetale alla v. animale e quando la volontà dà luogo al formarsi del cervello allora appare l’intelletto e la volontà diventa volontà di conoscenza. L’ uomo costituisce il grado più elevato dell’oggettivazione della volontà e in lui la volontà ,che di per sé è incosciente, diventa cosciente di sé.
Il pessimismo : caratteristica della filosofia della natura di S. è che gli esseri tematiche sono in continua lotta tra di loro. La volontà costituente il principio dell’universo si trova divisa in tante volontà individuali e continuamente si esprime come bisogno, mancanza ,dolore. Il dolore è costitutivo del mondo umano e rappresenta uno stato positivo della realtà ,mentre il piacere ,stato negativo della vita ,è il momentaneo appagamento del bisogno ,la mom. cessazione del dolore. La vita così si presenta insieme tremenda e incantevole e come un continuo oscillare fra il dolore e l’aspirazione a una liberazione da esso ;inoltre in contrasto con l’ottimismo di Hegel sostiene che il dolore è un fatto universale e diventa sempre più acuto con l’acuirsi della coscienza . Infine per lui la storia dell’umanità non ha alcun fine né è mossa dalla provvidenza ;non è dominata dalla Ragione ,come voleva Hegel, ma dal Destino che fa tendere la vita all’infinito.
Liberazione dal dolore : le vie di questa liberazione sono 3 :la moralità ,l’arte ,l’ascetismo. La moralità consiste in un sapere superiore di quello della ragione e dell’intelletto, il cui principio fondamentale è la pietà, riconoscere l’unità di tutti gli esseri. Tale pietà ha il potere di eliminare dall’animo umano la malvagità che rende gli uomini nemici tra di loro. L’arte è la contemplazione delle cose nel loro carattere ideale ,ossia delle idee ,che sono l’oggettivazione immediata dalla volontà. Contemplando le idee l’uomo “dimentica se stesso “ e si libera seppur temporaneamente la sua volontà di vivere ;la musica ha il primato fra tutte le arti ed è vista quasi come una filosofia inconscia e dichiara S. che essa è il linguaggio dell’irrazionale .L’ascetismo rappresenta l’estrema attenuazione possibile della volontà di vivere e riesce a liberare definitivamente l’animo dalle illusioni del mondo empirico. Egli è contro il suicidio, un atto che non estingue la volontà di vivere ,ma determina la volontà di vivere la vita in condizioni diverse da quelle del momento del suicidio. Attraverso l’asc. l’uomo modifica radicalmente la volontà ,che si trasforma nel suo opposto ,la noluntas (annullamento della personalità). Inoltre S. riconosce alle religioni più ,come il cristianesimo delle origini e il buddismo, la capacità di condurre l’uomo alla negazione ascetica, ma in esse vi è però un pericolo :quello di perdere il loro carattere metafisico e diventare idolatrie .Infine l’eliminazione della volontà di vivere costituisce l’unico atto possibile per conquistare la libertà..
Arthur Schopenhauer nasce a Danzica il 22 febbraio 1788. Figlio di Henrich Floris Schopenhauer e Johanna Henriette Trosiener, trascorre l’infanzia nella proprietà di campagna del padre a Oliva, per poi trasferirsi all’età di cinque anni ad Amburgo.Nel 1797, anno in cui nasce la sorella Louise Adelaide, Arthur si reca con la famiglia in Francia a Le Havre, dove rimane per due anni dedicandosi all’apprendimento del latino e del francese. Nel 1799 si iscrive per volontà del padre all’Istituto Runge, scuola rinomata dell’epoca in cui confluiscono i figli delle famiglie più altolocate. Qui rimarrà per quattro anni privilegiando un iter formativo finalizzato all’attività commerciale. Durante le vacanze estive del 1800, la famiglia Schopenhauer effettua un viaggio nell’Europa orientale, visitando anche Praga e Karlsbad. Arthur raccoglie le sue impressioni in un diario di viaggio nelle cui pagine inizia a delinearsi l’amore per la conoscenza e l’avversione per la carriera commerciale prospettatagli dal padre. Pur manifestando il desiderio di intraprendere il Ginnasio, Arthur accetta però di continuare a soddisfare le aspettative del padre, trascurando per il momento le proprie aspirazioni. Tra il maggio del 1803 e l’agosto del 1804, Arthur compie insieme alla famiglia un nuovo lungo viaggio in Europa. Il soggiorno in Inghilterra diviene occasione per familiarizzare con la nuova lingua e la cultura inglese. Visita il telescopio di Herschel e, mentre la famiglia prosegue per la Scozia, Arthur resta a Londra al fine di impegnarsi nello studio e di imparare a suonare il flauto. Riunitosi coi genitori nel mese di novembre, rientra nel continente e va a visitare Parigi, poi Orléans, Bordeaux, Nimes, Bagno di Tolone, Chamonix, Monte Bianco, Vienna, Dresda, e infine Berlino. Il 20 aprile del 1805 muore (molto probabilmente si trattò di suicidio) Henrich Floris, sicché Arthur è costretto a caricarsi dell’onere di continuare l’attività paterna. L’anno dopo la madre si trasferisce con la famiglia a Weimar dove ha subito un discreto successo come scrittrice di romanzi. Apre un salotto letterario frequentato fra l’altro da Goethe, Wieland, i due Schlegel e Friedrich Majer. Il giovane pensatore rimane ad Amburgo, dove, nonostante il lavoro, continua a coltivare i propri interessi filosofici. Legge la Teoria generale delle belle arti di Sulzer e Fantasie sull’arte per gli amici dell’arte di Wackenroder. Comincia inoltre a sviluppare la teoria della doppia coscienza (“coscienza empirica” e “coscienza migliore”[1]). Il 1807 è l’anno in cui decide di impegnarsi esclusivamente nello studio. Parte quindi per Gotha dove diviene allievo dell’umanista Fr. Jacobs e del latinista Fr. W. Doering. A causa delle sue pungenti satire, Arthur crea un clima ostile attorno a sé, per cui a dicembre è costretto a rientrare a Weimar. Nel 1808 il rapporto con la madre si incrina al punto che il giovane va a vivere a casa di Passow, suo insegnante di greco. Il periodo che segue vede Arthur impegnato in una vasta lettura degli autori classici. Fernow lo invita allo studio della letteratura italiana e, in particolare, gli fa apprezzare Petrarca. Incontra e si lega con l’attrice Carolina Jagemann per la quale scrive una poesia d’amore. Nel 1809 Arthur compie il ventunesimo anno acquisendo il diritto di prelevare la propria cospicua parte di eredità (circa 19.000 talleri). La tranquillità economica gli permette di frequentare i corsi dell’Università di Gottinga. S’iscrive prima alla facoltà di medicina e successivamente a quella di filosofia. Qui segue con grande interesse le lezioni di metafisica tenute dal filosofo d’orientamento scettico Gottlob Ernst Schulze. Sotto la giuda dell’autore dell’Enesidemo, il giovane pensatore affronta Leibniz, Wolff, Hume e Jacobi. Poi, sempre su consiglio di Schulze, indirizza i suoi studi sui testi del “divino Platone” e del “sorprendente Kant” [2]Nell’estate del 1811 trascorre le vacanze a Weimar dove assiste a una rappresentazione del Principe Costante di Calderón rimanendone entusiasta. Stringe amicizia con Wieland. Nell’autunno si trasferisce a Berlino per ascoltare le lezioni di Fichte, Wolff e Schleiermacher. Dai quaderni di appunti del periodo berlinese emerge che, nonostante l’iniziale interesse e ammirazione, Schopenhauer matura quasi subito un forte disprezzo nei confronti di questo maestro ottimista e fiducioso nell’infinito progresso della storia. Per il giovane pessimista, Fichte appare infatti dal principio come un «ciarlatano» loquace, incapace di comprendere l’irriducibile negatività dell’esistenza e il conseguente distacco e disimpegno dal mondo a cui l’autentica filosofia deve condurre. Nel maggio del 1813 abbandona Berlino perché la situazione politica si è fatta inquieta a causa della ripresa della guerra contro Napoleone. Passa quindi un breve periodo a Weimar dedicandosi allo studio di Spinoza, per poi giungere a Rudolstadt. Qui s’immerge nella stesura della dissertazione su La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente [3]in cui, muovendo da un’analisi critica della gnoseologia kantiana, comincia a dare forma sistematica alla propria visione della realtà. Poco dopo spedisce lo scritto all’Università di Jena e il 2 ottobre riceve la laurea in filosofia «in absentia». A novembre riesce a far pubblicare la tesi e fa ritorno a Weimar dove incontra e stringe amicizia con Goethe, le cui opere rientrano tra le letture preferite del giovane pensatore. Nel 1814 si inasprisce ancor di più il rapporto con la madre a causa della condotta tutt’altro che irreprensibile di questa. Johanna, infatti, dà scandalo ospitando stabilmente in casa Müller von Gerstenberck, suo ammiratore. In questo medesimo periodo, Arthur conosce e frequenta l’orientalista Friedrich Majer, il quale gli fa apprezzare alcuni testi della filosofia indiana tra cui le Upanishad [4]. Questo incontro sancisce una svolta nella storia intellettuale di Schopenhauer perché, come ha giustamente segnalato Vasoli, la lettura delle opere principali della tradizione filosofica e religiosa indiana contribuirono a fissare i temi principali de Il mondo come volontà e rappresentazione [5]A maggio si trasferisce a Dresda dove rimarrà sino al settembre 1818 in un isolamento quasi completo, dedicandosi alla preparazione e alla stesura del suo capolavoro. In questi quattro anni Arthur legge moltissimo: Virgilio, Seneca, Orazio, Machiavelli, Cellini, Aristotele, Agostino, Bruno, Bacone, Hobbes, Locke, Berkley, Hume, Helvétius e, naturalmente, Platone e Kant. Il suo interesse per le problematiche estetiche lo conduce ad attraversare i testi di Winckelmann e Lessing. Intrattiene rapporti epistolari con Goethe del quale studia la concezione dei colori. Nel 1816 pubblica la prima edizione dello scritto Sulla vista e sui colori, con cui ritiene d’aver raggiunto per primo una compiuta teoria fisiologica del colore. Difatti, secondo il filosofo di Danzica, le tesi goethiane risultano geniali ma ancor sprovviste del giusto apparato teoretico[6]. Contemporaneamente porta a termine Il mondo come volontà e rappresentazione [7]. Pubblicata nel dicembre del 1818 dall’editore Brockhaus, lo scritto rimane pressoché ignorato dalla critica e dal pubblico e la gran parte delle copie va al macero. Il 1819 è l’anno del viaggio in Italia: visita prima Venezia, poi Bologna, Firenze, Napoli, Roma e Milano. La sua conoscenza della letteratura italiana si estende ad autori quali Dante, Boccaccia, Ariosto, Tasso e Alfieri. Rientrato in Germania per risolvere alcuni problemi finanziari della madre e della sorella, Arthur decide di intraprendere la carriera universitaria ed effettua domanda per la libera docenza all’Università di Berlino. Il 23 marzo del 1820 tiene, dinanzi alla Facoltà riunita, una discussione Sulle Quattro distinte specie di causa, distinguendosi immediatamente per un diverbio con Hegel, suo esaminatore. Trasferitosi a Berlino, inaugura il primo dei ventiquattro semestri (sino al 1831) in cui cercherà inutilmente di far concorrenza ad Hegel facendo coincidere l’orario delle lezioni. Ancora nel 1820 incontra e s’innamora di Carolina Richter, detta Medon, corista all’Opera di Berlino. Nel maggio del 1822 Schopenhauer parte nuovamente per l’Italia. Fa tappa a Milano, Firenze e Roma per poi rientrare a Desdra passando per Monaco[8]. Legge i moralisti francesi appassionandosi in particolar modo a La Rochefoucauld, Chamfort, Vauvenargues. Progetta inoltre di tradurre in tedesco le opere di Hume e Giordano Bruno. Il 27 marzo 1823 Carolina Medon dà luce ad un figlio di sesso maschile, Gustavo, la cui paternità non risalirebbe però a Schopenhauer (lontano dall’amata nei mesi precedenti) anche se taluni biografi sostengono il contrario. Nel 1825 Arthur si separa definitivamente da Carolina. L’anno successivo cerca di spostare il suo insegnamento presso altre università, ma i suoi tentativi risultano futili. Conosce personalmente Alexander von Humboldt stimandone il “grande talento”. Allo stesso tempo nasce in lui il desiderio di imparare la lingua spagnola. Legge quindi Calderón, Lopez de Vega, Cervantes e dà inizio alla traduzione dell’ Orcáculo manual y arte de prudencia di Baltasar Gracián.Il 1830 è l’anno in cui pubblica sulla collana degli “Scriptores ophthalmologici minores” la Teoria colorum physiologica, rielaborazione latina del trattato Sulla vista e sui colori.L’anno dopo, lo scoppio di un’epidemia di colera a causa di cui muore lo stesso Hegel, lo costringe a lasciare Berlino per rifugiarsi a Francoforte. Scrive una lettera al poeta inglese Thomas Campbell per proporsi come traduttore delle principali opere di Kant. La cosa non ha seguito. Approfondisce la conoscenza delle letteratura mistica e fa rientrare nelle sue letture anche i testi principali della cultura cinese.Dal 1834 Arthur lavora al saggio su La volontà nella natura in cui medita di far confluire i frutti dei suoi studi di medicina, astronomia e linguistica. Infatti, stando al sottotitolo dell’opera conclusa ed edita nel 1836, questo trattato vuol essere una “esposizione delle conferme che la filosofia dell’Autore ha trovato nelle scienze empiriche”[9]. Nel 1839 riceve dalla Reale Società delle Scienze di Norvegia il primo riconoscimento ufficiale: un premio per il suo saggio su La libertà del volere umano [10]. L’anno dopo partecipa al bando della Reale Società delle Scienze di Danimarca con lo scritto Il fondamento della morale [11]. Non ottiene alcun premio poiché nell’opera vengono insultati i maggiori filosofi dell’epoca. Nel 1841 Schopenhauer riesce a far pubblicare da un editore di Francoforte entrambi i saggi raccolti in un unico volume dal titolo I due problemi fondamentali dell’etica [12]. Anche questa volta l’accoglienza della critica è poco favorevole. Sempre in questo periodo, ha i primi contatti con Julius Frauenstädt, colui che diverrà l’allievo più fedele e riceverà in eredità gli inediti schopenhaueriani.Il 1843 risulta un anno di svolta per l’autore de Il mondo. Infatti, Friedrich Dorguth pubblica La falsa radice dell’ideal-realismo, nelle cui pagine parla con notevole ammirazione del pensiero di Schopenhauer. È questo il primo di una lunga serie di scritti in cui il filosofo di Danzica viene finalmente accolto e celebrato come un maestro. L’anno dopo l’editore Brockhaus ristampa Il mondo con l’aggiunta dei Supplementi, ossia cinquanta capitoli che costituiscono un puntuale commento e un ampio sviluppo dei temi trattati nell’opera principale ai quali l’autore ha lavorato per circa un decennio. Le recensioni della critica sono fredde e il libro non si vende. Qualche mese dopo esce a Francoforte la seconda edizione del trattato su La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Intanto Schopenhauer inizia la stesura dei Parerga e Paralipomena, opera che ultima sette anni più tardi. Pubblicata nel mese di novembre del 1851 dall’editore Haym di Berlino, lo scritto permette al filosofo di raggiungere notorietà e successo[13]. I riconoscimenti più calorosi provengono dall’Inghilterra. John Oxenford dedica a Schopenhauer prima una lunga recensione sulla «Westminster and Foreign Quarterly Review» e poi diverse pagine all’interno del libro Iconoclasm in German Philosophy.La profonda crisi ideologica derivante dal fallimento rivoluzionario del 1848 e dalla dura reazione politica ed ecclesiastica del decennio tra il 1850 e il ’60, creano ora tutti i presupposti per la ricezione della filosofia schopenhaueriana[14].Nel 1854 esce a Francoforte la seconda edizione de La volontà nella natura. Diviene più stretta l’amicizia col romanziere Wilhelm Gwinner, colui che sarà il primo biografo del filosofo. Wagner gli invia una copia del poema L’anello del Nibelungo.Nel 1858 Schopenhauer compie settant’anni. Immerso nella gradita lettura delle Operette morali e dei Pensieri di Leopardi [15], riceve da Brockhaus la notizia che la seconda edizione de Il mondo è andata esaurita, per cui occorrerà una terza stampa. L’anno dopo la scultrice Elisabeth Ney realizza un busto di Schopenhauer.Il 9 settembre del 1860 si ammala di polmonite. Afflitto già dal mese di aprile da tachicardie e difficoltà respiratore, Arthur Schopenhauer muore il 21 settembre. Quattordici anni dopo, Friederich Nietzsche lo ricorderà in una delle Unzeitgemässe Betrachtungen come il solo vero educatore della nuova Germania[16], mentre, tra fine dell’Ottocento e l’inzio del Novecento, troverà lettori appassionati come il giovane Thomas Mann, Freud e Wittgenstein, interpreti e continuatori come Georg Simmel e Carlo Michelstaedter.
Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente
L'attività speculativa schopenhaueriana assume forme decisamente nette già a partire dall'elaborazione del trattatello del 1813 Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, ciò che pur gli valse la laurea in Filosofia e che, in certo modo, costituisce la chiave di volta per la comprensione di tutto il suo sistema filosofico successivo. Il titolo dell'opera, come dichiarato dall'autore stesso, intende riferirsi a «un'espressione comune di più conoscenze date a priori», conoscenze che di seguito si tenterà di illustrare. Basterà qui ricordare la definizione che Wolff dà dello stesso principio di ragione sufficiente, definizione che Schopenhauer riprende in via provvisoria e che qui di seguito si riporta: «Niente è senza una ragione per la quale sia piuttosto che non sia», ovvero: niente è senza una ragione per cui sia. In buona sostanza, "principio di ragione sufficiente" indica sempre, qui e in Schopenhauer, il diritto a chiedere: «Perché?», ciò che poi a ben vedere risulta essere una delle facoltà forniteci a priori nell'intelletto, oltre che una delle prerogative principali delle scienze comunemente intese. Nell'approcciare ognuna delle seguenti classi di rappresentazione sarà sempre possibile, dunque, applicare tale principio, chiedendosi effettivamente ogni volta il perché, nello specifico, del divenire, del conoscere, dell'essere, dell'agire: a questo dunque intende riferirsi il filosofo adottando la definizione di "quadruplice radice", ovvero ad un insieme di conoscenze che effettivamente si differenziano l'una dall'altra in quanto all'oggetto conosciuto, ma ciononostante dimostrano, ad una più attenta analisi, di possedere un comune sostrato nella facoltà intelletto.
Principium rationis sufficientis fiendi
Principio di ragione sufficiente del divenire, noto anche come legge di causalità (modificazione reciproca degli stati della materia), che il filosofo inserisce, assieme a tempo e spazio, tra le forme date a priori nell'intelletto umano. Tutti gli oggetti che contribuiscono a creare il complesso della realtà sperimentale sono, rispetto al cominciare e cessare dei loro stati, legati tra loro per mezzo di tale principio; se subentra un nuovo stato di uno o più di questi oggetti "reali", bisogna che un altro lo abbia preceduto, e che ad esso faccia seguito uno nuovo, il tutto nella più perfetta necessità. Tali seguire e conseguire rappresentano ciò che più comunemente si usa indicare sotto il concetto di rapporto causa-effetto. Se ad esempio un qualsiasi corpo inizia un processo di combustione, è necessario che esso sia preceduto da:
• uno stato di affinità con l'ossigeno;
• uno stato di contatto con l'ossigeno;
• uno stato di aumento della temperatura.
Poiché, non appena questi stati della materia si verificano, deve immediatamente conseguirne la combustione, e però essa si manifesta solo adesso e non può dunque essere stata sempre presente, essa dev’essersi verificata solo ora: questo prodursi di un'alterazione nella condizione originaria della materia viene solitamente indicato con il termine modificazione. Dunque la legge di causalità sta in rapporto esclusivo con le modificazioni e ha sempre e solo a che fare con queste. Ogni effetto è, nel suo verificarsi, una modificazione e dà un'indicazione pressoché infallibile su un'altra modificazione ad essa precedente che, in relazione all'effetto stesso, rappresenta la causa ma che a sua volta, in relazione ad una terza modificazione anteriore ad entrambe, si chiama nuovamente effetto: questa concatenazione logica è ciò che si intende quando si fa riferimento alla catena causale. Le singole diverse determinazioni, che solo considerate assieme completano e costituiscono la causa, possono essere dette momenti causali o anche condizioni e perciò si può scomporre la causa in tali sue parti costituenti (ciò che poi auspicano di conseguire le scienze tutte comunemente intese). Tali modificazioni degli stati della sostanza (e non mai della sostanza stessa, che come si sa è perenne) divengono successivamente percepibili (dunque rappresentabili) in quanto affezioni che ineriscono agli organi costituenti il nostro apparato sensoriale che, inviando una serie di impulsi lungo la corteccia cerebrale, fornisce al nostro intelletto la capacità di rappresentazione della realtà oggettiva. Ciò stabilito, Schopenhauer è a questo punto libero di portare il filo logico delle sue riflessioni alle sue estreme conseguenze, attaccando direttamente Cartesio - che tenta di negare la necessità di trovare una causa per la stessa esistenza di Dio semplicemente attribuendogli il vago concetto dell'immensitas - e Spinoza che, nonostante sia allievo di Cartesio, non viene in chiaro con il pensiero del maestro e preferisce definire Dio come causa sui, la causa di tutte le cause, il che equivale a dire: una causa che si pone al di fuori della stessa catena causale; ovviamente una contradictio in adjecto. Dalla legge di causalità risultano inoltre due importanti corollari: la legge di inerzia e la legge di persistenza della sostanza. La prima afferma che ogni stato della materia, dunque tanto la quiete quanto il suo moto di qualsiasi tipo, persevera senza crescere né diminuire anche per tutta l'eternità del tempo e per tutta l'infinità dell'universo se non interviene una qualsiasi causa ad alterarlo o farlo cessare. La legge di permanenza della sostanza consegue invece dal fatto che la legge di causalità è applicabile solo e soltanto agli stati della materia, agli stati dei corpi, cioè alla loro quiete o al loro movimento, alla loro forma e qualità d'ogni genere, al nascere e al perire nel tempo dei fenomeni (e solo dei fenomeni), e nient’affatto all'esistenza del "portatore" di questi stati, la sostanza appunto: essa persiste, non può né nascere né perire, il suo quantuum non può cioè essere aumentato o diminuito (conoscenza di cui, afferma Schopenhauer, noi siamo dotati a priori). Dall'infinita catena delle cause e degli effetti rimangono perciò intatte due sole cose:
• la materia informe, che non s'è cioè ancora manifestata in un fenomeno o un ente, e che è anzi l'unico medium per mezzo del quale la legge di causalità può esternarsi;
• le forze naturali originarie, a cui - afferma il filosofo - è inutile tentare di dare una spiegazione causale, essendo tali forze il sostegno stesso su cui si fonda l'esistenza della medesima catena di causa ed effetto. Ovvero: è illogico, e denota mancanza di riflessione, chiedere il perché del diritto di chiedere perché.
Principium rationis sufficientis cognoscendi
Principio di ragione sufficiente del conoscere, noto come Ragione e definito come capacità di concatenazione o opposizione di concetti astratti (il che vuol dire lontani nel tempo e nello spazio) nella forma sintetica d'un giudizio, da cui discende necessariamente la relativa conferma della giustezza di esso per affinità ad una delle quattro verità:
• Verità logica o formale, allorché un giudizio fonda la sua ragione su un altro giudizio ritenuto sempre valido, ovvero dimostra la sua esattezza rispetto a questo con l'adozione di un terzo, procedere nel qual modo viene poi definito sillogizzare. Un giudizio è dotato di verità logica o formale anche nel caso in cui manifesti accordo con una delle quattro note leggi del pensiero:
1. Principio di identità [es: "il triangolo è uno spazio delimitato da tre linee"];
2. Principio di non contraddizione [es: "nessun corpo è senza estensione"];
3. Principio del terzo escluso [es: "ogni giudizio è vero o non-vero"];
4. Principio di ragione sufficiente del conoscere [es: "se esprimo un giudizio, devo per necessità motivarlo" o, più sinteticamente, affirmanti incumbit probatio];
• Verità empirica, in quanto una rappresentazione della prima categoria qui analizzata, cioè un'intuizione dovuta all'apparato sensibile, può a sua volta essere la ragione di un giudizio. Allora il giudizio assume una verità materiale e questa invero è verità empirica.
