Pietro Abelardo

Materie:Appunti
Categoria:Filosofia

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Testo

PIETRO ABELARDO
LA VITA E LE OPERE
Abelardo è la prima figura di intellettuale moderno. Nel 1079, Pietro Abelardo nasce a Palais, in Bretagna, vicino a Nantes, da nobile famiglia; Esponente della piccola nobiltà bretone, si dedica agli studi, frequentando la scuola di dialettica di Roscellino, lasciando ai fratelli il mestiere delle armi, ma immettendo una grande foga ed uno spirito battagliero nelle dispute intellettuali alle quali mai si sottrarrà.
Giunto a Parigi, si segnala per i suoi attacchi a Guglielmo di Champeaux, il più illustre dei maestri parigini, che reagisce costringendolo ad abbandonare la città. Abelardo è ormai un maestro e molti studenti lo seguono a Melun e a Corbeil, dove si ritira.
Dopo alcuni anni, rientra a Parigi, ripete i suoi attacchi a Guglielmo, si ritira di nuovo a Melun, ma, questa volta, tutti gli studenti lo seguono ed è la fine per la carriera di Guglielmo che si ritira dall'insegnamento, mentre Abelardo rientra trionfante sulla Montagna di Santa Genoveffa, nuovo centro di produzione intellettuale.
Poiché la teologia era considerata superiore ad ogni disciplina, egli, fino ad allora filosofo e logico, inizia ad occuparsi dei commenti alle Sacre Scritture.
Nel 1117, Abelardo incontra Eloisa, che aveva circa sedici anni, ed ottiene di andare ad abitare presso lo zio di lei, il canonico Fulberto, diventando il suo precettore e il suo amante. Fulberto scopre la relazione quando Eloisa è già incinta; Abelardo la rapisce dalla casa dello zio e la fa trasferire in Bretagna, presso sua sorella. Nel 1118, nasce il figlio di Eloisa e Abelardo, Astrolabio; Abelardo, per placare Fulberto, si dice disposto a sposare segretamente Eloisa, nonostante la contrarietà della stessa. Si celebra il matrimonio in segreto e subito dopo i due sposi si separano. Fulberto non è soddisfatto della soluzione, cosicché paga dei sicari, e Abelardo, colto nel sonno, viene evirato, mentre Eloisa prende il velo al monastero di Argenteuil. Abelardo è all'apice della gloria e solo la sua sfortunata storia con Eloisa ne oscura la fama. Dopo la sua disgrazia e il ritiro nel convento di Argenteuil di Eloisa, torna a scrivere di teologia, ma, nel 1121, un concilio a Soissons lo condanna al ritiro in convento mentre la sua opera viene bruciata, nonostante le difese del vescovo di Chartres. Si ritira a St. Denis ove non esita a stroncare gli scritti di Ilduino sul fondatore di St. Denis, dimostrando come quest'ultimo non avesse nulla a che fare con Dionigi l'Aeropagita, convertito da San Paolo. Di nuovo è costretto a fuggire e trovare rifugio presso il vescovo di Troyes, che gli assegna un terreno a Nogent sur Seine, sul quale fonda un oratorio dedicato alla Trinità, il monastero del Paracleto, mostrando di non essere eretico visto che il libro bruciato a Soissons era proprio dedicato alla Trinità.
San Bernardo raccoglie la sfida, su invito di Guglielmo di St. Thierry e, a partire dal 1140, orchestra gli attacchi alle sue opere e alle lezioni che nel frattempo Abelardo ha ripreso sulla Montagna di Santa Genoveffa. Bernardo giunge a Parigi e cerca di staccare gli studenti da Abelardo, per cui suggerisce un contraddittorio pubblico da tenersi a Sens. Abelardo accetta ma Bernardo cambia il carattere dell'incontro e lo trasforma in un Concilio per giudicare Abelardo, accusato di eresia. Con un lavoro di convincimento condotto sui vescovi e sugli abati, Bernardo ottiene una condanna di Abelardo ma essendo la stessa troppo mite, non esita ad inviare a Roma una documentazione che produce un aggravio delle pene: i libri di Abelardo vengono bruciati in San Pietro. Abelardo si rifugia a Cluny presso Pietro il Venerabile che riesce a riconciliarlo con Roma.
