Pascal e Vico

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Categoria:Filosofia

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Testo

BLAISE PASCAL
Autonomia della ragione, miseria e grandezza dell’uomo e ragionevolezza del dono della fede
I. La passione per la scienza, le due conversioni, l’esperienza di Port-Royal
L’interesse scientifico; le due conversioni; il soggiorno a Port-Royal
Blaise Pascal nacque a Clermont nel 1623. genio precocissimo, incline alla matematica e alla scienza, a 16 anni scrisse un Trattato delle coniche, assai apprezzato ma andato perduto; a 18 anni inventò la “macchina aritmetica”, la prima macchina calcolatrice, e a 23 inventò l’esperienza del vuoto, dimostrando che tutti i fenomeni fino ad allora attribuiti al vuoto cono invece causati dalla pesantezza dell’aria.
Nel 1646, in un periodo di convalescenza del padre, Blaise entrò in contatto con due medici che gli fecero conoscere le opere dell’abate di Saint-Cyran, dalle quali egli fu convinto e “condotto a Dio” insieme a tutta la sua famiglia: è la “prima conversione” di Pascal, e il suo primo contatto con Port-Royal.
Nel 1651 morì il padre, suo unico vero maestro, e nel 1652 la sorella Jacqueline entrò a Port-Royal per prendere il velo. Dopo un breve “periodo mondano”, gravato tra l’altro da una cefalea quasi insopportabile, Pascal fu colpito la notte del 23 novembre 1654 da una profonda illuminazione religiosa, e scrisse un famoso Memoriale: è questa la “seconda conversione”, seguita dalla decisione di lasciare ogni attività mondana.
Tra il 1655 e il 1656 trascorse alcune settimane presso i Solitaires di Port-Royal, ormai sotto la bufera della polemica antigiansenista. A difesa dei Giansenisti e in polemica contro il lassismo morale dei Gesuiti, scrisse sotto pseudonimo le Provinciali, diciotto lettere di cui l’ultima data 24 marzo 1657: la Congregazione dell’Indice condannò l’opera nel settembre dello stesso anno. Egli tentava nel frattempo di realizzare il progetto di un’Apologia del Cristianesimo, i cui frammenti furono raccolti e ordinati nei Pensieri (1669). Morì il 19 agosto 1662.
II. La demarcazione tra sapere scientifico e fede religiosa
Limite preciso tra scienze empiriche e teologia
Nel frammento di Prefazione al progettato Trattato sul vuoto, Pascal traccia una netta demarcazione tra scienze empiriche e teologia, in cui attacca soprattutto il principio di autorità nella ricerca razionale: nella teologia, infatti, il principio di autorità è legittimo e necessario, ma nelle materie empiriche o razionali l’autorità è inutile, perché solo la ragione ha il modo di conoscerle e di farle progredire.
Le verità teologiche sono diverse da quelle che si ottengono col ragionamento e l’esperienza: eterne le prime, progressive le seconde. Occorre dunque lasciare intatte le verità eterne rivelate e far progredire di continuo le verità umane.
Dal metodo della geometria al metodo ideale
Secondo Pascal, gli uomini sono strutturalmente impotenti a trattare con ordine completo qualsiasi scienza, perché è impossibile definire tutti i termini impiegati e dimostrare tutte le proposizioni addotte. Tuttavia, se è impossibile operare con un metodo scientifico perfetto e completo, è possibile applicare un metodo meno convincente, ma non meno certo: il metodo della geometria, il quale consiste nel non definire verità evidenti comprese da tutti gli uomini, e nel definire le altre meno evidenti. Ora il metodo ideale è realizzato dall’ ”arte di persuadere” e consiste di tre parti essenziali, cui corrispondono altrettanti gruppi di regole:
1. definizioni chiare di tutti i termini di cui ci si serve;
2. assiomi evidenti posti a fondamento della dimostrazione;
3. dimostrazioni in cui i termini definiti vanno sempre mentalmente sostituiti con le definizioni.
Per la conoscenza dell’uomo occorre anche lo spirito intuitivo
Per conoscere a fondo l’uomo, tuttavia, non è sufficiente il solo esprit de gèomètrie, il quale riguarda i principi “tangibili”, mentre la realtà dell’uomo è un “prodigio” complesso, enigmatico e contraddittorio, e le premesse certe dei matematici sono quelle che, tutto sommato, non riescono a cogliere i lati più ricchi e interessanti della realtà e della vita. Occorre dunque soprattutto esprit de finesse, quello spirito intuitivo che non s’insegna ma si sperimenta, e che però ha anch’esso una forte valenza normativa; questo esprit comporta infatti necessariamente una mente vigile e attenta, non ottenebrata da desideri e da passioni, ed è in grado di raggiungere così quei domini e quelle realtà irraggiungibili per l’esprit de gèomètrie: le verità etico-religiose, da cui dipende il nostro destino, il senso della nostra esistenza, e che non rientrano nell’arte del persuadere perché solo Dio può infonderle nell’anima.
