Popper, il falsificazionismo

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Testo

Popper: il falsificazionismo.
La riflessione filosofica nell’ambito delle scienze sperimentali si incentra sul problema del metodo, che deve portare la conoscenza scientifica a valere come conoscenza vera e universale: ossia (ma, come vedremo, ciò comporta problemi di diversa natura) sull’utilizzo dell’induzione nella scienza e su procedure di verifica della validità degli asserti di natura scientifica. Andiamo qui ad approfondire il ruolo della falsificazione.
In seno al Circolo di Vienna (1907 – 1914, 1924 – 1938) nell’ambito cioè del Neopositivismo o Neoempirismo logico, il principio di verificabilità viene inteso sia come principio di significanza (che permette di distinguere enunciati dotati o meno di significato) sia come criterio di demarcazione tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è. In quest’ottica il significato di un qualsiasi asserto scientifico è dato dal metodo della sua verificazione: occorre constatare se tale asserto è vero o falso riducendolo a proposizioni singolari (protocollari) che riferiscono dati dei sensi (criterio empirico di significanza). Dunque la metafisica (irriducibile all’esperienza) risulta essere priva di significato: un puro stato emozionale di fronte alla vita. Il compito della filosofia, invece, diventa quello di chiarire il senso delle proposizioni in accordo col criterio empirico di significanza.
Il programma del Neopositivismo di una demarcazione tra asserti significanti e non significanti è tuttavia scartato da Karl Raimund Popper (1902 – 1994). Egli sostiene infatti che le teorie della scienza sono sistemi ipotetico-deduttivi: sono cioè ipotesi o congetture (per tanto fallibili) da cui far derivare conseguenze da sottoporre al vaglio dell’esperienza. Per Popper il metodo della scienza non è induttivo (che inferisce da una serie di casi particolari una teoria generale) ma procede per tentativi ed errori, così come non è possibile verificare alcuna teoria attraverso dati empirici per il difetto logico dell’induzione (che comporta il passaggio infondato dal “tanti” al quantificatore universale “tutti”). Ovvero: gli enunciati universali non possono essere ridotti a classi di esperienza. Prendiamo in esame l’esempio proposto da Popper stesso: l’esempio dei corvi. Dal momento che tutti i corvi che osservo sono neri (la mia esperienza conosce solo corvi neri), posso elaborare la teoria secondo cui tutti i corvi sono neri. In realtà, così facendo salto da n esperimenti a una legge che riguarda tutti i casi possibili (problema logico-epistemologico dell’induzione), e oltretutto non potrò mai verificare la mia teoria, dal momento che non potrò mai avere esperienza di tutti i corvi (non esiste esperienza universale). Tuttavia, se l’esperienza non può verificare la mia teoria, essa può sì smentirla: posso, ad esempio, avere esperienza di un corvo bianco, o più in generale di un corvo non nero. Si tratta quindi di andare alla ricerca di prove cruciali in grado di confutare la teoria (e qui sta l’atteggiamento critico della scienza). Se infatti nessun numero di prove empiriche favorevoli ad una teoria è in grado di verificarla (né di renderla probabile, infatti: x casi favorevoli/ casi possibili → 0) basta una sola prova contraria per falsificarla (da qui l’asimmetria logica tra verificabilità e falsificabilità).
In altri termini: dal punto di vista logico, ogni teoria scientifica è basata su un sistema di implicazioni, cioè implica una serie di conseguenze che sono empiricamente controllabili, per cui danno luogo a proposizioni condizionali del tipo: “se A allora B”, ovvero “se I allora E” (dove I sta per “ipotesi teorica” ed E per “esperienza”). Le proposizioni condizionali tuttavia presentano un comportamento asimmetrico rispetto al vero e al falso. Infatti, se il rapporto condizionale è vero, quando l’antecedente (A) è vero, anche il conseguente (B) lo è. Per cui la falsità del conseguente implica la falsità dell’antecedente. Viceversa, la verità del rapporto condizionale e la verità del rapporto conseguente non assicurano affatto la verità dell’antecedente. Ad esempio: “se tutti i numeri sono dispari, allora tre è dispari”. È vero che tre (conseguente) è dispari, ma è falso che tutti i numeri sono dispari (ipotesi teorica antecedente). Per questo motivo, dunque, non si può mai verificare una teoria ma solo falsificarla.