Il 21 aprile 1142, Abelardo muore a Chalons sur Saone, non dopo aver letto l'assoluzione scritta che il grande abate di Cluny gli aveva fatto pervenire.
LA RATIO, O RAZIONALITÀ
Discepolo di Roscellino e Guglielmo di Champeaux, insegnante di teologia presso Notre Dame, primo nucleo della libera università di Parigi,
Pietro Abelardo sostenne in maniera intelligente e appassionata l'importanza e l'autonomia della razionalità nel dibattito teologico, per cui il suo pensiero può essere sintetizzato nel motto Intelligo ut credam.
Siamo agli inizi di un risveglio filosofico in cui la ragione ha tutta la dignità per essere praticata e la formula fede – ragione comincia ad essere considerata come una formula che ha conclusioni positive.
Radicalmente opposto al credo ut intelligam di Anselmo d’Aosta troviamo l’intelligo ut credam di Abelardo. Non si può credere se non a ciò che si conosce e si deve in ogni caso discutere se si debba o no avere fede. Si deve credere all’autorità fintanto che non si è compreso la dimostrazione di ciò che essa vuole insegnare, ma la fede stessa diventa inutile nel momento in cui la ragione ha la possibilità di accertare in modo autonomo la verità.
Se non si dovesse discutere nemmeno di ciò che si deve o non si deve credere, non avrebbe differenza credere il vero o credere il falso. A differenza di Anselmo, in cui le maggiori implicazioni partivano dalla prova ontologica, in questo pensatore è proprio la nuova prospettiva del rapporto fede – ragione che ha le più rilevanti conseguenze. La ricerca di Abelardo è, infatti, impiantata su nuove basi, rilevando come egli vuole mostrare la necessità di adoperare la ragione per risolvere i contrasti e trovare la soluzione.
Questa nuova metodologia di indagine consiste nell’enunciare argomenti che si adducano pro e contro la risposta positiva e quella negativa, e infine nello scegliere una delle due soluzioni, confutando l’altra. Ciò è il concetto principale di una delle sue opere maggiori, il Sic et non. Successivamente, questo metodo sarà proprio di tutti gli scolastici e si manterrà fino alla fine della scolastica stessa, dopo Guglielmo di Ockham. Egli fu reso famoso dalla metodologia applicata nell'opera Sic et Non, una raccolta di sentenze diverse dei Padri della Chiesa su una serie di problemi teologici: il criterio che deve guidare una ricerca sui testi deve essere di natura critica e problematica, nella prospettiva di accertarne scientificamente il contenuto.
Il dubbio metodico è per Abelardo condizione indispensabile per conoscere la verità: dubitando ad inquisitionem venimus; questo metodo, prima energicamente osteggiato dalla Chiesa, venne in seguito apprezzato universalmente e caratterizzò la filosofia scolastica.
Un'altra opera, nella quale Abelardo esalta la razionalità al di là della confessione religiosa, è il Dialogo tra un giudeo, un filosofo e un cristiano, scritto negli ultimi anni nel suo soggiorno di Cluny. In quest'opera emerge il valore a sé stante della ragione, che si esprime anche al di fuori del cristianesimo, e un sostanziale accordo tra la filosofia pagana e le religioni giudaica e cristiana.
La concezione di fede e ragione ci permette di definire la metodologia di indagine, ma non è possibile ignorare le conseguenze nell’ambito delle dottrine teologiche come il modalismo, il necessitarismo e l’ottimismo metafisico, cioè la dottrina secondo la quale il bene, sia nel significato naturale, sia in quello morale, predomina sul male, che sarebbe soltanto relativo e apparente.
La connessione fra fede e ragione è meno rilevante nell’analisi delle filosofie islamiche ed ebraiche. In particolare, in Averroè si parla di necessità dell’essere, della dottrina dell’intelletto, dell’ordine necessario del mondo, del concetto di eternità dell’universo e della doppia verità, ma tutte queste tematiche non presentano al loro interno riferimenti alla fede. C’è come una prevalenza assoluta dell’intelletto che, nell’azione combinata di quello potenziale e quello attivo, astrae dalle rappresentazioni sensibili i concetti e le verità universali.
