Pitagora, Eraclito e Parmenide

Materie:Riassunto
Categoria:Filosofia

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Testo

La scuola pitagorica
La scuola filosofica dei pitagorici venne fondata da Pitagora, di cui non abbiamo notizie certe per quanto riguarda la vita. Essa nacque in Grecia ma si sviluppò nella Magna Grecia, precisamente ci furono scuole a Sibari, Crotone, Reggio Calabria e Agrigento. Ma verso la fine del VI secolo venero cacciati via da queste città per le loro idee anti-democratiche, e addirittura la comunità di Crotone venne distrutta durante un tumulto polare, quindi continuò a sopravvivere in Grecia, a Tebe, dove vennero riorganizzate le conclusioni, cui la prima generazione di pitagorici era giunta, da una seconda generazione, di cui il più importante esponente fu Filolao.
Questa scuola si ispirava ai filosofi di Mileto infatti Pitagora (575-490/97 a.C.) fu un discepolo di Anassimandro, ma allo steso tempo riprendeva gli elementi dei misteri eleusini e dei culti orfici, che a loro volta si erano ispirati alle religioni orientali. Perciò la scuola dei pitagorici si era organizzata a mo di setta, comunque molto diversa dalle altre scuole filosofiche classiche. Infatti essa aperta a tutti, donne e stranieri compresi, ma prima dovevano purificarsi (come nei culti orfici) e sottoporsi ad una sorta di catechismo, che insegnava i principi che si dovevano applicare nella propria vita quotidiana: essi dovevano rispettare gli dei, essere fedeli agli amici, fare un esame di coscienza la sera, un progetto per la giornata la mattina, non dovevano mangiare né carne né fave, non dovevano indossare panni di lana e anelli, non potevano girarsi indietro per raccogliere qualcosa caduto, inoltre non potevano spezzare il pane o attizzare il fuco con il metallo. Per questo diciamo che alla fine questa scuola perde il suo carattere prettamente filosofico per poi prenderne uno di carattere più mistico e religioso, infatti il ruolo del filosofo si confondeva con quello dell’uomo politico e dell’educatore, dell’oracolo e del sacerdote.
Organizzazione all’interno della scuola
I pitagorici riprendono dai misteri eleusini l’esotericità, cioè i loro insegnamenti non erano destinati ad un pubblico vasto, ma solo agli appartenenti alla scuola, e questi non potevano rivelarlo a quelli che ne erano al di fuori, pena la morte. Ippaso di Metaponto, rivelò l’esistenza dei numeri irrazionali che i pitagorici avevano scoperto, e per tale colpa venne cacciato dalla scuola e ucciso. Per questo gli stessi antichi contemporanei ai pitagorici non sapevano con precisione quale fosse la loro teoria filosofica.
Gli insegnamenti impartiti dal maestro erano a carattere dogmatico, cioè dovevano essere presi come verità assoluta e non potevano essere contestati, come dice Diogene Laerzio, infatti il maestro all’inizio di ogni discorso soleva dire che non avrebbe tollerato nessuna insinuazione riguardo a quello che stava dicendo. Inoltre il maestro parlava dietro una tenda e chi riusciva a vederlo se ne vantava a vita. Qui viene proprio a mancare la caratteristica principale della filosofia, che ricerca la verità e non se ne arroga il possesso, inoltre la discute continuamente per cercare di raggiungere sempre la verità migliore. La base della ricerca filosofica è proprio la libertà di pensiero, di discussione e di confutazione. Nella scuola pitagorica questo principio cade.
All’interno della cerchia dei discepoli, c’erano due categorie: gli acusmatici, che potevano solo ascoltare e neanche potevano contestare ciò che diceva il maestro, e i matematici, che invece avevano la facoltà di parlare liberamente con il maestro e quindi di formare un’opinione personale. Successivamente questa distinzione andò ad indicare come gli acusmatici (coloro che ascoltano) quelli che si occupavano degli aspetti mistici e come matematici color che si occupavano di approfondire gli aspetti razionali del pitagorismo.