Il tentativo di confutare o falsificare una teoria (ipotesi teorica) consiste dunque nel dedurre da essa quegli asserti singolari che si trovano in contrasto con l’osservazione empirica (controllo di un’ipotesi teorica per mezzo delle sue conseguenze deduttive: si parla appunto di “metodo ipotetico-deduttivo”). Da qui il principio di falsificabilità come criterio di demarcazione (e non di significanza) tra enunciati scientifici ed enunciati non scientifici. Ovvero: un enunciato (o una teoria) è scientifico quando la classe dei suoi falsificatori potenziali (enunciati che, se veri, falsificherebbero l’ipotesi teorica) è una classe non vuota.
Per questo motivo il marxismo e la psicoanalisi non sono sistemi teorici scientifici: in essi, qualsiasi enunciato riferibile ad un accadimento apparentemente in contrasto ai loro assunti sarebbe spiegabile all’interno della medesima teoria e, dunque, riducibile ad essa: nulla potrebbe mai falsificarli. Insomma: almeno concettualmente deve esistere un’esperienza capace di dimostrare falsa una teoria se questa è scientifica. Ad esempio, la legge di gravitazione universale di Newton è scientifica perché è concettualmente possibile che si possano osservare due masse che non si attraggano reciprocamente.
Proviamo dunque ad applicare lo schema della falsificazione all’esempio dei corvi proposto da Popper: dall’ipotesi H (“tutti i corvi sono neri”), segue l’evento P (“non troverò mai un corvo non nero”). Mettiamo che io trovi un corvo bianco (P): questo mi porterà a dire H (“modus tollendo tollens”). E tuttavia, andando anche oltre Popper, quando uno scienziato formula un’ipotesi (H) essa contiene un insieme di assunti (h), ovvero ipotesi ausiliarie spesso non enunciate ma di fondamentale importanza (nell’esempio, che cosa sia un corvo, che cosa vuol dire che sia nero). Pertanto di fronte ad un corvo non nero (P), sarebbe negata la congiunzione di H e h, e non per forza H. Il “modus tollens” mi dice che almeno uno degli elementi della congiunzione è falso, ma non precisa quale: lo scienziato può, ad esempio, scegliere di non abbandonare H ma di cambiare h. L’appello di Popper alla falsificazione non spiega ancora come comportarmi di fronte alla falsificazione, perché non di fronte a tutte le falsificazioni devo abbandonare H.
Nell’opera di Pierre Duhem (1861 – 1916) possiamo ad esempio leggere una critica ante litteram sia del verificazionismo del Circolo di Vienna sia del falsificazionismo popperiano. L’epistemologo francese (tra i grandi critici dell’“induttivismo newtoniano”) osserva infatti come “il fisico non può mai sottoporre al controllo dell’esperienza un’ipotesi isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi” (La théorie physique, 1904 – 1905). Tale tesi lo porta a sostenere che la stessa legge di gravità di Newton non sia che “provvisoria”, destinata forse un giorno ad essere modificata se non del tutto abbandonata, al fine di mantenere un buon accordo con l’esperienza. Di fronte alla falsificazione dell’esperienza, Duhem invita lo scienziato al buon senso (“bon sense”) o all’acutezza (“sagesse”): all’acume, cioè, di capire dove stia l’errore, se in H oppure in h, secondo il principio del carattere globale del controllo empirico.
Lakatos e Feyerabend.
Il Circolo di Vienna (Neopositivismo o Neoempirismo logico) aveva affidato al PRINCIPIO DI VERIFICABILITÀ (inteso anche come principio di significanza → enunciati dotati o meno di significato) il criterio di demarcazione tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è.