• Verità trascendentale, essendo le forme della conoscenza intuitiva, forniteci a priori dall'intelletto (spazio, tempo e causalità = principium individuationis), requisiti essenziali di ogni esperienza, esse possono divenire ragione di un giudizio, che ha di nuovo verità materiale, e ciò non solo in seno alla mera esperienza, ma come risultato delle condizioni stesse che questa governano. Esempi di tali giudizi sono proposizioni come: «due linee rette non racchiudono uno spazio», «niente accade senza causa», «3 x 7 = 21», «la materia non nasce e non perisce».
• Verità metalogica, che si prefigura allorché la ragione di un giudizio riposa nelle condizioni formali di ogni pensare insite nella Ragione. I giudizi di verità metalogica sono quattro, e sono stati chiamati leggi di ogni pensare. Essi sono i seguenti:
1. Un soggetto è uguale alla somma dei suoi predicati, per cui A = A;
2. Non si può negare e al contempo attribuire un predicato a un soggetto, ovvero A = -A = 0;
3. Di due predicati contraddittori opposti, uno dev'essere attribuito ad ogni soggetto;
4. La verità è il rapporto di un giudizio con qualcosa posto al di fuori di esso, che noi indichiamo come ragione sufficiente.
Che questi giudizi siano espressione della condizione di ogni pensare sano e lucido, afferma Schopenhauer, risulta chiaro dal fatto che pensare in contrasto con essi è così poco possibile come il pretendere di muovere le proprie membra in senso contrario rispetto alle relative articolazioni.
Principium rationis sufficientis essendi
Principio di ragione sufficiente dell'essere, costituito dalla parte formale delle rappresentazioni complete ed empiriche già viste nella prima classe, dunque dalle intuizioni date a priori delle forme del senso interno ed esterno, spazio e tempo. Esse sono di per sé, in quanto intuizioni pure, oggetti della facoltà di rappresentazione, ma differiscono dalla prima classe di oggetti empirici appunto per il grado di purezza e dunque per il fatto di non richiedere l'intervento della materia (e delle sue relative modificazioni di stato) affinché risultino intuibili; ovvero: se nella prima classe di rappresentazioni (intuitive, empiriche) le forme di spazio e tempo vengono intuite in quanto "riempite" dalla materia, in questa terza classe la facoltà rappresentativa rinuncia alla sostanza per divenire pura intuizione di rapporti spazio-temporali, che dunque si riduce qui a manifestazione di quei rapporti indissolubili che caratterizzano le interazioni fra queste due forme del conoscere. Più nel dettaglio, il principio di ragione dell'essere viene sviluppato da Schopenhauer nel modo seguente:
• Ragione dell'essere nello spazio: nello spazio, dalla posizione di ogni parte di esso, diciamo di un dato corpo rispetto ad un altro, è assolutamente determinata la sua posizione anche rispetto ad ogni altro corpo possibile, sicché quest'ultima posizione sta alla prima nello stesso rapporto di una conseguenza con la sua ragione. Poiché ogni corpo (o linea o punto) è, quanto alla sua posizione, insieme determinato da tutti gli altri e determinante dei medesimi, è puro arbitrio considerare un qualsiasi corpo solo in quanto determina gli altri e non in quanto ne è determinato. La posizione di ciascuno di essi rispetto a qualunque altro ammette la domanda circa la sua posizione rispetto a un qualsiasi terzo, in forza della quale seconda posizione la prima è necessariamente quella che è;
• Ragione dell'essere nel tempo: nel tempo ogni momento è condizionato dal precedente, in quanto esso ha una sola dimensione e dunque non può esservi una molteplicità di relazioni. Ogni momento è condizionato dal precedente, solo attraverso quello si può giungere al seguente; solo in quanto questo è stato, un altro adesso è. Su questa connessione delle parti del tempo si fonda ogni calcolo: ogni numero presuppone quelli precedenti come ragioni del suo essere, da cui discende ad esempio che al numero dieci posso giungere soltanto attraverso tutti i precedenti. Allo stesso modo la geometria è fondata sulla connessione della posizione delle parti dello spazio: essa sarebbe dunque, propriamente, la conoscenza intuitiva di tale connessione.
Principium rationis sufficientis agendi
Questa quarta classe di oggetti della facoltà di rappresentazione è particolarmente cara al sistema schopenhaueriano, in quanto ad esser preso qui in considerazione è un oggetto soltanto, immediatissimo, oggetto per il soggetto interno che, come tale, si prefigura come soggetto del volere. Schopenhauer parte da questa considerazione: ogni conoscenza presuppone imprescindibilmente un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto; la cosa si ripete anche passando nell'ambito dell'autocoscienza, sicché anche qui abbiamo un conoscente e un conosciuto: quest'ultimo è adesso solo ed esclusivamente Volontà. Discende da ciò che il soggetto conoscente conosca qui se stesso soltanto come soggetto volente, mai come soggetto di conoscenza, in base al principio che l'Io portatore di rappresentazioni, soggetto del conoscere, essendo condizione delle stesse rappresentazioni, non può divenire esso stesso rappresentazione e dunque oggetto. Tale principio è del resto già enunciato nei testi sacri dell'induismo, le Upanishad, con queste parole:
«Non lo si può vedere: vede tutto; e non lo si può udire: ode tutto; non lo si può conoscere: conosce tutto; e non lo si può comprendere: comprende tutto. Oltre a questo che vede, e ode, e conosce, e comprende, non v'è altro ente».
Il soggetto del conoscere non può dunque mai essere conosciuto, mai può esso divenire rappresentazione. Poiché tuttavia noi disponiamo non solo di una conoscenza esterna (grazie all'intuizione sensibile), ma anche di un'autoconoscenza interna, e però anche qui si dà come necessaria la copresenza di conoscente e conosciuto, ad essere conosciuto è adesso il soggetto volente, la Volontà. «Se noi guardiamo alla nostra interiorità», dice Schopenhauer, «ci troviamo sempre come volenti»; il volere ha ovviamente molteplici gradi di intensità, dal desiderio tenue e fugace fino alla più ardente passione. L'identità assoluta fra soggetto che vuole e soggetto che conosce, in virtù della quale il pronome singolare di prima persona "Io" include e designa entrambi, è dunque il nodo cosmico: una completa identità di ciò che conosce con ciò che è conosciuto come volente è data immediatamente. Come dunque il correlato soggettivo della prima classe di rappresentazioni è l'intelletto, quello della seconda la Ragione, quello della terza la pura sensibilità, troviamo come quello di questa quarta il senso interno, o autocoscienza. Il volere è la più immediata di tutte le conoscenze, quella la cui immediatezza getta luce su tutte le altre: queste ultime sono a noi note solo per una via in fondo indiretta, mediata se vogliamo, qui dai sensi, là dalla ragione; noi vediamo bene cioè che questa causa produce quell'effetto, ma come possa in realtà farlo, questo non veniamo a saperlo: vediamo che gli effetti meccanici, fisici e chimici conseguono ogni volta dalle loro rispettive cause, ma la totalità del processo ci rimane oscura, col che noi giungiamo infine con l'attribuirla alle proprietà dei corpi, alle forze della natura, anche alla forza vitale, le quali sono poi mere qualitates occultae. Nella sfera della Volontà il discorso cambia radicalmente: noi sappiamo cioè, in base a un'esperienza interna fatta in noi stessi, che quello è un atto di volontà provocato dal motivo; l'azione del motivo viene da noi conosciuta non solamente, come quella di tutte le altre, da fuori e quindi mediatamente, ma insieme da dentro, del tutto immediatamente. Ne scaturisce l'importante proposizione: la motivazione è la causalità vista dal di dentro. La Volontà obbliga dunque il soggetto conoscente a ripetere rappresentazioni che gli sono state presenti già una volta, e a rivolgere in genere l'attenzione a questo o a quello. È la Volontà dell'individuo che mette in moto tutto il meccanismo, in quanto, in conformità ai suoi scopi individuali, spinge l'intelletto a procurare alle sue rappresentazioni presenti altre che sono con le medesime logicamente o analogicamente affratellate, o hanno con esse vicinanza spazio-temporale. Scrive Schopenhauer in merito:
«Quando l'intelletto presenta un semplice oggetto dell'intuizione alla Volontà, questa comunica subito se tale oggetto le è gradito o sgradito; la stessa cosa accade dopo che l'intelletto ha penosamente almanaccato e soppesato numerosissimi dati per ricavare infine da essi, mediante difficili combinazioni, il risultato che più di ogni altro sembra adeguarsi agli interessi della Volontà; quest'ultima, che nel frattempo si è tranquillamente riposata, ora che il risultato è stato ottenuto, fa la sua comparsa come il sultano nel diwan, per comunicare, ancora una volta, soltanto il suo monotono giudizio di gradimento o non gradimento[...]».
Tutto questo la Volontà svolge, per così dire, in incognito, silenziosamente e inavvertitamente; e ciò nonostante, ogni immagine che improvvisamente si presenta nella nostra fantasia, e anche ogni giudizio che non segue da una sua ragione prima presente, devono essere stati suscitati da un atto di volontà che ha un motivo, sebbene esso e poi l'atto che necessariamente ne consegue, causa la loro repentina affinità, spesso non vengano percepiti.
Il Mondo come Volontà e Rappresentazione
E’ la sua opera principale, pubblicata nel 1818. Il punto di partenza è fornito dalla kantiana distinzione tra Fenomeno - la realtà come ci appare: applicando le nostre forme di conoscenza (sensibilità, intelletto, ragione), possiamo organizzare e classificare, a livello mentale, le immagini che ci circondano; e Noumeno – la “Cosa in sé”, la vera essenza delle cose che vediamo. Non appartiene al soggetto, ma è indipendente dall’uomo: una sorta di Iperuranio, dove le “Idee” degli oggetti vivono eterne e distanti. Schopenhauer modifica leggermente questo concetto, definendo fenomeno l’illusione, la parvenza, separata attraverso il “velo di Maya” dal Noumeno, la vera realtà che si nasconde e che il filosofo deve scoprire (bisogna ricordare che Kant considerava i fenomeni più o meno veritieri visto che erano legati ad una realtà, anche se inconoscibile). Ancora differentemente da Kant, Schopenhauer parla di fenomeno come rappresentazione che esiste solo dentro la coscienza, e non ne è scissa. All’interno della rappresentazione esistono due elementi inseparabili: il soggetto rappresentante e l’oggetto rappresentato. Essi sono dipendenti l’un dall’altro, e l’uno è causa e conseguenza dell’altro. Sono perciò errati sia il Materialismo (che nega il soggetto, riducendolo all’oggetto), sia l’Idealismo (che nega l’oggetto, riducendolo al soggetto). La rappresentazione, inoltre, si basa su tre forme a priori:
• Spazio;
• Tempo;
• Causalità (le altre 11 categorie individuate da Kant sono, per Schopenhauer, riconducibili ad essa).
Queste forme a priori sono come le sfaccettature di un vetro, attraverso cui la visione delle cose sin deforma, ma non le cose stesse. Ne risulta che “la vita è sogno”, una sorta di incantesimo, e per avvalorare la sua teoria, Schopenhauer cita i filosofi Veda, Platone, Pindaro, Sofocle, Shakespeare, Calderón de la Barca. Sulla realtà vera l’uomo, in quanto animale metafisico - e che pertanto si stupisce della propria esistenza - tende a interrogarsi, in diretta proporzione alla sua intelligenza. Schopenhauer afferma che stracciare il velo di Maya, passare da Fenomeno a Noumeno, sia possibile: l’uomo stesso non è solo rappresentazione, ma è anche Cosa in sé (il corpo), cioè non solo ci vediamo dall’esterno, ma viviamo dall’interno. La via per conoscerci come Cosa in sé è lasciarsi vivere: lasciarsi andare e, intuitivamente, sentire in sé la vita. La ragione serve solo per il fenomeno: per passare al Noumeno occorre abbandonarlo e lasciarsi guidare dall’intuizione. Questa esperienza rende possibile la conoscenza dell’essenza profonda del nostro Io, che è Volontà di vivere (Wille zum leben). Questa volontà è l’impulso alla sopravvivenza, quella spinta irresistibile che ci fa esistere: noi siamo, dunque, vita e Volontà di vivere, e il nostro corpo la manifestazione esteriore dei nostri desideri interiori: l’apparato digerente, ad esempio, è la manifestazione fenomenica della volontà di nutrirsi. Il mondo è, dunque, volontà e rappresentazione. La Volontà di vivere è:
• inconscia, infatti è più un impulso, energia piuttosto che volontà cosciente;
• unica, perché stando al di fuori dello spazio e del tempo si sottrae al principium individuationis;
• eterna, cioè senza principio nè fine perché al di là del tempo;
• incausata, perché oltre la categoria di causa;
• senza scopo oltre se stessa.
Essa inoltre appartiene a tutti gli esseri viventi, ma solo l’uomo può averne consapevolezza. Dio è stato creato dagli uomini per “mascherare” la crudele verità sul mondo: la vita non ha senso, non esiste un fine, né un destino; tutti gli esseri viventi, siano essi vegetali o animali, non vivono con altro scopo che vivere e proseguire la specie. Tutto il mondo è investito dalla sofferenza: volere significa essere mancanti di qualcosa, perciò essere in uno stato di tensione. Quando un desiderio viene appagato sopraggiunge la noia, e il ciclo ricomincia, perché per ogni brama sedata ne scaturiscono altre; il piacere inoltre, non è che temporanea e fugace cessazione di dolore, dunque funzionale e dipendente da esso. Non può verificarsi il caso contrario perché un individuo può sperimentare una serie di dolori senza essere preceduti da piaceri, invece ogni piacere nasce alla fine di un particolare dolore. La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. La legge che regola il mondo è quella del più forte: la lotta per la sopravvivenza spinge a crudeltà ed egoismi: il male, infatti, non appartiene al mondo, ma è il Principio che lo porta avanti. In questa prospettiva, ogni potere, ogni prerogativa è sottratta all’uomo: il libero arbitrio, l’esistenza (e la sopravvivenza post-mortem) dell’anima, l’amore.
La concezione dell’amore
L’amore rappresenta nella filosofia schopenhaueriana lo stimolo più forte dell’esistenza: dietro a Cupido si cela il Genio della specie, che desidera la perpetuazione della vita: l’amore è un potente mezzo usato dalla Natura ai fini dell’accoppiamento. L’incanto e il lato romantico sono maschere costruite dall’uomo per celare questa dura e triste verità: il desiderio sessuale è il motore dell’innamoramento, nient’altro.
Il rifiuto degli ottimismi
Ogni forma di ottimismo è in questa ottica falsa e illusoria:
• Cosmico (Hegel): vedere nel mondo la perfezione di una sistema, l’organizzazione provvidenziale di un qualsivoglia Dio, Spirito, Sostanza o Ragione, è un’illusione consolatoria; le religioni sono “metafisiche per il popolo”, o, come disse Marx, “l’oppio dei popoli”.
• Sociale (Rousseau): l’uomo non è buono per natura, e non sono state le leggi imposte dalla società a corromperlo; homo homini lupus, l’unica regola universale è questa, i rapporti umani sono sempre conflittuali perché mossi dal desiderio di sopraffazione reciproca. Riprendendo Hobbes, Schopenhauer afferma che se gli uomini vivono insieme in società è solo per convenienza.
• Storico : la storia ci insegna solo che l’uomo è sempre uguale, non che egli muterà; la vita è segnata dal ciclo nascita-sofferenza-morte, non esiste alcun destino, né alcuna missione.
Le vie di liberazione dal dolore
Inizialmente, Schopenhauer prende in esame il suicidio. In posizione anti-stoica, il filosofo condanna questa pratica, perché non nega, ma afferma la volontà, negando piuttosto la vita. Inoltre, attraverso il suicidio viene soppressa unicamente la manifestazione fenomenica della Volontà di vivere, mentre la Cosa in sé continua ad esistere. La prima tappa, secondo Schopenhauer, è l’arte: conoscenza libera e disinteressata delle Idee, essa prende in considerazione le Essenze, non le forme;in particolare, la musica, non avendo contenuto rappresentativo, è immediata e catartica. L’arte non può, però, essere la soluzione finale o perché riguarda pochi ed è temporanea. La seconda tappa è la pietà: dall’esperienza vissuta, l’uomo deve riuscire a superare l’egoismo avvertendo come proprie le sofferenze altrui. In particolare, Schopenhauer pone enfasi su due tipi di pietà: la giustizia (in quanto volontà positiva e attiva di fare del bene al prossimo) e la carità (amore disinteressato), ma la vittoria non è anche totale. L’ultima tappa è l’ascesi (ossia la cessazione di qualsiasi tipo di esistenza,voglia o godimento), scandita a sua volta in tre punti:
• Mortificazione di sé (non cercare il piacere);
• Castità (non perpetuare il dolore);
• Inedia (lasciarsi morire di fame).
Questa è al vera soluzione: l’estenuazione dell’organismo, che apre al Nirvana, un abbandono totale della ragione, un’esperienza del Nulla. Per negare la Volontà di vivere, l’uomo deve innalzare la Noluntas a sistema di vita, tentando di ignorare e disprezzare i motivi che il suo intelletto - schiavo della Volontà - gli fornisce.
Schopenhauer nasce a Danzica da buona famiglia, il padre è un ricco commerciante e la madre appassionata di letteratura. Laureatosi a Jena in filosofia, decide di insegnare a Berlino per contrastare la fortuna del suo grande antagonista, Hegel, a cui dedicherà appassionate polemiche. Constatato il fallimento del suo progetto berlinese (nessuno frequentava le sue lezioni), Schopenhauer si trasferisce a Francoforte, dover rimarrà per tutta la vita. Il successo lungamente inseguito arriva tardi, nel 1851, quando pubblicherà Paregra e Paralipomena, una raccolta di aforismi. Muore a Francoforte nel 1860.
Opere principali:La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente (sua tesi di laurea) (1813); Sulla vista e sui colori (1816); Il mondo come volontà e rappresentazione (1818); Sulla volontà della natura (1836); Paregra e Paralipomena (1851).
1. Il mondo come volontà e rappresentazione
Schopenhauer parte dalla filosofia di Kant quando divide il mondo in due parti: da una parte il mondo fenomenico, ciò che apprendiamo e ci appare dall'esperienza diretta delle cose, e dall'altra la cosa in sé, che per Schopenhauer coincide con la volontà. Questa non è semplicemente un impulso, una caratteristica parziale del carattere umano, bensì una vera e propria entità a sé, con una sua propria valenza ontologica: la volontà è l'ente che da sempre sostiene il mondo e che sempre lo sosterrà.
L'uomo viene a conoscenza della volontà attraverso la percezione immediata della sua esistenza: l'uomo percepisce la volontà senza alcuno sforzo, la sente in sé, ognuno di noi sente questo impulso nel proprio essere, ovvero l'impulso della volontà di vivere e di continuare a farlo. La volontà è presente in tutti gli esseri viventi, siano essi animali o piante, ma solo l’uomo è capace di rendersene conto, perché munito di una ragione capace di intuire la volontà, ovvero la cosa in sé. La volontà è un impulso irrazionale e caotico, "cieco e irresistibile impeto". Curiosamente la volontà genera il mondo fenomenico, il quale è notoriamente ordinato e razionale. Tutto si trova quindi sospeso sopra il magma irrazionale della volontà, soprattutto questa rappresentazione del mondo che percepiamo, specialmente nelle sue leggi fisiche e materiali, come un meccanismo razionale, ordinato, determinato. Il paradosso è questo: il mondo degli uomini, ordinato nelle sue leggi, è in realtà il prodotto di un'entità, di un'energia irrazionale ed assoluta, che non ha alcun scopo, diversamente a quanto credono gli uomini, che in tutto vedono e vogliono vedere un fine (come invece sosteneva Schelling). La realtà, dal canto suo, esiste, ma è come velata, nascosta dietro un velo di interpretazioni illusorie (concetto già della filosofia indiana dei Veda). La vera realtà è quella della volontà, il mondo fenomenico, nella sua empiricità, è una rappresentazione prodotta dalla volontà.
Tali rappresentazioni illusorie sono ciò che percepiamo immediatamente con i sensi nella vita di tutti i giorni: la natura, le persone, i rapporti con gli altri uomini, la struttura sociale, religiosa ed economica. E' innegabile che siano reali, ma sono fenomeni comunque percepiti dalla mente degli uomini e quindi soggetti alla soggettività delle percezioni.
"... tutto ciò che esiste per la conoscenza, cioè questo mondo intero, è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce, in una parola: una rappresentazione."
L'uomo, come scrive Schopenhauer, "non conosce né il Sole né la terra, ma solo un occhio che vede un Sole, una mano, che sente una terra..." Come verrà approfondito più avanti, l'unico oggetto che è veramente conosciuto dall'uomo nella sua totalità e nella sua immediatezza e il proprio corpo. Dunque la realtà è passata al setaccio dei sensi; la percezione del corpo, che ha qualità percettive sue proprie, costruisce la rappresentazione del mondo. Il mondo percepito non è quindi il vero oggetto nella totalità delle sue qualità (la cosa in sé), ma solo un'interpretazione (la rappresentazione) che ne dà il corpo.
Infine, per chiarire, la volontà di Schopenhauer è un istinto innato e universale alla sopravvivenza, desiderio di vita ad oltranza, anche di fronte alla presa di coscienza del destino mortale. Essa tiene in vita l'uomo e tutti gli esseri viventi indipendentemente dalle loro singole volontà; come scrive Schopenhauer "miliardi di esseri, vegetali, animali, umani, non vivono che per vivere e per continuare a vivere"... Dunque la volontà (assoluta e comune a tutti gli esseri viventi) è indipendente dalle singole volontà, per gli uomini non esiste libertà di arbitrio, essi credono di perseguire proprie finalità e prendere decisioni in piena autonomia, in realtà chi decide per loro è la volontà con il suo cieco impulso alla vita e alla sopravvivenza, all'istinto di conservazione e di perpetuazione della specie (non esiste quindi amore, solo sessualità, una sessualità vista con vergogna, perché attraverso l'atto sessuale si crea un altro essere soggetto alla volontà, e quindi alla sofferenza eterna).
1b. La volontà si manifesta solo in me o in tutti gli esseri viventi?
Quale metodo applica Schopehauer per giustificare la sua tesi della rappresentazione? Se il mondo è la "mia" rappresentazione, allora tutto è solipsismo? Ovvero, tutto il mondo scaturisce solo da me e dalla mia volontà? In realtà Schopenhauer sostiene che la volontà si manifesta in tutti gli esseri viventi. Ma come può dimostrarlo? Quella di Schopehauer è un'ipotesi, una proposta. "Tuttavia è un'ipotesi che è confermata, secondo Schopenhauer, da una miriade di indizi" (E. Severino, La filosofia contemporanea). Il metodo di Schopenhauer non è deduttivo, ovvero non si avvale di una premessa e di una serie di affermazioni logiche conseguenti, ma è un metodo induttivo, ovvero parte dall'osservazione empirica di tutta una serie di fenomeni che servono da argomento alla formulazione della sua tesi. Schopenhauer era un sostenitore della semplificazione dei concetti e delle formulazioni, per questo tutta la sua filosofia parte dalla semplice osservazione empirica del mondo (che descrive fenomeno) e delle pulsioni interiori che si manifestano in tutti gli esseri viventi (e nella volontà Schopenhauer vedrà l'unica realtà effettiva).
2. Il corpo oggettivazione della volontà, l'origine del dolore esistenziale
Dunque il mondo per Schopenhauer è una rappresentazione della mente filtrata dalle qualità dei sensi. L'unico oggetto conosciuto nella sua realtà effettiva è il corpo di ciascun uomo, perché vissuto immediatamente "sulla propria pelle". E' nel profondo della mente, la quale è parte di questo corpo percepito nella sua totalità, che l'uomo sente e viene a contatto con la volontà. Ogni corpo percepisce e si identifica con la volontà di vivere, che è quell'impulso irrazionale ed emotivo che si trova in tutti gli uomini, per questo il corpo è lo strumento usato dalla volontà per oggettivarsi. Corpo e volontà vengono quindi a coincidere, in quanto dove vi è un corpo vi è sempre una volontà ("la volontà è la conoscenza a priori del corpo, il corpo conoscenza a priori della volontà”). E' da questo rapporto inscindibile che, secondo Schopenhauer, nasce il dolore esistenziale. La volontà infatti ha come caratteristica necessaria l'infinità e l'assolutezza, mentre il corpo, essendo soggetto alle leggi del mondo, non può che essere limitato e mortale.