Caso strano nell’antichità, i pitagorici elaboravano le dottrine filosofiche lavorando in gruppo, non era il singolo che primeggiava ma la squadra, a differenza di altri filosofi di altre scuole (anche quelli di Mileto). Infatti Aristotele dopo aver parlato dei fisiologi, (Talete, Anassimandro e Anassimene), esamina i pitagorici, senza far distinzione fra Pitagora e i suoi discepoli.
I pitagorici credevano nella metempsicosi, cioè nella reincarnazione dell’anima. Essi molto probabilmente avevano ereditato questa convinzione dai culti orfici, che a loro volta la avevano ripresa dall’induismo. I pitagorici ritenevano che l’anima fosse di origine divina e che quindi il corpo fosse una sorta di prigione, dalla quale essa si poteva liberare dopo aver passato alcune vite via via sempre migliori, fino alla purificazione (catarsi). Quindi ci si poteva anche reincarnare in animali, la cui carne per questo motivo non si poteva mangiare. Mentre nei culti orfici la purificazione si raggiungeva attraverso alcuni riti e una vita vissuta per questo scopo, i pitagorici ritenevano che la vita del matematico fosse quella più vicina alla purificazione, e alla sua fine l’anima sarebbe ritornata di origine divina e libera. Questo perché essi ritenevano che l’arché fosse nei numeri.
Un’altra teoria sull’anima venne elaborata dalla seconda generazione dei pitagorici, che riteneva che l’anima fosse in equilibrio con il corpo, e una volta rotto questo stato di armonia essa sarebbe morta.
Dallo studio della musica, che i pitagorici consideravano come la massima forma di armonia, dedussero che dietro essa ci fossero delle proporzioni numeriche. Allo steso modo esse dovevano essere dietro la natura, che appariva come un cosmo, cioè un universo ordinato. Si dice che sia stato Pitagora il primo ad introdurre il concetto di cosmo. Quindi l’arché per i pitagorici era nei numeri. Ma per meglio comprendere questa affermazione, dobbiamo spiegare che in Grecia il numero non era un concetto astratto ma aveva significato di proporzione armonica. Siccome il numero era anche rappresentabile geometricamente, esso può rappresentare anche le cose che esistono in natura.
L’armonia della natura è riconducibile quindi al numero, cioè alle proporzioni numeriche, che non rappresentano le cose, ma il principio, l’ordine che si trova dietro di esse e che non si può vedere, è intelligibile, cioè ci si può arrivare solo grazie al pensiero elaborando ciò che si è osservato. Quindi ad ogni numero corrisponde una cosa, che a sua volta ha dietro di essa una relazione numerica che la lega con le altre.
Quindi la natura delle cose si modella su quella dei numeri, quindi i contrari in natura (concetto che riprende da Anassimandro questo dei contrari) sono determinanti dai contrari numerici, che vengono individuati in numeri pari, imperfetti, o dispari, perfetti. A questi due insiemi erano associati rispettivamente i concetti di illimitato (apeiron) e limite (peras). C’era poi l’uno, che era parimpari, in quanto che se sommato ad un numero pari dava un numero dispari e viceversa.
I pitagorici individuavano i vari contrari fondamentali associati ai numeri pari o dispari: le determinazioni positive erano associate a numeri dispari mentre quelle negative a numeri pari. Inoltre ogni numero era carico di un suo significato fondamentale: l’uno, ad esempio era l’intelligenza, il sette indicava i momenti critici della vita (kairos), cioè il parto settimino, la perdita del primo dente da latte a sette anni, la pubertà a 14 e la maturità a 21. Il dieci invece, era il numero perfetto, formato dai primi quattro numeri e che conteneva i primi quattro pari e i primi quattro dispari, rappresentato da un triangolo equilatero. Dieci erano inoltre le opposizioni fondamentali individuate.
