Romanticismo

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Categoria:Filosofia

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Testo

L’età del romanticismo in Germania
1. Periodizzazione dell’”età classica tedesca”.
Fra il 1770 e il 1830 la Germania conosce una formidabile fioritura culturale, paragonabile solo a quella ateniese del V-IV sec. a.C. o a quella dell’Italia rinascimentale tra XV e XVI sec. Questi sessant’anni, nei quali si concentra la produzione filosofica di Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, nonché di poeti come Goethe e Schiller, per non citare che i “giganti” dell’epoca, racchiudono quella che è stata definita l’età classica tedesca (la deutsche Klassik).
Dal punto di vista filosofico-culturale, il periodo è contrassegnato da tre manifestazioni diverse: il criticismo kantiano, l’idealismo e il romanticismo. I primi due sono abbastanza facilmente definibili e circoscrivibili. Il criticismo, almeno nella sua forma originaria, nasce e muore con Kant (1724-1804). Anzi, con le opere kantiane del “periodo critico” (1770-1804) e in particolare con i tre capolavori apparsi negli anni Ottanta: la Critica della ragion pura del 1781, la Critica della ragion pratica del 1788 e la Critica del Giudizio del 1790. A sua volta, l’idealismo, nato dalla discussione e dalla revisione del criticismo svolta dai cosiddetti autori post-kantiani a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta1 del XVIII secolo, ha nelle filosofie di Fichte (1762-1814), Schelling (1775-1854) e Hegel (1770-1831) la sua piena fondazione e teorizzazione2.
Il romanticismo, invece, sfugge ad ogni precisa determinazione cronologica. Come fenomeno tedesco, esso è approssimativamente compreso tra il 1795 e il 1830 (includendo anche il cosiddetto “tardo romanticismo”). Ma la sua diffusione nei diversi paesi europei – soprattutto in Inghilterra, Francia, Italia e Spagna – va oltre la metà dell’Ottocento. In particolare, si è soliti assumere i seguenti anni come date ufficiali di inizio del Romanticismo nei vari paesi europei: per l’Inghilterra il 1800 - anno di pubblicazione della seconda edizione delle Lyrical Ballads di Worsworth e Coleridge la cui Prefazione, ampliata rispetto a quella della prima edizione del 1798, costituisce il manifesto del Romanticismo inglese; per la Francia, si fa riferimento al Genio del cristianesimo (1802) di René de Chateaubriand o, al più tardi, all’opera di Madame de Stael De l’Allemagne (1810, ma edita a Londra nel 1813); infine, per quanto riguarda l’Italia, il primo manifesto romantico è la Lettera semiseria di Berchet (1816).
In Germania, dove il movimento nacque e si sviluppò, la prima scuola romantica fu rappresentata dal cenacolo raccoltosi a Jena intorno ai fratelli August Wilhelm Schlegel (1767-1845) e Friedrich Schlegel (1772-1829), a Karoline Michaelis (1763-1809), donna di notevole fascino e personalità, moglie di August Schlegel prima e del filosofo Schelling poi, e al poeta Friedrich von Hardenberg, detto Novalis (1772-1801). Nel 1797, nel corso di un’aspra polemica con Friedrich Schiller, F. Schlegel si trasferì a Berlino, dove pubblicò la rivista “Athenaeum” (1798-1800), che divenne l’organo del nuovo movimento. A Berlino, F. Schlegel entrò in contatto con Johann Ludwig Tieck (1773-1853), con Wilhelm Heinrich Wackenroder (1773-1798) e con il filosofo Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768-1834), autore dei Discorsi sulla religione (1799), uno dei capolavori filosofici del romanticismo. Va ricordata, inoltre, la figura del poeta Friderich Hőlderlin (1770-1843) che, pur restando in disparte rispetto ai romantici, seguì le vicende del movimento e subì il fascino del mito classico della grecità guardato con struggente nostalgia negli Inni (1791-93), nel romanzo epistolare Iperione (1794-95) ed in Empedocle (1798-1800). Il filosofo Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), che insegnò a Jena dal 1794 al 1799, con la sua filosofia dell’Io che sembrava trasporre in termini concettuali il titanismo stűrmeriano, fu tra gli ispiratori del circolo jenese. Ma fu soprattutto con il suo trasferimento a Berlino, a partire dal 1800, che Fichte stesso risentì dell’atmosfera romantica, arrivando a comporre i celebri Discorsi alla nazione tedesca (1807-08), considerati uno dei capolavori del romanticismo politico. A sua volta, il filosofo Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854), prima collaborò con Fichte e dal 1799 al 1803 gli successe nell’insegnamento universitario a Jena, sviluppando in particolare la filosofia della natura e l’estetica (aspetti tralasciati dalla teoresi fichtiana) in chiave prettamente romantica. In seguito, a Wűrzburg, in Baviera, e soprattutto a Monaco, dove insegnò dal 1806 al 1841 prima all’Accademia delle Scienze e poi alla nuova Università, risentì delle idee del circolo romantico locale.
Dopo la morte precoce di Novalis, nel 1801, i circoli di Jena e Berlino si sciolsero, ma le idee romantiche vennero diffuse dai fratelli Schlegel: da August Schlegel, che puntualizzò alcune importanti teorie protoromantiche (Lezioni sulle belle lettere e l’arte, 1801-04 e Lezioni sull’arte drammatica e sulla letteratura, 1808), entrò quindi al servizio di Madame de Stael (1804) e dal 1819 alla morte nel 1845 insegnò all’università di Bonn; e da Friedrich Schlegel, che tentò di dare una forma sistematica alle idee espresse in forma frammentaria o aforistica al tempo di “Athenaeum” in alcune lezioni private tenute a Parigi (1802) e a Colonia (1804-05). Nel 1808, si convertì al cattolicesimo, si trasferì a Vienna dove entrò al servizio del principe von Metternich e della corte austriaca diventando ancora una volta l’animatore del movimento tardoromantico “Concordia” (1820-23).3
2. Caratteri generali del romanticismo
Analizziamo alcune delle più caratteristiche tematiche romantiche: la polemica contro il razionalismo e la riscoperta del sentimento (2.1.), la soggettività romantica e la nostalgia dell’Infinito (2.2.), la vita come inquietudine e desiderio: l’ironia e l’eroismo (2.3.) l’evasione dal presente in spazi e tempi lontani (2.4.), la meditazioni sulla religione (2.5.), la concezione organicista della natura (2.6.), le indagini sull’estetica (2.7.), le riflessioni sulla storia (2.8.), sulla politica (2.9.) e sull’amore (2.10).
2.1. Polemica contro il razionalismo e riscoperta del sentimento
Il carattere più generale della cultura romantica – il termine deriva dall’inglese romantic, usato sin dalla metà del Seicento come sinonimo, spesso spregiativo, di romanzesco e fantastico – è la polemica contro il razionalismo tipico dell’età illuministica. La ragione non è più considerata la regina delle facoltà umane: sul piano teoretico essa appare fonte di un sapere astratto e formale, che non coglie l’intima essenza della realtà; sul piano pratico, essa sembra disconoscere la vera natura dell’uomo, che non è né esclusivamente né primariamente razionale. Alla ragione vengono quindi contrapposti il sentimento, che coglie intuitivamente e direttamente ciò che sfugge all’analisi razionale; l’istinto, che spinge e orienta infallibilmente l’uomo nelle sue scelte; e la passione, che è il movente irrinunciabile dell’azione. In realtà il valore di sentimento, istinto e passione era già stato riconosciuto da certa filosofia anglosassone o, più in generale, dagli stessi illuministi francesi, che sarebbe semplicistico ridurre a paladini di un rigido e intollerante razionalismo. Ma in quegli autori la dimensione sentimentale ed emotiva era considerata non già opposta, bensì complementare, a quella razionale. In ambito romantico, invece, essa è per lo più sentita come un’alternativa alla ragione discorsiva, che viene intesa come una forma inadeguata di conoscenza. Per riprendere due espressioni diffuse già alla fine del Settecento, l’individuo non è tanto un “essere di ragione” quanto un’“anima sensibile”. Nell’uomo vengono valorizzate le emozioni, i sentimenti – e con essi, ancor prima, l’immaginazione, la fantasia, la reverie [il sogno]. L’uomo ideale non è più tanto l’uomo raziocinante quanto l’uomo passionale: il “forte sentire”, la “passione generosa” sono alcuni dei modi d’essere del soggetto umano maggiormente apprezzati dalla cultura romantica. Anche in sede cognitiva, accanto alla ragione empirico-analitica-géometrique dell’illuminismo, accanto alla scienza, vengono riproposte come validi e insostituibili veicoli di conoscenza altre forme di esperienza: l’arte, la religione, la filosofia metafisica. Nei suoi Frammenti, Novalis esalta il sentimento artistico sulla ragione scientifica affermando che “soltanto un’artista può indovinare il senso della vita” e che “il poeta comprende la natura meglio che lo scienziato”; a sua volta Hölderlin, nel romanzo epistolare Iperione (1794-95), esprime l’antirazionalismo di tanto romanticismo scrivendo che “un Dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando pensa”.
2.2. Soggettività romantica e nostalgia dell’Infinito
Conseguenza della rivalutazione della sfera emotiva è la riscoperta del valore della soggettività, intesa non più cartesianamente, come semplice autocoscienza, o kantianamente, come Io puro e soggetto trascendentale, bensì come fonte insondabile della vita interiore. Essa è la sede in cui si manifesta quell’energia spirituale – del tutto irriducibile alla pura ragione – che consente di cogliere immediatamente la verità e di compiere azioni grandiose. Ciò conferisce alla soggettività un duplice valore. Da un lato, la sua scoperta si traduce in una nuova e positiva valorizzazione dell’individualità: il soggetto è qualcosa di assolutamente peculiare, poiché il suo particolare modo di sentire e di intuire, le sue particolari passioni, la sua particolare storia personale, lo differenziano da tutti gli altri, lo rendono assolutamente unico e irripetibile. Viceversa, il soggetto razionale-trascendentale, di ascendenza cartesiano-kantiana, è del tutto indifferenziato: tutti pensano attraverso le stesse categorie e strutture a priori. Al contrario, ogni soggetto, proprio perché è un individuo irripetibile, ha un valore infinito. Il Romanticismo ha contribuito potentemente ad un ulteriore riconoscimento del valore della personalità individuale e del suo groviglio di problemi (amore, dolore, morte, ecc.). Mai, come nel Romanticismo, si è parlato tanto di “io”, di “persona”, di “soggetto”, ecc. Mai come in esso si sono tanto onorate le personalità individuali eccezionali: i “geni” e gli “eroi”. Come scrive Novalis nei suoi Frammenti, “la personalità è l’elemento romantico dell’io”4.