La volontà desidera continuamente e incessantemente: il corpo non potrà mai soddisfare tale necessità, in quanto mortale e soggetto a deperimento. Il dolore nasce dalla presa di coscienza di questo conflitto: l'uomo si rende conto di non poter fare a meno di desiderare, senza un particolare scopo che non sia il desiderio in sé. "Ma domandategli [all'uomo] perchè voglia o in generale perchè voglia esistere; non saprà rispondere, anzi troverà assurda anche la sua stessa domanda. E con ciò viene a confessare di non essere altro che una volontà..." In sostanza la volontà guida l'uomo, l'uomo è alla mercè dei suoi desideri. I fini perseguiti da ogni essere vivente, le sue aspirazioni, non sono il prodotto delle singole volontà degli esseri stessi ma sono il prodotto della volontà assoluta, un'entità a sé, un gran magma caotico e in continua ebollizione che trova sfogo attraverso i singori esseri viventi proprio come le diverse bocche di un vulcano attingono alla medesima caldera. L’essenza della vita è dunque la sofferenza, nonostante ciò Schopenhauer trova altre due condizioni esistenziali derivanti dalla prima: il piacere e la noia.
Il dolore: è la condizione basilare dell’uomo, il quale, essendo soggetto alla volontà, non può fare a meno di desiderare e quindi essere insoddisfatto, è in questa insoddisfazione che si scopre la causa del nostro dolore; Il piacere: il piacere è la condizione umana più fuggevole e breve della nostra esistenza, essa esiste solo in quanto appagamento immediato della volontà; La noia: è ciò che segue al piacere, cioè la mancanza di una volontà impellente, è privazione di dolore. "Dei sette giorni della settimana, sei sono di dolore e di bisogno e il settimo è di noia." La vita è quindi vuota pantomima, un eterno ripetersi di pulsioni che non possiamo controllare, un eterno aspirare a finalità illusorie e in continuo mutamento, finalità che non sono nostre e alle quali soggiaciamo perché impossibilitati a sfuggirne.
3. La nolontà e gli altri modi di rimediare ai danni della volontà
... Ma siamo davvero impossibilitati a sfuggirne? Schopenhauer si domanda se esista un modo per sfuggire alla schiavitù della volontà e liberarsi così del suo peso, se infatti l'uomo si liberasse della volontà terrebbe a distanza, se non annullerebbe del tutto, anche il dolore. Esistono diversi modi per anullare o lenire l'effetto della volontà: L'arte. Con il mezzo artistico è possibile un catarsi dell’essenza umana dalla tirannia della volontà, questo è possibile tramite la contemplazione della bellezza celata nell’arte; Schopenhauer individua nella tragedia e nella musica (soprattutto in questa perché più immediata) le due forme artistiche per eccellenza. Il potere dell’arte è solo di conforto e quindi momentaneo. Tutti possono essere geni (cioè avere il genio di creare opere d’arte) e questo genio non si manifesta mai costantemente; La morale. Con la morale è possibile esercitare l’amore per l’altro (che per Schopenhauer è compassione). L'amore per l'altro è comprensione che la realtà dell'altro è la mia, in quanto la rappresentazione è cosa soggettiva io percepisco una rappresentazione dell'altro che non è esattamente l'esistenza stessa dell'altro ma è la mia rappresentazione della sua esistenza, in questo modo è possibile vincere l'egoismo volontario. Il suicidio. L'annullamento della volontà di vivere può essere raggiunta anche con il suicidio, ma Schopenhauer deplora il suicidio per due motivi: il primo motivo è che il suicidio, non è dettato da un annullamento della volontà bensì dall’insoddisfazione dell’individuo di una situazione particolare che sta vivendo; il secondo motivo è che l'annullamento di una singola volontà non intacca minimamente la volontà in sé, infatti la volontà continuerebbe a vivere, perchè assoluta e infinita. Tuttavia la via che per eccellenza porta all'annullamento della volontà è l'ascesi: Per Schopenhauer annullare la volontà significa entrare in uno stato di distacco ascetico che permette l'annullamento del desiderio di gioia e di vita. Annullando la volontà si entra in uno stato di quiete in cui ogni possibilità è indifferente, ogni sofferenza viene privata della sua base; spenta ogni volontà si spegne ogni dolore. Questo stato di quiete viene definita da Schopenhauer nolontà (o noluntas, contrapposta alla voluntas), ovvero l'esperienza del nulla come fondamento ultimo del tutto, accettato con assoluta serenità e indifferenza. Il rifiuto della volontà è l'unico atto liberamente concesso all'uomo costretto nella sua sofferenza. Quest'ultimo è un concetto che deve molto alla filosofia orientale e al buddhismo: l'annullamento della volonta è il Nirvana, il "non bruciar più" nel fuoco della volontà, il distacco dal ciclo della vita (La Filosofia Contemporanea, Emanuele Severino).In sostanza, le pratiche ascetiche, una volta private dei loro presupposti religiosi e inquadrate in un rigido ateismo, possono essere utili alla causa dell'alleviamento del dolore esistenziale.
4. I quattro tipi di ragione sufficiente
Il principio di ragione sufficiente è un problema storico della filosofia moderna, e proviene, come spesso accade per le cose della logica, da Aristotele. Aristotele aveva posto il problema della causa ontologica delle cose: trovando la causa per la quale una cosa "è cio che è" e non altrimenti, anche la sostanza della cosa sarebbe stata chiarita (La causa per Aristotele è da intendersi come ragion d'essere, quella caratteristica che rende una cosa certa e determinata e la priva di qualsiasi altro carattere accidentale). Successivamente, Leibniz distinse due tipi di ragion d'essere:
1. la ragion d'essere di Aristotele, che spiega la causa (la ragion d'essere) delle cose nella loro necessità, ovvero il perchè una cosa è quella determinata cosa e non altrimenti (ad es., la ragion d'essere di un monitor è la sua qualità di mostrare visivamente il sistema operativo, quella del processore è di effettuare i calcoli per il funzionamento dei programmi... queste sono tutte ragion d'essere strettamente necessarie, se il monitor e il processore non avessero le qualità che ho descritte non sarebbero più né monitor né processore, ma qualcosa d'altro).
2. la ragion sufficiente, che spiega la possibilità della cosa, ovvero spiega perchè una cosa può essere o comportarsi in un certo modo (ad es. la ragion sufficiente di un lettore CD è quella di riprodurre suoni digitali, è una possibilità che non contrasta con altre qualità per le quali il lettore è stato creato, come riprodurre anche filmanti). In sostanza il concetto prende in considerazione la "ragione sufficiente" di una cosa, ovvero "ciò che basta" per definirne la sostanza anche se non ne costituisce la ragione ultima e assoluta. Il primo tipo di ragione descrive un rapporto necessario, il suo contrario implica sempre una contraddizione, il secondo tipo di ragione descrive invece un rapporto potenziale, prendendo come causa dell'essere una qualità che non è la principale ma comunque bastevole ad indicare la cosa: in questo caso il contrario non implica una contraddizione. [contrario (riferito alla ragion d'essere)=opposto univocamente, incompatibile; contradditorio (riferito alla ragion sufficiente)=opposto ma non incompatibile, tutto ciò che è opposto ma non per questo ne costituisce il suo contrario assoluto] Per Schopenhauer la ragione necessaria risiede semplicemente nel fatto che una cosa esiste empiricamente, il fatto che una cosa esista, dunque, è già bastevole come ragion d'essere (anche dal punto di vista aristotelico). Schopenhauer distingue quattro tipi di ragion sufficiente:
1. Ratio conoscendi: la necessità logica, secondo le leggi strettamente necessarie della logica; 2. Ratio fiendi: la necessità fisica, secondo le leggi strettamente causali della natura;
3. Ratio essendi: la necessità matematica, secondo le leggi inconfutabili della matematica, del calcolo e della geometria; 4. Ratio agendi: la necessità morale, i motivi per i quali ciascun essere vivente, animale e non, agisce in un certo modo seguendo i dettami della propria natura. Questa legge è la meno necessaria delle quattro, essendo la più difficile da prevedere, in quanto comporta un attenta e approfondita conoscenza del carattere di ciascun individio, con tutte le sue variabili.
5. La polemica con Hegel
Se la vita è abbandono ad una cieca e schiavizzante volontà di vivere ecco che per Schopenhauer la filosofia hegeliana non racchiude in sé alcuna verità. Gli organismi sociali e politici, le istituzioni che sovrastano l'individuo, il divenire storico, non sono l'aspetto preminente della realtà: in sostanza l'uomo nella storia e nelle istituzioni, nelle sue battaglie per la libertà, non cambia nulla di ciò che è realmente il suo destino, ovvero la vita ad oltranza fino alla morte. L'uomo nasce in contrasto con gli altri uomini, guidati dalla volontà infinita, tutti gli uomini desiderano le stesse cose e per le stesse cose vengono frustrati. Le istituzioni nascono come necessità ordinatrice di tali istinti contrastanti e distruttivi. Non esiste alcuno spirito divino immanente che si manifesta nella storia dei popoli e delle civiltà, esiste solo la volontà e la sua legge, la realtà umana non è in sé di grande importanza, è solamente una rappresentazione, una proiezione della volontà. Schopenhauer inoltre non ammette una conoscenza totale proprio per il modo nel quale è strutturato il suo metodo di indagine: se la vita è rappresentazione soggettiva della realtà e l'unica entità che possiamo percepire nella sua totalità è la volontà (la quale lungi dall'essere razionale e totalmente irrazionale), allora la conoscenza assoluta e razionale della quale Hegel si fa portatore non ha alcuna validità. Infine Schopenhauer polemizza sul modo oscuro di scrivere di Hegel, promuovendo la chiarezza e l’espliticità dei concetti.
1. Dio non è contemplato
Se tutto è volontà, Dio non esiste, anzi, non è nemmeno concepibile. Dio non è che una rappresentazione del bene assoluto, un desiderio umano di affermare un principio ordinatore superiore. La volontà è ben lontana da rappresentare il concetto divino: dove Dio (il Dio cristiano) è ordine, volontà di benevolenza, desiderio di consolazione e finalità, la volontà è assenza di ogni fine, di ogni desiderio di ordine e di bene, essa è solamente un caos vitale che vuole e difende la vita ciecamente e senza alcun progetto, un istinto senza scopo.
SCHOPENHAUER
VITA E OPERE
Arthur Schopenhauer nasce a Danzica nel 1788 da un ricco commerciante e da una scrittrice di romanzi. Quando Danzica cessa di essere "città libera" e viene inglobata nella Prussia, suo padre, fervente repubblicano, trasferisce la famiglia ad Amburgo, altra città libera dell' Hansa. La giovinezza di Arthur è costellata di viaggi, nei quali il padre vede uno strumento di istruzione e di preparazione professionale del commercio: egli soggiorna per due anni a Le Havre, in Francia (1797-99), visita Praga (1800), compie con i genitori un lungo viaggio attraverso l' Olanda, Inghilterra, Francia, Svizzera, Austria, Prussia. Dopo la morte del padre, suicida nel 1805, gli succede per breve tempo nell' attività commerciale, ma poi decide di dedicarsi agli studi. La madre, intanto, trasferitasi a Weimar, apre un salotto letterario,frequentato anche da Goethe, con cui il giovane Arthur avrà qualche incontro. Pur vivendo per qualche tempo anch' egli a Weimar, abita in una casa diversa da quella della madre, di cui non approva la condotta emancipata. Al compimento del ventunesimo anno riceve parte dell' eredità paterna, che gli consente di vivere di rendita. Frequenta l' università di Gottinga, dove Jacobi lo introduce alla lettura di Platone e di Kant, che costituiscono le due fonti filosofiche più influenti sulla sua formazione, almeno per quanto riguarda il pensiero occidentale. Rilevantissima fu, infatti, l' influenza esercitata su Schopenhauer dalla lettura delle Upanishad, i testi sacri della sapienza indiana, incentrati soprattutto sulla dottrina dell' Uno-tutto, cioè sull' unità sostanziale che soggiace alla molteplicità dei fenomeni. A Berlino segue anche le lezioni di Schleiermaker e di Fichte, che trova insopportabile. Durante un nuovo soggiorno a Weimar, scrive la quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813), che egli considererà sempre come un lavoro fondamentale, indispensabile per la comprensione delle opere successive. Separatosi definitivamente dalla madre, dal 1814 al 1818 vive a Dresda. Qui scrive dapprima un' opera su La vista e i colori (1816), in cui si risente l' influenza di Goethe e poi, nel 1818, il mondo come volontà e rappresentazione, pubblicato l' anno successivo. Visita l' Italia nel 1819 (Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli) e nel 1822 (Milano, Firenze, Trento). Frattanto, ottenuta la libera docenza, si trasferisce a Berlino, dove tiene lezioni all'università nelle stesse ore di quelle di Hegel, per fargli concorrenza: il risultato é che si trova senza allievi. Nel frattempo arrivano le prime, poco favorevoli, recensioni del Mondo , mentre le copie dell'opera, rimaste invendute, vanno al macero. Schopenhauer decide di porvi rimedio non riscrivendo il libro, ma lavorando ad una serie di aggiunte, che saranno raccolte con il titolo di Supplementi e pubblicate come secondo volume nella seconda edizione del Mondo (1844). Nel 1831 Schopenhauer si trasferisce a Francoforte per sfuggire all'epidemia di colera che travaglia Berlino (e che costerà la vita ad Hegel). Un decennio dopo la morte di Hegel, quando l'hegelismo accusa i primi scossoni, Schopenhauer comincia a ottenere qualche consenso e a guadagnare qualche discepolo. Ma la grande fama gli arriverà soltanto nel 1851 con i Parerga e paralipomena, in due volumi, che raccolgono vari saggi, tra cui i famosi Aforismi sulla saggezza della vita e La filosofia delle università, aspra requisitoria contro gli ambienti filosofici accademici della Germania. Ora Schopenhauer riesce a vendere bene anche il Mondo e ne ottiene una terza edizione (1859). Nel 1860 Schopenhauer muore di polmonite.
LA CONOSCENZA
A fondamento della dottrina schopenhaueriana della conoscenza vi è la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé. Alla prospettiva di Kant Schopenhauer apporta però sostanziali correzioni e, soprattutto, ne intende in maniera originale il significato generale. Per Kant il fenomeno, cioè il mondo della natura, rappresenta l' unico oggetto della conoscenza umana, condizionata dalle forme a priori della sensibilità e dell' intelletto: pertanto esso coincide con la realtà stessa dal momento che soltanto nel mondo fenomenico l' uomo può organizzare la propria esistenza. Il fenomeno è sinonimo di "apparenza", poiché la cosa in sé, che è al di là del mondo fenomenico, sfugge alla conoscenza umana; ma in esso non è "parvenza", cioè realtà ingannevole al di sotto della quale si nasconde la realtà vera. Lo stesso noumenco (la cosa in sé) che nella prima edizione della Critica della ragion pura appare ancora come un indefinibile X soggiacente al fenomeno, nella seconda edizione viene risolto in un "concetto limite", indispensabile per la definizione teorica della nozione stessa di fenomeno, ma privo di ogni realtà sostanziale. Per Schopenhauer, invece il fenomeno - anche per lui risultato delle forme a priori della conoscenza umana - è soltanto una parvenza che, simile al "velo di Maya" di cui parla la filosofia indiana, copre la realtà vera, che è quella cosa in sé. Riprendendo una tradizione filosofico-letteraria che va da Pindaro a Shakespeare e Calderon de la Barca, Schopenhauer ripete che la vita è sogno, anche se il sognare obbedisce a regole precise, valide per tutti e insite nelle stesse strutture conoscitive dell' uomo. Se per Kant il fenomeno è un punto d' arrivo della conoscenza umana, per Schopenhauer esso deve essere travalicato per giungere al noumeno, della realtà vera delle cose e, quindi, anche dell' uomo. Per questo egli preferisce la prima alla seconda edizione della Critica della ragion pura: dietro suo consiglio il capolavoro di Kant fu pubblicato nell' edizione del 1781, anziché in in quella del 1787, allorché Karl Rosenkranz e Friedrich Wilhelm Schubert diedero alle stampe, nel 1838-42, la prima raccolta completa delle opere del filosofo di Konigsberg. Il mondo come volontà e rappresentazione inizia con le parole: "Il mondo è una mia rappresentazione" la rappresentazione è il risultato del rapporto necessario tra soggetto e oggetto. Nessuno di questi due termini, infatti, può stare senza l' altro. Da un lato, il soggetto è "ciò che tutto conosce, senza essere conosciuto da alcuno", ossia ciò che non diventa mai oggetto della conoscenza propria o altrui. Dall' altro , il soggetto non può conoscere se non un oggetto: se non ci fosse un oggetto, il soggetto non conoscerebbe nulla; ma in questo caso non sarebbe neppure più soggetto, poiché esso è tale soltanto in quanto conosce. Erroneamente il realismo - che Schopenhauer chiama anche materialismo - fa derivare il soggetto dall' oggetto, partendo da una realtà materiale esterna che informa di sé la soggettività. Ma altrettanto erroneamente l' idealismo risolve l' oggetto nel soggetto, come sua produzione interna. Né il soggetto può prevalere sull' oggetto né l' oggetto sul soggetto: la conoscenza, infatti, è data dall' unione di entrambi, intesi come le due componenti indissolubili e paritetiche della rappresentazione. Anche per Schopenhauer, come per Kant, la filosofia prende le mosse dell' analisi delle forme a priori della conoscenza, sebbene esse vengano intese un po' diversamente. Per Kant, le forme a priori erano condizioni soggettive della possibilità dell' oggetto conoscitivo. Ma per Schopenhauer - come abbiamo appena visto - nega qualsiasi priorità del soggetto rispetto all' oggetto, non solo nel senso idealistico fichtiano, per cui il soggetto "pone" l' oggetto, ma anche nel senso trascendentale kantiano, per cui il soggetto "costituisce" l' oggetto. L' elemento veramente originario, da cui dipendono sia il soggetto sia l' oggetto, è la rappresentazione. Le forme a priori, quindi non saranno condizioni della rappresentazione, bensì sue conseguenze: esse sono già implicite in quel fatto assolutamente primo che è l' indissolubilità del rapporto tra soggetto e oggetto nella rappresentazione. Le forme a priori sono tre: lo spazio e il tempo (che corrispondono alle intuizioni pure di Kant) e la causalità (a cui si riducono le dodici categorie kantiane). Lo spazio e il tempo hanno principalmente la funzione di determinare l' oggetto in una pluralità di individui, resi specifici appunto dai loro rapporti spazio-temporali, cioè dall' essere collocati in una determinata posizione e inseriti in una determinata successione di momenti. Spazio e tempo fungono, quindi "da principio di individuazione" della materia, differenziando all' interno di essa ciascun oggetto individuale da tutti gli altri. La causalità costituisce invece l' essenza stessa della materia, percepita e individualizzata dallo spazio e dal tempo. Infatti, la realtà è essenzialmente attività: lo stesso termine tedesco Wirklichkeit (realtà) deriva da wirken, "agire" o "esercitare un' azione su qualcosa". Noi non possiamo percepire le cose nello spazio o nel tempo se non in quanto esse agiscano le une sulle altre, cioè in quanto le une sono causa e le altre effetto. La rappresentazione della realtà non è dunque altro che la rappresentazione della causalità - cioè dell' azione reciproca degli oggetti - nello spazio e nel tempo. Schopenhauer dice che, in omaggio a Kant, possiamo continuare a chiamare sensibilità la facoltà dello spazio e del tempo. Ma avverte giustamente che nel suo sistema l' uso di questo termine è improprio, poiché la sensibilità presuppone già la materia da cui provengono le sensazioni, mentre nella sua concezione la materia, coincidendo con la causalità, nasce soltanto all' interno della rappresentazione. La facoltà della causalità è invece l' intelletto, inteso ancora una volta, in modo assai diverso da Kant. Per Kant esso è la facoltà del giudizio, cioè della conoscenza mediata, nella quale le rappresentazioni immediate (intuizioni) vengono unificate in una "rappresentazione di rappresentazioni", cioè in un concetto. Per Schopenhauer, invece, l' intelletto opera intuitivamente, al pari della sensibilità: infatti la causalità, che è la specifica forma a priori dell' intelletto, non è una categoria in senso kantiano, cioè un concetto che unifica più intuizioni o più concetti ma si fonda - come si è visto - sulla rappresentazione immediata della realtà come attività. Conoscere non significa quindi giudicare, come per Kant: la realtà viene colta intuitivamente nelle forme dello spazio, del tempo e della causalità. Sensibilità e intelletto non sono più kantianamente opposti, come l' aspetto passivo e quello attivo della conoscenza, ma convergenti in un' unica conoscenza immediata, così come scompare la contrapposizione kantiana tra le intuizioni dello spazio e del tempo e la categoria della causalità. Questa origine comune di spazio, tempo e causalità è anche dimostrata dal fatto che essi, senza ricorrere al modello kantiano , possono essere spiegati piuttosto come espressioni di quel principio di ragion sufficiente che Schopenhauer aveva illustrato nella Quadruplice radice del 1813. Il principio della ragion sufficiente - di ascendenza leibniziano-wolfiana - consiste nello spiegare il perchè delle cose, più esattamente, "perchè una cosa sia piuttosto che non sia": a tale scopo occorre instaurare un rapporto necessario tra la cosa da spiegare e quella che la spiega. A seconda delle forme assunte da questo rapporto il princìpio di ragion sufficiente può presentarsi in quattro configurazioni ("radici") diverse, mostrando di discendere da una "quadruplice radice": 1) la prima "radice" spiega la dimensione del divenire dei corpi naturali ( principium rationis sufficientis fiendi ) attraverso la connessione tra la causa e l' effetto fisici (necessità fisica); in altri termini, la prima manifestazione del principio di ragion sufficiente è la causalità, per cui, dato un evento, so con certezza che esso deve avere una causa e per questo è detto "del divenire". 2) La seconda spiega il conoscere razionale dell' uomo ( principium rationis sufficientis cognoscendi ) per mezzo della relazione tra antecedente e conseguente (necessità logica): se nella 1° radice si trattava della causalità fisica, ora la causalità in gioco è quella logica. Nel ragionamento concepiamo, cioè, il rapporto tra premessa e conseguenza come nel mondo fisico concepiamo quello tra causa ed effetto. 3) La terza giustifica l' essere ( principium rationissufficientis essendi ) come definito dai rapporti dello spazio e del tempo, determinando così la concatenazione degli enti aritmetici e geometrici (necessità matematica). Con la terza radice, Schopenhauer interpreta kantianamente lo stesso principio di causa/effetto nella sfera matematica, poichè l'essere è ciò che si definisce nello spazio e nel tempo, i quali, a loro volta, sono i fondamenti della geometria. Tra l'espressione algebrica a sinistra dell'uguale e quella a destra (oppure tra il triangolo e i teoremi che da esso derivano), vige un rapporto analogo a quello causa/effetto del mondo fisico. 4) La quarta, infine, sta alla base dell' agire ( principium rationis sufficientis agendi ), in quanto stabilisce la connessione causale tra l' azione che si compie e i motivi per cui è compiuta (necessità morale). Il rapporto che si instaura tra il motivo di un'azione e la sua conseguenza è analogo a quello che intercorre tra la causa e l'effetto nel mondo fisico, sicchè non esistono azioni umane prive di motivi. Il principio di ragion sufficiente riconduce pertanto ogni forma di connessione tra le rappresentazioni a espressioni di causalità (in senso fisico, o logico, o matematico, o morale) e, insieme, mostra la convergenza tra la causalità, da un lato, e lo spazio e il tempo, dall' altro. Se le rappresentazioni proprie della sensibilità e dell' intelletto hanno carattere immediato e intuitivo, quelle della ragione sono invece mediate, cioè "rappresentazioni di rappresentazioni", ovvero concetti. La ragione svolge, quindi, per Schopenhauer una funzione analoga a quella svolta per Kant dall' intelletto. Essa congiunge più rappresentazioni in un' unica rappresentazione, cioè "giudica". Dato che i concetti, essendo rappresentazioni astratte , sono esprimibili soltanto attraverso parole, la ragione è anche la facoltà del linguaggio. Ragione e linguaggio sono le due facce della stessa medaglia: in molte lingue, nota Schopenhauer, esse sono espresse dalla medesima parola, corrispettiva del greco logos, "ragionamento". Il linguaggio e la ragione costituiscono, dunque, ciò che distingue gli uomini dagli altri esseri viventi, mentre l' intelletto, avendo ancora per oggetto semplici rappresentazioni immediate e intuitive, appartiene anche agli animali. Oltre al linguaggio, la ragione è strettamente connessa con la riflessione pratica, cioè con la capacità di orientare l' azione in base alle argomentazioni del pensiero riflesso; nonchè con la scienza, la cui caratteristica fondamentale è la riconduzione del caso particolare alla legge naturale, cosa impossibile senza concetti che unifichino sotto di sé una pluralità di rappresentazioni subordinate.