Contro questa impostazione Popper, considerando le teorie scientifiche come ipotesi o congetture fallibili, sostiene che non è mai possibile verificare alcuna teoria attraverso dati empirici: gli enunciati universali non possono essere ridotti a classi di esperienza (esempio dei corvi). Per contro le teorie possono essere sempre smentite dall’esperienza: se nessun numero di prove empiriche può verificare una teoria, basta una sola prova contraria per falsificarla (“modus tollens”. In ciò sta l’asimmetria logica tra verificabilità e falsificabilità).
Il principio di falsificabilità diventa dunque il criterio di demarcazione (ma non di significanza) tra enunciati scientifici ed enunciati non scientifici: una teoria è scientifica quando è falsificabile.
Tuttavia già all’inizio del secolo (XX°) P. Duhem aveva sostenuto che non è mai possibile sottoporre a controllo un’ipotesi isolata: si tratta sempre di un gruppo di ipotesi, e l’esperienza non può dirci quale di essa è confutata. L’implicazione logica popperiana
se I (ipotesi teorica) allora E (evidenza empirica)
nel caso di E
comporterebbe la falsificazione di I (I).
Ma seguendo Duhem l’implicazione
se I e A (ipotesi ausiliarie) allora E
nel caso di E
l’intera congiunzione (I + A) sarebbe confutata (falsificata);
ma E potrebbe contraddire soltanto A senza concernere I.
In definitiva: una teoria scientifica consta di un complesso di proporzioni universali e non di una singola proposizione del tipo “tutti i corvi sono neri”; il suo controllo empirico coinvolgerà dunque molto di più che non le proposizioni che la compongono. Ci saranno infatti assunzioni ausiliarie come ad esempio le leggi e le teorie che governano l’uso degli strumenti impiegati per il controllo stesso. E allora non è possibile confutare in modo conclusivo tale teoria perché non possiamo escludere la possibilità che la previsione rivelatasi erronea sia riconducibile al complesso processo di controllo empirico [Teoria “olistica” o “Duhem – Quine”].
Del resto, se gli scienziati si fossero storicamente attenuti in modo rigido alla metodologia falsificazionista, tutte quelle teorie a tutt’oggi considerate esempi di procedura scientifica, avrebbero dovuto essere rigettate sin dal loro apparire [Le osservazioni relative al moto del pianeta Urano eseguite nel XIX secolo indicavano che la sua orbita si scostava considerevolmente da quella prevista sulla base della teoria gravitazionale di Newton che ne sarebbe così risultata compromessa. Per superare questa difficoltà Le Terrier in Francia e Adams in Inghilterra suggerirono l’esistenza di un pianeta prima inosservato nelle vicinanze di Urano: l’attrazione fra il pianeta congetturato e Urano era da calcolare nel senso di un allontanamento dell’orbita di quest’ultimo da quella prevista inizialmente. Fu così che Galle individuò per la prima volta il pianeta oggi conosciuto col nome di Nettuno].
Sulla scorta di tali aporie sia dell’induttivismo che del falsificazionismo, si è cominciato, da un lato, a considerare le teorie come totalità strutturali, dall’altro ad evidenziare la dipendenza dell’osservazione dalla teoria (le proposizioni osservative devono infatti essere enunciate nel linguaggio di una determinata teoria). Le due questioni sono naturalmente in stretta relazione: la dipendenza del significato dei concetti dalle strutture teoriche in cui ricorrono implica la dipendenza della loro precisione dal grado di precisione e di coerenza delle stesse teorie.