Dall’altro lato, ogni individuo risulta aperto direttamente all’infinità divina e a questa unito da un contraddittorio rapporto di vicinanza e lontananza, legame e distacco, compenetrazione e lacerante scissione. Mentre la filosofia moderna, da Cartesio a Kant (con l’eccezione di Spinoza che, non a caso, viene in questo periodo riscoperto, come vedremo), presenta un rapporto tra finito e infinito di natura essenzialmente statico e contrappositivo, riconoscendo nel finito la dimensione propria dell’uomo, e riservando l’infinità a un Dio trascendente o, comunque, rigorosamente distinto dall’essere umano, nelle concezioni romantiche l’uomo tende ad attingere l’infinità stessa di Dio. Ma poiché nello stesso tempo, l’uomo non può dimenticare i limiti connessi alla propria sensibilità e alla propria esistenza materiale, il suo atteggiamento fondamentale è la nostalgia (Sehnsucht) dell’infinito, l’aspirazione a ricongiungersi con quello che egli sente essere il suo vero elemento. E’ in questo contesto che nascono le così frequenti dichiarazioni romantiche sulla “estraneità” dell’uomo rispetto al mondo. Come scriveva Novalis, l’essere umano è solo un “esule” su questa terra: la sua “patria” è altrove. Eppure il romantico, se da un lato, si sente straniero in questo mondo, dall’altro nutre solo raramente una fede positiva in un “altro” mondo: egli è anzi convinto di avere irreversibilmente perduto la propria “casa” e il modo per tornarvi. Di qui l’intima malinconia, anzi spesso l’intima tragicità, dell’uomo romantico che soffre tanto più acutamente la sua finitudine in quanto sente dentro di sé un incoercibile slancio verso l’infinità e, insieme, avverte che tale slancio non solo non ha un obiettivo determinato e attendibile, ma si scontra con un ostacolo (appunto, la finitudine) mai completamente superabile. L’espressione psicologico-esistenziale più caratteristica dell’uomo romantico è allora l’“aspirare” (sehnen), il “tendere” (streben): l’essere umano “aspira” (nel senso retrospettivo della nostalgia – Sehnsucht – per qualcosa che si è perduto) perché si avverte orfano e mancante di qualcosa; e “tende” in avanti, prospetticamente, perché intuisce che oltre la sua determinatezza si danno principi e valori probabilmente non raggiungibili e però degni di essere perseguiti. Questa nostalgia è qualcosa di estremamente complesso. E’, insieme, la nostalgia del finito per l’origine infinita dalla quale è scaturito ed alla quale tornerà alla conclusione del suo ciclo vitale (e, in tal caso, l’infinito può essere identificato sia con un Dio trascendente sia con una divinità immanente alla natura e con la natura stessa dalla quale tutto proviene e nella cui unità indistinta tutto ritornerà dopo una fase di individuazione e separazione). Ma è anche la nostalgia dell’uomo presente e insoddisfatto della modernità per un’epoca storica ormai passata (che può essere il Medioevo e l’antichità classica greco-romana) avvertita come condizione felice irrecuperabile oppure alla quale guardare come modello per l’edificazione di una nuova e futura umanità (vagheggiata dai romantici ma raramente definita in un progetto politico chiaro e realizzabile). Infine, è anche una nostalgia nei confronti della religiosità tradizionale e delle sue credenze (prime fra tutte quella dell’immortalità personale) che l’uomo dell’età moderna e post-illuminista fatica ormai a condividere. Di qui tutta l’ambivalenza del romantico dinanzi alla religione che, insieme, rimpiange proprio nelle sue forme più semplici, immediate, ingenuamente fiduciose e rifiuta sdegnato in nome della propria emancipazione e autonomia, che ricerca nei suoi aspetti anche più tradizionali recuperandoli dalle critiche del materialismo ateistico e del deismo razionalistico e che cerca di ripensare e riscoprire in forme nuove e originali, più consone al sentire dell’uomo moderno e critiche nei confronti del passato.
2.3. La vita come inquietudine e desiderio. L’ironia e l’eroismo
La situazione esistenziale implicita nella Sehnsucht o nello schlegeliano “Streben nach dem Unbedingten” (tensione verso l’incondizionato, l’assoluto) si accompagna a quella tonalità psichica e a quell'atteggiamento che sono l’ironia e l’eroismo.
L’ironia consiste nella “superiore” coscienza del fatto che ogni realtà finita, e quindi ogni impresa umana, grande o piccola, risulta impàri di fronte all’infinito. Come tale, l’ironia è una conseguenza diretta del principio romantico che l’infinito può avere infinite manifestazioni, senza che nessuna gli sia veramente essenziale. L’ironia prende atto di ciò, poiché consiste nel non prendere “sul serio”, non assumere come definitive ed esaustive, le manifestazioni particolari dell’infinito in quanto queste non sono altro che provvisorie espressioni di esso.
“La filosofia è la vera patria dell’ironia, che potrebbe venir definita bellezza logica” (Schlegel)
“La filosofia scioglie ogni cosa, relativizza l’universo. Come il sistema copernicano, essa scardina i punti fissi e rende sospeso nel vuoto ciò che prima posava sul solido. Essa insegna la relatività di tutti i motivi e di tutte le qualità” (Novalis)
“[L’ironia] è la più libera di tutte le licenze perché attraverso essa ci mettiamo al di sopra di noi stessi; e nello stesso tempo la più legittima…” (Schlegel)
“L’ironia è chiara coscienza dell’agilità eterna, del caos infinitamente pieno” (Schlegel)
Se l’ironia palesa una sorta di filosofico humor, scaturente dalla coscienza dei limiti del finito in quanto tale, la figura dell’eroe romantico esprime l’atteggiamento di insoddisfazione dell’uomo per la situazione finita nella quale è inserito e la ribellione contro di essa. Nasce di qui un duplice ideale eroico: quello del ribelle solitario che, orgoglioso della sua superiorità spirituale e della sua forza, sprezzante della mediocrità, si erge a sfidare ogni autorità, ogni legge, ogni convenzione, ogni limite, per affermare la propria libertà ed individualità d’eccezione (titanismo o prometeismo); oppure la vittima, colui che proprio dalla sua superiorità è reso diverso dall’umanità comune, e per questo è incompreso ed escluso, ma non esprime il suo disdegno in gesti clamorosi di rivolta, bensì isterilisce la sua vita nei sogni, senza mai riuscire a tradurli in azione, ed esprime il rifiuto con la solitudine, la malinconia, la contemplazione angosciata della propria impotenza e della propria sconfitta, il vagheggiamento della morte, sino all’estremo gesto autodistruttivo del suicidio (vittimismo). Gli archetipi di queste due figure si possono ritrovare all’origine stessa del romanticismo letterario: il primo nel personaggio del Masnadiere di Schiller (1783) il secondo nel Werther di Goethe (1774).
Dai due atteggiamenti di base nasce tutta una serie di figure mitiche, particolarmente care al gusto romantico: il nobile fuorilegge che, spinto dalla sua sete di infinita libertà e grandezza, calpesta le leggi umane e si erge a sfidare Dio stesso, compiendo terribili delitti, e per questo è destinato ad essere gravato dal peso di un’oscura maledizione. Su questa figura viene a sovrapporsi quella del primo grande ribelle, Lucifero, il più bello degli angeli, che aveva osato sfidare Dio in un folle peccato d’orgoglio. Dietro il nobile fuorilegge romantico s’intravede perciò la figura dell’angelo caduto, avvolta spesso in un alone sinistro e satanico. Le pagine della letteratura romantica sono popolate da figure di ex-lege, irregolari, irrequieti ribelli, il cui fascino scaturisce proprio dal rifiuto, dall’insofferenza della normalità. Sul versante opposto, quello del vittimismo, si colloca la figura dell’esule, l’uomo senza radici, che un destino avverso o la malvagità degli uomini o un’inquietudine senza nome spingono a vagare senza sosta, lontano dalla patria; una variante può essere la figura dello straniero, i cui sono ignoti il luogo di provenienza e il passato (che però si intuisce tempestoso), e il cui fascino nasce dal mistero che lo avvolge. In queste figure lo scrittore romantico proietta il suo senso di estraneità e la conflittualità nei confronti della società del suo tempo fino a rappresentarsi direttamente nella figura mitica del poeta geniale, anima privilegiata, dotata di sensibilità ed intelligenza superiori, attraverso la cui bocca parla la divinità stessa ma, proprio per questo, rifiutato dalla massa del volgo.
L’anelito verso l’infinito genera anche un altro atteggiamento tipico del movimento: la tendenza all’evasione e l’amore per l’eccezionale. Infatti, i romantici mal sopportando il finito tutto ciò che è abitudinario e mediocre, aspirano a evadere dal quotidiano e a vivere esperienze fuori della norma, capaci di produrre emozioni intense e travolgenti. Da ciò la predilezione romantica per tutto ciò che è “meraviglioso”, “atipico”, “irregolare”, “lontano”, “misterioso”, “magico”, “fiabesco”, “primitivo”, notturno”, “lugubre”, “spettrale”, ecc. – ossia per tutto ciò che essendo al di là del comune può offrire sensazioni diverse e sconosciute.
2.4. L’evasione dal presente in spazi e tempi lontani
Espressione di questo desiderio di fuga e di eccezionalità è l’evasione in mondi remoti nel tempo e nello spazio, che si concretizza ad esempio nel culto dell’Ellade, nella riscoperta del Medioevo e nell’esotismo. Da Hölderlin, che dipinge “il paradiso sereno” della Grecia, a Novalis, che vagheggia il Medioevo cristiano e tedesco, da Chateaubriand, che descrive le verdi foreste dell’America, a Byron, che canta l’azzurro del Mediterraneo, da Humboldt, che va alla scoperta del misterioso popolo dei Baschi di Spagna, ai fratelli Schelegel, che studiano il sanscrito e attirano l’attenzione sulla cultura dell’India e dell’Oriente, i romanici sono andati costantemente alla ricerca di mondi “diversi” capaci di eccitare la fantasia e di garantire una fuga dal presente e all’abituale. Ma l’evasione più significativa i romantici l’hanno compiuta nei mondi del sono e dell’arte, ossia nello spazio senza limite dell’immaginazione e della rêverie. Ovviamente la dimensione del sogno può anche assumere le tinte del macabro, come accade ad esempio nel cosiddetto “Romanticismo nero”, che popola le sue fantasie di cadaveri, scheletri, ecc.
Collegata al motivo dell’evasione è anche la figura romantica del “viandante” (Wanderer), che in fondo è un’altra manifestazione della “Sehnsucht”. Differenziandosi dal “viaggiare” cosmopolitico e pratico-interessato degli illuministi, curiosi dei costumi stranieri e delle loro istituzioni politiche, l’”errare” romantico assume infatti la fisionomia di un “vagare” inquieto e morboso verso un “non so che” di irraggiungibile e inevitabilmente illusorio.
2.5. La riflessione romantica sulla religione
Nella tensione romantica verso l’infinito e il divino riveste evidentemente una grande importanza la religione. La stessa concezione di Dio cambia radicalmente rispetto al periodo illuministico. I romantici si ritengono insoddisfatti del deismo settecentesco, il quale concepiva Dio come un impersonale principio di ordine dell’universo, privo di alcuna comunione spirituale con l’uomo e, tendenzialmente, indifferente al suo culto.
Ad esso il romanticismo contrappone due diverse concezioni della divinità, che, malgrado la loro diversità, hanno in comune il fatto di rendere possibile il congiungimento spirituale dell’uomo con Dio. Per un verso, viene recuperato il tradizionale teismo, cioè la concezione di un Dio vivente e personale, del quale l’uomo è immagine adeguata e con il quale si può intrattenere un rapporto di amore. Per l’altro verso, anche in seguito alla rinascita dell’interesse per Spinoza5, la religiosità romantica trova espressione nel panteismo, cioè nella ricerca di un principio divino immanente alla natura.
Da questo punto di vista, uno dei più importanti documenti della religiosità romantica sono i Discorsi sulla religione (1799) di Schleiermacher (1768-1834) nei quali l’esperienza religiosa dell’infinito (identificato panteisticamente con l’universo) viene contrapposta sia alla conoscenza metafisica indirizzata alla verità sia all’attività morale finalizzata alla realizzazione del bene. La religione, infatti,
“non aspira a definire e a spiegare la natura dell’universo, come la metafisica, né, come la morale, vuole mediante la libertà e la divina volontà dell’uomo, svilupparlo e perfezionarlo. La sua essenza non è il pensiero né l’azione, ma l’intuizione e il sentimento. Essa vuole intuire l’universo, vuole piamente contemplarlo nelle sue manifestazioni e nelle su azioni proprie, vuole lasciarsi prendere e riempire in una passività infantile dai suoi riflussi immediati. In tal modo essa si contrappone alla metafisica e alla morale sia in ciò che costituisce la sua assenza, sia in ciò che caratterizza i suoi effetti. Quelle non vedono, in tutto l’universo, se non l’uomo come centro di ogni relazione, come condizione di ogni essere e causa di ogni divenire; essa invece vuol vedere nell’uomo, come in ogni altro essere individuale e finito, la sua impronta e la sua espressione”(Schleiermacher, Discorsi sulla religione, II).