LA VOLONTA'
Il mondo della rappresentazione per Schopenhauer è un velo illusorio che occulta la vera realtà, la cosa in sè che sta a monte del mondo fenomenico. Ma come si può attingere questa realtà autentica? Di sicuro non attraverso la conoscenza intellettiva e razionale, dal momento che essa, fondata sulle forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità, non può uscire dalla sfera della rappresentazione, e quindi del fenomeno. Se l'uomo fosse una pura testa alata d'angelo , ovvero se non fosse altro che soggetto sottostante alle forme a priori del conoscere, non sarebbe mai possibile pervenire al noumeno. Ma così non é. Oltre ad essere un soggetto conoscente, l'uomo è anche soggetto corporeo. Ora, il corpo ha una duplice valenza: da un lato, esso è soltanto un oggetto tra gli oggetti, sebbene più immediato degli altri: in questo senso esso non sfugge alle leggi della rappresentazione e ricade pienamente nel mondo fenomenico. D'altra parte, però, il corpo è anche la sede in cui si manifesta una forza assolutamente irriducibile alla rappresentazione, una forza primigenia che non è un oggetto tra gli oggetti e che sfugge ad ogni determinazione causale da parte delle altre cose: sotto questo aspetto il corpo è espressione di volontà . Tramite l'esperienza corporea l'uomo può così giungere alla cosa in sé, al fondamento noumenico che sta alla base di ogni manifestazione fenomenica della realtà, precedentemente e indipendentemente da ogni rappresentazione secondo le forme a priori della conoscenza. La cosa in sé, che Kant aveva dichiarato inconoscibile e che gli idealisti avevano eliminato come contradditoria, è dunque volontà . I caratteri fondamentali di questa volontà noumenica sono l'unità e l'irrazionalità. La volontà è una, dato che, non essendo determinata dalle forme a priori della conoscenza, sfugge alle condizioni dello spazio e del tempo e, quindi, al principio di individuazione: solo il fenomeno si rifrange in una pluralità di individui, mentre la cosa in sé è unica. Se un solo uomo riuscisse per assurdo ad annientare completamente la volontà che è in lui, verrebbe soppressa la volontà in generale, e il mondo intero sparirebbe. Per le stesse ragioni la volontà è irrazionale: infatti la ragione esiste solamente nel mondo della rappresentazione, del quale è l'espressione più elevata, essendo la facoltà dei concetti, cioè delle rappresentazioni più complesse, sintesi delle rappresentazioni immediate della sensibilità o dell'intelletto. La volontà è quindi un'aspirazione senza fine e senza scopo, un tendere che non conduce a nessun ordine e a nessuna acquisizione definitiva. Essa è una forza cieca e inconscia, puro istinto, pura volontà di vivere . Se da una parte il mondo è la rappresentazione che scaturisce dal rapporto tra soggetto e oggetto, dall'altra esso è l' oggettivazione della volontà . La volontà infinita che costituisce la cosa in sé, infatti, si oggettiva (ovvero si realizza) in una serie progressiva di gradi. Al livello più basso vi sono le forze stesse della natura: la gravità, l'impenetrabilità, la solidità, la fluidità, l'elettricità, il magnetismo, le proprietà chimiche e tutte le altre proprietà delle cose. Queste forze non possono però essere considerate come entità fisiche connesse da rapporti causali, come fa generalmente la scienza: al contrario, esse sono forze metafisiche che agiscono in completa indipendenza da quella legge della causalità che vale solo nel mondo dei fenomeni. Nei successivi gradi della vita animale e vegetale, la volontà si oggettiva nelle diverse specie, con tutte le caratteristiche e tutte le forme di impulso vitale che sono ad esse proprie. L'ultimo grado di oggettivazione è costituito dall'uomo, in cui la volontà si realizza nei singoli individui umani, forniti ciascuno di uno specifico volere che, sul piano fenomenico, si esprime come volontà razionale. Le oggettivazioni della volontà che precedono l'ultimo grado (il mondo fenomenico in cui la volontà si frantuma nella pluralità degli individui) si sottraggono ai rapporti di spazio, tempo e causalità, e quindi anche al principio di individuazione. Esse sono perciò paragonabili alle idee di Platone in quanto al pari di esse costituiscono le entità universali in cui si sostanzia la vera realtà, rispetto alla quale il mondo fenomenico non è che una pallida immagine e una illusoria moltiplicazione: per Schopenhauer però le idee non sono ancora la realtà vera, cioè la cosa in sé, ma soltanto il termine intermedio tra quest'ultima (che è la volontà infinita) e la parvenza del mondo fenomenico. La dottrina platonica delle idee e quella kantiana della distinzione tra fenomeno e cose in sé convergono quindi, a parere di Schopenhauer, verso un'unica verità fondamentale: il mondo che noi conosciamo tramite l'esperienza sensibile e la conoscenza intellettuale-razionale è pura illusione e ci rimanda necessariamente a qualche cosa che sta al di là di esso.
IL PESSIMISMO
La concezione della cosa in sé come volontà porta Schopenhauer ad un radicale pessimismo. Dal momento che la volontà è irrazionale, ciò che noi consideriamo nel mondo ordine e armonia è soltanto illusione. L'ordine della società civile e politica non è che il fragile rivestimento di un'accozzaglia di pulsioni ed egoismi, che non tardano a manifestarsi con effetti prorompenti appena venga meno la forza coercitiva che li trattiene. La storia, ben lontana dall'essere quella progressiva esplicazione del razionale che appariva ad Hegel, è una sequela di irrazionalità e di follie. La stessa ragione, in cui il pensiero illuministico aveva ravvisato lo strumento della trasformazione del mondo, spesso non è che il mezzo per giustificare, dando loro un'apparenza logica, i ciechi impulsi e gli sfrenati egoismi degli uomini. Viceversa, una più onesta considerazione della realtà vede a fondamento di essa un'aspirazione senza scopo che porta ad una eterna ed inconsulta tensione, ad un bisogno che non può mai avere posa duratura. La volontà, in quanto è desiderio di qualcosa che deve ancora essere raggiunto, é privazione, e quindi dolore e sofferenza. Ma quando per avventura l'oggetto della volontà venga conseguito, la soddisfazione non è che momentanea e si traduce subito in noia . Infatti, quando sia placato il bisogno, e con esso la volontà che lo sostiene, la vita, che non è altro che volontà, appare come svuotamento di se stessa e priva di senso. Così l'esistenza è una penosa altalena tra due mali, la privazione e la noia. L'esistenza dell'uomo è caratterizzata dall'infelicità e Schopenhauer dice: Se ad un Dio si deve questo mondo, non ci terrei ad essere quel Dio: l'infelicità che vi regna mi strazierebbe il cuore .
NEGAZIONE DELLA VOLONTA'
L'oggettivazione della volontà nel mondo fenomenico è principio di sofferenza e di dolore. La liberazione da questi mali deve quindi necessariamente passare attraverso la negazione del mondo fenomenico, in cui la nostra individualità è legata alla catena dei bisogni e delle soddisfazioni. Bisogna dunque attingere una forma di conoscenza che non obbedisca più al principio di ragion sufficiente, il quale, attraverso le forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità, determina necessariamente la dimensione individuale dell'uomo. Questo scopo è conseguito mediante l' arte che è per Schopenhauer conoscenza delle idee . Nell'esperienza artistica infatti il soggetto riesce a svincolare l'oggetto dalle condizioni spaziali, temporali e causali che lo individualizzano e riesce a contemplarlo come una specie universale, come un'essenza, come l'immediata oggettività della volontà. L'artista appare, così, quale soggetto assoluto di una conoscenza pura, precedente al processo di fenomenizzazione. Anche le idee sono rappresentazioni, ma in esse l'elemento rappresentativo si riduce al fatto primario e universale del necessario rapporto tra soggetto e oggetto. In esse la relazione tra le due componenti della conoscenza non è ancora (o non è più, dal momento che con l'arte si ripercorre al contrario il processo conoscitivo) determinata dalle forme a priori. Nell'arte, tra soggetto e oggetto non vi è dunque alcuna mediazione, ma il secondo occupa interamente la coscienza del primo, oppure, il che è lo stesso, il primo si perde nel secondo. Naturalmente ciò comporta, da parte dell'artista, la capacità di negare anche la sua propria individualità, liberandosi di tutti gli interessi e di tutte le volontà particolari che lo legano alla determinatezza fenomenica: egli deve diventare un puro contemplatore disinteressato. Questa capacità di liberarsi dall'individualità per contemplare l'universale non solo per un attimo, ma per tutto il tempo necessario alla riproduzione dell'esperienza artistica nell'opera d'arte, è ciò che contraddistingue il genio dall'uomo prosaico. L'arte, tuttavia, costituisce solamente il primo gradino del processo di negazione della volontà da parte dell'individuo. Essa è pur sempre qualcosa di temporaneo, in quanto legata al momento della contemplazione dell'idea, sia attraverso l'opera creatrice dell'artista, sia attraverso la fruizione dell'opera d'arte da parte dello spettatore. Una più duratura liberazione dai mali della volontà può derivare dalla morale , la quale rappresenta la naturale continuazione dell'attività artistica. La virtù , infatti, nasce sempre da una forma di conoscenza. Attraverso la virtù, però, la conoscenza va al di là delle manifestazioni fenomeniche della volontà, che costituiscono l'esperienza ordinaria, e attinge la vera natura della volontà stessa, rendendo l'uomo consapevole delle dolorose conseguenze cui essa conduce. La conoscenza cessa così di acconsentire all'impulso vitale fondamentale e di fungere da 'motivo' (inteso come 'ciò che muove') dell'azione umana, ma diventa piuttosto un quietivo della volontà : essa si traduce in un atteggiamento di negazione del volere, in modo da sortire immediatamente anche un effetto sulla vita pratica dell'uomo. Per far questo, bisogna estendere dal piano conoscitivo a quello pratico quella sospensione del 'principio di individuazione' che è già stata realizzata dalla contemplazione artistica. In questo modo, l'uomo non considererà più se stesso come un individuo contrapposto ad altri individui, cioè come espressione di bisogni e interessi che lo portano necessariamente al conflitto con il suo vicino. Al contrario, egli opererà in modo da far convergere in un'unica realtà il proprio io e quello degli altri, eliminando ogni conflittualità tra gli individui. Questo obiettivo viene conseguito dapprima in negativo, limitandosi a non compiere azioni che possano ledere la volontà degli altri: è questo il diritto , che si realizza esteriormente nell'ambito dello Stato. Successivamente il superamento della contrapposizione inter-individuale deve essere conseguito anche mediante un agire in positivo, cioè attraverso un atteggiamento fattivamente caritatevole nei confronti del prossimo: in ciò consiste la compassione , che può nascere solamente nella sfera dell'interiorità dell'uomo. Ma diritto e compassione si limitano a negare la volontà individuale, eliminando il conflitto tra uomo e uomo. Un più alto grado del processo di liberazione dai mali della vita richiede invece una negazione della volontà di vivere in se stessa. A questo scopo è infatti finalizzata l' ascesi , intesa come sistematica mortificazione dei bisogni della vita sensibile (in primis dell'impulso sessuale) in modo da ridurre il più possibile non solo il nostro consapevole consenso alla volontà, ma la stessa oggettivazione della volontà noumenica nel mondo fenomenico. L'ideale a cui ogni procedura ascetica deve tendere è la completa negazione della volontà, ovvero, il che è lo stesso, l'affermazione della nolontà , della non volontà. L'esito finale del processo di negazione della volontà deve quindi portare al nulla. Con questo termine Schopenhauer non indica alcunchè di positivo, come potrebbe essere l'estasi in cui il mistico si perde nella totalità del divino, dato che il contenuto estatico sfugge a ogni comunicazione inter-personale, e quindi si colloca al di là del piano della filosofia. Il nulla esprime esclusivamente la completa negazione della volontà di vivere, la quale porta con sé anche la negazione del mondo come oggettivazione di questa volontà. Nella formulazione del concetto di nulla Schopenhauer è stato indubbiamente influenzato dalla nozione di Nirvana, che è centrale nel pensiero delle Upanishad. Tuttavia, nella concezione indiana il Nirvana appare ancora come qualcosa di positivo: un nulla-tutto in cui l'individuo si perde, risolvendo completamente in esso la sua specificità. In quanto tale, per Schopenhauer il Nirvana degli indiani è ancora un'illusione. Il nulla deve essere qualcosa di assolutamente negativo, la pura e semplice 'nolontà' , senza alcun riempimento sostitutivo del vuoto a cui essa porta. Per questo motivo Schopenhauer porta come modello più appropriato le vite dei santi, che si sono completamente liberati dal condizionamento della volontà. Ma nella tradizione cristiana il vuoto lasciato dalla negazione del mondo si riempie positivamente dalla comunione tra il santo e la divinità. Attraverso l'ascesi il misticismo cristiano giunge alla totale affermazione di Dio; quello di Schopenhauer è invece un misticismo ateo che rifiuta il mondo per giungere alla pura negatività. In questo senso la sola speranza che l' uomo, almeno in quanto individuo, ha di conseguire il nulla é la morte , la quale dissipa l'illusione che separa la coscienza individuale dall'universale e dà la certezza della fine temporale dell'individuo. Paradossalmente, dunque, la morte costituisce l'unica nota di speranza nella pessimistica concezione schopenhaueriana della realtà.
L'ARTE E LA MUSICA
" L'arte si deve necessariamente considerare come il grado più alto, come l'evoluzione più perfetta di quanto esiste; ci offre infatti essenzialmente la stessa cosa che il mondo visibile; ma più concentrata, più perfetta, con scelta e con riflessione: possiamo quindi, nel vero senso della parola, chiamarla il fiore della vita. Se il mondo come rappresentazione non è che volontà divenuta visibile, l'arte è precisamente tale visibilità resa più chiara; la camera oscura che abbraccia meglio e con una sola occhiata; è lo spettacolo nello spettacolo, la scena nella scena. "
L’arte ha per Schopenhauer un doppio valore. Valore teoretico . La ragione, la quale ci consente di raggiungere le alte vette ed astrazioni della matematica e della fisica, grazie alla quale abbracciamo gli infiniti spazi cosmici ed oltre, è tuttavia prigioniera del principium individuationis, non può squarciare il velo di Maya e fornirci una conoscenza concettuale di ciò che vi è al di là. Dunque il requisito per tale conoscenza è l’evasione, pur momentanea dalla volontà. Questa condizione è realizzata nella contemplazione, nel rapimento estetico visto che in questa particolare condizione ci liberiamo momentaneamente degli impulsi della volontà è ciò che l’arte rappresenta, il puro dato sensibile diventa simbolo, metafora della pura idea che vi soggiace. È evidente che, essendo la ragione esclusa da tale processo conoscitivo, ed essendo i concetti e le parole, i mezzi attraverso cui essa opera, non è possibile esprimere con i linguaggi tradizionali ciò che risiede oltre il mondo dominato dalla volontà. Il linguaggio dell’arte è invece un linguaggio allegorico, che si esprime per metafore, immagini delle idee. Tutte le arti sono rappresentazione dei diversi gradi di oggettivazione della volontà dai più bassi del mondo inorganico fino al più alto: l’uomo. Tuttavia come ribadisce lo stesso Schopenhauer negli ultimi periodi del §52 lo stesso mondo come rappresentazione visto dall’asceta che è riuscito a svincolarsi dalla volontà è una visione rasserenante di quest’ultima e delle sue oggettivazioni sensibili ed ideali. L’arte non fa che rendere ciò che nel mondo è già visibile (agli occhi dell’asceta) più chiaro ancora, concentrato nella purezza e perfezione dell’idea. Valore catartico . Partendo dall’assunto che il mondo mosso dalla volontà è dominato dalla guerra, dagli egoismi e dal dolore e che nessun essere (dal sasso, all’animale, all’uomo) ne è libero, bensì tutti sono ugualmente destinati alla sofferenza in modo proporzionale al grado di consapevolezza, la contemplazione estetica, in quanto consente all’uomo di liberarsi momentaneamente dalla volontà sottrae allo stesso tempo l’uomo alla sofferenza, al ciclo di dolore (desiderio), piacere (appagamento) e noia (assenza di desiderio) che contraddistingue la sua condizione. La musica occupa una posizione eccentrica rispetto alle altre arti. Infatti non è solo rappresentazione, immagine, allegoria di un’idea, ma è l’allegoria, l’immagine, la rappresentazione della volontà medesima di cui è oggettivazione al pari delle idee. Ad essa vengono dedicati il §52, ultimo del libro terzo “Il mondo come rappresentazione” nel capitolo “L’idea platonica: l’oggetto dell’arte” e nel capitolo 39 dei “Supplementi al libro terzo” intitolato “Sulla metafisica della musica”. Essendo l’immagine stessa della volontà ci consente di cogliere l’in sé di ogni fenomeno, la forma pura privata della materia (in abstracto). Ma cos’è la volontà se non impulso cieco e irrazionale, passione, sentimento? E proprio questo è il linguaggio della musica: il sentimento, contrapposto al concetto della ragione. Questo esprime la musica quando “parla”: ci racconta la vita più intima e segreta della volontà, attraverso i gradi della sua oggettivazione, dal mondo inorganico all’uomo, dalla forza bruta ai più delicati moti e sentimenti dell’animo umano. Schema che visualizza la concezione schopenhaueriana della musica come immediata oggettivazione della Volontà al pari delle idee rispetto alle quali si trova allo stesso livello. Così come poi le idee sono ordinate secondo una precisa gerarchia di consapevolezza che culmina nell’uomo (l’essere che, in quanto dotato di ragione è fra tutti il più consapevole) e si moltiplicano attraverso le dimensioni spazio-temporali e causali originando tutti i fenomeni esistenti, così la musica stessa è ordinata in una gerarchia di suoni di altezza crescente che sono in diretto parallelismo con le varie idee ed i fenomeni in cui esse si oggettivano e particolarizzano La musica nella sua struttura raccoglie perciò l’intero mondo. Di conseguenza Schopenhauer procede nella sua analisi metafisica della musica (che ripercorreremo nella pagine seguenti), instaurando una serie di parallelismi e analogie fra mondo e musica. Infatti al pari delle idee la musica è immediata oggettivazione e copia della medesima volontà e differisce perciò dalle idee solo nella forma. Al pari delle altre arti la musica è in grado di sottrarci momentaneamente alla sofferenza, ma non solo. Vista la sua natura è in grado di influire sulla volontà, riproducendo in noi gli infiniti moti di quest’ultima (ruolo che vedremo affidato alla melodia), il suo incessante ciclo di insoddisfazione e appagamento. Non è tuttavia da ritenere che per questo motivo perda il suo potere catartico. Infatti non è in grado di farci soffrire veramente essendo solo pura, distaccata, rappresentazione. Come tutte le arti anche la musica esige che “la volontà resti fuori dal gioco e che noi ci limitiamo ad essere puro soggetto conoscente” " Quando, invece, nella realtà con i suoi orrori, è la volontà stessa ad essere sollecitata ed angosciata, non abbiamo più a che fare con suoni e rapporti numerici, ma siamo noi in persona adesso la corda tesa, pizzicata e vibrante ".
IL COMICO
1. Le fonti. La teoria della comicità e dell'arguzia si trova nel § 13 dell'opera principale di Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). Il Mondo, tuttavia, non ebbe il successo sperato, e Schopenhauer mette mano a una riedizione dell'opera solo nel '44. La mole del libro cresce sensibilmente: Schopenhauer l'arricchisce di molti supplementi. Tra questi vi è anche un approfondimento della teoria del ridicolo (Supplementi, cap. VIII), volto più a chiarire che a correggere le pagine del 1818. Nel corso delle nostre considerazioni ci rifaremo, senza ulteriori indicazioni, alle pagine del Mondo e dei Supplementi.
2. Una premessa necessaria: intelletto e ragione nella filosofia di Schopenhauer. Le riflessioni di Schopenhauer sul riso si collocano nel primo libro de Il mondo come volontà e rappresentazione, e costituiscono una breve digressione volta a far luce su uno dei nodi centrali della sua filosofia: il rapporto tra intelletto e ragione. Di qui la necessità di premettere alle nostre considerazioni una breve esposizione del senso che Schopenhauer attribuisce a queste due facoltà che, a partire almeno dalla Critica della ragion pura, diventano centro di interpretazioni contrastanti.
Per Schopenhauer come per Kant, l'intelletto ha una funzione trascendentale: permette di passare dall'ambito delle sensazioni alla sfera degli oggetti della nostra esperienza. Il rimando a Kant, tuttavia, non deve impedirci di cogliere una differenza sostanziale: per Schopenhauer, e non certo per Kant, l'intelletto fa tutt'uno con l'intuizione e non deve essere inteso alla luce della forma logica del giudizio. L'esperienza non assume validità obiettiva grazie alle categorie della logica trascendentale: se dalle sensazioni come modificazioni della nostra corporeità risaliamo agli oggetti non è perché i dati sensibili vengono connessi nell'unità di un giudizio, ma è solo in virtù dell'interpretazione tanto irriflessa, quanto istintiva che ci costringe a pensare alla causa dei nostri stati psicologici. L'intelletto non è allora, per Schopenhauer, la kantiana facoltà di pensare i fenomeni, ma è ciò che permette all'uomo e agli altri animali di orientarsi nel mondo e di intuirlo come una concatenazione di eventi causalisticamente connessi. Diversamente stanno le cose per la ragione. La ragione è, per Schopenhauer, la facoltà che ci permette di risalire dalla rappresentazione al concetto e di cogliere le relazioni che tra i concetti sussistono. L'uomo non si limita a operare nell'esperienza, ma riflette anche sull'esperienza: la ragione ci permette di riflettere sulla realtà, di raccogliere nell'unità di una rappresentazione di secondo grado (di una rappresentazione di rappresentazioni) una molteplicità di rappresentazioni individuali tra loro per qualche aspetto simili.E tuttavia, nella natura mediata del concetto, Schopenhauer non coglie soltanto la definizione logica del pensiero razionale, ma anche la sua più generale collocazione metafisica:
come dalla luce diretta del Sole si passa a quella riflessa della Luna, così ora passeremo dalla rappresentazione intuitiva che si afferma e garantisce da sé, alla riflessione, ai concetti astratti della ragione (Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., p. 75)
- così scrive Schopenhauer, e di quest'immagine che apre le sue considerazioni sulla ragione non si può rendere conto solo richiamandosi alla tesi di sapore empiristico secondo la quale il piano concettuale non fa che rispecchiare in forma attenuata la ricchezza del mondo intuitivo. Dietro quell'immagine vi è altro: il Sole è calore, luce, vitalità, mentre la Luna è un valore notturno, e brilla di luce fredda nella sua lontananza dalle vicende umane. Sono proprio questi valori immaginativi che Schopenhauer intende proiettare sulla nozione dio ragione. Finché si muove sul terreno dell'intuizione concreta, l'uomo è interamente immerso nel presente, ed è tutt'uno con la natura e con il mondo e quindi anche con la volontà che lo anima. La ragione strappa l'uomo da questo sicuro (e ingenuo) sentimento della vita e lo getta in una nuova dimensione dell'esistenza, più fredda e priva di colore e di vitalità. In altri termini, la ragione ci distacca dal flusso dell'esperienza, ci permette - per così dire - di contemplare dall'alto ciò che accade. I concetti, proprio perché ci permettono di avanzare previsioni raccordando il presente all'esperienza passata, ci strappano dal dominio che l'attimo esercita su di noi, disponendoci in una dimensione diacronica e quindi storica. La ragione è dunque ciò che allontana l’uomo dalla vita, che cancella la sua piena e spontanea adesione al mondo, separandolo dalla natura e dal suo continuo fluire.