Insomma, alla fine i pitagorici sembravano più una setta che una scuola filosofica, per le loro convinzioni un po’ troppo rigide riguardo l’esoterismo dei loro insegnamenti o ai “precetti” che di dovevano rispettare nella propria vita. Solo le grandi scoperte riguardo l’intelligibile e l’arché come arché, che ancora oggi è adottato dalla scienza moderna (oggi i fisici studiano le leggi matematiche che sono dietro la natura e i suoi fenomeni) permettono ai pitagorici di sopravvivere nella storia e di essere ricordati per la loro filosofia; il loro modo di “filosofare” è troppo lontano da quello canonico, che tutto fa meno che dogmatizzare la verità raggiunta. Mi sono domandato se questa è vera filosofia, anche se le verità scoperte sono state grandi (arché nei numeri, il concetto di intelligibile). È conforme al carattere aperto della filosofia?
I pitagorici furono i primi a dedurre che l’osservazione della natura fosse limitante per la filosofia, perché essa si poneva davanti al filosofo come un velo che non gli permetteva di vedere chiaramente cosa ci fosse dietro. Questo era però intelligibile, cioè col ragionamento si poteva arrivare a capire quello che si cela dietro la natura anche senza vederlo con i propri occhi. Il pensiero permette di oltrepassare questo velo e di conoscere la verità a color che ambiscono a scoprirla, che comprendono che fermarsi ai dati che provengono dai sensi sarebbe riduttivo. Coloro che operano questo metodo per arrivare alla verità più intima e profonda, sono definiti da Platone filosofi, mentre colore che si limitano all’osservazione della physis e ad avere verità sulla sua apparenza e non sul suo principio più intimo, sono definiti filodoxoi. Eraclito dice che coloro che si fidano delle apparenze hanno solo opinioni, che dice essere giochi da ragazzi. Essi, aggiunge, credono di sapere e capire ma sono sordi.
I pitagorici furono appunto i primi a sfruttare appieno le capacità del pensiero umano per giungere alla profonda convinzione che i numeri fossero l’arché, cioè che delle precise relazioni numeriche costituissero la base della natura e di tutte le cose che la compongono, che appaiono disposte armonicamente. Se si fossero basati solo sull’osservazione dell’apparenza, non avrebbero raggiunto che altre convinzioni simili a quelle dei fisiologi, sì la filosofia nasce grande, con grandi interrogativi, ma man mano che essa va avanti la risposta che si trova per essi è sempre più complessa e profonda.
Eraclito
Eraclito è la prima figura di pensatore isolato che troviamo nella storia della filosofia greca. Nasce a Efeso in Asia Minore, e raggiunge la maturità attorno al 500 a.C.. Dal carattere altero e superbo, ostile al regime democratico della sua città (che aveva esiliato l’amico Ermodoro), si ritira nel tempio di Artemide dove vive in contemplazione e in isolamento. Qui scrive un libro intitolato “peri physeos” (lo stesso nome dei trattati dei pensatori di Mileto) nel quale espone il suo pensiero. I circa cento frammenti che sono giunti a noi sono laconiche sentenze, più propriamente aforismi, scritte in uno stile ambiguo e oracolare. E l’intera opera fu composta con questo stile. Persino Socrate ne disse: “Ciò che si comprende è eccezionale, per cui desumo che anche il resto lo sia, ma per giungere al fondo di questa parte bisognerebbe essere un tuffatore di Delo”. L’ambiguità e la complessità di questo libro valsero ad Eraclito il soprannome di “skoteinòs”, l’oscuro. D’altronde, il filosofo di Efeso non scrisse questo libro per divulgare il suo pensiero, ma lo destinò ai suoi pochi discepoli, poiché, d’accordo col suo carattere aristocratico e sdegnoso del volgo, “gli uomini sono privi d’intendimento e, pur avendo prestato orecchio, assomigliano ai sordi”. Eraclito muore di idropisia nel 480 a.C..