Si riconosce nel brano l’idea della presenza dell’universo nell’uomo che, al culmine delle sue capacità di conoscere, se ne lascia invadere e possedere non temendo di ritornare bambino, conformemente al celebre monito evangelico. Un’altra idea centrale è quella della trasparenza dell’infinito nel finito, tanto che l’infinito è scoperto non solo nel cuore dell’uomo, ma in ogni cosa del mondo. C’è insomma in Schleiermacher la convinzione che il mondo è teatro di eventi che hanno per principio non tanto l’uomo, quanto l’essere, l’infinito, l’universo. Tutto ciò viene riportato da Schleiermacher a quello ch’egli chiama il “sentimento di dipendenza” che è, nelle sue parole, un “sentimento trascendentale” connaturato alla condizione stessa dell’uomo e non un sentimento contingente e passeggero. 6
2.6. La concezione organicistica della natura
La diffusione del panteismo (o, comunque, di una diversa concezione religiosa rispetto a quella teistica tradizionale) comportò anche una nuova concezione della natura, la quale non venne più intesa meccanicisticamente, come un insieme dominato da leggi necessarie che determinano causalmente la concatenazione dei fenomeni, bensì – sviluppando l’insegnamento della Critica del giudizio (1790), l’opera kantiana più amata dai romantici – come un grande organismo, in cui le parti sono finalizzate alla vita del tutto. Sull’idea che la natura sia un’infinita forza vitale che perennemente si rinnova influì anche il recupero romantico della nozione di “anima del mondo” (Weltseele) e degli autori rinascimentali che ad essa facevano riferimento (Agrippa, Paracelso, Bruno).
Ma determinanti per la definizione della natura in termini vitalistici furono soprattutto i risultati degli studi scientifici condotti nella secondo metà del XVIII secolo. Grande risonanza ebbero gli Elementi di fisiologia umana (1757-1766) di Albrecht von Haller (1708-1777), incentrati sul concetto di eccitabilità (o irritabilità) dei muscoli, intesa come capacità di contrarsi indipendentemente dai centri nervosi. Sul piano teorico, il concetto di eccitabilità era di grande portata, poiché rendeva possibile la spiegazione del movimento animale come fenomeno autonomo, indipendente da cause meccaniche estranee all’organismo stesso: in altri termini, esso presupponeva necessariamente la nozione di vita. In questo senso, ebbero una ricaduta filosoficamente positiva anche gli studi dell’inglese John Brown (1735-1788) sulle possibilità di applicazione della nozione di eccitabilità all’ambito della medicina, così come le esperienze sull’elettricità animale condotte da Luigi Galvani (1737-1798) e da Alessandro Volta (1745-1827). Altrettanto rilevanti, anche dal punto di vista filosofico, furono la scoperta della pila dello stesso Volta nel 1800, la spiegazione della combustione come processo di ossidazione (e quindi di sintesi di elementi, anziché di dissoluzione analitica) da parte di Antoine-Lorain Lavoisier (1743-1794), nonché le nuove applicazioni del magnetismo – conosciuto già da tempo – all’ambito della vita umana e delle relazioni sociali attraverso gli studi di Franz Anton Mesmer (1744-1815), il quale ritenne di poter spiegare l’attrazione tra due persone in termini analoghi a quella tra il ferro e il magnete. Tutti questi studi avevano in comune il riferimento alla nazione di polarità, cioè di tensione tra un polo positivo e un polo negativo, suggerivano pertanto l’idea che l’intera natura avesse carattere oppositivo. Il magnetismo, l’elettricità, il chimismo non sarebbero, quindi, che diverse espressioni della vita della natura, la cui legge fondamentale consisterebbe appunto nella contrapposizione polare.
Nei confronti di questa natura intesa come organismo vivente e animato, l’uomo non si concepisce più quale soggetto conoscente in relazione ad un oggetto conosciuto ma, piuttosto, come una parte rispetto alla totalità, alla quale appartiene. Alla natura non ci si può e non ci si deve approcciare solo o prevalentemente in forma cognitiva ma anche e soprattutto in forma estetica, etica e anche religiosa. In primo luogo la natura appare in qualche modo il macrocosmo omnicomprensivo rispetto al quale l’uomo è (secondo una ben nota tradizione stoica e rinascimentale) essenzialmente un microcosmo omogeneo al primo e desideroso di integrarvisi completamente. Essa è anche il paradigma esemplare della “buona” Vita alla quale tornare e ispirarsi o anche, all’opposto, la matrice del male e dell’infelicità, secondo una delle più caratteristiche ambivalenze della sensibilità romantica: la natura-madre di cui parla Goethe e la natura-matrigna poetata da Leopardi. Per alcuni romantici, infine la natura costituisce la creazione di Dio, anzi l’espressione stessa del divino - secondo il principio spinoziano Deus sive natura -, ed in questa prospettiva rileggono i testi della tradizione neoplatonica e mistica.
Fra i documenti più significativi atti ad introdurre all’atmosfera del neo-spinozismo romanticheggiante di fine secolo vi è innanzitutto un frammento che è stato ritrovato tra le carte di Goethe e intitolato La Natura e risalente al 1783:
“Natura! Da essa siamo circondati e avvinti – né ci è dato uscirne e penetrarvi più a fondo. Senza farsi pregare e senza avvertire, ci rapisce nel vortice della sua danza e si lascia andare con noi, finché siamo stanchi e le cadiamo dalle braccia. Crea eternamente nuove forme; ciò che è qui non era ancora mai stato, ciò che era non ritorna – tutto è nuova, e tuttavia sempre antico. Viviamo nel suo senso e le siamo estranei. Parla incessantemente con noi e non ci rivela il suo segreto. Costantemente operiamo su di essa e tuttavia non abbiamo alcun potere sulla natura. Sembra che abbia puntato tutto sull’individualità eppure non le importa niente degli individui. Costruisce sempre e sempre distrugge e la sua officina è inaccessibile. Vive tutta nei figli, ma la madre, dove è mai? – E’ artista unica: dalla materia più mediocre sino ai più grandi contrasti; senza parvenza di sforzo, sino alla massima perfezione – alla pi rigorosa determinatezza, sempre soffusa di una certa tenerezza. Ognuna delle sue opere ha una essenza sua propria, ognuno dei suoi fenomeni ha il concetto più isolato, eppure tutto è uno. La natura recita un dramma: non sappiamo se anch’essa lo veda e tuttavia lo recita per noi che contiamo così poco. In essa è eterna vita, divenire e moto e tuttavia non progredisce. Si trasforma eternamente e non vi è nemmeno quiete. Il soffermarsi non ha per essa alcun significato e la sua maledizione pesa sull’immobilità. E’ salda. Il suo incedere è misurato, le sue eccezioni rare, le sue leggi immutabili. Ha pensato e medita costantemente; non però come uomo, bensì come natura. Ha riservato per sé un significato proprio che tutto comprende e che nessuno è in grado di estorcerle. Gli uomini sono tutti in essa ed essa è in tutti. Con tutti la natura conduce un amichevole giuoco e si rallegra quanto più le viene vinto. Con molti il suo giuoco è così celato che ha finito la partita prima che se ne accorgano […]. Il suo spettacolo è sempre novo, perché essa crea sempre nuovi spettatori. La vita è la sua invenzione più bella e la morte è il suo artificio per avere molta vita. Essa avvolge l’uomo nell’oscurità e lo sprona eternamente verso la luce. Sulla terra lo rende sempre dipendente, ignavo e pesante e sempre di nuovo lo riscuote. Infonde bisogni perché ama il movimento. E’ un miracolo che, con così poco, ottenga tutto questo movimento. Ogni bisogno è un beneficio: rapidamente soddisfatto, rapidamente di nuovo insorge. Se ne dà uno di più, è una nuova sorgente di piacere; ma ben presto ristabilisce l’equilibrio. In ogni istante la sua mira è la più lontana e in ogni istante è alla meta. E’ la vanità in persona, ma non per noi, per i quali è la cosa più importante. Tollera che ogni bambino si diverta con lei, che ogni stolto si elevi al di sopra di lei, che migliaia di persone la sfiorino senza notare niente e in tutti ha la sua gioia e in tutti trova il suo tornaconto. Alle sue leggi si obbedisce anche quando si recalcitra; si coopera con la natura anche quando si vuole operare contro di lei. Tutto ciò che fa lo fa per il bene, infatti è proprio la natura a renderlo indispensabile. Indugia perché la si desideri; si affretta perché non se ne sia mai sazi. Non possiede linguaggio né discorso, ma crea lingue e cuori per i quali sente e parla. La sua corona è l’amore. Soltanto con l’amore ci si avvicina ad essa. Tutti gli esseri sono separati da abissi per opera della natura e tutti vogliono avvincersi. H isolato tutto per ricongiungere tutto. Con qualche sorso dalla coppa dell’amore ricompensa una vita piena di fatica. E’ tutto. Ricompensa e punisce se stessa. Rallegra e tormenta se stessa. E’ ruvida e mite, amabile e terribile, fiacca e onnipossente. Tutto è sempre presente in essa. Non conosce né passato né futuro. Il presente è la sua eternità. E’0 benevola. Ed io la esalto con tutte le su opere. E’ savia e tranquilla. Non è possibile strapparle alcuna spiegazione, non concede nessun regalo, se non volontariamente. E’ astuta ma ad un buon fine, e la cosa migliore è non notare la sua astuzia. E’ intera, eppure sempre incompiuta. Farà sempre come fa. Ad ognuno appare in una forma propria. Si nasconde in migliaia di nomi e di termini ed è sempre la stessa. Come mi ha mandato qua così mi porterà via. Ho fiducia in lei. Può fare di me quello che vuole. Non odierà la sua opera. Non ho parlato della natura. No, essa ha già detto ciò che è vero e ciò che è falso. Tutto è colpa sua, tutto è merito suo.

Questo sentimento della natura si esprime anche in una nuova concezione complessiva di essa, che accomuna filosofi, poeti, uomini di scienza ecc. e che si definisce per antitesi nei confronti di quella emersa con la Rivoluzione scientifica e teorizzata dall'Illuminismo, soprattutto dal materialismo francese. Tant'è vero che lo stesso Goethe, ricordando da anziano, nel 1811, la lettura giovanile del capolavoro del materialismo illuminista, il Système de la Nature di D'Holbach, esprime un giudizio rivelatore di tutto un mondo culturale:
«Come ne restai deluso! Quanto mi parve vuoto e triste quel crepuscolo ateo, nel quale scomparivano la terra con tutti i suoi esseri e il cielo con le sue stelle luminose! Se un danno mi produsse quel libro, fu di rendermi odiosa la filosofia e soprattutto la metafisica, e di spingermi con nuova e più grande passione verso la scienza sperimentale, verso la vita e la poesia che sgorga dal cuore».
Reagendo alla disantropomorfizzazione e alla despiritualizzazione del cosmo effettuate dalla moderna scienza della natura, i romantici ritengono che 1a natura e l'uomo posseggano una medesima struttura spirituale, 1a qua1e autorizza un'interpretazione psicologica dei fenomeni fisici ed un’interpretazione fisica dei fenomeni psichici. Infatti, posta la stretta unità uomo-natura, ciò che risulta vero dell'uno deve esserlo anche dell'a1tra, e viceversa. Anzi, vedendo nell'uomo «l'esemplare sintetico» e «il compendio vivente del Tutto», in cui «dorme l'intera storia del mondo», si pensa che conoscere equivalga a discendere in noi stessi, per trovarvi, secondo il principio dell' analogia, 1a chiave di spiegazione dei fenomeni 7. Come scrive Schiller:
«Tutto ciò che è in me e fuori di me è soltanto il geroglifico dì una forza che mi è affine. Le leggi della natura sono i segni cifrati che l'Essere pensante ha combinato allo scopo dì rendersi comprensibile all'essere pensante. Se vuoi convincertene, cerca all'indietro. A ogni stato dell'anima umana corrisponde una qualche immagine nella creazione fisica, immagine con cui esso viene designato; e ad attingere da questo ben fornito deposito sono stati anche i pensatori più astratti, non soltanto gli artisti e i poeti. Un'attività piena di animazione viene da noi detta fuoco; il tempo è una corrente che trascina con se; l'eternità è un circolo; un segreto si nasconde nel buio di mezzanotte, e la verità ha sede nel sole. Anzi, io comincio a credere che perfino il destino futuro dello spirito umano sia preannunciato nell'oscuro oracolo della creazione corporea. L'avvento di ogni primavera, che fa uscire dal grembo della terra i germogli delle piante, mi dà elementi per interpretare quell'imbarazzante enigma che è la morte, e confuta l'incubo angoscioso che è per me il sonno eterno. La rondine che d'inverno troviamo intirizzita, e che in marzo vediamo rianimarsi, il morto bruco che, rinato, torna a levarsi nell'aria come farfalla, ci offrono una pertinente allegoria della nostra immortalità...» (Schiller, Lettere filosofiche).