Questa separazione ha il suo suggello nella paura della morte che è così tipica dell’uomo e che dipende dalla sua razionalità: solo perché la ragione strappa l’uomo dalla sua immediata e vitale adesione al mondo, solo perché lo toglie dall’attimo presente in cui è la vita, per disporlo nella prospettiva della storia, solo per questo può insinuare nel suo animo la paura per ciò che ancora non è, ma verrà - la morte.
3. Il riso come rivincita della vita: la teoria schopenhaueriana del ridicolo. Sullo sfondo metafisico che abbiamo delineato si colloca la dottrina schopenhaueriana del ridicolo. Si tratta di una teoria molto semplice che tuttavia pretende di avere validità universale:
Il riso - osserva Schopenhauer - proviene sempre da un’incongruenza subitamente constatata fra un concetto e l’oggetto reale cui quel concetto, in un modo o nell’altro, ci fa pensare; e non è appunto se non l’espressione di questa incongruenza (ivi, p. 109). È facile suggerire degli esempi che mostrino concretamente il senso di questa definizione. Di un predicatore noiosi può dire "Bav è il buon pastore di cui la Bibbia parlava / quando il suo gregge dormiva lui solo vegliava" (ivi, p. 854), così come nell’epitaffio di un medico si può scrivere "egli giace qui, come un eroe circondato dalle sue vittime" (ivi), ed in entrambi i casi il riso nasce perché ciò che si adatta bene al concetto (il pastore che si preoccupa delle sorti di un’umanità ignara e il combattente caduto dopo aver fatto strage del nemico) si dimostra invece del tutto incongruente non appena ci poniamo sul terreno dell’oggetto concreto (ivi). Da questa base semplicissima, Schopenhauer muove per caratterizzare ulteriormente il fenomeno che gli sta a cuore. Un’incongruenza tra conoscenza astratta e conoscenza intuitiva può avere luogo in due diverse forme: o sono dati nella conoscenza due o più differenti oggetti reali, due o più rappresentazioni intuitive che identifichiamo arbitrariamente nell’unità di un concetto comune […]. Oppure, viceversa, c’è dapprima nella conoscenza il concetto, dal quale passiamo in seguito alla realtà, cioè alla pratica: oggetti radicalmente differenti sotto ogni altro aspetto, ma che il pensiero abbraccia sotto un solo concetto, vengono trattati e considerati tutti allo stesso modo; finché da ultimo la grande divergenza che li separa finisce per dare nell’occhio con grande sorpresa e meraviglia di chi opera (ivi, p. 109). Schopenhauer propone di chiamare arguzia il primo genere del ridicolo, per riservare al secondo il nome di buffoneria. Questa classificazione del ridicolo può essere ulteriormente arricchita, e Schopenhauer si muove in questa direzione quando illustra brevemente la natura del calembour, dello scherzo, dell’ironia, dell’umorismo. Tuttavia, piuttosto che soffermarci su queste nozioni che possono essere desunte facilmente dalle pagine schopenhaueriane e che restano comunque in ombra nella sua teoria, vorremmo soffermarci un poco sulla distinzione principale che Schopenhauer propone: quella tra buffoneria e arguzia. L’arguzia, egli osserva, è sempre volontaria: sorge quando intendiamo mostrare l’incapacità di un concetto di dominare la ricchezza di senso del materiale intuitivo. Al contrario la buffoneria è sempre involontaria, e ha la sua origine nella convinzione, che si mostrerà poi erronea, di avere nella ragione una guida sicura per le nostre azioni. Così, seppure da prospettive diverse, buffoneria ed arguzia ci mostrano uno stesso stato di cose: ciò che l’uomo arguto ci fa comprendere e che traspare nel gesto del buffone è di fatto l’incapacità della ragione con i suoi concetti astratti ascendere fino all’infinita molteplicità e alle infinite sfumature dell’intuizione (ivi, pp.860-1). Del resto, è proprio in questo incrinarsi del dominio della ragione sulla vita che consiste la forma del piacere che proviamo ridendo: è questa vittoria della conoscenza intuitiva sul pensiero che ci rallegra. Intuire è infatti il modo primitivo di conoscere, inseparabile dalla natura animale, un conoscere in cui si presenta tutto ciò che dà soddisfazione immediata alla volontà: è l’intermediario del presente, del godimento, della gioia […]. Con il pensiero accade sempre il contrario: pensare è il conoscere alla seconda potenza, che esige sempre qualche sforzo, spesso anche considerevole; suoi sono i concetti, che così spesso si oppongono alla soddisfazione dei nostri desideri immediati, giacché tali concetti, come intermediari del passato, del futuro e della serietà, fanno da veicoli ai nostri timori, ai nostri rimorsi e a tutte le nostre preoccupazioni. Dev’essere perciò un godimento scoprire una buona volta l’insufficienza della ragione, di questa governante severa, instancabile e opprimente. Per questo dunque l’espressione del riso e quella della gioia si assomigliano tanto (ivi, p. 861). L’immagine della ragione come una governante opprimente e saccente indica del resto la via per comprendere quell’accostamento tra pedanteria e buffoneria che, a prima vista, può stupire, ma che è in realtà perfettamente coerente con l’approccio schopenhaueriano. Il pedante ha poca fiducia nelle sue capacità intuitive e teme l’urgenza e la complessità dei problemi che il presente gli pone: si arma per questo di un insieme di regole che gli permettono di cancellare la novità del presente, riconducendolo (e quindi riducendolo) a ciò che è già stato. Il pedante abbandona la vita in concreto per rifugiarsi nella vita in abstracto, in un’esistenza, dunque, nella per ogni problema quale vi è già una soluzione collaudata. Ma il corso della vita e dell’esperienza non sono proni ai dettati della pedanteria: il concetto - di cui il pedante fa la sua unica guida - Non discende mai fino al particolare e […] la sua universalità e la rigidezza della sua determinazione non gli permettono di esprimere esattamente le sfumature, le svariate modificazioni della realtà (ivi, p. 110). Per quanto fitta, la rete delle regole non aderisce mai perfettamente alla realtà, ed il pedante diviene così preda del ridicolo. E se le cose stanno così, il riso non è che il gesto liberatorio nel quale la vita si affranca dalle forme morte in cui la ragione la costringeva: sullo sfondo della dottrina schopenhaueriana della comicità si deve dunque leggere una rivendicazione esplicita dei diritti della vita e dell’immediatezza sulle forme astratte e rigide della ragione.
4. Lo spirito della storia e lo spirito della terra. Le nostre considerazioni sulla teoria schopenhaueriana del ridicolo potrebbero chiudersi già qui. e tuttavia è forse opportuna una breve digressione volta a far luce su un passo del Mondo in cui Schopenhauer tocca, seppure di sfuggita, l’argomento del riso. Si tratta di un passo molto impegnativo dal punto di vista metafisico: Schopenhauer intende infatti liberarsi con poche parole delle concezioni razionalistiche della storia, ed in particolare di quella hegeliana, tutta volta a cercare nella concatenazione degli eventi il dipanarsi necessario dello Spirito. Ora, la prima mossa in questa direzione consiste, per Schopenhauer, nel sottolineare come la storia non sia affatto il processo necessario in cui lo Spirito si rivela, ma sia piuttosto il regno del caso:Se, per ipotesi, ci fosse dato di gettare uno sguardo luminoso nel regno della possibilità e sulla completa catena delle cause e degli effetti, lo Spirito della Terra sorgerebbe, e ci mostrerebbe in un quadro gli uomini più eminenti, i luminari del mondo e gli eroi che furono rapiti dal destino prima che l’ora delle rispettive missioni fosse suonata. Ci mostrerebbe quindi i grandi avvenimenti che avrebbero cambiato aspetto alla storia del mondo, e arrecato ere di luce e di suprema civiltà, se il caso più cieco e l’accidente più futile non li avessero soffocati sul nascere (ivi, p. 271).Ora, di fronte a questo spettacolo, noi uomini abituati a comprenderci come frutto della storia non potremmo probabilmente sottrarci ad un senso di raccapriccio, e ci dispereremmo per le crudeli scelte operate dal caso. E tuttavia all’uomo che piange il mancato progresso dell’umanità e lamenta l’assenza di una Ragione nella storia, lo Spirito della terra potrebbe rispondere con un sorriso (ivi, p. 271), poiché a chi ha compreso che i fenomeni nel loro mutevole esserci altro non sono che manifestazioni di un’identica volontà, non può che apparire ridicola la pretesa razionalistica di scorgere nel fluire del tempo il progresso della storia degli uomini.
IL MONDO COME VOLONTA' E RAPPRESENTAZIONE
Primo libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Gnoseologia. Schopenhauer aveva definito nella Quadruplice che le categorie kantiane potevano essere ridotte alla sola causalità, unita alle forme di spazio e tempo. La gnoseologia esposta nel Mondo riprende i concetti di fenomeno e noumeno. Ma per Kant il rapporto fra fenomeno e noumeno è adeguato, in quanto il fenomeno è il reale modo di conoscere il noumeno; al contrario, per Schopenhauer il rapporto è inadeguato, in quanto il fenomeno è pura apparenza. Infatti, La Volontà, che determina tutto il mondo, non vuole altro che realizzarsi, in qualsiasi forma essa possa farlo; un modo è anche attraverso l'uomo, entità superiore che permette forme di realizzazione superiori, più ardite; la capacità conoscitiva dell'uomo serve all'uomo per muoversi nel mondo, ma alla Volontà serve che l'uomo possa muoversi per realizzarsi di più. Alla Volontà non interessa il fatto che l'uomo conosca in sé e per sé, ma gli interessa perché essa si possa realizzare meglio. Dunque, i fenomeni non hanno un valore in sé, ma solo in rapporto all'uomo come mezzo della Volontà. Per Schopenhauer il fenomeno è apparenza, il velo di Maya, mentre il noumeno è la realtà vera sottostante e nascosta. Il mondo in quanto fenomeno lo conosciamo come rappresentazione, che è composta da un soggetto rappresentante ed un oggetto rappresentato. Il soggetto conosce con le forme a priori che però distorcono la sua visione, e dunque la vita è sogno.
Secondo libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Mondo come volontà e come rappresentazione. Se il soggetto conoscente guarda all'esterno, non vede che il mondo come rappresentazione, e si ferma all'aspetto fenomenico; ma c'è un modo per raggiungere l'ambito noumenico dell'essere, ed è il guardare in sé stessi. Visto che non è possibile raggiungere il noumeno degli oggetti, ma lo stesso soggetto è un noumeno, guardando in sé lo si può trovare. L'analisi del proprio corpo è illuminante: il corpo può essere visto come fenomeno, ma anche come manifestazione di un'altra realtà: la volontà. Il corpo è oggettivazione della volontà, dunque il noumeno dell'uomo è la volontà. Guardando in sé, si scopre un'altra dimensione dell'uomo e del mondo: la volontà. Il mondo come rappresentazione ha come principio l'Io penso, come volontà l'Io voglio.
Caratteri, assolutezza ed oggettivazioni della volontà. La scienza non può arrivare a spiegare le forze naturali, e questo lo può fare la metafisica, che sarà empirica e procederà per analogia. La Volontà è presente in tutto il mondo, con gradi di coscienza diversi, fino all'uomo in cui è autocoscienza. la Volontà nel resto è inconscia, è un impulso di energia, è unica (non soggetta alle categorie di spazio e tempo, essendo un noumeno), eterna, incausata, senza scopo. La Volontà dapprima si oggettiva nelle idee, archetipi a cui si rifà per determinarsi nelle cose; fra idea e fenomeno sta la legge naturale (esplicazione necessaria della forza in relazione ad una situazione empirica). Dietro al fenomeno c'è la forza irrazionale che non vuole che affermarsi in qualsiasi modo.
Terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Caratteri di metafisica ed etica. Se la volontà è il principio del mondo, la metafisica si identifica con l'etica, il piano teoretico porta al piano pratico immediatamente. L'etica come la metafisica dev'essere descrittiva. Per capire il comportamento della volontà bisogna definire la libertà della volontà.
Rapporto di volontà ed intelletto. La volontà, che è in genere inconscia, nell'uomo produce il fenomeno coscienza, divisibile in intelletto (capacità di intuire il nesso causale) e ragione (capacità di pensare in modo astratto); quindi l'intelletto è al servizio della volontà, non viceversa, e il comportamento morale non sarà sottomesso all'intelletto ma alla volontà stessa.Estetica. L'intelletto si pone allo stesso livello della volontà nell'esperienza estetica. L'arte è una forma di conoscenza: attraverso essa, visto che si guarda la bello disinteressato, cioè che non ha alcuna utilità nel mondo fenomenico, si attraversa il mondo fenomenico per mirare le idee della volontà, le oggettivazioni pure. Come l'oggetto della rappresentazione diventa l'idea, così il soggetto, da soggetto immerso in un ambiente fenomenico, si eleva ad universale e in un ambito noumenico. L'arte non è uno schermo alla volontà come gli altri fenomeni, ma uno specchio della volontà, che appare come idea, o nella musica, come sé stessa. Con l'arte ci si libera dal dominio della volontà.
Quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Libertà e liberazione. L'etica è possibile solo se esiste la libertà; per Schopenhauer la libertà è assenza di necessità, e questo lo si ha quando l'intelletto, l'uomo si eleva dal mondo fenomenico al mondo noumenico, in cui non vige il determinismo imposto dalla volontà. Quindi l'etica è il processo di liberazione dell'uomo dal dominio della volontà. Un primo momento di liberazione è durante l'esperienza estetica, in cui l'uomo, posto alla pari della volontà, è nel mondo noumenico. Ma solo l'etica permette una permanenza stabile in tale ambito.Scelta di carattere intelligibile. L'azione è sicuramente determinata dal carattere empirico dell'individuo, in quanto si dà nel mondo fenomenico; ma l'uomo ha la possibilità di scegliere il proprio carattere intelligibile, di scegliere il proprio comportamento etico una volta per tutte. Per liberarsi dal dominio della volontà, o ci si pone al suo stesso livello, ci si identifica con essa, e si afferma la vita e la volontà, cosicché si posa stare nell'ambito noumenico dove non esiste la necessità, o si nega la volontà, poiché la volontà non è altro che dolore. L'uomo può quindi scegliere la direzione del proprio comportamento, alla quale adeguerà le sue proprie azioni.Fonti dell'etica e sue caratteristiche. L'etica non nasce da un imperativo categorico dettato dalla ragione, ma da un sentimento di compassione, dal patire le sofferenze altrui come proprie; non appena si sente la sofferenza altrui (non basta sapere che c'è), si sente l'unità noumenica della realtà. La morale ha come virtù la giustizia che è un freno all'egoismo, ed è una virtù negativa ("non fare il male"), mentre la carità è positiva ("allevia il male"). Con la pietà si vince l'egoismo, ma non ci si libera totalmente della vita e dunque della volontà.Ascesi. La morale della compassione porta all'ascetismo, un insieme di pratiche che mortificano la volontà, che fanno capire come la volontà sia causa di sofferenza e sia l'essenza del mondo, cosa che fa desiderare la mortificazione della volontà. La voluntas, quando si autoriconosce, ha coscienza di sé, tende a farsi noluntas, a negarsi, e l'asceta tende a quello che, per persone normali, parrebbe il nulla, ma in verità è il tutto, mentre nulla è il mondo fenomenico. l'asceta nega la volontà, non vuole il nulla, ma vuole trasformare la volontà in non-volontà.
Pessimismo
Dolore, piacere, noia. Volontà è desiderare, e si desidera quello che non si ha; quindi volere è soffrire, alla base della volontà c'è la sofferenza, e la volontà provoca la sofferenza; se si appaga un desiderio, altri rimangono inappagati, e inoltre la fine del desiderio appagandolo, non dà la felicità, ma la mancanza di dolore, cessazione del dolore. Quindi non esiste il piacere ma la cessazione del dolore, e il piacere esiste se c'è il dolore, mentre il dolore non presuppone il piacere per necessità. Quando non c'è più desiderio subentra la noia; la noia è l'assenza di tensione, e come assenza alla fine dà dolore.Pessimismo cosmico. Il dolore nell'universo si dà per la mancanza e per la sopraffazione nei confronti degli altri; il dolore è di tutti, ma l'uomo soffre di più perché ne è più cosciente.
Eros. L'eros è tanto forte perché è uno strumento della volontà per giungere alla riproduzione; quindi l'uomo, credendo di fare una cosa umana che lo realizza, è strumento della volontà; l'amore è sentito come un peccato poiché produce altri individui destinati a soffrire.
Critiche
Alla filosofia di Stato. Chi è pagato non può pensare liberamente.
All'ottimismo cosmico. Il mondo non è un organismo perfetto governato dall'assoluto, ma un'esplosione di forze irrazionali.All'ottimismo sociale. Naturalmente, i rapporti fra gli uomini sarebbero di sopraffazione; gli uomini vivono insieme per limitare il bellum omnium contra omnes .All'ottimismo storico. La storia non è scienza, poiché cataloga gli individui, non usa concetti; studiando l'uomo, si capisce che questo non muta essenzialmente.
FRASI SIGNIFICATIVE
“Chiunque noi siamo, e qualunque cosa possediamo il dolore ch’è essenza della vita non si lascia rimuovere”
“L’infelicità è per il nostro animo il calore che lo mantiene tenero”
“La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare.”
“L’amore autentico è sempre compassione; e ogni amore che non sia compassione è egoismo”
L’uomo è l’unico animale che provoca sofferenza agli altri senza altro scopo che la sofferenza come tale”
“Il giudizio universale è il mondo stesso”
“La vita umana è un continuo oscillare fra il dolore e la noia”
Ogni giubilo eccessivo nasce sempre dall’illusione di aver trovato nella vita qualcosa che è impossibile trovarvi, e cioè la pacificazione definitiva del tormento”
“Nella monogamia l’uomo ha troppo sul momento e troppo poco nel tempo; per al donna è il contrario”
“Il perpetuarsi dell’esistenza dell’uomo non è che una prova della sua lussuria”
“Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell’istinto sessuale. [...] Se la passione del Petrarca fosse stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito”
“La malinconia attira, il tedio respinge”
“La vera vita del pensiero dura soltanto fino al confine delle parole: oltre il pensiero muore”
“Ciò che ha valore non viene stimato, e ciò che è stimato non ha alcun valore”
“Dei mali della vita ci si consola con al morte, e della morte con i mali della vita. Una gradevole situazione”
“Si può essere saggio solo alla condizione di vivere in un mondo di stolti”
“...alla fine tutti quanti siamo e restiamo soli”
“Io non ho scritto per gli imbecilli. Per questo il mio pubblico è ristretto”
“È la cattiveria il collante che tiene insieme gli uomini. Chi non ne ha abbastanza si distacca”
“Il filosofo non deve mai dimenticare che la sua è un’arte e non una scienza”
“Gli uomini completamente privi di genio sono incapaci di sopportare la solitudine”
“Se noi potessimo mai non essere, già adesso non saremmo”
“Alla natura sta a cuore solo la nostra esistenza, non il nostro benessere”
“Più si invecchia, meno quel che si vede, si fa e si vive lascia traccia nello spirito: non fa più alcuna impressione, siamo ormai insensibili”
“Più ristretto è il nostro campo di azione, di visuale e di relazioni, e più siamo felici”
Veniamo adescati alla vita dall’illusorio istinto del piacere: e veniamo mantenuti in vita dall’altrettanto illusoria paura della morte”
“Ogni sera siamo più poveri di un giorno”
“Dal punto di vista della giovinezza la vita è infinita; dal punto di vista della vecchiaia è un brevissimo passato”
“Si può dire quello che si vuole! Il momento più felice di chi è felice è quando si addormenta, come il momento più infelice di chi è infelice è quando si risveglia”
“A parte poche eccezioni, al mondo tutti, uomini e animali, lavorano con tutte le forze, con ogni sforzo, dal mattino alla sera solo per continuare ad esistere: e non vale assolutamente la pena di continuare ad esistere; inoltre dopo un certo tempo tutti finiscono. È un affare che non copre le spese”
“Per non diventare molto infelici il mezzo più sicuro è di non pretendere di essere molto felici”
“Tutti gli uomini vogliono vivere, ma nessuno sa perché vive”
“L’amicizia, l’amore e l’affetto degli uomini li si ottiene solo dimostrando loro amicizia, amore e affetto. [...] Per sapere quanta felicità può ricevere una persona nella sua vita, basta sapere quanta ne può dare”
“La solitudine rende oggettivi; la compagnia rende sempre soggettivi”
“Il giustificato sprezzo degli uomini ci porta a rifugiarci nella solitudine. Ma il deserto di questa a lungo andare dà angoscia al cuore. Per sfuggire al suo peso, dunque, bisogna portarsela in società. Bisogna cioè imparare ad essere soli anche in compagnia, a non comunicare agli altri tutto ciò che si pensa, (a non) prendere alla lettera quello che dicono, al contrario, ad aspettarsi molto poco da loro, sia moralmente che intellettualmente”
“La malvagità, si dice, la si sconta nell’altro mondo; ma la stupidità in questo”
“Ciò che rende gli uomini socievoli è la loro incapacità di sopportare la solitudine e se stessi. [...] Tutti i pezzenti sono socievoli, da far pietà”
“Il denaro è la felicità umana in abstracto; perciò chi non è più capace di goderla in concreto si attacca al denaro con tutto il suo cuore”
“Dopo che ogni sofferenza fu bandita nell’Inferno, per il Paradiso non restò altro che la noia: ciò dimostra che la nostra vita non ha altre componenti che la sofferenza e la noia”
“Se ad un Dio si deve questo mondo, non ci terrei ad essere quel Dio: l'infelicità che vi regna mi strazierebbe il cuore ”
“Chi ama la Verità odia gli dèi, al singolare come al plurale”
“Il grande dolore che ci provoca la morte di un buon conoscente e amico deriva dalla consapevolezza che in ogni individuo c’è qualcosa che è solo suo, che va perduto per sempre”
“Chiunque ami un altro essere quasi come se stesso, sia il figlio, la moglie o un amico, se questo essere gli sopravvive muore solo a metà: chi invece non ha amato altri che se stesso vuota il calice della morte fino in fondo”
“Che cosa si può pretendere da un mondo in cui quasi tutti vivono soltanto perché non hanno il coraggio di suicidarsi!”
“Ciò che rende gli uomini socevoli è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, se stessi. ”
“Il suicida è uno che, anziché cessar di vivere, sopprime solo la manifestazione di questa volontà: egli non ha rinunciato alla volontà di vita, ma solo alla vita. ”
“La salute non è tutto, ma senza salute tutto è niente ”
“Le religioni sono come le lucciole: per splendere hanno bisogno delle tenebre. ”
“L'intelligenza è invisibile per l'uomo che non ne possiede. ”
“Noi ci consoliamo delle sofferenze della vita pensando alla morte, e della morte pensando alle sofferenze della vita”
Per non diventare molto infelici il mezzo più sicuro è di non pretendere di essere molto felici.