Eraclito è il primo filosofo che assume l’uomo come elemento determinante della ricerca filosofico. Infatti, l’uomo deve cercare la verità dentro di sé ma la maggior parte degli uomini, non riuscendo a sentirla, si lascia ingannare dalle apparenze e si muove con indifferenza e in modo superficiale nel mondo in cui si trovano, incapaci di comprendere le verità anche quando si imbattono in essa: “Ma agli altri uomini (ovvero coloro che non colgono la verità) rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo”, e così anche nei frammenti 2 e 72. Allo stesso modo sono da criticare i sapienti del tempo perché colpevoli di polymathia (conoscenza in vari settori): esplorando vari campi del sapere umano, peccano di superficialità senza cogliere la verità. A questo genere di persone vengono relegati Omero, Archiloco, Esiodo ed Ecateo. Colpa ancora più grave quella di Pitagora, che pur essendo un filosofo non ha dato ascolto alla verità, ed è perciò considerato “l’iniziatore della schiera di coloro che ingannano con le loro chiacchiere”.
Eraclito usa il termine logos per indicare la verità, la legge generale del cosmo, l’armonia alla quale obbediscono sia il mondo naturale che l’uomo. È legge divina (nel senso non religioso del to theion di Anassimandro), legge universale e principio naturale interno alla physis, secondo il quale tutte le cose nascono e muoiono. È l’unità sottostante all’apparente molteplicità del mondo naturale, come sappiamo dal frammento 50 (“Ascoltando non me, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno”).
La seconda accezione di logos, che ha l’equivalente latino in ratio, è la ragione umana, l’intelletto a tutti comune che spiega e comprende la legge universale.
L’ultimo significato, il più comune, è “discorso, parola”. Probabilmente, nell’opera di Eraclito, è la sua parola, la sua dottrina filosofica, che attraverso la ragione umana spiega la legge universale. Il logos si esprime attraverso il noùs, l’intelletto, senza il quale non avrebbe significato. Parola, ragione e realtà sono perciò strettamente collegati fra di loro, e per questo Eraclito usa lo stesso termine: il logos (parola) descrive attraverso il logos (la ragione umana) il logos (l’armonia dell’universo). Dalla polisemia di questo termine proviene la difficoltà dell’interpretazione dei frammenti di Eraclito. Da notare che il compito della spiegazione è affidato alla parola, e non alla lingua scritta, in un epoca in cui l’oralità ha la prevalenza nella trasmissione del sapere.
Il logos è rivolto a tutti, ma non tutti sanno o vogliono ascoltarlo. Invece di rivolgere lo sguardo al principio universale, si fermano alle proprie opinioni che li allontanano dalla verità. Per questo il linguaggio comune non è adatto a descriverlo, e c’è bisogno di quello della filosofia. Filosofo è colui che segue la via della verità, cosa che solo pochi sono in grado di fare, secondo la visione aristocratica di Eraclito (“Ma pur essendo questo logos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria e particolare saggezza”, senza capire qual è la verità). Chi tuttavia intraprende questa via, sarà il migliore.
La realtà che annuncia il logos è un mondo costituito da un insieme di elementi contrari perennemente in lotta fra di loro, riprendendo il pensiero di Anassimandro. Ma mentre per quest’ultimo la lotta produceva un’ingiustizia che doveva essere scontata “secondo l’ordine del tempo”, per Eraclito l’armonia dell’universo è la lotta stessa. Il divenire delle cose è il risultato di questa guerra. Infatti dice che “Polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose, di tutte re”, e che “Bisogna però sapere che la guerra e comune (a tutte le cose), che la giustizia è contesa e che tutto accade secondo contesa e necessità”. I contrari non sono l’uno scisso dall’altro, ma sono inscindibilmente legati dalla complementareità: uno non potrebbe esistere senza l’altre. In questo modo il logos si oppone al modo di pensare comune, che tende a schierarsi dalla parte di un elemento, perché bisogna considerare l’armonia nel suo complesso e nella sua unità.
La realtà a causa della lotta dei contrari è in perenne trasformazione. Questo divenire cosmico proviene dal fatto che ogni contrario tende a trasformarsi nel suo opposto: “questi infatti mutando son quelli e quelli di nuovo mutando son questi”. Il mondo si trasforma secondo una legge interna, il logos. I frammenti 91 e 12 spiegano questa faccenda: “Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte” e “Acque sempre diverse scorrono per coloro che s’immergono negli stessi fiumi”. Il fiume nel quale ci si tuffa in due momenti diversi è lo stesso fiume, ma l’acqua non è più la stessa. È e non è lo stesso allo stesso tempo, secondo l’incessante legge del divenire causata dalla lotta dei contrari. “pantha rei”, tutto scorre. Eraclito è quindi il filosofo del divenire per eccellenza.