2.7. L’estetica romantica
Tra le attività umane che il romanticismo privilegia occupa un posto di primo piano l’arte. La rivalutazione della soggettività e dell’individualità dell’uomo conducono, infatti, a riconoscere un valore assoluto al genio creativo, che sta a fondamento di ogni produzione artistica. In realtà il tema del genio era stato già trattato dall’estetica del Settecento, soprattutto inglese e francese, e ripreso nella Critica del giudizio di Kant: ma in quelle interpretazioni il genio era sempre sottoposto alle regole del gusto (non importa poi se tali norme fossero di natura psicologico-associazionistica, razionalistica o, come nel caso di Kant, risultassero dall’equilibrio di facoltà diverse). Il genio artistico dei romantici è, invece, assolutamente originale, cioè scaturisce immediatamente dalla peculiare soggettività dell’artista, che non obbedisce se non alle regole che egli stesso crea. Se il Settecento aveva instaurato una stretta connessione tra genio e gusto, cioè tra creatività artistica soggettiva e criterio oggettivo del bello, il romanticismo emancipa completamente il primo dal secondo. Inoltre il genio romantico è assolutamente naturale, cioè non è in nessun modo il risultato di una riflessione o di una costruzione razionale dell’uomo, ma scaturisce dalla forza stessa ella natura, di cui l’artista si fa interprete e portavoce. L’originalità e la naturalità del genio gli consentono, infatti, di esprimere in maniera del tutto immediata quel contenuto infinito che è l’essenza della realtà e che trova la sua manifestazione sensibile nelle forze della natura: l’arte diventa, quindi, il primario strumento attraverso cui l’uomo può cogliere l’infinito e il divino, al di là di tutti gli artifici della ragione e della società che ne appannano la primigenia purezza.
Questo concetto dell'arte come intuizione capace di attingere le profondità originarie della vita e di possedere l'Infinito, trova la sua più nota concettualizzazione in Schelling, che in essa individua l'organo tramite cui avviene la rivelazione dell' Assoluto a se medesimo. Schelling vede nel genio un soggetto libero e cosciente, che agisce in forza di un pieno dominio delle tecniche espressive (e questa è l’arte), ma che è mosso altresì da una potenza necessaria e inconsapevole che lo spinge a creare in virtù di un’ispirazione che ne trascende l’intenzionalità (e questa è la poesia). Egli è l’uomo più nobile, in quanto la sua attività artistica unifica la produttività necessaria e inconscia della natura e quella libera e consapevole dello spirito. Soprattutto nel genio, pertanto, vive e opera l’assoluta identità di natura e spirito e la filosofia vede nell’arte l’ organo dell’Assoluto, la suprema forma di conoscenza intuitiva e non discorsiva dell’Assoluto:
“Appunto perciò l’arte è per il filosofo quanto vi è di più alto, perché essa gli apre quasi il santuario, dove in eterna e originaria unione arde, come in una fiamma, quello che nella natura e nella storia [nello spirito] è separato, e quello che nella vita e nell’azione, come nel pensiero, deve fuggire sé eternamente. La veduta, che artificiosamente si fa della natura il filosofo, è per l’arte la [veduta] originaria e naturale. Ciò che noi chiamiamo natura è un poema, chiuso in caratteri misteriosi e mirabili” (Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, 1800).
Identica concezione rinveniamo in Schopenhauer che scrive:
“Quale sarà dunque la specie di conoscenza in cui sia contemplato la vera essenza del mondo, nel suo sussistere al di fuori e indipendentemente da ogni relazione, la vera sostanza dei suoi fenomeni, ovvero ciò che non è soggetto a cambiamento, e che viene perciò conosciuto come una verità che rimane identica in ogni tempo; quale sarà, in una parola, la specie i conoscenza in cui siano contemplate le idee, che sono l’oggettità immediata e adeguata della cosa in sé, della volontà? Questa special conoscenza è l’arte, l’opera del genio. L’arte concepisce con la pura contemplazione, e riproduce poi, le idee eterne, cioè tutto quello che vi è di essenziale e di permanente in tutti i fenomeni del mondo; a seconda poi della materia che impiega per questa riproduzione, prende il nome di arte figurativa (o plastica), di poesia o di musica. La sua origine unica è la conoscenza delle idee; il suo unico fine, la comunicazione di tale conoscenza. La scienza, obbedendo alla corrente sempre incalzante delle cause e degli effetti nelle loro quattro forme, ad ogni risultato raggiunto si trova sospinta sempre più avanti; non conosce un termine ultimo che le conceda piena soddisfazione (tanto varrebbe voler raggiungere, correndo, il punto in cui le nuvole toccano l’orizzonte). L’arte, al contrario, ha dappertutto il suo termine: strappa dalla corrente, che trascina le cose del mondo, l’oggetto della sua contemplazione, ponendolo isolato dinanzi a sé” (Il mondo come volontà e rappresentazione, III, § 36)
In molti autori il privilegiamento dell'arte comporta anche una preminenza del modello estetico, nell’interpretazione della realtà, che infatti viene interpretata alla luce delle note qualificanti dell’attività artistica: creatività, libertà, organicità, consapevolezza-inconsapevolezza ecc. Per cui, quando Schelling arriva a dire che l'universo è nient’altro che un’immensa opera d'arte generata da quel «poeta cosmico» che è l'Assoluto (di cui il poeta umano è il riflesso), non fa che portare alla sua massima espressione metafisica un pensiero che circola sin dall'inizio fra i romantici, i quali scoprono nell'arte gli attributi stessi di Dio: l'infinità e la creatività.
Ripudiato il principio di «imitazione» e le regole classicistiche, l'estetica romantica si configura, infatti, nel modo più esplicito ed impegnato, come un'estetica della creazione, poiché mentre all'uomo morale si riconosce ancora la necessità di un limite, di un ostacolo, al poeta è attribuita una libertà sconfinata e all’arte una spontaneità assoluta, che ne fa un'attività in perenne «divenire», ossia dotata di inesauribile dinamicità creativa. Come scrive Friedrich Schlegel, «la poesia romantica è ancora in divenire... essa sola è infinita, come essa sola è libera, e riconosce come sua legge prima questa: che l'arbitrio del poeta non soffre legge alcuna».
Questo primato dell'arte creativa implica anche un primato del linguaggio poetico e musicale, visto come «parola magica» in cui si concretizza l’essenza stessa dell'arte. Per quanto concerne la musica, fra i primi a celebrarne i «miracoli» troviamo Wackenroder (1773-1798) che scrive:
«La musica mi appare come l'araba fenice, che, leggera e ardita, s'innalza a volo... e con lo slancio delle ali rallegra gli dei e gli uomini... ora l'arte dei suoni è per me proprio come il simbolo della nostra vita: una commovente breve gioia, che s'alza e s'inabissa, non si sa perché; un'isola piccola, lieta, verde, con splendore di sole, con canti e suoni... ».
E nei romantici successivi la musica diviene la «regina delle arti» anzi l'arte romantica per eccellenza, poiché sprofondando l'ascoltatore in un flusso indeterminato di emozioni e di immagini gli fa vivere l'esperienza stessa dell'infinito. Scrive E.T.A.Hoffmann : «La musica è la più romantica di tutte le arti, il suo tema è l'infinito, essa è il misterioso sanscrito della natura espresso in suoni, che riempie di infinito desiderio il petto dell'uomo, il quale solo in essa intende il sublime canto degli alberi, dei fiori, degli animali, delle pietre, delle acque! ». «La musica è la più romantica di tutte le arti, si potrebbe quasi dire che essa sola è romantica, poiché solo l'infinito è il suo tema» «La musica di Beethoven... risveglia quel desiderio infinito che è l'essenza del romanticismo». Anche in Leopardi, grazie alla musica, «per mar delizioso, arcano erra lo spirito umano» (Sopra il ritratto di una bella donna, vv. 43-44, Canti).
Ma il filosofo che più di ogni altro ha teorizzato l’importanza della musica – ossia della creazione artistica capace di esprimere la stessa essenza del mondo, la Volontà di vivere – è Schopenhauer che, nel Mondo come volontà e rappresentazione, afferma che è la musica l’espressione artistica che meglio riflette la sinuosa complessità del mondo: “l’inesauribile ricchezza di possibili melodie corrisponde all’inesauribile ricchezza della varietà di individui, fisionomie e carriere vitali della natura”.
Strumento privilegiato di conoscenza, organo dell'infinito, modello di ogni realtà ed esperienza, libera creatività, parola magica, per questo filone del Romanticismo (rappresentato sostanzialmente dal circolo di Jena, da Schelling e da Schopenhauer) l'arte è anche un modo per ergersi sopra la caoticità e dolorosità del mondo. Come scrive Wackenroder:
«Oh, questo interminabile monotono giro di migliaia di giorni e di notti... tutta la vita dell'uomo, tutta la vita dell'intero universo, non è altro che un interminabile giuoco di scacchi sui due campi: bianco e nero; giuoco nel quale nessuno vince se non l'infausta morte... tutto questo potrebbe in certe ore far perdere la testa! E invece ci si deve sostenere con braccia coraggiose in mezzo al caos delle rovine, nel quale la nostra vita è sminuzzata, e attaccarci fortemente all'arte, alla grande, alla duratura arte, che, al di sopra di ogni caos, attinge l'eternità l'arte che dal cielo ci porge Una mano luminosa, così che noi stiamo sospesi in ardita posizione, sopra un abisso deserto, fra cielo e terra» (Fantasie sull'arte) .
Rispetto alla dolorosità del vivere quotidiano l’arte ci solleva ad una più alta e rasserenata sfera di contemplazione della verità che distingue il genio creatore o fruitore d’arte dalla massa degli uomini volgari che nella quotidianità vivono soddisfatti. Scrive Schopenhauer,
“il presente non appaga gli uomini di genio se non di rado, poiché non riempie la loro coscienza; donde quella tensione senza tregua, quel bisogno incessante di cercare oggetti nuovi e più degni di considerazione; di qui anche il desiderio, quasi mai soddisfatto, di trovare esseri che assomigliano loro, che siano alla loro altezza, e che possano comprenderli; mentre, al contrario, l’uomo comune, tutto pieno e soddisfatto del comune presente, vi si assorbe completamente e, vivendo in una famiglia di tipi dell’identico stampo, prova, nella pedestre vita i ogni giorno, quella speciale sensazione di benessere che al genio è del tutto negata” (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III, § 36)
E Schelling:
“Dalla realtà comune vi sono solo due vie di uscita: la POESIA che ci trasporta in un mondo ideale e la FILOSOFIA che fa sparire totalmente, al nostro sguardo, il mondo reale. E non si vede perché dovrebbe essere più generalmente diffuso il senso per la filosofia anziché quello per la poesia – specialmente in quella classe di uomini, i quali, sia col lavoro mnemonico (nulla è più capace di uccidere immediatamente la creatività) sia con la morta speculazione (che annienta ogni forma immaginativa) hanno completamente perduto l’organo estetico” (Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, Introduzione § 4)
2.8. La concezione romantica della storia
Un altro aspetto rivalutato dal romanticismo è la storia. Anche in questo caso occorre osservare che la storia, trascurata dalla cultura seicentesca a causa della sua condanna da parte di Cartesio (a parte il caso specifico di Vico e della sua “scienza nuova”), era rinata a nuova dignità nel Settecento, sia attraverso eccellenti ricostruzioni storiografiche, sia mediante l’elaborazione di una vera e propria filosofia della storia. L’illuminismo, tuttavia, aveva ricondotto l’intero corso storico sotto la categoria generale del progresso razionale, finalizzando così l’interpretazione delle epoche passate alla celebrazione del presente, nel quale culmina lo sviluppo della ragione e l’avanzamento delle arti e delle scienze. In questa lettura razionalistica della storia, la tradizione, intesa come semplice trasmissione acritica di contenuti, appariva una falsa autorità da cui occorreva liberare il genere umano. Il romanticismo, viceversa, interpreta la storia come un processo organico e naturale, in cui l’individualità si esprime non tanto (o non solo) nei contributi delle singole persone, quanto (e soprattutto) nell’emergere di individualità collettive, o popoli, che sviluppano progressivamente le loro peculiarità e, così facendo, rivelano almeno un aspetto dell’infinito contenuto della realtà.