Arthur Schopenhauer rientra a pieno titolo nel filone di quei pensatori che si pongono in netta rottura con il sistema hegeliano e, insieme a tutti gli avversari del panlogismo di Hegel, tende a far prevalere l'irrazionalità della realtà: per Schopenhauer, come per Kierkegaard, Hegel è l'idolo polemico in antitesi col quale costruire la propria filosofia; diverso sarà, invece, il discorso di Nietzsche, il quale intraprenderà una lotta contro l'intera filosofia occidentale sviluppatasi da duemila anni a questa parte, e il bersaglio su cui si riverseranno le sferzate di Nietzsche sarà non Hegel, ma Platone, il fondatore del pensiero occidentale; ecco perchè, tra l'altro, quella nietzscheana può essere etichettata come "polemica inattuale". Tra i pensatori di questo periodo serpeggia l'aspirazione alla concretezza e, per addurre un esempio significativo, Schopenhauer insiste sul fatto che " l'uomo non è un angelo ", cioè non è puro spirito disincarnato, ma è essenzialmente un corpo e la natura di tale corpo consiste, soprattutto, nella volontà, nei desideri, negli istinti e nelle passioni, quelle cose, cioè, che Freud avrebbe più tardi definito come "pulsioni"; da notare che la rivendicazione che Schopenhauer fa della concretezza (e che trova conferma anche nella celebre espressione di Feuerbach: " l'uomo è ciò che mangia ") è in antitesi all'astrattezza hegeliana, come pure alla ragione, tanto cara ai Positivisti. Schopenhauer ha un periodo di produzione filosofica piuttosto lungo, che nel complesso dura una quarantina d'anni: la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione , risale al 1819 e negli anni a venire continuerà a comporre opere che però non introdurranno notevoli modifiche al suo pensiero. La data di pubblicazione del Mondo è particolarmente significativa perchè si colloca nell'era del dominio del pensiero hegeliano: ed è sintomatico il fatto che le idee di Schopenhauer hanno fatto breccia presso il pubblico solo dopo la morte di Hegel, tant'è che la prima edizione de Il mondo (composta quando Hegel era ancora in vita) andò al macero e Schopenhauer potè fare un'amara constatazione: " Io non ho scritto per gli imbecilli. Per questo il mio pubblico è ristretto " . Si può, tra l'altro, ricordare come Schopenhauer desiderasse tenere le sue lezioni universitarie in contemporanea ad Hegel, ma tuttavia non potè farlo per il semplice motivo che non aveva studenti: tutti, infatti, andavano ad ascoltare con entusiasmo Hegel, non tenendo in alcuna considerazione Schopenhauer, che si ritrovava così perentoriamente a tenere lezione a nessuno. Solo con la morte di Hegel, avvenuta nel 1831, il pensiero di Schopenhauer cominciò a dilagare e Nietzsche stesso, nelle sue prime opere, si dichiarerà suo seguace; non solo, perfino Wagner rimase incantato dalla filosofia schopenhaueriana ed è importante ricordare l'interpretazione del De Sanctis in cui mette a confronto il pessimismo di Schopenhauer con quello di Leopardi. Sempre a dimostrazione del fatto che il successo di Schopenhauer arrivò solo dopo la morte di Hegel, si può anche ricordare come nel Novecento alcuni pensatori marxisti della "Scuola di Francoforte" opereranno una sintesi tra il pensiero marxista e quello schopenhaueriano; fatta questa carrellata di successi di Schopenhauer, si può in sostanza dire che Il mondo cominciò a riscuotere successo dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, quando comincerà ad essere letto come una valida alternativa all'hegelismo. Infatti, la filosofia di Schopenhauer altro non è se non un tentativo di schierarsi contro Hegel e al fianco di Kant, dando di quest'ultimo un'interpretazione opposta a quella data dall'idealismo. Fino agli anni '50 dell'Ottocento, anche Kierkegaard contribuisce alla lotta contro Hegel, aprendo spiragli verso l'anti-hegelismo ma anche verso le filosofie esistenzialistiche che fioriranno nel Novecento; ma Kierkegaard, ancora più di Schopenhauer, non avrà tempo di assistere al proprio successo perchè lo coglierà una morte prematura. Entrando nel senso del discorso schopenhaueriano, egli si pone in contrapposizione all'interpretazione che di Kant ha dato l'idealismo (i cui tre eroi sono Fichte, Schelling e Hegel, tutti e tre cordialmente odiati da Schopenhauer): se l'interpretazione idealista, infatti, si è limitata ad eliminare quella "cosa in sè" ammessa da Kant ma da lui stesso riconosciuta inconoscibile (seppur ineliminabile), la posizione di Schopenhauer spinge in direzione opposta, in quanto si risolve nel recupero della "cosa in sè" , tanto odiata dagli idealisti. Essa per Schopenhauer non solo esiste (come era in fondo anche per Kant), ma è addirittura attingibile e, dunque, conoscibile; è però bene fare subito una precisazione: una volta conosciuta, la "cosa in sè" non si rivelerà essere il principio della realtà come lo intendevano Hegel e Fichte, ovvero come principio essenzialmente razionale. Al contrario, la "cosa in sè" sarà sì il principio che governa la realtà, ma esulerà da ogni forma di razionalità e, anzi, sarà addirittura una sorta di principio maligno. Ed è per questo che si può essere indotti a leggere il discorso schopenhaueriano come un capovolgimento parodistico del neoplatonismo: dall'Uno deriva la molteplicità delle cose, ma, essendo l'Uno radicalmente negativo, anche ciò che da esso deriva non potrà essere positivo. In maniera analoga, il pensiero di Schopenhauer può essere inteso come stravolgimento speculare di quello di Bruno e di Spinoza: tutto ciò che ci circonda è manifestazione di un'unica realtà, ma quest'ultima è totalmente negativa. Per questa marcata convinzione che la realtà sia governata da un principio negativo, si può parlare di pandemonismo schopenhaueriano, in antitesi con il panlogismo hegeliano. E' curioso il fatto che una volta un editore che doveva pubblicare la Critica della ragion pura di Kant chiese a Schopenhauer un parere su quale delle due edizioni fosse meglio adottare: e il filosofo non esitò minimamente a scegliere la prima versione, poichè in essa la "cosa in sè" ha ancora quello spessore che, con la seconda edizione, Kant aveva sempre più limato. Fatte queste precisazioni, può essere utile, per capire a fondo il pensiero di Schopenhauer, analizzare un'opera precedente al Mondo e, più precisamente, risalente al 1813: Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente . Il principio di ragion sufficiente menzionato nel titolo è quello di matrice leibniziana: principio fondamentale della metafisica, esso prescrive, essenzialmente, che nulla avviene senza un motivo, cosicchè è lecito dire a priori che ogni avvenimento ha una sua motivazione. Schopenhauer riprende tale principio e coglie quelli che, a suo avviso, sono i quattro diversi modi ("quadruplice radice") in cui esso si manifesta: 1) la prima "radice" spiega la dimensione del divenire dei corpi naturali ( principium rationis sufficientis fiendi ) attraverso la connessione tra la causa e l' effetto fisici (necessità fisica); in altri termini, la prima manifestazione del principio di ragion sufficiente è la causalità, per cui, dato un evento, so con certezza che esso deve avere una causa e per questo è detto "del divenire". 2) La seconda spiega il conoscere razionale dell' uomo ( principium rationis sufficientis cognoscendi ) per mezzo della relazione tra antecedente e conseguente (necessità logica): se nella 1° radice si trattava della causalità fisica, ora la causalità in gioco è quella logica. Nel ragionamento concepiamo, cioè, il rapporto tra premessa e conseguenza come nel mondo fisico concepiamo quello tra causa ed effetto. 3) La terza giustifica l' essere ( principium rationis sufficientis essendi ) come definito dai rapporti dello spazio e del tempo, determinando così la concatenazione degli enti aritmetici e geometrici (necessità matematica). Con la terza radice, Schopenhauer interpreta kantianamente lo stesso principio di causa/effetto nella sfera matematica, poichè l'essere è ciò che si definisce nello spazio e nel tempo, i quali, a loro volta, sono i fondamenti della geometria. Tra l'espressione algebrica a sinistra dell'uguale e quella a destra (oppure tra il triangolo e i teoremi che da esso derivano), vige un rapporto analogo a quello causa/effetto del mondo fisico. 4) La quarta, infine, sta alla base dell' agire ( principium rationis sufficientis agendi ), in quanto stabilisce la connessione causale tra l' azione che si compie e i motivi per cui è compiuta (necessità morale). Il rapporto che si instaura tra il motivo di un'azione e la sua conseguenza è analogo a quello che intercorre tra la causa e l'effetto nel mondo fisico, sicchè non esistono azioni umane prive di motivi. Esaminate le 4 radici, si può notare come Schopenhauer dia un'interpretazione di forte sapore kantiano al principio di ragion sufficiente: tale principio, infatti, altro non è se non un nostro modo di conoscere (quasi una categoria kantiana), ossia siamo noi che in esso inquadriamo tutte le nostre conoscenze; il che comporta che, a livello di conoscenza intellettuale, tale principio aprioristico valga anche per la volontà umana (avendo ogni azione un suo motivo, ne consegue che non c'è spazio per il libero arbitrio, poichè ogni azione è rigidamente governata da cause deterministiche) e pertanto si è costretti a giungere alla conclusione che conosciamo tutta quanta la realtà (da quella fisica a quella matematica) in base ad un solo principio. Kant stesso era pervenuto a una concezione simile, ma per lui il livello noumenico delle cose in sè restava inconoscibile, o meglio, se ne poteva avere una sorta di conoscenza pratica (con l'esperienza morale, dove si sceglie liberamente seguendo l'imperativo categorico); ora, nel Mondo , Schopenhauer fa un discorso simile: con la quadruplice radice del principio di ragion sufficiente conosciamo il mondo così come esso ci appare (privo di libertà), ma nulla ci vieta di pensare che al di sotto di questa realtà ve ne sia un'altra in cui vige la libertà. Di questa realtà "nascosta" si può avere conoscenza in parte, come aveva detto Kant, attraverso l'esperienza morale, ma da sola essa non basta. La chiave per risolvere il problema è nel titolo stesso dell'opera: Il mondo come volontà e rappresentazione , diviso in quattro parti, di cui nella prima e nella terza si parla del mondo come rappresentazione, mentre nella seconda e nella quarta del mondo come volontà. Il titolo ci dice che il mondo, per un verso, è una nostra rappresentazione attraverso il principio di ragion sufficiente e, per un altro verso, è volontà; più precisamente, il mondo così come esso ci appare (il mondo come rappresentazione), ce lo rappresentiamo attraverso il principio di ragion sufficiente, mentre il mondo come è in sè è volontà. Certo, anche per Kant si entrava in un certo senso in contatto con il livello noumenico attraverso la "volontà buona", ma la nozione di volontà di Schopenhauer è nettamente diversa. E per comprenderla a fondo è opportuno addentrarsi nel Mondo come volontà e rappresentazione , il cui titolo, come abbiamo già detto, evoca in senso lato Kant: infatti il mondo fenomenico della rappresentazione viene contrapposto fin dalle prime pagine a quello noumenico, il mondo come volontà, il che vuol dire sia che esso viene attinto nell'atto di esprimere la volontà (come era in Kant) sia che la volontà, oltre ad essere strumento per attingere la "cosa in sè", è essa stessa la "cosa in sè". La partizione dell'opera, dicevamo, è in quattro libri: nel primo, viene delineato il mondo così come noi lo conosciamo attraverso le forme a priori della conoscenza (ovvero il principio di ragion sufficiente); nel secondo libro, invece, si vedrà come, al di sotto del mondo così come esso ci appare in prima analisi, esiste un altro mondo, cioè il mondo come effettivamente è e che, scoperto, si rivelerà come volontà. Nel terzo libro, poi, si ritornerà a tratteggiare il mondo come rappresentazione, ma non più come rappresentazione fenomenica, bensì artistica: verrà cioè delineato il mondo così come noi ce lo rappresentiamo esteticamente. Infine, nel quarto libro si torna a parlare della volontà, ma non come volontà affermativa (come era nel secondo libro): al contrario, se ne parlerà in termini negativi, la volontà cioè può volere il proprio annullamento o, in altre parole, può volere di non volere. L'argomento centrale del quarto libro sarà pertanto quella che Schopenhauer designa, con un neologismo, come "noluntas": così come esiste una "voluntas" (di cui si occupa il secondo libro), allo stesso modo c'è anche una "noluntas" (e ad essa è dedicato il quarto ed ultimo libro). Esaminiamo ora, singolarmente, le quattro parti che costituiscono il Mondo : il primo libro è quello che meno si allontana dal kantismo (di cui Schopenhauer si professò sempre seguace ortodosso); la frase che apre l'opera è " il mondo è una mia rappresentazione ", che suona kantiana all'ennesima potenza. Tuttavia si può notare come il significato profondo di tale frase presenti delle notevoli differenze rispetto al pensiero kantiano: infatti, Kant, dichiarando che percepiamo il mondo non come esso è ma come ci appare, non sottolinea l'aspetto di illusorietà del mondo così come ce lo rappresentiamo, ma, al contrario, attraverso la rivoluzione copernicana del pensiero ha fondato l'oggettività della conoscenza. Per Kant, infatti, è vero che percepiamo il mondo non come esso è in sè, ma come ci appare, però è anche vero che il fatto stesso di essere dotati tutti delle stesse categorie conoscitive fa sì che la conoscenza umana sia oggettiva (cioè universale) e dunque valida. In conclusione, quindi, anche per Kant il mondo è una nostra rappresentazione, ma non per questo tale rappresentazione è priva di valore conoscitivo, anzi è l'unica forma di conoscenza che possiamo avere del mondo, dal momento che per Kant la "cosa in sè", pur esistendo, resta inconoscibile. Ma, nel momento in cui Schopenhauer presuppone di poter conoscere la fantomatica "cosa in sè", allora è evidente che la conoscenza fenomenica venga proclamata illusoria, poichè impedisce di vedere il mondo come effettivamente è; parimenti, per Kant la conoscenza fenomenica non era un'illusione, ma anzi era l'unica conoscenza che si poteva avere, poichè con le categorie la "cosa in sè" restava inattingibile . Ed è bene notare come anche il Kant della Dissertazione del 1770 , ammettendo la possibilità della conoscenza della "cosa in sè", non aveva esitato a dichiarare illusoria la conoscenza fenomenica, proprio come, molti secoli prima, Platone aveva preferito, alla conoscenza del mondo sensibile, quella delle idee. Ed è nel secondo libro che Schopenhauer proclama la conoscibilità della "cosa in sè" attraverso la volontà ed è in virtù di questa considerazione che l'espressione " il mondo è una mia rappresentazione " si colorerà di negativo e finirà per suonare: " il mondo è una mia illusione". Schopenhauer cerca di avvalorare il proprio pensiero ripescando filosofi del passato: in particolare, egli si riaggancia a quella sfilza di pensatori che, nel mondo occidentale, rappresentano una specie di filo rosso minoritario e pessimistico. Infatti, se per lo più la filosofia occidentale è stata ottimistica ("l'essere e il bene sono interscambiabili" dicevano i filosofi medioevali), è anche vero che vi sono stati pensatori che si sono distinti per un marcato pessimismo e Schopenhauer ha soprattutto in mente, oltre al Platone della Diade, Anassimandro ("il venire alla luce è un peccato originale"), gli Orfici (il corpo tomba e prigione dell'anima), alcuni Neoplatonici (la decadenza dall'Uno verso il basso), e il misticismo cristiano (che trova in Jacopone da Todi il suo eroe) con il suo disprezzo per il mondo. Ma Schopenhauer si richiama anche alla letteratura ( " il peggior delitto dell'uomo è essere nato scrive in La vita è sogno , riprendendo la letteratura di Calderòn de la Barca) e, sull'onda dell'entusiasmo romantico per l'esoticismo, al mondo orientale, specialmente indiano; ma, nonostante il recupero del pensiero indiano, Schopenhauer è a tutti gli effetti un interprete dell'Occidente, poichè il suo pensiero matura nell'ambito della tradizione occidentale e i riferimenti alla cultura orientale gli servono solo per riscontrare analogie con il proprio pensiero. Ed è da queste civiltà tanto distanti dall'Occidente (e cordialmente detestate da Hegel) che Schopenhauer desume due concetti basilari nella sua filosofia: il Nirvana e il velo di Maya. Il velo di Maya è il velo dell'illusione: il pensiero orientale ha sostenuto che la nostra visione del mondo è ottenebrata da una sorta di velo che bisogna stracciare per poter così acquisire una prospettiva che non ci inganni. Ora, per Schopenhauer il mondo fenomenico altro non è se non un velo che deve a tutti i costi essere stracciato poichè impedisce di cogliere la realtà così come essa è effettivamente. Tale mondo fenomenico ha, kantianamente, le sue due forme sensibili a priori (spazio e tempo) e la sua forma a priori dell'intelletto (non più le 12 categorie, ma esclusivamente la causalità, come già si era prospettato nella Quadruplice radice): la ragione, però, non è più (com'era in Kant) la facoltà con cui si tendeva all'infinito, ma è semplicemente la facoltà di astrazione mediata dal linguaggio. Dunque, se la sensibilità e l'intellettività si giocano, rispettivamente, su spazio e tempo e sulla causalità, la ragione, dal canto suo, lavora sull'astratto attraverso il linguaggio; il che comporta un assottigliamento della distinzione tra uomo e animali. Infatti, per Schopenhauer, gli animali, oltre a percepire le cose nello spazio e nel tempo, sono anche in grado di cogliere i rapporti di causalità e dunque hanno un intelletto; ciò di cui sono sprovvisti è la ragione, in assenza della quale non possono pensare per concetti generali. Sul perchè gli animali non siano in grado di formulare astrazioni attraverso la ragione, Schopenhauer spiega che è il fatto stesso che essi siano privi di linguaggio che impedisce loro di ragionare per astrazioni; è proprio nel linguaggio, infatti, che si esprime l'universalità della ragione, e, non a caso, in esso troviamo per lo più nomi comuni, con i quali operiamo le astrazioni. Attraverso l'uso dei concetti elaborati con la ragione, l'uomo costruisce la scienza e la filosofia: ed è significativo il fatto che Schopenhauer non riconosca alcun valore conoscitivo alla scienza (accostandosi in questo modo alle future considerazioni epistemologiche del Novecento). Tuttavia, la scienza non è completamente inutile: infatti, pur non potendo essere d'aiuto nel processo conoscitivo, essa ha una grande importanza a livello pratico, dal momento che, essendo costruita sul mondo fenomenico (ed è per questo che non può aiutarmi a conoscere la "cosa in sè") mi permette di dominare tale mondo nella vita pratica. Nel secondo libro del Mondo , affiora il tema della volontà, di cui già abbiamo fatto alcune anticipazioni. Come nel primo libro, si parte da un discorso di forte sapore kantiano: il mondo, dice Schopenhauer, è una mia rappresentazione ma in essa rientra anche il soggetto conoscente; il che vale a dire che ciascuno di noi si percepisce fenomenicamente (e quindi illusoriamente), non come effettivamente è in sè. Tuttavia Schopenhauer prende subito le distanze da questo discorso (che troviamo quasi uguale in Kant) facendo notare che tra tutte le rappresentazioni possibili ve n'è una particolare e privilegiata ed è il nostro corpo, poichè, da un lato, lo percepiamo fenomenicamente in modo analogo a tutte le altre cose, ma dall'altro lato lo viviamo dall'interno in maniera assolutamente immediata, con una specie di autointuizione che ce lo fa conoscere noumenicamente. Infatti, percepiamo senza mediazione alcuna il piacere, il dolore e i desideri poichè li viviamo in maniera direttissima e ciò ci consente di scavalcare il mondo fenomenico e di entrare in contatto con la "cosa in sè", che ci si manifesta sotto forma di volontà. Il mondo, infatti, è, kantianamente, una rappresentazione ma attraverso il corpo ci è concesso di attingere la "cosa in sè" e la percepiamo come volontà, sicchè non è scorretto affermare che per noi la cosa in sè è volontà . E l'esperienza del volere è per Schopenhauer (come per il Kant della "volontà buona") il luogo in cui si entra in contatto con la cosa in sè, la quale, però, non è, com'era per Kant, un postulato della ragion pratica confinato all'esperienza morale (per Kant potevo dire di essere libero noumenicamente ma a livello fenomenico dovevo continuare a riconoscermi "servo"); Schopenhauer, invece, intorno alla "cosa in sè" costruisce la propria filosofia, che viene dunque a delinearsi come un tentativo di descrivere quella cosa in sè per Kant inconoscibile sul piano teoretico. Ed è per questo motivo che la filosofia di Schopenhauer si colloca a metà strada tra l'arte e la scienza: infatti, come l'arte, si fonda su un'intuizione profonda della realtà e ad essa dà quella veste razionale tipica della scienza; con questo, non si vuol dire che la filosofia è una sorta di scienza debole, poichè, al contrario, la scienza è per Schopenhauer addirittura inferiore all'arte, visto che quest'ultima, pur non essendo in grado di razionalizzare, sa comunque cogliere intuitivamente l'essenza profonda della realtà. La filosofia dunque è superiore alla scienza perchè, a differenza di essa, sa cogliere la "cosa in sè", ma è anche superiore all'arte perchè, oltre a cogliere la "cosa in sè", le dà una veste razionale. Ne consegue che per Schopenhauer, a differenza di Kant, si può costruire una metafisica (ed è ciò che egli fa nel Mondo ); ma non solo, emerge anche che, se per il pensatore di Königsberg la volontà era libera nella misura in cui era razionale (cioè in grado di obbedire alla legge morale) con la conseguenza che gli animali, in assenza della ragione, non erano liberi, per Schopenhauer invece la volontà esula da ogni forma di razionalità ed è sinonimo di desiderio e di impulso istintivo. Si tratta pertanto di una volontà irrazionale , che non consiste nel seguire la legge morale dettata dalla ragione, ma piuttosto nel desiderare cibo e bevande; e per questo è corretto affermare che il corpo, più che avere desideri ed impulsi, è lui stesso la somma degli impulsi e dei desideri, quasi come se esistesse in forma di concretizzazione dei medesimi. La volontà, in un certo senso, può essere letta come una sorta di desiderio mediato, poichè quando si vuole qualcosa è un modo mediato dall'intelletto per soddisfare i desideri irrazionali del corpo. Si può anche notare come il discorso di Schopenhauer rievochi fortemente quello di Cartesio: come il filosofo francese, dopo aver messo ogni cosa in dubbio, trovava una certezza (penso, dunque sono) nell'ambito della coscienza, in modo analogo Schopenhauer mette in forse il mondo intero e per agganciare la cosa in sè ricorre all'autointuizione dell'Io, anche se l'Io in questione non è più il mero pensiero Cartesiano (res cogitans), ma è piuttosto un "desidero, dunque sono", poichè capisco di esistere nel momento in cui entro in contatto con i miei desideri. E come Cartesio, del resto, Schopenhauer prova a fornire una chiave di lettura dell'intera realtà con questo ragionamento: io che mi sono colto metafisicamente diverso da come mi concepivo a livello fenomenico, posso tranquillamente pensare che tutti gli altri miei simili, che fenomenicamente mi sono uguali, lo siano anche sul piano noumenico, ovvero saranno anche loro (come me) volontà. Dopo di che, Schopenhauer (e qui sta il passaggio fondamentale) estende il discorso all'intero universo: dal momento che la mia essenza noumenica come volontà, nascosta da quella fenomenica, è uguale a quella di tutti gli altri uomini poichè sono a me simili, posso anche dire che gli animali, le piante e gli oggetti mi sono in qualche modo simili e che dunque, sotto il velo dell'apparenza, anche la loro essenza profonda è volontà, cosicchè tutto il mondo è volontà . Con questa considerazione Schopenhauer può riprendere le riflessioni ilozoistiche fatte dai Presocratici, dai Rinascimentali (Bruno in primis) e da Hegel stesso (la cui idea di "spirito del mondo" implica che l'intera realtà sia spirito nella sua essenza); però la grande novità è che, come vedremo meglio più avanti, questa volontà che permea il mondo dal suo interno è radicalmente negativa. Fatte queste puntualizzazioni, è bene ricordare come Schopenhauer cerchi di stroncare subito possibili fraintendimenti della sua filosofia: quando egli dice che la volontà che ognuno scopre in sè è uguale in tutto il mondo, non intende dire che gli oggetti inanimati hanno un qualcosa di analogo in tutto e per tutto alla mia volontà; il fatto è che, dice Schopenhauer, in assenza di una parola che possa designare questo principio che governa l'intera realtà, non resta che usare il nome della parte per nominare il tutto; vale a dire che quel principio, che nell'uomo si manifesta come volontà, lo chiameremo in generale "volontà" per indicarlo tanto negli animali quanto nelle cose, pur sapendo che non è la stessa cosa. Perciò anche gli animali, nel momento in cui tendono al cibo, hanno volontà e anche le piante quando si protendono per captare i raggi solari; perfino le cose quando, lasciate, cadono al suolo, rivelano una volontà. Il succo del discorso è che la volontà, principio negativo che permea la realtà, è una sola ed è la stessa e si estrinseca in modi diversi : ogni singolo fenomeno della realtà ne è una manifestazione particolare. Sorge spontaneo chiedersi come Schopenhauer possa affermare che la volontà è una sola: e il filosofo risponde introducendo quello che, nella filosofia aristotelica, è noto con il nome di "principio di individuazione". A far sì che una cosa sia se stessa e non le altre sono lo spazio, il tempo e i rapporti di causalità: posso infatti