Simbolo di questo incessante cambiamento e dell’armonia di questa vitalità è il fuoco. Esso è un elemento vivo e in continuo movimento, capace di distruggere e trasformare ogni cosa. È sempre diverso ma sempre uguale. A seconda delle interpretazioni, il fuoco può essere il simbolo di questa legge del divenire (come sembrerebbe dal frammento 30) che “giudicherà e condannerà tutte le cose” o, ricollegando Eraclito alla scuola di Mileto, può essere considerato l’arché. Il fuoco raffreddandosi diventa acqua e poi terra, poi si riscalda di nuovo e diventa acqua e poi fuoco, in un ciclo sempiterno.
Filosofo greco nato ad Efeso in Asia Minore all’inizio del v secolo a.c. Ebbe rapporti molto stretti con la scuola ionica, tanto che viene presentato da alcuni storici come prosecutore di tale scuola, pur distaccandosene per la sua mentalità più di metafisico che di scienziato (disprezzo per la polimathia a favore di un’intuizione unitaria dell’universale). Scrisse un opera attorno alla natura della quale ci restano alcuni frammenti in uno stile oscuro e suggestivo. Anche Eraclito cerca di determinare l’archè cioè il principio primo del cosmo e lo identifica nel fuoco, da cui tutto proviene e da cui tutto ritorna; ma lui insiste soprattutto nell’affermazione del divenire universale. La realtà è un flusso perenne; tutto scorre;non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume o meglio non si può toccare più di due volte una sostanza nello stesso stato; la fissità e la stabilità sono mera apparenza. Il fuoco Eracliteo può essere interpretato come espressione o come simbolo di questa mobilità e dinamismo. D’altra parte, tale fluire non è scevro da urti e contrasti: anzi la legge di esso è l’opposizione dei contrari (vita o morte, vecchio o giovane, sveglio e dormiente ecc.) che si escludono e si implicano ad un tempo, conferendo un ritmo agitato e drammatico alla vicenda cosmica e umana. La lotta dice Eraclito è la regola del mondo, e la guerra è comune generatrice e signora di tutte le cose animate ed inanimate. Ad Omero che aveva auspicato la sparizione della discordia fra gli dei e gli uomini, Eraclito risponde che se il suo desiderio fosse esaudito, tutto cadrebbe in una “stagnazione mortale”. Il conflitto è la molla dello sviluppo, condizione stessa della vita. In Eraclito Hegel vide un precursore della concezione dialettica della realtà.
Parmenide
Mentre Eraclito è il filosofo del divenire e della dinamicità, Parmenide è il filosofo dell’essere e della staticità. È stato il primo ad applicare un principio della logica ad un ragionamento filosofico. La sua ontologia influenzò la storia del pensiero greco per due secoli. Iniziamo a parlarne partendo dal logos.
Per Parmenide, come in Eraclito, tra la realtà, la ragione umana e il linguaggio esiste una sostanziale identità; dall’ordine del mondo provengono l’ordine della mente che lo pensa e della lingua che lo descrive. Molti ragionamenti di Parmenide si basano su questa identità.
In più, approfondendo una distinzione implicita nei pitagorici e in Eraclito, opera una differenza tra pensiero e sensi: il primo è in grado di conoscere la realtà universale, il logos i secondi non possono che fermarsi alle apparenze, le doxai. Solo il logos può condurre all’aletheia, la verità.