In questa prospettiva, la tradizione perde ogni connotazione negativa, per diventare, invece, lo strumento essenziale attraverso cui si attua la continuità temporale delle epoche e dei popoli. Da un lato, infatti, la storia appare nel suo insieme come un unico processo di crescita dell’umanità, per cui nessuna delle epoche passate appare inutile o retrograda, ma tutte costituiscono gli anelli di una sola catena: di qui la rivalutazione del Medioevo, nel quale i romantici ritrovano valori – come la semplicità, la concorde unità, la naturalezza, la religiosità spontanea – ben superiori agli aridi razionalismi settecenteschi. Dall’altro lato, la tradizione è una condizione essenziale per la formazione della nazionalità, cioè di quell’insieme di fattori – linguaggio, religione, diritto, cultura, usi e costumi – che costituiscono la peculiarità specifica di un popolo e che prendono forma soltanto con il passare del tempo.
Una delle ragioni della profonda sensibilità dei romantici nei confronti della dimensione storica è stata certamente l’esperienza dei grandiosi eventi verificatisi in anni ancora recentissimi: la Rivoluzione americana prima e, in modo infinitamente più radicale, quella francese poi, ha diffuso una nuova consapevolezza della non-eternità delle istituzioni e dei valori umani, ed anche (su un piano più generale) dell’esistenza e della centralità di una forza – la forza del divenire – che tutto trasforma e modifica. Tale consapevolezza dovette risultare ancora più forte e lucida in quanto era perfettamente omogenea con la concezione energetica della realtà cui si è già accennato sopra: da questo punto di vista la storia è per l’uomo una delle manifestazioni più tangibili e coinvolgenti del dinamismo che anima tutto il reale.
La forza promotrice di tale divenire, il “motore” della storia, secondo gli illuministi erano fattori per lo più irrazionali e proprio per questo la storia appare così spesso il teatro di vicende barbare e assurde. La fede illuminista nel progresso non si fondava tanto sulla credenza in un principio assoluto quanto sull’impegno pratico degli uomini, protesi a far trionfare il lume della ragione sull’oscurità delle superstizioni e dell’ignoranza. In tal senso, il progresso storico non è assolutamente garantito e necessario ma solo possibile e non dipende da alcuna forza metafisica superiore ma unicamente dallo sforzo umano il quale, evidentemente, può sempre venir meno e disperdersi. Per i romantici, invece, la forza che anima il divenire storico è una forza razionale-provvidenziale che organizza e orienta le vicende umane, conduce gli uomini (quasi sempre a loro insaputa) lungo un ben determinato itinerario, regola insomma la storia secondo una prospettiva di tipo telelogico (dal greco telos = fine, scopo). Ciò che per gli illuministi era al massimo un’ipotesi di lavoro filosofico (si può attribuire un senso e un ritmo alla storia?) e di impegno pratico (è possibile guidare la storia facendovi trionfare i lumi?), diviene adesso una certezza ontologica: la storia ha un senso che si viene realizzando e manifestando indipendentemente dallo stesso impegno umano.
2.9. La riflessione sulla politica
Le analisi storico politiche degli illuministi si erano incentrate sulla realtà dello Stato. Ma la politica romantica considera con sospetto uno Stato inteso, illuministicamente, come semplice apparato istituzionale e amministrativo: nello Stato, piuttosto, si deve riflettere il carattere organico della nazione e, indirettamente, della realtà e della storia. Lo Stato non è quindi una macchina burocratica, nella quale si rispecchi lo stesso meccanicismo che il Settecento attribuiva alla natura: al contrario, è un organismo vivente, in cui tutti i cittadini, lungi dall’essersi associati con un arbitrario patto sociale, non sono che gli organi di un corpo sociale la cui unità è storica e metafisica, prima che politica.
Questa trasformazione è, per esempio, chiaramente riscontrabile nella riflessione sullo stato di Fichte, nella quale si possono distinguere tre momenti. Nella prima fase, contrassegnata dagli scritti sulla rivoluzione francese e dai primi interventi (1793-94), lo stato è definito esclusivamente in termini di aggregazione, secondo il modello giusnaturalistico e contrattualistico. Il secondo periodo, scandito dalla Fondazione del diritto naturale (1796-7), rappresenta un momento di transizione che vede affiancate l’introduzione di istanze organicistiche e la persistenza di temi individualistici. La terza fase, infine, dal 1800 alla morte nel 1814, vede la convergenza dei concetti di stato e nazione e culmina nei Discorsi alla nazione tedesca del 1807-1808. Nella Fondazione del diritto naturale, Fichte fonda la validità del contratto sociale (concetto ancora utilizzato nell’opera) su un pactum unionis contratto da ciascun individuo con l’intero corpo sociale e per mezzo del quale nasce una totalità reale alla quale è immanente il concetto stesso di unità. Scrive Fichte a questo proposito:
“L’immagine più adatta a chiarire questo concetto è quella di un prodotto naturale organico…In un prodotto naturale ogni parte può essere ciò che è soltanto all’interno della sua connessione con il tutto…Al di fuori di una connessione organica esso non sarebbe assolutamente nulla, in quanto senza l’azione reciproca di forze organiche che si mantengono in vicendevole equilibrio non si avrebbe alcuna forza costante, ma un eterno conflitto di essere e non essere, che non riusciamo nemmeno a pensare. Allo stesso modo soltanto all’interno del tessuto dello stato l’uomo acquista un posto determinato nell’ordine delle cose, un punto fermo nella natura; e ciascuno ottiene questo determinato poso in rapporto agli altri e all natura in quanto si colloca all’interno di questo tessuto” (Fichte, Fondazione del diritto naturale, 1796-7, III).
2.10. La visione romantica dell’amore
L’amore costituisce un altro dei temi prediletti del Romanticismo tedesco, su cui si sono soffermati poeti e filosofi da F.Schlegel a Fichte, da Hölderlin a Scheleiermacher, da Novalis a Hegel. L’esaltazione romantica dell’amore discende soprattutto dal privilegiamento del sentimento e dalla ricerca dell’evasione dal grigiore e del quotidiano. Infatti, l’amore appare ai romantici come il sentimento più forte e come l’estasi suprema, ovvero come il senso stesso della vita.
“Vita e amore significano la stessa cosa…C’è tutto nell’amore: amicizia, cordialità, sensualità e anche passione…e l’un elemento lenisce e rinforza, anima ed accresce l’altro, viviamo ed amiamo fino all’annientamento. Soltanto l’amore ci rende uomini veri e perfetti, esso solo è la vita della vita…” (Schlegel)
“La vera vita è amore: come amore ha e possiede le cose che ama, l’abbraccia, la penetra, è unita e fusa in essa” (Fichte)
“Per noi, o Amore, tu sei l’alfa e l’omega” (Schleiermacher)
“L’amore è lo scopo finale della storia del mondo, l’amen dell’universo” (Novalis).
L’amore viene concepito come passione travolgente, liberato da legami e convenzioni sociali, e legato spesso all’idea dell’emancipazione femminile. Questo motivo ricorre già nei romanzi di Wilhelm Heinse Laidion ovvero i misteri eleusini (1771) e Ardinghello, ovvero le isole felici (1787). Ma è soprattutto il giovane F. Schlegel a celebrare la funzione positiva dell’amore e a rivendicare 1’emancipazione della donna: dapprima nel saggio Su Diotima (1795), nel quale espone la propria teoria dell’eros, eleggendo la figura femminile del Simposio platonico a modello della nuova donna che si profonde nella passione cercandovi la propria realizzazione, e quindi nel romanzo Lucinde (1799), il cui modello ispiratore, non più platonico, era Dorothea Mendelssohn, la figlia del filosofo. Il discorso di Schlegel suscitò scandalo, ma che esso corrispondesse ormai allo spirito dei tempi lo mostra il fatto che trovò pure autorevoli difese, come quella del teologo e filosofo Schleiermacher, che ne prese le parti nelle sue Lettere confidenziali sulla Lucinde di F. Schlegel (1800).
La prima caratteristica dell’amore romanticamente inteso è la globalità, ovvero la ricerca di una sintesi fra anima e corpo, spirito e istinto, sentimento e sensualità. Nella passione amorosa il congiungimento e la fusione dei corpi è simbolo del congiungimento e della fusione delle anime degli amanti. Infatti, nella Lucinde, Schlegel afferma l’unità inscindibile dei due elementi dell’amore uomo-donna, contrapponendo all’idea neoplatonico-cristiana della sessualità come segnata dalla “vergogna” e dal “peccato”, l’idea greca della sessualità come innocenza e gioco naturale. Al tempo stesso, Schlegel vagheggiava l’idea di una donna che abbandonati falsi pudori ed emancipata dal paradigma matrimoniale tradizionale (che il poeta J.J.W.Heinse sosteneva dover essere lasciato solo ad un’umanità inferiore), sappia personificare, come la greca Diotima, esaltata
dal Simposio platonico, il modello di una donna nuova e superiore, capace di amare con la pienezza del proprio essere, senza altri freni alla passione all’infuori della sua “fedeltà interiore”. Tant’è che Giulio, rivolgendosi a Lucinde, le dice: “Attraverso tutti gli scalini dell’umanità tu vai con me dalla sensualità più sfrenata alla più spirituale spiritualità, e solo in te io vidi vera superbia e vera umiltà femminile”. Ovviamente, a questo tipo di donna vengono riconosciuti pari dignità e diritti con l’uomo, nella vita come nella cultura e, in questo senso, il Romanticismo rappresenta una tappa ulteriore nella storia dell’emancipazione femminile. A impersonare in maniera spregiudicata il nuovo corso stanno eminenti figure femminili del romanticismo tedesco, quali Dorothea Mendelssohn Veit (che si separò dal primo marito per sposare F. Schlegel), Caroline Michaelis (vedova del medico Böhmer, poi moglie di A.W. Schlegel e dal 1803 di Schelling, soprannominata «la signora Lucifero»), Bettina Brentano (sorella di Clemens Brentano, ammiratrice di Goethe, moglie di Achim von Arnim), Caroline von Gunderrode (amata da G.F. Creuzer), Rahel Varnhagen von Ense.
La seconda caratteristica dell’amore romantico risiede nella ricerca dell’unità assoluta degli amanti, ossia nella completa fusione delle anime e dei corpi, in modo tale che “ciò che è due possa diventare uno”. Presente nei poeti e negli artisti in generale, quest’aspetto della idealizzazione romantica dell’amore è stato espresso da Hegel con le formule più rigorose e significative. Negli scritti giovanili, ad esempio, il vero amore viene identificato con la “vera unificazione”, che supera ogni molteplicità ed antitesi, armonizzando il diverso e l’opposto. E nelle opere della maturità, per es. nelle Lezioni di Estetica, Hegel scrive:
“L’amore è identificazione del soggetto con un’altra persona”, è “il sentimento per cui due esseri non esistono che in un’unità perfetta e pongono in questa identità tutta la loro anima e il mondo intero”; “questa rinuncia a se stesso per identificarsi con un altro, quest’abbandono nel quale il soggetto ritrova tuttavia la pienezza del suo essere costituisce il carattere infinito dell’amore”
La terza caratteristica dell’amore romantico è la sua tendenza a caricarsi di significati simbolici e metafisici. Infatti, i romanici pensano che l’amore, pur rivolgendosi a cose e a creature finite, scorga in esse manifestazioni o cifre dell’Assoluto, sia inteso panteisticamente nella forma dell’Uno-Tutto, sia interpretato trascendentisticamente nella forma di un Dio creatore. Nell’amplesso degli innamorati, espressione del misterioso fondersi di due creauture diverse, essi vedono il mistero stesso della vita e il simbolo dell’universale Armonia, ovvero della congiunzione uomo-natura, finito-infinito, ecc. Il maggior teorico di questa concezione è Schleiermacher che difendendo F.Schlegl dai fulmini del clero protestante, a motivo delle tesi “audaci” sostenute nella Lucinde, così scrive:
“Nell’anima degli amanti dev’esservi la divinità, che essi nel loro amplesso realmente sentono di stringere tra le loro braccia e che poi sempre invocano. Nell’amore non ammetto nessuna voluttà senza questo entusiasmo e senza l’elemento mistico che ne deriva”
Tutto ciò significa che, nell’amore, l’Assoluto, più che cercato è, almeno in parte, già trovato e posseduto. Tant’è che Giacinto, il protagonista della novella i Discepoli di Sais (1798-99), di Novalis, partito alla ricerca della misteriosa divinità Isis, l’intima essenza della natura, finisce per trovare, sotto il velo della dea, Fiorellin di rosa, cioè la fanciulla amata, che egli aveva lasciato per muovere alla ricerca della dea sconosciuta. La natura ci è dunque vicina, è noi stessi, basta saperla vedere e ad essa riunirsi nell’amore. E Fichte, nella Introduzione alla vita beata (1806), rifacendosi al Cristianesimo afferma: “Non è un’audace metafora, ma la pura verità quel che dice lo stesso Giovanni: ‘Chi rimane nell’amore, rimane in Dio, e Dio rimane in lui’”.