IL PROBLEMA DEGLI UNIVERSALI
Gli Universali sono associazioni che compongono il pensiero. Nella filosofia medievale, il Realismo è una posizione che concepisce i termini universali come reali, in opposizione al nominalismo, che negava l'esistenza degli universali. Nella filosofia scolastica medievale, il Nominalismo è una dottrina che afferma che le astrazioni dette universali sono prive di essenza o realtà sostanziale, poiché solo gli individui hanno esistenza reale. Gli universali, sono ritenuti meramente nomi: di qui il termine nominalismo. La dottrina nominalistica si oppone alla teoria filosofica detta realismo estremo, secondo la quale gli universali esistono realmente e indipendentemente dagli oggetti particolari. Relativamente alla questione degli universali, Abelardo confutò la posizione realista, perché l'universale non può essere una res, in quanto si predica della res individuale: è non un soggetto ma un predicato; ma egli escluse anche la posizione nominalista, negando che l'universale potesse ridursi a flatus vocis, in quanto anche in questo caso esso sarebbe una res fisica individuale, il suono della parola, e quindi si cadrebbe nella contraddizione precedente.
Benché il realismo di Scoto Eriugena, di Anselmo e della Scuola di Chartres esprimesse indubbiamente le posizioni più retrive e conservatrici, esso restava, dal punto di vista teoretico, più rigoroso del nominalismo. Il nominalismo non è mai riuscito ad abbandonare il terreno della speculazione teologica: non solo esso accettò un dibattito accademico poco significativo, ma non fece neppure nulla per prescindere dall'ipotesi dell’esistenza di Dio.
Quando un realista afferma che la verità dei propri enunciati è assicurata da Dio, ogni discussione è vana in partenza. Roscellino, limitandosi a sostenere che gli universali sono, in realtà, solo cose individuali, in quanto l'ante rem non esiste, contribuì allo sviluppo dell'ateismo: il suo materialismo, infatti, era troppo convenzionale, e soggettivistico. S'egli avesse affermato che gli universali esistono nella storicità degli uomini, nell'esperienza sociale ch'essi vivono, allora il suo materialismo sarebbe stato credibile e la condanna immeritata. Non si può vincere l'idealismo in maniera superficiale, anche perché l'idealismo trae le sue origini dalla religione più sofisticata della storia: il cristianesimo. L'idealismo pre – cristiano non regge il confronto con quello post – cristiano. Ecco perché il materialismo ha il compito di spostare radicalmente l'attenzione dell'osservatore da Dio all'uomo.
La differenza tra Roscellino e Abelardo sta nel fatto che, per quest'ultimo, il nominalismo doveva avere un valore logico, altrimenti diventava sterile, inutile. Per Abelardo, il convenzionalismo doveva aspirare all'universalità, impedendo al relativismo di assolutizzarsi.
Abelardo si oppose al realismo negando agli universali un'esistenza esterna al pensiero che annulli ogni differenza tra gli individui, che sono le uniche realtà complete. Questa posizione non coincide, però, con il nominalismo, poiché egli aggiungeva che gli universali possiedono una certa somiglianza o natura comune, che significa qualcosa di reale; è una posizione intermedia, in seguito definita concettualismo. Il Concettualismo è una teoria intermedia tra nominalismo e realismo, nella quale gli universali, sebbene privi di esistenza reale nel mondo esterno, esistono nell'intelletto come idee o concetti, e sono, quindi, qualcosa di più di puri nomi. Per Abelardo, l'universale è ciò che è nato per essere predicato di più cose e quindi ha un valore esclusivamente logico: esso è sermo, cioè parola che significa le realtà individuali per ciò che esse hanno in comune tra loro.
L'universale, per Abelardo, non sta nella struttura delle cose, cioè in una loro qualità intrinseca, ma piuttosto nel loro modo di porsi (che lui chiamò status): un modo che poteva essere compreso razionalmente. Abelardo diceva che non c'è universale che non abbia rapporto con una cosa, però aggiungeva che l'universalità delle cose dipende dal modo come queste cose si lasciano concettualizzare.
IL MODALISMO
Nelle sue opere teologiche, Abelardo definisce la Trinità in base agli attributi che le sono propri: il Padre è la Potenza, il Figlio è la Sapienza di Dio, lo Spirito è l'Amore che procede dal Padre e dal Figlio. San Bernardo, che fu molto in polemica con Abelardo, lo accusò di modalismo, cioè di identificare le Persone della Trinità con gli attributi dell'unica sostanza divina.