dire che il libro posato sul tavolo è se stesso poichè è in un tempo e in uno spazio diversi da quelli delle altre cose. Questo processo con cui l'intelletto inquadra nel tempo e nello spazio la realtà fenomenica non può valere per la realtà noumenica, in quanto essa è al di là dello spazio e del tempo, come già aveva fatto notare Platone (l'idea di cavallo, diceva, è una sola perchè il tempo e lo spazio non possono individuarla). Ne consegue che se la realtà fenomenica è molteplice, quella noumenica, invece, è unica e dunque, entrando in contatto dentro di me con la volontà, sono autorizzato a dire che essa (che costituisce la "cosa in sè") è una sola e si manifesta nell'illusoria molteplicità che caratterizza il mondo fenomenico. Ma tale volontà, oltre ad essere una, è anche irrazionale: e con quest'affermazione Schopenhauer capovolge l'atteggiamento tipico della filosofia occidentale, atteggiamento che trova la sua massima espressione in Hegel e nella sua convinzione che la ragione costituisca l'essenza profonda della realtà, per cui gli elementi irrazionali altro non sarebbero se non manifestazioni indirette e accidentali della razionalità stessa. Per Schopenhauer è l'esatto opposto: l'essenza profonda della realtà è irrazionale e gli elementi di razionalità che ci sembra di poter cogliere non sono null'altro che manifestazioni esteriori. La volontà sfugge ad ogni razionalità, poichè non vuole nulla che sia riconducibile alla ragione: vuole semplicemente vivere, esistere, e per far ciò cerca di utilizzare tutti gli strumenti possibili, tra cui l'intelletto e la ragione. In altri termini, gli istinti e gli organi di un animale sono espressione della volontà di vivere: le zanne e gli artigli delle tigri sono gli strumenti che la volontà usa nella tigre per esistere. E questa stessa volontà si manifesta diversamente a seconda dell'individuo in questione: nell'uomo, ad esempio, si manifesta nelle facoltà razionali, per cui ragione e intelletto sono gli strumenti da essa adottati per esistere. Il che significa che la natura profonda della realtà è una volontà priva di ragione e di scopi razionali ma che per poter sopravvivere, nell'uomo, si dota della razionalità. Da questa riflessione scaturisce un'altra importante considerazione: dal momento che solo razionalmente ci si possono porre degli obiettivi (ed è così appunto che la volontà si struttura nell'uomo), ne consegue che la volontà, irrazionale e quindi priva di obiettivi, non può mai essere soddisfatta , e si configura pertanto come un continuo tentativo di affermarsi, tentativo presente anche nell'uomo, il quale si pone degli obiettivi razionali ma, non appena li realizza, è preso dal desiderio di realizzarne di nuovi, quasi come se dietro questi obiettivi razionali si camuffasse la volontà irrazionale. E le riflessioni di Schopenhauer vengono a incrociarsi con quelle del suo contemporaneo Leopardi: per entrambi la vita umana (in Leopardi) e la vita universale (in Schopenhauer) è una continua altalena fra la noia e il dolore ; finchè non si è raggiunto l'obiettivo desiderato si soffre, quando lo si è raggiunto ci si annoia e ci si pone pertanto dei nuovi obiettivi. Occorre però fare una precisazione, poichè altrimenti non si spiega come la volontà sia una ma l'intelletto la veda molteplice: dobbiamo tener presente che l'intelletto stesso è, come ogni altra cosa, una manifestazione della volontà ed è, più precisamente, la volontà che grazie ad esso si illude, quasi come se vivesse uno sdoppiamento di personalità. In altri termini, il fatto che l'intelletto frammenti la volontà fa sì che, in un certo senso, la volontà sia per davvero frammentata e finisca per riconoscersi solo nelle sue manifestazioni, quasi come se si scordasse di essere un tutto; ne consegue che ciascuna manifestazione della volontà, non riuscendo a capire di essere solo una parte della volontà stessa, riconosce solo se stessa come volontà, mentre vede tutte le altre cose come strumenti per sopravvivere, non come altre manifestazioni della stessa volontà. La volontà, infatti, cerca di esistere in ogni singola manifestazione (dall'uomo alla pietra) e per vivere la volontà, ingannata dall'intelletto, lo fa a danno di tutte le altre manifestazioni, cosicchè ogni manifestazione danneggia le altre per il solo fatto di essere venuta al mondo; infatti, per affermarsi, ogni ente lotta e aggredisce tutti gli altri ( " gli amici si dicono sinceri, ma in realtà sinceri sono i nemici ") Da qui scaturisce il pessimismo schopenhaueriano, che affonda le sue radici nell'idea che la volontà è profondamente sofferente (e questo vuol dire che l'intero universo è sofferente) poichè non ha un obiettivo e si manifesta in tanti modi diversi che altro non sono se non illusioni. Si potrebbe uscire dalla condizione di dolore se si pensasse che la volontà è insita solo negli uomini e negli animali: basterebbe essere vegetariani; ma, poichè la volontà investe ogni realtà, anche chi mangia solo ortaggi è in lotta con la volontà. Ecco dunque che diventa drammaticamente cosmica quella guerra di tutti contro tutti prospettata da Hobbes: il mondo è una lotta di tutto contro tutto, e la vita stessa di un uomo è una specie di lotta per tenere insieme tutti i "pezzi". Si può dunque affermare che la volontà è cannibalica , poichè anche il leone che mangia la gazzella, in realtà, essendo una sola la volontà, sta mordendo se stesso. Nemmeno con il suicidio si può uscire da questa situazione di dolore: eliminare noi stessi come manifestazione della volontà altro non è se non ritornare alla volontà, sicchè il suicidio non è una rinuncia alla volontà, ma ne è anzi un'affermazione più potente. Chi si suicida, infatti, lo fa perchè è come se volesse qualcosa di diverso. In virtù di queste considerazioni, Schopenhauer può credere alla metempsicosi: ogni volta che si muore, subito si rinasce e la rinascita è una condanna, giacchè la cosa migliore sarebbe poter uscire dal circolo della volontà. La via d'uscita da questa situazione, dice Schopenhauer, consiste in un percorso di conoscenza che mi faccia capire che ciò che mi sembra altro rispetto a me in realtà non lo è; in fin dei conti, già quando tiro fuori di tasca una moneta per aiutare un bisognoso è come se provassi un senso di compassione, è come se capissi che chi soffre non è radicalmente diverso da me. Ecco perchè c'è stato chi ha sostenuto che il discorso di Schopenhauer è una "Gnosi moderna", poichè la salvezza deriva da una conoscenza dell'identità tra noi e tutto il resto. In altre parole, per Schopenhauer, se il mondo è un inferno in cui ciascuno è diavolo e dannato, ovvero soffre e fa soffrire, allora bisogna acquisire la convinzione dell'unità del tutto, presente nelle pratiche dei monaci buddhisti: essi, infatti, mettono gli uomini di fronte agli oggetti e li invitano a ripetere "questo sono io". Sempre mutuando riflessioni dal buddhismo, Schopenhauer dice che tre sono le cose da conoscere: 1) la sofferenza, 2) la causa della sofferenza, 3) le vie per uscirne. Egli afferma che l'umanità è esteticamente una serie di caricature, gnoseologicamente una banda di cretini e moralmente una banda di delinquenti. Dopo aver tratteggiato la sofferenza e le sue cause, resta ora da descrivere la via per uscirne: non può essere il suicidio, nè il vegetarianesimo e neanche la politica. Quest'ultima, infatti, non si occupa della condizione umana nello specifico, ma cerca solo di dare momentanei sollievi ed è per questo accostata da Schopenhauer alla Firenze di Dante, che, alla stregua di un malato sdraiato nel letto, cerca sollievo nel cambiar posizione: " ... vedrai te somigliante a quella inferma / che non può trovar posa in sulle piume, / ma con dar volta suo dolore scherma " (Purgatorio, canto VI). Così si spiega perchè Schopenhauer non nutrì mai grandi interessi per la politica (collocandosi però su posizioni conservatrici) e guardò sempre con sospetto il movimento socialista che stava allora nascendo. A questo punto si entra nel terzo libro del Mondo , in cui si delinea una nuova forma di rappresentazione del mondo: l'estetica. Schopenhauer risulta, in quest'ambito, particolarmente influenzato dal pensiero di Platone e dalla sua dottrina delle idee. L'esperienza estetica, infatti, nasce, secondo Schopenhauer, da una contemplazione delle idee che ciascuno di noi può avere , sicchè l'artista come l'uomo comune possono ugualmente contemplare l'idea del bello, che (come aveva sottolineato Platone) tende a filtrare più di tutte nel mondo sensibile, con la differenza quantitativa, però, che l'artista riesce a restare in tale contemplazione per più tempo. L'esperienza artistica è, infatti, momentanea, si protrae per pochissimo tempo e l'abilità dell'artista sta proprio nel farla durare più a lungo, in modo tale da poter fissare in termini sensibili l'oggetto di tale breve contemplazione: l'artista, dunque, con l'opera d'arte rende tutti gli uomini partecipi della sua contemplazione extrasensibile e li facilita a provare anch'essi tale esperienza. Ci troviamo di fronte ad un apparente paradosso, dal momento che da un lato Platone condannava l'arte e dall'altro lato in molti (tra cui Schopenhauer) si sono artisticamente ispirati a lui: il problema si risolve facilmente se teniamo conto delle modifiche apportate alla dottrina platonica da Plotino e dai suoi successori. Il limite dell'arte, secondo Platone, risiedeva nel fatto che essa non è imitazione dell'idea, ma del mondo sensibile (che dell'idea è pallida copia), cosicchè l'opera d'arte è copia di una copia; ma in realtà, è stato obiettato (da Hegel in primis), nell'opera d'arte si cala sensibilmente l'idea e non il mondo sensibile, non si imita cioè ciò che empiricamente ci sta di fronte, ma l'idea stessa di ciò che ci sta di fronte, per cui si scavalca definitivamente la sensibilità: ecco perchè per Hegel l'arte era rappresentazione sensibile dello Spirito. In effetti, una sorta di paradosso era già insito nella filosofia di Platone: egli infatti condannava l'arte e poi, soprattutto nel Fedro e nel Simposio, sottolineava come l'esperienza del bello fosse una specie di scorciatoia per giungere al mondo delle idee. Schopenhauer, dal canto suo, concepisce l'opera d'arte come rappresentazione dell'idea e non del mondo sensibile, accostandosi in questo modo ad Hegel e distanziandosi da Platone: resta ora da capire che cosa si debba intendere per "idea". Come abbiamo appreso, la realtà profonda è volontà e ciò che ci circonda ne è una manifestazione illusoria; e questa concezione schopenhaueriana secondo la quale, accanto ad una realtà profonda tendenzialmente unitaria, vi sia una realtà molteplice ed illusoria sa molto di platonico, pur essendo negativo il principio posto al vertice. Tuttavia, se per Platone la realtà era una piramide al cui vertice stava l'idea del Bene e più si scendeva e più la realtà tendeva a frantumarsi, per Scopenhauer, invece, al vertice della realtà c'è la volontà unitaria, alla base c'è la moltiplicazione indefinita e illusoria della volontà e a metà strada c'è una moltiplicazione parziale costituita dal mondo delle idee : infatti, a distinguere l'unica idea di cavallo dalla miriade di cavalli sensibili è che solo questi ultimi sono concretamente calati nello spazio, nel tempo e nei rapporti di causalità: ovvero, detto un pò banalmente, i cavalli sensibili sono tanti (mentre l'idea di cavallo è una) perchè esistono in tempi diversi, in luoghi diversi e in rapporti causali diversi. In altri termini, la volontà si oggettiva su due livelli differenti: ad un primo livello si oggettiva nelle idee (che Schopenhauer definisce " oggettità "), nel secondo livello si oggettiva nel mondo sensibile. Il discorso schopenhaueriano è talmente affine a quello platonico da farci presagire che, in fin dei conti, la volontà non può essere così malvagia intrinsecamente; più nello specifico, poi, ci aiuta a capire perchè l'esperienza estetica sia un primo modo per sfuggire al dominio della volontà e della sua sofferenza. L'esperienza estetica, infatti, diceva Kant, è caratterizzata dal fatto di essere disinteressata, per cui se vediamo una rappresentazione estetica del cibo possiamo provarne un piacere disinteressato, ovvero non legato al fatto che il cibo esista effettivamente e io possa nutrirmene. Schopenhauer concorda con Kant sul fatto che sia disinteressato, ma reinterpreta il tutto con categorie platoniche: quando contemplo il cibo nella misura in cui posso nutrirmene, bado all'esistenza effettiva del cibo stesso, ovvero contemplo la cosa empirica; quando invece contemplo il cibo in sè, indipendentemente dal fatto che essa esista e possa soddisfare il mio appetito, contemplo platonicamente l'idea. Ne consegue che nel secondo caso per Schopenhauer il piacere estetico è disinteressato perchè contemplo la cosa non nella sua esistenza, ma nella sua idealità , fuori dal tempo, dallo spazio e dai legami di causalità. E il cibo "empirico", invece, posso mangiarlo proprio perchè è calato in essi e solo di esso posso avere un desiderio, una volontà, ovvero un piacere interessato. Con le idee, dunque, ci si limita a contemplare e a provare piacere in modo disinteressato: e, nota Schopenhauer, il rapporto interessato col mondo non fa altro che generare di continuo desiderio e volontà, calandoci in continuazione nel ciclo della sofferenza (volere di continuo e senza scopo) da cui non si può uscire orientando la volontà su una cosa anzichè su un'altra o suicidandosi. L'unica cosa da fare per uscirne è annullare la volontà, ovvero trasformarla in nolontà (volontà capovolta) e per far ciò occorre trasformare quelle cose che ci fanno muovere come oggetti di desiderio (i "motivi") in "quietivi": tali quietivi servono appunto ad annullare la volontà e uno di essi è l'esperienza artistica, che ci consente di guardare alle cose non come a oggetti di volontà, ma ci fa diventare un primo "occhio sul mondo", ci fa cioè assumere un atteggiamento puramente contemplativo e sganciato dalla volontà; l'arte, infatti, mi fa guardare la realtà nella sua dimensione ideale e dunque non usufruibile. Ecco perchè è un quietivo che mi fa uscire dal desiderio e dalla volontà. Il grande limite dell'esperienza estetica, però, è di durare per troppo poco tempo, poichè l'uomo è pur sempre immerso nel mondo della volontà: dopo aver visto per breve tempo le cose in modo ideale e disinteressato, si è costretti a ritornare a vederle in modo interessato ed empirico. E' curioso il fatto che l'opera d'arte preferita da Schopenhauer sia la tragedia: e non a caso la prima opera del giovane Nietzsche, seguace per un pò di Schopenhauer, sarà proprio L'origine della tragedia . La seconda via per uscire dal circolo di sofferenza della volontà è data dalla morale: di per sè, ogni singola manifestazione individuale della volontà tende a riconoscere se stessa come unica e legittima espressione della volontà, vedendo erroneamente tutto il resto come mero strumento di cui servirsi. Ma non tutta la realtà funziona così: l'uomo, infatti, si distingue per essere in grado di rendersi conto, più o meno consciamente, che al di là di lui stesso esiste qualcosa di simile a lui. In altri termini, nessun uomo si comporta come fa il leone con la gazzella, trattando cioè gli altri come semplici oggetti, ma, al contrario, se può aiutare gli altri con un piccolo gesto non esita a farlo. Ed è proprio con l'esperienza morale che comincia a manifestarsi embrionalmente il "questo sei tu" dei monaci buddhisti, ovvero la coscienza che gli altri non sono radicalmente altra cosa rispetto a noi (questo è il messaggio cristiano delle origini, sostiene Schopenhauer). Affiora dunque il discorso kantiano secondo cui non bisogna mai trattare il prossimo come semplice strumento, ma anche sempre come fine in se stesso, senza fare agli altri ciò che non vorremmo che fosse fatto a noi. L'esperienza morale può, in altri termini, essere letta come presentimento che siamo tutti la stessa cosa e da cui scaturisce un rispetto che si manifesta a vari livelli , primo dei quali è il diritto. Esso mi impone di non nuocere agli altri e pertanto si configura, agli occhi di Schopenhauer, come una morale passiva, che non dice cosa fare ma cosa non fare (nuocere agli altri); e dando ragione ad Hobbes, egli può affermare che la società civile è solamente una forma di "egoismo intelligente", privo di morale, in quanto non si dice che è un male uccidere agli altri, ma semplicemente ciascuno si accorge che non gli conviene vivere nel selvaggio stato di natura e così ci si raggruppa nella società civile. Se il diritto impone di non nuocere agli altri, la morale, invece, comanda di venire in aiuto agli altri: ma in Schopenhauer sulla morale prevale la compassione , ossia la sofferenza insieme agli altri. La cosa fondamentale, infatti, non è di aiutare gli altri, ma di soffrire insieme a loro, cosa che in apparenza risulta totalmente passiva e negativa. In realtà, nella compassione si capisce che colui con cui soffro insieme non è altra cosa rispetto a me; il cristianesimo stesso, dice Schopenhauer (in modo scorretto), è una forma di compassione che non prevede l'aiuto per il prossimo. Ecco dunque che per Schopenhauer la morale si configura come compassione poichè il limite della morale in quanto tale è che, anche aiutando gli altri, non si riesce ad annullare la volontà e la sofferenza che ne deriva; si tratta pertanto di rintracciare una terza e più efficace via per uscire dal dolore. L'arte è troppo breve, la morale, pur essendo più intensa e duratura, non riesce a superare il problema, anche se mi fa capire che gli altri sono come me e che dunque la loro sofferenza è anche la mia. In altri termini, con l'esperienza artistica pervengo alla radice del problema, con la morale comprendo che siam tutti la stessa cosa e che dunque il problema non è di aiutarci ma di annullare in tutti la volontà, cosa di cui però la morale si rivela incapace, pur essendo anch'essa un quietivo: l'annullamento della morale a cui porta l'arte è momentaneo, quello a cui porta la morale è parziale. E l'obiettivo a cui si deve pervenire è proprio l'annullamento della volontà, ovvero il suo capovolgimento in nolontà: ma come si può realizzare ciò? Schopenhauer ne dà un'approfondita spiegazione nel quarto libro del Mondo : solo nell'uomo si può attuare il capovolgimento della volontà in nolontà e questo per un motivo molto semplice, dice Schopenhauer. Infatti, solo l'uomo è provvisto della ragione, ma essa è solo un aspetto marginale della vita umana (tema che verrà approfondito da Freud), poichè è un puro e semplice strumento di cui la volontà si avvale per affermarsi. Tuttavia, la ragione, il cui obiettivo consiste appunto nel far sì che la volontà possa affermarsi, non può essere relegata ad un solo obiettivo e tende anzi ad investirne il maggior numero possibile, proprio alla stregua della radio, per esempio, che, nata per realizzare obiettivi militari, si è poi estesa al soddisfacimento di bisogni dell'intera società. E così la ragione, nata come strumento in mano alla volontà, si è allargata ad una più ampia sfera di obiettivi e realizzazioni, delle quali le più raffinate sono la scienza e, soprattutto, la filosofia, superiore perchè legata, in una certa misura, all'arte (e tra le forme artistiche spicca la musica, che, col suo carattere fluido, non coglie l'idea, ma la volontà stessa: e Schopenhauer ha soprattutto in mente il don Giovanni di Mozart, caro anche a Kierkegaard). Ne consegue che la ragione ci fa conoscere cose che vanno al di là dell'obiettivo per cui essa era nata in origine e, addirittura, può consentire alla volontà di capovolgersi in nolontà. Infatti quella volontà che tende sempre ad affermarsi aumentando in tal modo la propria sofferenza, con questo proposito si dà come strumento la ragione, la quale però, se ben impiegata, porta l'uomo a comprendere le tre cose fondamentali (1 sofferenza, 2 cause della sofferenza, 3 vie per uscirne) : in altre parole, la ragione fa capire alla volontà che l'unica via da intraprendere è di decidere di uscire dalla volontà, diventando un puro "occhio sul mondo" (che vede tutto in modo distaccato, senza essere coinvolto), e decidendo di non stare più al gioco ma uscirne (cessando così il circolo vizioso per cui continuava ad affermarsi in tutti i modi). Ma per annullarsi, essa non può ricorrere al suicidio (equivarrebbe ad abbandonarsi ad un'altra forma di volontà), alla politica (cambia le cose solo in modo provvisorio e superficiale) o al vegetarianesimo (mangiando gli ortaggi non si esce dal cannibalismo della volontà): l'unica via possibile è allora quella dell' ascesi , ovvero del progressivo annullamento in sè della volontà che nasce dalla convinzione di essere uno col tutto; e se annullo in me la volontà, la annullo anche in tutti gli altri, visto che è una sola. In questa prospettiva, Schopenhauer ha in mente il mondo orientale dell'ascetismo, che vince la volontà di bere e di mangiare, mortificando così la carne e producendo un progressivo annullamento della volontà (la quale si capovolge in nolontà); lo stesso impulso sessuale viene da Schopenhauer condannato come delitto in quanto mette al mondo nuovi individui destinati a soffrire. Ma distruggendo la volontà di bere e di mangiare, come fanno gli ascetici, si arriva ad una sorta di lento suicidio e Schopenhauer, come abbiamo visto, condanna questa pratica. Però bisogna tener presente che se il suicidio in senso classico non è una soluzione per uscire dal dolore (e quindi Schopenhauer lo condanna), il suicidio ascetico è diverso, in quanto altro non è se non il traguardo di quel processo di ascesi che annulla gradualmente la volontà e le stesse funzioni vitali (tale suicidio è dunque accettabile perchè riesce ad annullare e a far estinguere la volontà). Schopenhauer nota però amaramente che l'annullamento della volontà non è ancora stato raggiunto da nessun uomo (sebbene i mistici ci siano andati vicini), altrimenti il mondo non esisterebbe più: infatti, annullare la volontà significa annullare il mondo, che di essa è rappresentazione fenomenica (e senza la "cosa in sè" non può nemmeno esserci il fenomeno). Come meta dell'annullamento della volontà si può pervenire ad una sorta di Nirvana , ossia al raggiungimento del nulla: ma Schopenhauer critica aspramente il Nirvana prospettato dai Buddhisti, in quanto, regalando una specie di beatitudine paradisiaca, sembra essere eccessivamente positivo. Il nulla così come lo intende Schopenhauer non vuol essere un paradiso, ma piuttosto un puro e semplice annullamento di questo mondo, senza con questo voler dire che tale annullamento coincida con il "nulla" come generalmente lo si concepisce: non si può infatti dire (non essendo ancora stato raggiunto) che tipo di nulla sarà quello successivo all'annullamento della volontà. E così Schopenhauer conclude il Mondo : " lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è il vero ed assoluto nulla. Ma viceversa, per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla "; come a dire che per chi è ancora nel circolo della volontà, la nolontà è il nulla; per chi invece la capovolgerà in nolontà, il mondo è il nulla. E' ora bene spendere qualche parola sul pessimismo che informa la filosofia leopardiana: che la tesi pessimista sia difficile da sostenere se n'erano già accorti, ad esempio, Agostino e i Neoplatonici, che si erano visti costretti a concepire il male come una pura e semplice assenza di bene. E infatti quando si finisce per dire che tutto è male, in qualche modo lo si fa in riferimento ad un qualcosa di opposto che è il bene. Questo emerge benissimo nella chiusura del Mondo , in cui Schopenhauer, dopo aver sostanzialmente dichiarato che tutto è male, apre un tenue spiraglio asserendo che tutto è male dal punto di vista in cui ci troviamo noi, ma ciò che per noi è il nulla, non è detto che nella realtà sia il nulla in assoluto: forse potrebbe esserci una dimensione positiva. Tutto ciò può essere d'aiuto per impostare un paragone con l'altro grande pessimista di quegli anni, Leopardi: se Schopenhauer ha una concezione profondamente metafisica della realtà, il poeta e filosofo marchigiano, invece, ha una concezione radicalmente meccanicistica. Questa differenza fa sì che per Schopenhauer il mondo è male, per Leopardi è la nostra condizione ad essere malvagia, non il mondo : esso, di per sè, è del tutto indifferente all'uomo e alle sue sorti, come si evince benissimo, ad esempio, nel Bruto minore , dove Leopardi immagina che Bruto, unico sopravvissuto al massacro della battaglia di Filippi, volga gli occhi in cielo e scorga la luna, nè benigna nè avversa all'uomo e alle sue disgrazie. Dunque, per Schopenhauer esiste una volontà maligna, per Leopardi il male non esiste o, meglio, esiste solo la tragicità dell'esistenza, tesi con la quale anticipa l'esistenzialismo e la sua tesi centrale secondo cui l'uomo è gettato nel mondo. Si può notare come Leopardi sia molto più pessimista di Schopenhauer, in quanto, nella misura in cui si concepisce una volontà maligna imperante nel mondo, si ammette anche una possibilità di capovolgerla, poichè ponendo il male si pone anche concettualmente il bene; Leopardi, invece, ponendo non il male, ma il nulla (tipico anche di Kierkegaard) e l'indifferenza della natura non lascia spazio alcuno al bene. Tuttavia, al di là delle differenze, vi sono anche punti in comune tra i due pensatori: sia Schopenhauer sia Leopardi sono convinti che il dolore aumenti con la consapevolezza (per cui l'uomo soffre più degli animali perchè sa già che dovrà morire) e che la vita sia un ondeggiare continuo tra il dolore e la noia. Ma Leopardi non dà quelle speranze che invece prospetta Schopenhauer: per quest'ultimo la compassione è un primo passo verso la salvezza, per il poeta marchigiano è un puro e semplice aiuto per meglio sopportare la sofferenza.