3. La preparazione del romanticismo: lo “Sturm und Drang” (1770-1780).
Nella formazione della temperie culturale dalla quale scaturirà il romanticismo è determinante il movimento, prevalentemente letterario, dello “Sturm und Drang” (“tempesta e impeto”), la cui breve stagione fiorì in Germania nel decennio tra il 1770 e il 1780. La denominazione di “Sturm und Drang” – introdotta assai più tardi, nelle lezioni tenute da August Wilhelm Schlegel tra il 1801 e il 1804, trae origine dal titolo di un dramma, peraltro di scarso valore letterario, di Friedrich Maximilian Klinger (1752-1831), che fu uno degli aderenti del movimento. Oltre a Klinger, ne furono esponenti il drammaturgo Jacob Michael Reinhold Lenz (1751-1792), Friedrich Műller (1749-1825), Johann Anton Leisewitz (1752-1806) e altri letterati meno noti. Rientrano nello “Sturm” anche le opere giovanili di Wolfang Goethe (1749-1832), come i drammi Goetz von Berlichingen (1773) e Prometeo (1771-75), la prima redazione del Faust (il cosiddetto Urfaust o “Faust primitivo” del 1773-75) e il romanzo I dolori del giovane Werther (1774), nonché le prime tragedie di Friedrich Schiller (1759-1805), soprattutto I Masnadieri (1783). Alla corrente sturmeriana appartiene anche la prima fase dell’attività di Johann Gottfried Herder (1744-1803). Lo “Sturm und Drang” è stato solitamente interpretato come la prima reazione organizzata all’illuminismo e alla “filosofia popolare”, la quale dal 1740 al 1780, aveva diffuso tra le classi medie tedesche il verbo del razionalismo filosofico. Recentemente, tuttavia, gli studiosi si sono orientati verso un’interpretazione del movimento sturmeriano che vede in esso più una manifestazione estrema dello stesso illuminismo che un suo superamento, in quanto negli “Sturmer” esplodono finalmente quegli elementi di protesta e di critica sociale e culturale che avevano caratterizzato l’illuminismo francese e che erano, invece, rimasti pressoché assenti da quello tedesco. E’ tuttavia un dato di fatto che lo “Sturm und Drang” si opponga all’illuminismo per il suo radicale antirazionalismo e il suo rifiuto del discorso argomentativo come strumento di ricerca e di comunicazione del sapere. Esso costituisce, piuttosto, una forma di “scapigliatura” giovanile contro gusti “filistei”(cioè borghesi) dell’epoca: non a caso i suoi maggiori esponenti – Goethe, Schiller ed Herder – in età più matura si allontaneranno dal movimento.
I temi più cari agli “Stűrmer” sono analoghi a quelli del successivo romanticismo, dei quali rappresentano insieme una anticipazione e una esasperazione. La rivalutazione dell’individuo si esprime nella forma del titanismo. L’uomo è concepito come una forza naturale infinita, dotata di forti passioni, smisurati desideri e, soprattutto, di una sublime genialità. Nasce così la figura dell’eroe che, disprezzando ogni convenzione sociale e ogni senso razionale della misura, abbatte tutti i limiti e si rivela “più che uomo”, Űbermensch.8
Uno dei temi più ricorrenti del movimento è quello della natura, intesa come forza creatrice incoercibile, come vita infinita che pervade l’intero universo, ma anche come fonte originaria di purezza integrità alla quale attingere e “ritornare”. Nella determinazione di questo concetto di natura influì grandemente la lettura di Rousseau, interpretato – anche più di quanto i testi del ginevrino non consentissero – come fautore di un radicale “ritorno alla natura”. Altrettanto importante fu inoltre l’assunzione di modelli letterari come Shakespeare, sentito come uno scrittore la cui naturalità prorompente abbatteva qualsiasi schema di scuola; i poemi di Ossian, che alcuni “Stűrmer” credevano realmente esistito, e più in generale tutta la letteratura popolare o “primitiva”. Alla concezione della natura come forza primigenia è connessa la rivalutazione del genio inteso, anch’esso, come mera espressione di naturalità al di là di ogni convenzione e di ogni regola formale. Nello stesso tempo, l’attribuzione alla natura di una potenza ed una creatività infinita implica anche il riconoscimento del suo carattere divino: gli esponenti dello Sturm und Drang” sono generalmente sostenitori di un esuberante panteismo, nel quale la celebrazione della forza della natura, dell’originalità del gesto e della titanica potenza dell’uomo fanno tutt’uno con la venerazione di un Dio immanente al mondo.
4.Il classicismo di Goethe e Schiller.
Si è detto che lo “Sturm und Drang” fu un fenomeno egffimero, espressione più della giovane età dei suoi maggiori rappresentanti che di una radicata tendenza culturale. A partire agli anni Ottanta del Settecento, Herder maturò una più compassata concezione della storia, mentre Goethe e Schiller si avviarono, prima individualmente poi congiuntamente, verso un’esperienza filosofico-letteraria che, in opposizione agli eccessi degli “Stűrmer”, assumeva come modello l’antichità classica, con il suo senso dell’armonia e delle proporzioni.
I valori della cultura greca erano già stati al centro degli studi di Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), con le Considerazioni sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura (1754), la Storia dell’arte nell’antichità (1764) e le Considerazioni sulla storia dell’arte (1767). Per Winckelmann, l’arte greca realizza il bello assoluto, in quanto riesce a idealizzare il proprio oggetto, privandolo delle sue connotazioni particolari e realistiche e facendone un’espressione dell’universale. La statua greca non rappresenta un singolo individuo, ma il concetto stesso dell’umanità nella sua perfezione: la misura, l’equilibrio, la proporzione fra le membra sono un indizio fisico dell’armonia spirituale che deve regnare nell’uomo. In Winckelmann, tuttavia, la grecità rappresenta un passato che dev’essere contemplato e imitato come una perfezione insuperabile, ma che non può più ritornare. Goethe e Schiller, viceversa, ritengono che lo spirito della classicità possa essere rivissuto dal poeta e dall’artista, come un valore e uno stile di vita che appartengono all’essenza stessa dell’uomo.
Il classicismo tedesco è legato all’ambiente culturale sviluppatosi attorno alla piccola corte di Weimar, dove nel 1775, il diciottenne duca Karl August aveva chiamato il ventiseienne ma già celebre Johann Wolfang Goethe (1749-1832) in qualità di educatore. Nel 1776 giunse a Weimar anche Herder (il quale, tuttavia, non aderì al classicismo) e nel 1787 Schiller (1759-1805). Inizialmente i rapporti tra Goethe e Schiller non furono privi di ombre, ma nel 1794, dopo una lunga discussione in casa, che servì a dissipare i malintesi, nacque fra i due una profonda amicizia, interrotta soltanto dalla morte di Schiller nel 1805. Il classicismo tedesco in senso stretto viene generalmente fatto coincidere con questo periodo, che vede un’intensa collaborazione tra i due poeti, sancita perfino da opere letterarie comuni (come le Xenien).
Ma occorre non dimenticare che ciascuno di essi si era avviato sulla strada del classicismo autonomamente e precedentemente al ’94: l’opera di Goethe che meglio rappresenta questo atteggiamento culturale, l’Ifigenia in Tauride, fu messa in versi durante il viaggio in Italia del 1786-88. A sua volta, l’inno Gli dei della Grecia di Schiller, il primo grande manifesto poetico del neoclassicismo romantico, ebbe la sua prima stesura nel 1788 (anche se venne rielaborato fino alla stesura definitiva del 1803).
Sul piano filosofico, l’aspetto più rilevante del pensiero di Goethe è la sua filosofia della natura, esposta soprattutto nel Tentativo di spiegare la metamorfosi delle piante (1790) e nella Teoria dei colori (1810). Alla base della concezione goethiana della natura vi è un fondamentale panteismo, che egli deriva dalla lettura di Plotino, di Bruno e di Spinoza, a favore del quale si esprime, come si è visto in precedenza, intervenendo nella “disputa sul panteismo”. La natura è per Goethe, una “natura vivente” (lebendige Natur), inizialmente considerata secondo i parametri dello “Sturm und Drang”, come un’inesauribile forza primigenia, dalle mille trasformazioni e dai mille volti, compresi quello umano e quello divino (cfr. il testo del 1783 citato sopra nel § 2.6. La concezione organicistica della natura). Successivamente, questa visione letteraria si trasforma in una concezione più scientifica, che considera la natura come la sede dell’evoluzione, per complicazione successiva, di un unico “fenomeno originario” (Urphänomenon). Nel suo viaggio in Italia del 1786-88, a Palermo, Goethe credette di aver scoperto la forma della pianta originaria (Urplanz): uno stelo dal quale si dipartono i rami e le foglie. La stessa struttura si ritrova anche nella costituzione fisica dell’uomo, come colonna vertebrale da cui si diramano gli arti. L’intenzione di Goethe è quella di costruire una morfologia della natura, cioè uno studio qualitativo delle “forme” naturali: la sua indagine della natura diverge quindi nettamente dalla metodologia della scienza moderna newtoniana, fondata sulla riconduzione dei fenomeni a elementi quantitativo, misurabili matematicamente attraverso procedure sperimentali oggettive.
L’ostilità di Goethe verso la fisica newtoniana, improntata al meccanicismo causale, si ritrova anche nella sua teoria dei colori. Servendosi di un prisma di cristallo, Newton aveva scoperto che la luce biana può essere scomposta in raggi ai cui differenti indici di rifrazione corrispondono, nella percezione oggettiva, i diversi colori. Goethe, viceversa, sostiene che la luce è un fenomeno semplice e i colori derivano dalla contrapposizione polare tra chiaro e scuro, cioè tra bianco e nero. Per quanto infondata, la teoria goethiana dei colori si inserisce nella generale tendenza romantica a spiegare i fenomeni naturali come effetti della polarità, cioè a ricondurre la molteplicità delle manifestazioni naturali ad un’unica legge fondamentale.
In Johann Christoph Friedrich Schiller, invece, il passaggio dallo “Sturm und Drang” al classicismo è preparato da un decennio di studi storici, che gli valsero anche la cattedra di professore di Storia all’università di Jena. Famosa fu la sua prolusione del 1789 sul tema Che cosa significa e a qual fine si studia la storia universale. L’autore che più influì sulla formazione filosofica di Schiller fu Kant, del quale il poeta assimilò soprattutto – com’era avvenuto per Goethe e come avvenne generalmente nell’ambiente romantico – la Critica del giudizio.