LA LIBERTÀ
Un altro tema importante nel pensiero di Abelardo è quello della libertà. Questa, che coincide con la ragione, è immagine nell'uomo della sapienza divina e permette all'uomo di combattere le naturali inclinazioni al male, che di per sé‚ non sono peccato; il peccato è l'assenso dato a queste inclinazioni, a prescindere dal fatto che ciò avvenga tramite atti concreti o solo nell’intenzione. Anche il peccato di Adamo non può essere imputato a ciascun uomo per motivi analoghi, anche se tutti gli uomini ne subiscono le conseguenze.
Abelardo distingue tra vizi dell'anima, cioè le inclinazioni naturali al male, i difetti oggettivi della persona, strutturali al suo esserci, secondo la terminologia cattolico-romana, e il peccato vero e proprio, che è il consenso intenzionale, soggettivo, alle proprie attitudini negative. Infine, vi è l'azione cattiva, che non dipende dal consenso volontario, ma è il frutto di circostanze fortemente condizionanti.
LE BUONE E LE CATTIVE INTENZIONI
Abelardo criticò la morale conformistica del suo tempo, che tendeva a dividere la società in buoni e cattivi, sulla base di determinati comportamenti esterni, formali. Egli cercò di sottrarre all'arroganza del clero la libertà del singolo credente, ma non seppe dare alle rivendicazioni laiche del singolo un contenuto sociale e politico.
Tuttavia, Abelardo cercò anche di giustificare le contraddizioni del suo tempo, affermando che le inclinazioni dell'uomo verso il male sono naturali, cioè inevitabili: tesi, questa, tipica dell'idealismo, religioso e laico. Egli disse che il vero peccato sta nel libero consenso a tali inclinazioni, ma ognuno si rende conto che se tali attitudini al vizio sono costitutive, il consenso ad esse sarà libero solo fino a un certo punto.
Abelardo non ha mai saputo trovare nella realtà sociale le cause che possono indurre l'uomo al male. Egli arrivò ad affermare che l'azione diventa buona o cattiva se deriva da un'intenzione buona o cattiva. Con molta difficoltà egli avrebbe accettato l'idea che un'intenzione buona può generare un'azione cattiva. Abelardo sosteneva che, oggettivamente parlando, un'azione è neutrale, di per sé, al bene o al male, cioè essa non è né buona né cattiva, se si prescinde dall'intenzione che l'ha mossa.
Abelardo può aver ragione solo in un senso: la bontà di un'azione non può essere misurata con un criterio formale, con un metro prefissato, né a priori né a posteriori. Un gesto di bontà non può essere messo a confronto con un altro gesto di bontà.
In ogni caso, se uno potesse essere sicuro, a priori, che le sue intenzioni avranno soltanto effetti positivi, gli errori sarebbero ridotti al minimo, anzi neppure esisterebbero, in quanto libertà e libero arbitrio, che è la facoltà di scelta, coinciderebbero in toto.
La posizione di Abelardo appare paradossale: egli voleva valorizzare unicamente le intenzioni, proprio perché riteneva che, oggettivamente, non potesse esistere un criterio per stabilire la verità o falsità delle azioni, ma, così facendo, finiva proprio per confermare questa mancanza di criterio, rendendo impossibile stabilire la bontà di un'azione.
Invece di mettere in discussione i criteri di giustizia sociale del suo tempo, preferiva affermare una sorta di società anarchica, in cui ognuno si comporta come meglio crede.
In realtà, vi sono intenzioni buone che possono produrre effetti negativi e intenzioni cattive che possono produrre effetti positivi. Questa doppia possibilità permette, nel primo caso, di tenere controllata la fiducia nelle capacità umane e, nel secondo caso, di non disperare quando questa fiducia viene mal riposta. La bontà o la cattiveria delle azioni non dipende tanto dalle intenzioni soggettive, quanto piuttosto dall'oggettività delle situazioni in cui esse vengono poste.
Un'azione può essere considerata positiva se è adeguata alle esigenze umane, cioè se sa rispondere alle domande di giustizia e di libertà che la gente pone. Ma questo solo col tempo può essere verificato, sulla base degli errori compiuti, benché di regola un'azione è tanto più positiva quante più persone vengono coinvolte nella sua nascita e nel suo sviluppo.
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