GRIGLIA RIASSUNTIVA
opere principali
• Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente) 1813
• Die Welt als Wille und Vorstellung (Il Mondo come volontà e rappresentazione) 18191, 18442, 18593
Vita
La sua famiglia era di origine olandese, il padre ricco commerciante di Danzica (ove Arthur nacque il 22 febbraio 1788)
l giovane Arthur viaggiò molto, per imparare le lingue e poter proseguire il lavoro del padre: fu così in Francia (Le Havre 1797/9), a Karlsbad, Praga, Olanda, Inghilterra, Svizzera, Austria, Slesia e Prussia.
Morto il padre per suicidio (1805) ereditò una fortuna cospicua, che gli permise di vivere di rendita, studiando: prima al ginnasio (di Gotha, e poi di Weimar), poi all'università di Gottinga (1809/11), dove conobbe G.E.Schulze, che lo introdusse a Kante a Platone, e Berlino (1811/13), dove seguì Schleiermacher, Fichte e il filologo F.A.Wolf.Per la guerra, raggiunse a Weimar la madre, che (romanziera) vi teneva un salotto letterario, cui veniva anche Goethe, e si laureò a Jena nello stesso 1813, con una tesi Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, apprezzata da Goethe. Ivi conobbe anche l'orientalista Friedrich Mayer, estimatore delle Upanišhad.Ruppe ben presto con la madre, Johanna Henriette, che aveva accolto in casa un amante, nel 1814.Si trasferì così a Dresda e qui pubblicò Die Welt als Wille und Vorstellung, suo capolavoro, scritto nel 1818 e pubblicato nel 1819. Dopo un viaggio in Italia, ottenne la libera docenza a Berlino nel 1820, discutendo con Hegel, col quale venne a diverbio; e a Berlino rimase, frustrato per la concorrenza hegeliana, per cui le sue lezioni erano disertate, fino al 1831, quando vi si diffuse un'epidemia di colera.Allora si trasferì a Francoforte, dove rimase fino alla morte, sopraggiunta nel 1860. Di tale periodo sono La volontà della natura (1836), I due problemi fondamentali dell’etica (1841) e il brillante e popolare Parerga et paralipomena (1851). Tali opere gli guadagnarono riconoscimenti pubblici e maggior successo delle opere precedenti.Come scrive Abbagnano "nessun successo immediato arrise all'opera di Schopenhauer, che dovette aspettare più di vent'anni per pubblicare la seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione, edizione che egli arricchì di un secondo volume di note e supplementi. (...) Soltanto dopo il 1848, in concomitanza con un'ondata di pessimismo che colpì l'Europa, cominciò la "fortuna" della sua filosofia". E in generale la fortuna della sua filosofia tende ricorrentemente a coincidere con periodi in cui l'umanità occidentale avverte il bisogno di una spiegazione della realtà che ne evidenzi la tragicità.
la critica all'idealismo
Schopenhauer critica in generale "i tre grandi ciarlatani" idealisti, e in particolare Hegel, "sicario della verità", la cui filosofia è mercenaria, al servizio dello Stato:"Hegel, insediato dall'alto, dalle forze al potere, fu un ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo, illetterato, che raggiunse il colmo dell'audacia scodellando i più pazzi e mistificanti non sensi"il suo pensiero è "una buffonata filosofica".
i riferimenti del suo pensiero
Furono Kant, da cui prese la distinzione tra fenomeno e noumeno, interpretandola però in modo difforme dallo stesso Kant, attribuendo al fenomeno una valenza di illosorietà a quello sconosciuta (dato che al contrario per il filosofo di Koenigsberg proprio del fenomeno e anzi solo del fenomeno si piò dare conoscenza rigorosamente scientifica e valida), Platone (da cui trasse la concezione delle idee, anche qui però intese in modo originale, "forme eterne sottratte alla caducità dolorosa del nostro mondo" (Abbagnano) come strato ontologico intermedio tra il centro della realtà, che è cieca Volontà e l'apparenza fenomenica più superficiale), e la filosofia indiana, da cui appunto trae la decisiva convinzione del carattere ingannevole del mondo sensibile, che altri filosofi occidentali avevano sì in precedenza definito imperfetto, e al limite prossimo al nulla (Parmenide, Platone, Plotino), ma mai giudicato deformante inganno.
1a) il mondo come rappresentazione
Noi non conosciamo le cose in sé stesse ("vediamo non il sole né la terra"), ma in quanto sono rapportate al soggetto, dipendenti dal soggetto, "interne" ad esso (conosciamo "l'occhio che vede il sole, la mano che sente il contatto con la terra"), e il soggetto filtra la realtà con le tre categorie (una sorta di a-priori, che il soggetto pone mediante l'intelletto, analogamente a Kant, con la differenza che per Sch. le categorie hanno una matrice fisiologica, piuttosto che trascendentale)
• (spazio e tempo (che rendono molteplice l'oggetto)
• la causalità (che lo rende un "cosmo conoscitivo"), poste come per Kant, dall'intelletto
la causalità a sua volta, in quanto principio di ragion sufficiente, assume quattro forme, ossia
causa fiendi (cioè del divenire; regola i rapporti causali);
causa cognoscendi (regola i rapporti tra i giudizi);
causa essendi (regola i rapporti tra le parti del tempo e dello spazio);
causa agendi (regola i rapporti tra le azioni);
Essa è perciò fenomeno, nel senso di apparenza, in parentela stretta col sogno, analogamente a Pindaro ("l'uomo è il sogno di un'ombra"), Sofocle, Shakespeare ("noi siamo di tale stoffa, come quella di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è chiusa in un sonno"), Calderòn, o, con espressione di derivazione indiana, "velo di Maya".
" è Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi nê che esista, nê che non esista; perchê ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente (Il mondo come volontà ..., paragrafo 3)
ma c'è il modo per giungere alla realtà in sé stessa:
1b) e come volontà
esistenza della Volontà
Ne posso essere certo in quanto
a)ho accesso diretto alla mia volontà, che sperimento essere la mia più intima essenza, facente tutt'uno con il moto del mio corpo (che posso infatti conoscere o oggettivandolo, o dall'interno, come mosso dalla volontà).
Io sono volontà, Wille zum Leben, impulso prepotente;
b)per analogia estendo questo a tutto il reale:
osservando nei fenomeni naturali "l'impeto violento e irresistibile con cui le acque si precipitano negli abissi, ... l'ansia con cui il ferro vola verso la calamita, la violenza con cui i poli elettrici tendono a riunirsi ...[riconosciamo] quell'identica essenza che in noi persegue i suoi fini al lume della conoscenza, ma che qui non ha che impulsi ciechi, sordi, unilaterali e invariabili" (§ 23 Il mondo come volontà e rappresentzione)
sua essenza
La Volontà è inconscia...
Come ricorda Abbagnano: "essendo al di là del fenomeno, la Volontà presenta caratteri contrapposti a quelli del mondo della rappresentazione, in quanto si sottrae alle forme proprie di quest'ultimo: lo spazio, il tempo e la causalità. Innanzitutto la Volontà primordiale è inconscia, poichê la consapevolezza e l'intelletto costituiscono soltanto delle sue possibili manifestazioni secondarie. Di conseguenza, il termine Volontà, preso in senso metafisico-schopenhaueriano, non si identifica con quello di volontà cosciente, ma con il concetto più generale di energia o di impulso (e in questo senso si comprende perchè Schopenhauer attribuisca la volontà anche alla materia inorganica e ai vegetali)."
...unica...
In secondo luogo, la Volontà risulta unica, poichò esistendo al di fuori dello spazio e del tempo, che dividono gli enti, si sottrae costituzionalmente a ciò che egli chiama "principio di individuazione". Infatti la Volontà non è qui più di quanto non sia là, più oggi di quanto non sia stata ieri o sarà domani. Essa, dice Schopenhauer, "è in una quercia come in un milione di querce".
...eterna...
Essendo oltre la forma del tempo, la Volontà è anche eterna e indistruttibile, ossia un Principio senza inizio nè fine. Per questo, Schopenhauer scrive che "alla Volontà è assicurata la vita" e paragona il perdurare dell'universo nel tempo ad un "meriggio eterno senza tramonto refrigerante", oppure all'"arcobaleno sulla cascata", non toccato dal fluire delle acque (op.cit., paragrafo 54).
...assurda e cieca.
Essendo al di là della categoria di causa, e quindi di ciò che Schopenhauer denomina "principio di ragione", la Volontà si configura anche come una Forza libera e cieca, ossia come un'Energia incausata, senza un perchè e senza uno scopo. Infatti noi possiamo cercare la "ragione" di questa o quella manifestazione fenomenica della Volontà, ma non della Volontà in se stessa, esattamente come possiamo chiedere ad un uomo perchè voglia questo o quello, ma non perchè voglia in generale. Tant'è che a quest'ultima domanda l'individuo non potrebbe rispondere che "voglio perchè voglio", ossia, traducendo la frase in termini filosofici, " perchè c'è in me una volontà irresistibile che mi spinge a volere". Infatti, la Volontà primordiale non ha una mèta oltre se stessa: la vita vuole la vita, la volontà vuole la volontà, ed ogni motivazione o scopo cade entro l'orizzonte del vivere e del volere (op.cit., paragrafo 29).
consegnenze etiche
Vi è in Schopenhauer un rifiuto di ogni ottimismo:
1. cosmico (quello delle religioni, con la loro idea di Provvidenza)
"Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l'appagamento; tuttavia per un desiderio che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre la brama dura a lungo, le esigenze vanno all'infinito; l'appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore riconosciuto, questo un errore non ancora conosciuto. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole... bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento" (op.cit., paragrafo 38).
La realtà è una '"arena di esseri tormentati e angosciati, i quali esistono solo a patto di divorarsi l'un laltro, dove perciò ogni animale carnivoro è il sepolcro vivente di mille altri e la propria autoconservazione è una catena di morti strazianti"
"Se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, i campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria, dove ci si appiatta per nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l'occhio nella torre della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch'egli con l'intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibles. Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo mondo reale? E nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono. Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perchê il nostro mondo non offre materiale per un'impresa siffatta" (op.cit., paragrafo 59)
"A diciassette anni, ancora privo di ogni cultura, fui colpito dalla miseria della vita così profondamente come Buddha nella sua gioventù, quando vide per la prima volta la malattia, la vecchiaia, il dolore e la morte. La verità che del mondo mi parlava chiaro e tondo, ebbe presto il sopravvento sui dogmi ebraici che mi erano stati inculcati; e la mia conclusione fu che questo mondo non poteva essere l'opera di un ente assolutamente buono... "
"Verrà un tempo in cui la dottrina di un Dio come creatore sarà considerata in metafisica, come ora, in astronomia, si considera la dottrina degli epicicli"
“Dei mali della vita ci si consola con al morte, e della morte con i mali della vita. Una gradevole situazione”
“Noi ci consoliamo delle sofferenze della vita pensando alla morte, e della morte pensando alle sofferenze della vita”
“...alla fine tutti quanti siamo e restiamo soli”
“Alla natura sta a cuore solo la nostra esistenza, non il nostro benessere”
“Ogni sera siamo più poveri di un giorno”
“Dal punto di vista della giovinezza la vita è infinita; dal punto di vista della vecchiaia è un brevissimo passato”
“Si può dire quello che si vuole! Il momento più felice di chi è felice è quando si addormenta, come il momento più infelice di chi è infelice è quando si risveglia”
“A parte poche eccezioni, al mondo tutti, uomini e animali, lavorano con tutte le forze, con ogni sforzo, dal mattino alla sera solo per continuare ad esistere: e non vale assolutamente la pena di continuare ad esistere; inoltre dopo un certo tempo tutti finiscono. È un affare che non copre le spese”
“Se è stato un Dio a creare questo mondo, non vorrei essere lui: la sofferenza nel mondo mi spezzerebbe il cuore”
“Chi ama la Verità odia gli dèi, al singolare come al plurale”
2. storico (il progresso, come in Hegel, Comte, Marx e altri):
in realtà la storia ci inganna facendoci credere che le cose cambino sostanzialmente, mentre ha ragione l'Ecclesiaste: non vi è nulla di nuovo sotto il sole in ogni tempo fu, è e sarà sempre la stessa cosa (Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 38)
"Mentre la storia ci insegna che in ogni tempo avviene qualcosa di diverso, la filosofia si sforza di innalzarci alla concezione che in ogni tempo fu, è, e sarà sempre la stessa cosa" (Supplementi, capitolo 38)
3. sociale (secondo cui l'uomo è naturalmente buono verso gli altri):
"Ogni giubilo eccessivo nasce sempre dall’illusione di aver trovato nella vita qualcosa che è impossibile trovarvi, e cioè la pacificazione definitiva del tormento"
"chi considera bene .. scorge il mondo come un inferno, che supera quello di Dante in questo, che ognuno è diavolo per l'altro."
"l'uomo è l'unico animale che faccia soffrire gli altri al solo scopo di far soffrire"
“Ciò che rende gli uomini socievoli è la loro incapacità di sopportare la solitudine e se stessi. [...] Tutti i pezzenti sono socievoli, da far pietà”
"Vi è dunque, nel cuore di ogni uomo, una belva, che attende solo il momento propizio per scatenarsi ed infuriare contro gli altri" (Parerga, 2, 114)
"Come l'uomo si comporti con l'uomo, è mostrato, ad esempio, dalla schiavitù dei negri. Ma non v'è bisogno di andare così lontani: entrare nelle filande o in altre fabbriche all'età di cinque anni, e d'allora in poi sedervi prima per dieci, poi per dodici, infine per quattordici ore al giorno, ed eseguire lo stesso lavoro meccanico, significa pagar caro il piacere di respirare. Eppure questo è il destino di milioni, e molti altri milioni ne hanno uno analogo"
"la vita è un continuo oscillare tra dolore e noia"
2) la liberazione
/
Schopenhauer rifiuta il suicidio come via alla liberazione per due motivi :
\
1) perchè "il suicidio, lungi dall'essere negazione della volontà, è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa" in quanto il suicida "vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate" (ivi, paragrafo 69), per cui anzichê negare veramente la volontà egli nega piuttosto la vita;
2) perchê il suicidio sopprime unicamente l'individuo, ossia una manifestazione fenomenica della Volontà di vivere, lasciando intatta la cosa in sé, che pur morendo in un individuo rinasce in mille altri, simile al sole che, appena tramontato da un lato, risorge dall'altro." (Abbagnano)


Essa ha come momenti principali
a)l'arte: "mentre la conoscenza, e quindi la scienza, è continuamente irretita nelle forme dello spazio e del tempo, ed asservita ai bisogni della volontà, l'arte, secondo Schopenhauer, è conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle idee, ossia alle forme pure o ai modelli eterni delle cose." (Abbagnano)
"Mentre per l'uomo comune, il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna che illumina la strada, per l'uomo geniale è il sole che rivela il mondo".
b) la compassione, che rompe la catena di egoismi che mette ogni individuo contro l'altro, causando inutile e assurda sofferenza.
“L’amore autentico è sempre compassione; e ogni amore che non sia compassione è egoismo”
c) l'ascesi
essa nasce dall'"orrore" dell'uomo "per l'essere di cui è manifestazione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore" (ivi, paragrafo 68), è l'esperienza per la quale l'individuo, cessando di volere la vita ed il volere stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere: "Con la parola ascesi... io intendo, nel senso più stretto, il deliberato infrangimento della volontà, mediante l'astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l'espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà" (ivi).
comporta la perfetta castità, la rinuncia ai piaceri, l'umiltà, il digiuno, la povertà, il sacrificio e l'automacerazione
Fino ad arivare alla noluntas
"il deliberato infrangimento della volontà,... per la continuata mortificazione della volontà"
"Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà - dice Schopenhauer alla fine della sua opera - è certamente il nulla per tutti coloro che sono ancora pieni della volontà. Ma per gli altri, in cui la volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è, esso, il nulla" (ivi, paragrafo 71).
Note
• Nota 1
Secondo Abbagnano "dell'Illuminismo lo interessano il filone materialistica e quello dell'ideologia, da cui eredita la tendenza a considerare la vita psichica e sensoriale in termini di fisiologia del sistema nervoso. Inoltre da Voltaire desume lo spirito ironico e brillante e la tendenza demistificatrice nei confronti delle credenze tramandate. Dal Romanticismo Schopenhauer trae alcuni temi di fondo del suo pensiero, come ad esempio l'irrazionalismo, la grande importanza attribuita all'arte e alla musica, e, soprattutto, il tema dell'infinito, cioè la tesi della presenza, nel mondo, di un Principio assoluto di cui le varie realtà sono manifestazioni transeunti. Altro motivo indubbiamente romantico è quello del dolore. Tuttavia mentre il Romanticismo, sul piano filosofico, mostra una tendenza globalmente ottimistica, che si concretizza in un tentativo di dialettizzare o riscattare il negativo tramite il positivo (Dio, lo Spirito, la storia, il progresso eccetera) Schopenhauer appare decisamente orientato verso il pessimismo, di cui è uno dei maggiori teorici. Decisiva importanza, anche se indiretta, gioca pure l'idealismo, vera "bestia nera" e "idolo polemico" dello schopenhauerismo.”
Schopenhauer e Freud.
Freud, buon lettore di Schopenhauer, è stato cattivo lettore di Nietzsche. In una lettera a Lothar Eickel del 1931 scrive:"Nello sforzo di capire un filosofo, ho sempre pensato che sarebbe stato inevitabile impegnarsi nelle sue idee e sottoporsi alla sua guida durante il proprio lavoro. Per questo ho rifiutato lo studio di Nietzsche, anche se mi era chiaro che potevano essere trovate in lui concezioni molto simili a quelle della psicoanalisi". Questo non ha impedito a Freud di prelevare da Nietzsche del materiale linguistico, come ad esempio l'espressione "Es" per designare l'inconscio: "Adeguandoci all'uso linguistico di Nietzsche e seguendo un suggerimento di Georg Croddeck chiameremo d'ora in poi l'inconscio "Es". Questo pronome impersonale sembra particolarmente adatto a esprimere il carattere precipuo di questa provincia psichica, la sua estraneità all'Io. Super-io, Io ed Es sono dunque i tre regni, territori, province, in cui noi scomponiamo l'apparato psichico della persona e delle cui reciproche relazioni ci occuperemo in quanto segue" (Introduzione alla psicoanalisi nuova serie di lezioni, in Opere, uol. 11, p. 184).La geografia di Freud è profondamente schopenhaueriana. Nella separazione di inconscio e coscienza risuona il mondo come volontà e rappresentazione. Come Nietzsche, anche Freud sta dalla parte della rappresentazione, ma perché in essa vede non la liberazione delle pulsioni, ma la salvaguardia dalle pulsioni. In termini nietzschiani, l'intenzione di Freud non è la liberazione del dionisiaco, ma la liberazione dal dionisiaco, quindi "ascesi" e "rinuncia" schopenhaueriana. Sollevata la maschera della "cura" delle pulsioni, ciò che riappare è il trionfo della "morale" e le dimissioni dell'"estetica": "In ogni tempo - scrive infatti Freud - si è assegnato alla morale il massimo valore come se tutti se ne aspettassero importanti conseguenze. Ed è vero che la morale, come è facile riconoscere, tocca il punto più vulnerabile di ogni civiltà. Perciò essa va intesa come un esperimento terapeutico, come uno sforzo per raggiungere, attraverso un imperativo del Super-ío, ciò che finora non fu raggiunto attraverso nessun'altra opera di civiltà" (il disagio della civiltà, in Opere, vol. 10, p. 627). L'opera di civiltà passa attraverso il prosciugamento dello Zuiderzee, il mare interno bonificato lungo le coste olandesi: "L'intenzione degli sforzi terapeutici della psicoanalisi è in definitiva di rafforzare l'Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell'Es. Dove era l'Es, deve subentrare l'lo. E un'opera della civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuíderzee" (Introduzione alla psicoanalisi, cit., p. 190).Accolta l'ipotesi di Schopenhauer, secondo cui noi siamo vissuti dalla natura che, come cieca pulsione, dirige ciò che facciamo e ciò che ci accade, Freud evita Goethe e Nietzsche per dar credito alla maschera, fino a trasformarla nel vero volto dell'individuo da contrapporre a quel senza-volto della natura che Goethe aveva così descritto: "Natura! Da essa siamo circondati e avvinti - né ci è dato uscirne e penetrarvi più a fondo. Senza farsi pregare e senza avvertire, ci rapisce nel vortice della sua danza e si lascia andare con noi, finché siamo stanchi e le cadiamo dalle braccia. [... ] Il suo spettacolo è sempre nuovo, perché essa crea sempre nuovi spettatori. La vita è la sua invenzione più bella e la morte è il suo artificio per avere molta vita. Essa avvolge l'uomo nell'oscurità e lo sprona eternamente verso la luce [... 1 Non conosce né passato né futuro. Il presente è la sua eternità" (La natura, in Teoria della natura, pp. 138~141).Come il dionisiaco di Nietzsche, così la natura di Goethe ospita l'individuo come finzione. Scoperto l'inganno, Schopenhauer propone la rinuncia per non assecondare il gioco della volontà. Goethe e Nietzsche, invece, accettano il gioco e depongono ogni morale che sempre tende a instaurare un'individualità egoica, un "soggetto" da contrapporre all'incessante "poieticità" della natura, alla sua ininterrotta creazione. Di fronte a queste due vie, Freud tenta l'ipotesi più ardita: non la rinuncia ad assecondare il gioco (Schopenhauer) e neppure l'accettazione del gioco (Goethe e Nietzsche), ma la scoperta delle regole del gioco che obbliga la natura a cedere il "suo segreto".Da Eraclito a Goethe, la natura ama nascondersi: "physis krúptesthai phileei" (Eraclito, fr. 123). Con Freud l'itinerario che si dischiude porta a scoprire il nascondimento segreto. L'ipotesi è illuministica, la categoria che la presiede è il progresso della civiltà sulla natura, la metafora che fa da sfondo è il colonialismo: "Dov'era l'Es, deve subentrare l'Io", Assoluta fiducia nella ragione e nella sua opera di colonizzazione. La morale che ne scaturisce non è più quella degli asceti, ma quella deiconquistatori. L'inconscio non è eterna creatività di forme, "spettacolo per sempre nuovi spettatori", ma landa da civilizzare, terra disponibile per le opere della ragione.Il pessimismo di Schopenhauer, da cui Freud era partito per smascherare la trama delle motivazioni che l'individuo conscio dà del proprio pensare ed agire, si risolve nell'ottimismo della ragione che, scoperto il segreto della natura, non è più rappresentazione illusoria, ma struttura d'ordine che trasforma il caos in cosmo, la natura in cultura.Con Freud nasce una morale del tutto nuova, regolata non più dall'ascesi, ma dal lavoro, dall'opera di civiltà. Il suo dover-essere non ha in vista un altro mondo, ma la colonizzazione di questo mondo, il suo ordinamento. La ragione umana, che era rappresentazione finché la natura conservava il suo segreto, ora diventa la verità del , "mondo" che è stato strappato alla "natura". Espansione del cosmo e riduzione del caos. Freud non ha scoperto L'inconscio, che se mai ha scoperto Schopenhauer; Freud ha scoperto le regole per aver ragione dell'inconscio; la sua "psicologia" è una celebrazione della potenza della ragione. Per Schopenhauer, l'ultima illusione.
1
1

Esempio



  


  1. andrea

    sto cercando un'ampia sintesi del mondo di schopenhauer che mi guidi per la preparazione di un esame. qualcuno può aiutarmi ? mail: [email protected]