Da Kant Schiller deriva la consapevolezza che nell’uomo esiste una doppia natura: da un lato, l’uomo sensibile, sottoposto a bisogni, impulsi e, in generale, alla necessità del mondo fenomenico; dall’altro, l’uomo morale, il soggetto noumenico, espressione di libertà e di ragione. In una lirica del 1795, L’ideale e la vita, che compendia in forma poetica i convincimenti filosofici di Schiller, la prima di queste due dimensioni viene chiamata, appunto, la vita (l’insieme di rapporti che determinano necessariamente l’esistenza fenomenica dell’uomo) e la seconda l’ideale (il compito morale che deriva all’uomo dalla sua natura razionale). Ma tra sensibilità e ragione, tra vita e ideale, non sussiste l’opposizione assoluta pretesa dal rigorismo etico kantiano, per il quale la repressione della sensibilità è condizione indispensabile per il compimento del dovere. In Grazia e dignità (1793), Schiller ritiene che una conciliazione dei due aspetti si possa realizzare nella figura umana dell’anima bella, nella quale il dovere morale viene compiuto spontaneamente, in pieno accordo con l’inclinazione sensibile. “Si dice anima bella, quando il sentimento morale è riuscito ad assicurarsi tutti i moti interiori dell’uomo, al punto da poter senza timore lasciare all’affetto la guida della volontà e da non correre mai pericolo di essere in contraddizione con le decisioni di esso “. L’accordo spontaneo tra la sensibilità e la morale, realizzato dall’anima bella, prende il nome di grazia. Ma qualora l’impulso sensibile torni ad essere in contrasto con la legge morale, l’“anima bella” deve diventare “sublime” e dominare forzosamente la sensibilità con la ragione: alla grazia si sostituisce allora la dignità.
Nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1793-95), la conciliazione tra sensibilità e ragione viene affidata al sentimento del bello. Infatti, poiché la bellezza è data dall’equilibrio tra sensibile e sovrasensibile, attraverso l’educazione estetica la natura umana realizza la propria completezza, secondo il modello dell’uomo greco “kalokagathòs”, insieme “bello e buono”. Il mezzo fondamentale di cui si deve servire l’educazione estetica è il gioco, cioè un’attività che ha per fine se stessa. Nelle operazioni ludiche, infatti, la componente sensibile non è subordinata a uno scopo razionale, né il momento intellettuale è sacrificato all’impulso sensibile: in esse, viceversa, sensibilità e intelletto, materia e forma, esteriorità e interiorità, essendo i due aspetti indisgiungibili di un’unica attività, sono sempre espressione di bellezza. Nel gioco, dunque, si realizzano armonicamente entrambe le componenti fondamentali dell’umanità, per cui l’uomo “è completamente uomo solo quando gioca”.
Il problema del rapporto tra sensibilità e ragione trova una nuova formulazione nell’ultima opera espressamente filosofica di Schiller, Della poesia ingenua e sentimentale (1795-96). L’ingenuo e il sentimentale non sono per lui soltanto due forme di espressione artistica, ma anche due condizioni fondamentali dell’umanità. Il primo esprime l’unità spontanea tra l’elemento passivo della sensibilità e quello attivo dell’intelletto e della ragione. Il secondo indica, invece, la scissione dei due elementi allorché la riflessione si distingue e si rende autonoma dalla sfera sensibile ed emotiva. L’ingenuo rappresenta il momento della natura, il sentimentale quello della cultura. Ma, oltreché esprimere due diversi tipi i umanità, l’ingenuo e il sentimentale indicano anche due diverse fasi dello sviluppo storico-artistico. L’ingenuo esprime il carattere della poesia antica e, più in generale, la condizione originaria dell’umanità; il sentimentale si riferisce piuttosto alla poesia moderna e alla condizione dell’uomo storicamente progredito. Schiller elabora così una filosofia della storia in cui l’umanità avendo perduto con il progresso culturale la sua “ingenuità” originaria, deve riproporsi la restaurazione dell’unità fra sensibilità e ragione come un compito infinito, nel quale si esprime una finalità storica mai completamente conseguibile e, tuttavia, indispensabile all’ulteriore progresso dell’umanità.
“Fintanto che l’uomo è ancora natura pura, si capisce, non rozza, egli agisce come una unità sensibile intera, come un tutto armonico. Sensi e ragione, facoltà recettiva e facoltà spontanea non si sono ancora separate nelle sue azioni, tanto meno stanno in contrasto tra loro. I suoi sentimenti non sono il gioco informe del caso, i suoi pensieri non sono il gioco vuoto della immaginazione; quelli nascono dalla legge della necessità, questi dalla realtà. Se l’uomo è entrato nello stato della cultura e l’arte ha messo la mano su di esso, quell’armonia sensibile è cessata in lui ed egli può solo manifestarsi come unità morale, cioè come tendente all’unità. L’armonia tra il suo sentimento e il suo pensiero, che nel primo stato aveva luogo realmente, ora esiste soltanto idealmente, non è più in lui, ma fuori di lui, come un pensiero che deve ancora essere realizzato, non più come fatto della sua vita. Se si applica ora a questi due stati il concetto di poesia, che non è altro se non dare all’umanità la sua più perfetta espressione possibile, avviene questo: là, nello stato di semplicità naturale, dove l’uomo agisce ancora con tutte le sue forze insieme, come unità armonica, dove quindi la totalità della sua natura si esprime perfettamente nella realtà, ciò che deve costituire il poeta è l’imitazione del reale più perfetta possibile; invece, nello stato di cultura, dove quell’armonica cooperazione di tutta la propria natura è solamente un’idea, quello che deve fare il poeta è l’elevazione della realtà all’ideale, o, ciò che è lo stesso, la rappresentazione dell’ideale.[…] Quella strada, che percorrono i poeti moderni, è del resto la stessa, che deve percorrere l’uomo in genere, tanto in particolare, quanto nell’insieme. La natura lo fa una cosa sola con se stessa, l’arte lo separa e lo scinde, per mezzo dell’ideale egli ritorna all’unità. Ma poiché l’ideale è un infinito, che egli non raggiunge mai, l’uomo coltivato nel suo genere non può mai divenire perfetto, come invece l’uomo naturale lo può divenire nel suo. Dovrebbe quindi rimanere infinitamente indietro a quest’ultimo in fatto di perfezione, se si bada al rapporto in cui entrambi stanno col loro genere e col loro massimo. Se si confrontano invece i generi stessi tra di loro, si mostra che la mèta, a cui l’uomo tende mediante la cultura, è infinitamente da preferirsi a quella, che egli raggiunge mediante la natura. L’uno acquista quindi il suo valore mediante il raggiungimento assoluto di una grandezza finita, l’altro mediante l’avvicinamento ad una grandezza infinita. Ma siccome solo quest’ultimo ha dei gradi e un progresso, il valore relativo dell’uomo che vive nella cultura, preso nell’insieme, non è mai determinabile, quantunque, osservato nel particolare, si trovi in un necessario svantaggio di fronte a colui nel quale la natura agisce nella sua completa perfezione. Siccome però il fine ultimo dell’umanità non si può raggiungere altrimenti che mediante quel progresso, e l’uomo naturale non può progredire in altro modo che coltivandosi e divenendo quindi un uomo di cultura, non c’è dubbio a quale dei due spetti il privilegio riguardo a quel fine ultimo”9

Età classica tedesca 1770-1780
Temi del romanticismo:
• la polemica contro il razionalismo e la riscoperta del sentimento
• la soggettività romantica e la nostalgia dell’Infinito
• la vita come inquietudine e desiderio: l’ironia e l’eroismo
• l’evasione dal presente in spazi e tempi lontani
• la meditazioni sulla religione
• la concezione organicista della natura
• le indagini sull’estetica
• le riflessioni sulla storia, sulla politica
• il tema dell'amore e la nuova immagine della donna
1 I principali contributi del periodo alla discussione sul criticismo furono le Lettere sulla filosofia kantiana (1786-88) e soprattutto il Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione (1789) di Karl Leonhard Reinhold (1758-1823); il saggio di Gottlob Ernst Schulz (1761-1833), Enesidemo, ovvero sui fondamenti della filosofia degli elementi sostenuta a Jena dal sig. prof. Reinhold, assieme a una difesa dello scetticismo contro le pretese della critica della ragione, comparso originariamente anonimo nel 1792; L’unico punto di vista dal quale può essere giudicata la filosofia kantiana (1796) di Jacob Sigismond Beck (1761-1840) e le Ricerche critiche sullo spirito umano (1797) di Salomon Maimon (1754-1800). Anche i primi lavori di Fichte (1762-1814) - dal Tentativo di una critica di ogni rivelazione (1792) che lo rivelò al pubblico, alla recensione all’Enesidemo di Schulz (1794), ai due capolavori Sul concetto della dottrina della scienza o della cosiddetta filosofia (1794) e Fondamento dell’intera dottrina della scienza (1794) – rientrano nel contesto problematico dell’interpretazione e della revisione del criticismo kantiano.
2 La storiografia del secondo dopoguerra ha rimesso radicalmente in discussione la tradizionale immagine dell’idealismo tedesco come di una progressiva successione di sistemi filosofici che, maturando attraverso Fichte e Schelling, raggiunge in Hegel il proprio pieno compimento. Questa concezione, derivata in parte dalle Lezioni di storia della filosofia di Hegel ma, soprattutto, dalle opere degli esponenti della scuola hegeliana, ha trovato una eccellente esemplificazione nell’opera di Richard Kroner, Da Kant a Hegel (1921-24). Quest'opera ricostruisce il pensiero filosofico tedesco a cavallo tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, come una sorta di percorso ascendente che dal criticismo, attraverso l’idealismo soggettivo di Fichte e l’idealismo oggettivo di Schelling, trova il suo compimento nell’idealismo assoluto di Hegel. La successione è al tempo stesso cronologica e gerarchica, quasi un percorso che si sviluppi per tappe, ciascuna rappresentante una maggiore consapevolezza dello “Spirito”. Nel 1955 viene pubblicato Il compimento dell’idealismo tedesco nella tarda filosofia di Schelling, di Walter Schulz, opera che già nel titolo indica un radicale mutamento di prospettiva. Il “compimento” dell’idealismo di cui parla Schulz, infatti, è chiaramente critico e alternativo nei confronti del consueto modello neohegeliano e, tra l’altro, offre anche un vantaggio cronologico, visto che Schelling muore nel 1854, ventitré anni dopo l’ex-amico Hegel. Oggi, per dirla con il titolo di un articolo del 1991 di W. Janke - che ricorda, certo intenzionalmente, quello del libro di Schulze - si parla di un “triplice compimento” dell’idealismo tedesco (W. Janke, Sul triplice compimento dell’idealismo tedesco e sull’incompiuta verità metafisica). In effetti, nella storiografia si è venuta radicando sempre di più la consapevolezza che i tre grandi idealisti, Fichte, Schelling ed Hegel, sono in sostanza dei contemporanei che cercano, ciascuno per proprio conto, di elaborare un sistema della filosofia. Le famose rotture, intellettuali e personali, tra i tre non hanno per conseguenza una sorta di “passaggio delle consegne” dall’uno all’altro, dal maestro all’allievo; al contrario, le date di pubblicazione dei loro capolavori, almeno dopo il 1800, sostanzialmente coincidono e corrispondono a diversi modi di filosofare e di pensare l’Assoluto, seppure con tratti, talvolta, notevolmente comuni.
3 Si parla anche di “secondo” o “tardo” romanticismo per indicare i gruppi romantici di Heidelberg e di Monaco oltre che il cosiddetto romanticismo politico o romanticismo della Restaurazione. A Heidelberg si formò un importante gruppo di romantici, raccolto intorno ad alcune eminenti personalità: Clemens Brentano (1778-1842), Achim von Arnim (1781-1831), entrambi poeti e scrittori, i fratelli Jacob (1785-1863) e Wilhelm Grimm (1786-1859), la cui opera è fondamentale nel campo della linguistica storica e per lo studio delle tradizioni popolari, della mitologia e delle fiabe tedesche, e infine Johann Joseph Gorres (1776-1848). I suoi scritti politici – Deutschlands kűnftige Verfassung (La costituzione futura della Germania, 1816), Deutschland und die Revolution (La Germania e la rivoluzione, 1819), e Europa und die Revolution (Europa e la rivoluzione, 1821) – si oppongono radicalmente all’illuminismo e a Napoleone (considerato l’Anticristo) e si inscrivono nel movimento del romanticismo politico. Passato a Monaco nel 1820, Gorres si dedicò a studi di mistica e di teologia, da cui nacque l’opera Die christliche Mystik (La mistica cristiana, 1836-42). Una certa importanza per la filosofia ha pure Georg Friedrich Creuzer (1771-1858), che insegnò a lungo filologia classica nell’università di Heidelberg (dal 1807 al 1845). La sua opera Symbolik und Mythologie der alten Volker, insbesondere der Griechen (Simbolismo e mitologia dei popoli antichi, in particolare dei Greci, 1810-12) fu importante per Schelling e per Hegel, e più tardi anche per lo studioso del matriarcato Johann Jacob Bachofen. Creuzer contribuì pure, con la sua edizione di Plotino del 1835, alla riscoperta del neoplatonismo in Germania. A Monaco si svilupparono soprattutto gli studi di filosofia della natura, grazie all’insegnamento di Schelling dal 1806 al 1841 e di Benedict Fraz Xavier von Baader (1765-1841), dal 1826. Adam Heinrich Műller (1779-1829), di Berlino, è l’esponente più tipico del cosiddetto romanticismo politico, al quale contribuirono anche Novalis e F. Schlegel. Assieme al già menzionato Gorres, Müller sostenne il pensiero politico della Restaurazione in Germania. soprattutto nell’opera Die Elemente der Staatskunst (Gli elementi dell’arte dello Stato, 1809). Ispirandosi alla teocrazia medievale e al pensiero politico di E. Burke, il romanticismo politico si oppose alla concezione illuministica della politica e sostenne, contro l’assolutismo sia del principe, sia dello Stato, l’idea di uno Stato cristiano concepito come organismo. La realizzazione concreta di tale progetto fu affidata al «Circolo cristiano-germanico», una associazione di aristocratici fortemente conservatori, capeggiata dai fratelli Ludwig e Leopold von Gerlach, consiglieri del re Federico Guglielmo IV, i quali, oltre che a Műller, si ispirarono alla Restauration der Staatswissenschaft (Restaurazione della scienza dello Stato, 1816-34) di Karl Ludwig von Haller (1768-1854), fautore di una concezione patriarcale e legittimistica dello Stato.