In questo orizzonte critico si pone Imre Lakatos (allievo di Popper, che intende raffinare il falsificazionismo anche alla luce delle anomalie proprie di qualsiasi teoria scientifica messe in evidenza da Thomas Kuhn) il quale sostiene che la scienza non ha a che fare con teorie isolate, ma con successioni di teorie che presentano una continuità e accettano le stesse regole metodologiche. Ciascuna di tali successioni rappresenta ciò che la definisce un programma di ricerca scientifica il quale è una struttura che si pone come guida per la ricerca futura. Non esistono vere e proprie “esperienze cruciali” (Popper) per il programma, perché esso consta di una “cintura protettiva” (ipotesi ausiliarie o assunzioni implicite) che impedisce di intaccarne il “nucleo” centrale (gli assunti base del programma, ovvero le ipotesi teoriche generali da cui esso si sviluppa). In tal modo il nucleo di un programma è reso non falsificabile: i dati osservativi in eventuale disaccordo col programma sono riferibili non alle assunzioni del nucleo, ma ad altre parti della struttura teorica (questa è la funzione della cintura protettiva). In ciò sta l’“euristica negativa” di un principio di ricerca.
L’“euristica positiva” sta invece nella capacità del programma di svilupparsi ulteriormente integrando il nucleo stesso affinché possa spiegare e prevedere fenomeni reali e di migliorare e sofisticare la cintura protettiva confutabile.
In questo senso il lavoro svolto all’interno di un programma di ricerca comporta l’estensione e la modificazione della sua cintura protettiva evitando le ipotesi ad hoc. Di conseguenza il programma è progressivo fin quando gli aggiustamenti della cintura hanno nuovo contenuto empirico portando a predire nuovi fatti. È degenerante quando le nuove ipotesi sono aggiunte “ad hoc” e non predicono nulla di nuovo.
Infine la storia della scienza si determina in una competizione di programmi rivali tra i quali si impone quello maggiormente progressivo e vengono abbandonati quelli degeneranti. Ma per quanto tempo?
In realtà non è mai lecito dire di un programma che è degenerato senza speranza. E allora, per rigore, non si può affermare che un programma è migliore di un altro.
Ecco perché Paul K. Feyeraberd ritiene che Lakatos non dia alcun criterio capace di guidare le scelte degli scienziati: anche la metodologia scientifica già sofisticata (così è quella di L. per F.) conclude paradossalmente che non vi è nessuna metodologia.
Il fatto è che, secondo F., nessuno dei maggiori progressi nella storia della scienza è scaturito dai metodi proposti dagli epistemologi: Galileo sviluppò le proprie teorie a favore del sistema copernicano e a dispetto dell’evidenza empirica, non grazie ad essa, difendendola per giunta con procedimenti ad hoc, il cui valore sta unicamente nella capacità di giustificare l’ipotesi di partenza. L’adesione da parte di Galileo al sistema copernicano sostituendolo a quella geocentrica tradizionale, mostra, ad avviso di F., come procede la scienza e la sua essenziale storicità: non esistono criteri assoluti e definitivi di costituzione e di valutazione di una teoria scientifica. Galileo, infatti, agisce contro le apparenze dei sensi, quindi in modo non derivabile dall’osservazione (secondo una posizione in qualche modo antiempiristica), eppure capace di trovare argomenti in grado di spiegare la fallacia delle apparenze (procedimento contro induttivo). Le ipotesi “ad hoc” diventano qui da un lato “trucchi” argomentativi dello scienziato, ma, dall’altro, anche veri e propri “strumenti” di ogni struttura scientifica.
E allora: data una qualsiasi metodologia della scienza, sarà possibile rinvenire nella storia della scienza esempi di significativi progressi acquisiti in perfetta violazione delle leggi di tal metodologia. L’unico vero principio è “anything goes” (“tutto va bene”) → anarchismo epistemologico. Va perciò salutata con ottimismo la proliferazione di teorie: i veri vantaggi derivano dalla dialettica tra le teorie, non dal confronto tra una singola teoria e i dati empirici.
Ad un pluralismo metodologico si accompagna dunque un pluralismo teorico e, in qualche modo, anche ideologico (chi dice che la scienza sia la migliore forma di conoscenza?).
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