Parmenide espone il suo pensiero in un poema in versi, chiamato in seguito “peri physeos”, dato che nel V sec. la lingua poetica è ancora molto più sviluppata della lingua in prosa, che si affermerà solo con la nascita della retorica. Sono arrivati a noi solo 19 frammenti. Il poema è diviso in due parti, dedicate l’una all’aletheia, l’altro alle doxai. Nel Proemio Parmenide, con uno stile epico-narrativo che ricorda Esiodo e la poesia Orfica, racconta il viaggio che ha compiuto verso la dimora della dea Dike (la Giustizia), che gli ha insegnato a distinguere il discorso vero da quello falso. La prima parte è a sua volta divisa in due sezioni; nella prima si mostrano al filosofo le vie possibili che gli si aprono, evitando quelle che lo allontanano dalla verità, nella seconda è descritta l’ontologia di Parmenide, ovvero la sua concezione dell’“essere in quanto tale”. La seconda parte (di cui abbiamo meno frammenti), più difficile, contiene la dottrina della doxa, e quindi una filosofia della natura sullo stampo di quelle ioniche e pitagoriche.
Essere o non essere?
Il nodo centrale della filosofia di Parmenide è l’essere. Nel frammento 2, la dea gli indica le vie, i metodi di ragionamento “che sono le sole pensabili: / l’una [che dice] che è e che non è possibile che non sia / è il sentiero della Persuasione (giacché questa tien dietro alla verità; / l’altra [che dice] che non è e che è necessario che non sia”. Si riferisce alla via dell’essere e alla via del non essere. Ma che vuol dire “via dell’essere”? Consideriamo un qualsiasi oggetto. Tra le sue caratteristiche, la più importante quanto lapalissiana è quella di “essere”, di “esistere”. E invece, non possiamo prendere una cosa che non esiste proprio per il fatto che non esiste. In più, dato che “lo stesso è il pensare e l’essere” (frammento 3), non si può nemmeno pensare a una cosa che “non è”, perché basta il pensiero a renderla esistente. Questo intende Parmenide: la via che ammette che le cose sono e che è necessario che siano (non possiamo dire che una cosa che esiste non esiste: sarebbe una contraddizione) e la via che ammette che esistono cose che non sono (e quindi la via dell’errore). In finale l’essere è (le cose che esistono esistono) e il non essere non è (le cose che non esistono non esistono): una magistrale (e forse la prima) applicazione del principio d’identità (un ovvio principio di logica: una cosa è uguale a se stessa e diversa dal suo contrario).
Mentre il linguaggio corrente e il pensiero dei primi filosofi non badano al fatto che le cose a cui pensano “siano”, Parmenide esamina questo, e in questo sta la sua originalità. Ogni cosa è diversa da un’altra: questo insegnano il senso comune, i fisiologi e soprattutto Eraclito, il filosofo della molteplicità e del divenire. Ma, per quanto differenti, avranno almeno una cosa in comune: esistono entrambi. Sono “enti”. “Enti” è il termine tecnico che traduce il ta onta greco, ovvero “le cose che sono”. Ed è logico dimostrare che “le cose che sono” sono. È questa è l’ontologia, ovvero il discorso sull’essere in quanto tale.
Essere, pensiero e linguaggio
Data l’identità tra verità, parola e pensiero, tre sono gli aspetti fondamentali della filosofia di Parmenide:
l’ontologia: e già ne abbiamo parlato;
la gnoseologia: solo ciò che è è pensabile;
il linguaggio: le cose che esistono trovano espressione adeguata all’interno del discorso.
Continuiamo ad applicare il principio d’identità. “Essere” perde la sua radice verbale e diventa un participio sostantivato, “to on” (“ciò che è”), e come tale gli si possono dare degli attributi. Questo passaggio avviene per differenziare ulteriormente l’essere dal non essere e impedire quindi di intraprendere la via dell’errore. Allo stesso modo “non essere” diventa “il non essere”, quindi “ciò che non è”: to me on.