4 E’ interessante notare che anche in un filosofo come Hegel (tanto critico nei confronti del sentimentalismo romantico e dell’individualismo dell’epoca da essere stato spesso accusato di atteggiamenti antiliberali e affossatori della individualità nei confronti dello Stato), troviamo il riconoscimento del valore infinito della persona e del fatto che la comprensione di questo valore è qualcosa di assai recente nella storia dell’uomo, legato al cambiamento introdotto dalla religione cristiana rispetto alla mentalità pagana classica. “La libertà è l’essenza propria dello spirito, e cioè la sua realtà stessa. Intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non hanno mai avuto quest’idea, e non l’hanno ancora: i Greci e i Romani, Platone ed Aristotele, ed anche gli stoici non l’hanno avuta: essi sapevano, per contrario, soltanto che l’uomo è realmente libero mercé la nascita (come cittadino ateniese, spartano, ecc.), o mercé la forza del carattere e la cultura, mercé la filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Quest’idea è venuta nel mondo per opera del Cristianesimo; per il quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo è in sé destinato alla somma libertà” (Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 482 A). E altrove si legge: “La religione e la moralità, come le essenze in sé universali, hanno appunto la qualità di sussistere secondo il loro concetto, e con ciò veracemente, nell’anima individuale, anche quando non siano culturalmente sviluppate né diano luogo a manifestazioni evolute. La religiosità, la moralità di un ristretto tipo di vita – quella di un pastore, di un contadino -, nella sua concentrata interiorità, nel suo restringersi a pochi e affatto semplici rapporti di vita, ha un valore infinito, lo stesso valore di quello proprio della religiosità e moralità di un’esperienza evoluta, di un’esistenza ricca di relazioni e di azioni. Questo intimo punto centrale, questa semplice regione del diritto della libertà soggettiva, il focolare del volere, del decidere e dell’agire, il contenuto astratto della coscienza, ciò in cui è racchiusa la colpa e il pregio dell’individuo, il suo eterno tribunale, resta illeso, ed è sottratto all’alto frastuono della storia del mondo, e non solo alle sue vicende esteriori e temporali ma anche a quello che la necessità assoluta del concetto di libertà porta con sé” (Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, I,102).
5 Una delle vicende culturali più caratteristiche dell’età romantica è la cosiddetta “rinascita spinoziana” (Spinoza-Renaissance). Il filosofo olandese non aveva mai conosciuto un vero e proprio riconoscimento ufficiale né era stato studiato con serietà fin quando, alla fine del XVIII, secolo, alcune personalità della cultura tedesca non cominciarono a riscoprirne l’importanza. Nelle Lettere a Mendelssohn sulla dottrina di Spinoza (1785 e ripubblicate in forma ampliata nel 1789), Jacobi (1743-1819) cercò di dimostrare gli esiti perniciosi e panteistici del razionalismo spinoziano. Per far ciò, riferì di una conversazione da lui avuta con Lessing nel 1780 – un anno prima della sua morte – nella quale il filosofo illuminista gli avrebbe confidato di avere ormai abbracciato la tesi spinoziana dell’Uno-tutto. Questa rivelazione suscitò molto scalpore e originò una celebre polemica sul panteismo (Pantheismusstreit), alla quale parteciparono i maggiori esponenti della cultura del tempo, da Mendelssohn stesso a Kant, da Herder a Goethe. Il risultato fu opposto a quello desiderato da Jacobi: anziché agitare lo spettro dell’ateismo, egli provocò, infatti, la rinascita dell’interesse per Spinoza e finì con l’irrobustire quella tendenza al panteismo che già animava la nuova cultura post-illuministica. I giudizi che i partecipanti alla polemica espressero sulla filosofia di Spinoza e sulla sua concezione della divinità furono, infatti, generalmente molto favorevoli. Goethe ebbe il coraggio di definire Spinoza un filosofo “theissimus et christianissimus”, Herder compose dialoghi raccolti sotto il titolo Dio (1787) dichiarandosi a favore di uno spinozismo ridimensionato ma non negato, Schleiermacher disse di lui che “il sublime spirito del mondo lo penetrava,. L’infinito era il suo principio e il suo fine; l’universo, il suo unico eterno amore”, e Novalis ne parlò come di “un uomo ebbro di Dio”. Ancora nel 1812-16, nella sua Scienza della logica, Hegel affermerà che per filosofare è indispensabile iniziare come spinoziani, anche se si tratta di una posizione teoretica che, identificando l’assoluto nella sostanza, è da superare nella più alta concezione che vede l’assoluto nello spirito. Anche in Inghilterra, la concezione spinoziana del Deus sive Natura ebbe larga diffusione. Sembra che Coleridge amasse intrattenere i suoi ospiti in appassionate conversazioni spinoziane e che Wordsworth rimanesse assai colpito dal panteismo del filosofo olandese al punto che se ne ritrovano tracce nei celebri versi: “qualcosa/ che ha sede nella luce dei soli calanti,/nel curvo oceano, nell’immenso aere vibrante,/ nel cielo azzurro, cose nella mente dell’uomo;/ uno spirito e un moto che sospinge tutti gli esseri/ pensanti, tutti gli oggetti di tutti i pensieri,/ e circola in tutte le cose” (Lines composed a few miles above Tintern Abbey, 1798).
6 La svolta culturale che, in pochi anni, portò dall’illuminismo al romanticismo può essere riconosciuta anche in questo. Nel celebre scritto Che cos’è l’illuminismo? (1784), Kant affermava che esso è l’”uscita dell’uomo dallo stato di minorità che l’uomo può imputare a se stesso” e che tale uscita può e deve avvenire attraverso un sempre più intenso, critico e diffuso utilizzo della ragione autonoma. Un quindicennio dopo, Schleiermacher pone la “passività infantile” e il “sentimento di dipendenza” dell’uomo nei confronti dell’universo e dell’infinito come il punto più alto della nuova sensibilità romantica.
7 Anche nel capolavoro di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, del 1819, l’analogia gioca una funzione cognitiva essenziale. Infatti, solo grazie ad essa ci è possibile oltrepassare la superficiale apparenza fenomenica che il mondo esibisce nella rappresentazione quotidiana e scientifica e riconoscere in un’unica Volontà l’essenza ultima di noi stessi e dell’intero universo: “L’uomo dovrà riconoscere, come più intima essenza, quella medesima volontà non soltanto nei fenomeni che sono affatto simili al suo proprio – negli uomini e negli animali –; ma la riflessione prolungata lo condurrà a conoscere anche la forza che ferve e vegeta nella pianta, e quella per cui si forma il cristallo, e quella che volge la bussola al polo, e quella che scossa nel contatto di due metalli eterogenei, e quella che si rivela nelle affinità elettive della materia […] e, da ultimo, perfino la gravità […]. Tutte queste forze, in apparenza diverse, riconoscerà nella loro intima essenza come un’unica forza, come quella forza a lui più profondamente e meglio nota d’ogni altra cosa, che là, dove più chiaramente si produce, prende il nome di volontà. Solo quest’impiego della riflessione non ci fa più arrestare al fenomeno, bensì ci conduce fino alla cosa in sé. Il fenomeno è rappresentazione […]. Cosa in sé, invece, è solamente la volontà” (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 21). E ancora: “Abbiamo dunque ora, dell'essenza e dell'attività del nostro corpo, una duplice ben chiara conoscenza ottenuta per due vie del tutto eterogenee, che ci servirà d'ora innanzi come chiave per conoscere l'essenza di ogni fenomeno della natura, e per giudicare, in analogia col nostro corpo, tutti gli altri oggetti. Questi, non essendo il nostro corpo, non vengono conosciuti in doppia maniera, ma soltanto come rappresentazioni. E ammetteremo che, se da un lato son rappresentazioni al pari del nostro corpo, e in ciò gli son simili; d'altro lato, astrazione fatta dalla loro esistenza come rappresentazioni del soggetto, ciò che ne resta deve, secondo la sua essenza intima, essere tutt'uno con ciò che noi chiamiamo in noi volontà. Infatti, qual'altra specie di esistenza o di realtà potremmo attribuire al resto del mondo materiale? Donde prenderemmo gli elementi per poterlo comporre? Al di fuori della volontà e della rappresentazione non c'è per noi nulla di noto né di conoscibile. [...] Non possiamo dunque trovare in nessun luogo qualche altra realtà da attribuire al mondo materiale. Se questo dev'essere qualche cosa di più che una semplice nostra rappresentazione, dobbiamo affermare che oltre a rappresentazione è in sé e nella sua intima essenza una cosa identica a quella che troviamo immediatamente in noi come volontà. Dico nella sua intima essenza” (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione).
8 Il termine Űbermensch, generalmente tradotto con “superuomo” e reso famoso da Nietzsche nei suoi scritti degli anni 1882-1885, nasce appunto con lo “Sturm und Drang” e si ritrova in Herder, Jean Paul e in Goethe, sia nella poesia Zueinung (1784) sia nel Faust (Parte I, scena I, v. 490), dove il termine è impiegato ironicamente dallo Spirito della Terra per dileggiare l’intimorito Faust che lo aveva evocato.
9 Schiller presenta nel brano lo schema concettuale che sarà proprio di tutte le concezioni romantiche della storia – da Novalis a Schlegel, da Schelling a Hegel. Il corso storico si sviluppa in tre fasi: 1) il punto di partenza è una condizione originaria di assoluta armonia caratterizzata dall’unità (di uomo e natura, di sensibilità e intelletto, di soggetto e oggetto, di individuo e tutto, ecc.); 2) il successivo sviluppo storico vede la perdita dell’armonia originaria, la scissione dell’unità in una serie di opposizioni, la nascita del conflitto e della frammentazione, la perdita e alienazione dell’essenza originaria; 3) il fine e la fine della storia prevedono la restaurazione dell’armonia, la disalienazione, il recupero dell’unità: un’unità non più immediata e naturale, ma mediata dalla riflessione e dalla consapevolezza derivanti dall’esperienza della scissione. L’unità armonica soltanto ideale, ma che presuppone un infinito compito morale, da parte dell’uomo, per raggiungerla, rappresenta dunque per Schiller qualcosa di superiore a un’unità reale, ma indipendente dall’azione umana. Nel primo caso, infatti, vi è progresso, nel secondo immobilità. Questa rivalutazione del progresso storico, che si propone un grado di cultura sempre maggiore, di contro al vagheggiamento di un inerte stato di natura originario, era già stata compiuta da Kant nei suoi scritti di filosofia della storia, in polemica con Rousseau. Ma, soprattutto, Schiller ha qui presente la riflessione morale fichtiana, recentemente resa pubblica nelle Lezioni sulla missione del dotto del 1794.
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