L’essere è:
ingenerato e imperituro: “Difatti quale origine gli vuoi cercare? / Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò né / di dirlo né di pensarlo”. Se è nato, prima non era. Ma non poteva esistere una cosa che non era, quindi l’essere è ingenerato. Analogamente non avrà fine.
non ha passato né futuro: se “era”, ora non “è” più. Se “sarà”, ancora non “è”. Dato che l’essere è diverso dal non essere, si trova in una condizione di presente atemporale: “è” e basta.
senza fine: se ha una fine, al di là di quella fine non è più, il che è assurdo.
intero, continuo e indivisibile: “Neppure è divisibile, perché è tutto quanto uguale. / Né vi è in alcuna parte un di più di essere che possa impedirne la contiguità, / né un di meno, ma è tutto pieno di essere”. Se non fosse continuo, cosa si frapporrebbe tra le parti se non il non essere che non esiste? Né ugualmente ha senso che una cosa “è più di un’altra”.
unico: se ve ne fossero più di uno, dovrebbero essere diversi. Ma se uno è, l’altro, poiché è diverso, non è, il che è impossibile. Smonta così la molteplicità della natura caratteristica dei fisiologi prima e di Eraclito poi.
immobile: se si sposta, nel posto dove si trovava prima c’è qualcosa di diverso, quindi il non essere; questo non esiste, quindi l’essere è immobile e il pantha rei di Eraclito è un palese errore.
definito da tutti i lati e simile a una sfera: per Parmenide, che risente del pensiero pitagorico, l’infinito è una mancanza e una imperfezione, a differenza del pensiero comune moderno. Inoltre l’essere non dovrebbe avere lati diversi perché presupporrebbero discontinuità (pensiamo allo spigolo di un qualsiasi poliedro). Pertanto l’intuizione associa la finitezza all’assenza di discontinuità alla perfezione solo nella forma geometrica della sfera
Ora che abbiamo chiarito “cosa sia” l’essere, torniamo al discorso delle vie, dei metodi di ragionamento per descrivere la realtà. Uno, quello dell’essere, attraverso il puro ragionamento e il logos conduce all’aletheia. Il secondo, quello del non essere, conduce immancabilmente all’errore e, dato che la frase alla base di questo metodo è “il non essere è” (attenzione ora ai giochi di parole), non è un metodo logico, pertanto non si può pensare, quindi non si può dire, ma se non si può pensare né dire allora non è, quindi questo metodo non esiste. Allora perché l’ha tirato fuori? Forse per amore di completezza, o chissà. C’è un'altra via. Quella che viene da questa frase: “L’essere è e il non essere è”. È vera solo in parte. Questa è la via delle doxai, dell’apparenza, la via che intraprende la maggior parte degli uomini. Naturalmente, poiché parte dei presupposti sono sbagliati, con questo metodo non si può arrivare alla verità, ma si può descrivere una realtà verosimile.
“Da questa prima via di ricerca [quella del non essere] infatti ti allontano, / eppoi inoltre da quella per la quale mortali che nulla sanno / vanno errando, gente dalla doppia testa” (frammento 6). La terza via presuppone sia che si segua l’essere sia il non essere, quindi l’uomo che la segue ragiona contemporaneamente in due modi contraddittori l’uno con l’altro, e per questo ha due teste. “Perché è l’incapacità [di decidere] che nel loro / petto dirige l’errante mente; ed essi vengono trascinati / insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi, / da cui l’essere e il non essere sono ritenuti identici / e non identici”. L’incapacità di decidere tra l’essere e il non essere impedisce loro di giungere alla verità, e pertanto si devono limitare alle doxai.
Passiamo ora alla seconda parte del poema, quella dedicata alle opinioni e alle apparenza, insomma alla terza via. In essa riprende il concetto di lotta dei contrari, correggendo però il fatto che i contrari non sono assolutamente opposti, ma si compenetrano l’uno con l’altro. I contrari fondamentali, da cui nasce la molteplicità della natura, sono la luce e la tenebra. Dalla loro unione si forma il kosmos secondo una legge di necessità che Parmenide impersonifica in una dea.
Domanda. Se Parmenide ha detto che la terza via porta all’errore, perché formula una filosofia della natura, basata proprio sui contrari, sul molteplice e quindi sul divenire?
Per alcuni la seconda parte ci deve essere perché è l’unico modo per descrivere la realtà per come la vediamo, mentre l’aletheia mostra un qualcosa di completamente diverso. Per altri, tra i quali i prosecutori della scuola eleatica, furono di parere contrario, e esaltarono l’ontologia parmenidea.

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