III. Grandezza e miseria della condizione umana
La grandezza e la dignità dell’uomo consistono nel pensiero
Secondo Pascal, come per Montagne, l’oggetto per eccellenza della filosofia è l’uomo, e la riflessione sull’uomo porta subito alla considerazione che la grandezza e la dignità dell’uomo consistono nel pensiero: “L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante”. La grandezza dell’uomo sta dunque anche nel riconoscersi miserabile, e Pascal punta l’attenzione sulla miseria ontologica della condizione umana: l’uomo è un nulla rispetto all’infinito, è un tutto rispetto al nulla, è un qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto. La grandezza e la miseria dell’uomo sono saldamente legate insieme, e questo è il realismo tragico di Pascal: l’uomo, con le sue sole forze, riuscirà unicamente a comprendere di essere un mostro incomprensibile, ma non a creare valori fermi e a trovare un senso stabile e vero dell’esistenza.
Il divertimento è fuga da noi stessi
L’uomo è dunque una creatura caduta dal suo posto senza poterlo ritrovare, cercandolo dappertutto con inquietudine e senza successo: non avendo potuto guarire la morte e la miseria, l’uomo ha deciso di non pensarci per rendersi felice e ha scelto il divertimento. Il divertissement è fuga davanti alla visione lucida della miseria umana,è stordimento che ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte: il divertimento è fuga da noi stessi, dalla nostra miseria, ma è la massima miseria nostra, perché ci proibisce di guardare in noi stessi e di pensare. Solo il pensiero porta all’essenziale verità, per cui l’uomo è costitutivamente indigente e misero: ed è sulla base di questo riconoscimento che Pascal costruisce la sua apologia del Cristianesimo.
IV. L’impotenza della ragione a fondare i valori e a provare l’esistenza di Dio
Il vero Cristianesimo consiste nella sottomissione della ragione
La salvezza dell’uomo non è frutto della scienza ne della filosofia. La ragione è impotente davanti alle verità etiche e a quelle religiose, e la fede è un dono di Dio. Il vero Cristianesimo consiste dunque nella sottomissione e nel retto uso della ragione. Da sola, inoltre, la ragione non arriva nemmeno a Dio: le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal comune modo di pensare degli uomini che riescono poco efficaci. Noi conosciamo Dio solo per mezzo di Gesù Cristo, e la fede cristiana insegna in sostanza questi due solo principi: la corruzione della natura umana e l’opera redentrice di Gesù Cristo. Per la fede, tuttavia, è rilevante anche l’esercizio della ragione, la quale, facendo argine allo stordimento del divertissement e gettando luce sulla miseria dell’uomo, è in grado di valutare in che misura la fede cristiana dia senso all’esistenza umana e, infine, può di per se scommettere su Dio.
Si deve scommettere in favore dell’esistenza di Dio
Una cosa è certa: Dio esiste oppure non esiste. Al riguardo, la ragione non può determinare nulla, perché di mezzo c’è un caos infinito; ma può e deve scommettere in favore dell’esistenza di Dio, perché se vince, guadagna tutto (un eternità di vita e di beatitudine), se perde non perde nulla. Occorre insomma rendersi disponibili all’accoglimento della grazia, la quale è necessaria perché la caduta e la nostra natura corrotta ci hanno resi indegni di Dio. È Dio che si rivela, ma Egli è a un tempo un Deus absconditus: è rimasto nascosto fino all’Incarnazione, e, quando è venuto il tempo di mostrarsi, s’è nascosto ancora di più con l’umanità. Gesù Cristo è la prova di Dio.

GIAMBATTISTA VICO
E la fondazione del “mondo civile fatto dagli uomini”
I. Vita e opere
Vita e opere
Gianbattista Vico nacque a Napoli il 23 giugno 1668 da un modesto libraio. Frequentate le classi di grammatica, abbandonò insoddisfatto gli studi regolari dandosi a letture disordinate. Successivamente si dedicò al diritto civile, e dal 1686 al 1695 fu precettore nel Castello di Satolla nel Salernitano. Nel 1699 vinse la cattedra di eloquenza latina e retorica all’università di Napoli, dove fino al 1708 pronunciò ogni anno le orazioni inaugurali dell’anno accademico (nella più importante di queste, il De nostri temporis studiorum ratione, espresse il suo dissenso nei riguardi delle nuove correnti filosofiche e scientifiche). Nel 1710 pubblicò il primo libro del De antiquissima Italorum sapientia, ma la stroncatura della critica gli fece interrompere la stesura dell’opera. Tra il 1713 e il 1719 studiò le opere di Ugo Grozio, e nel 1720 scrisse il De universi juris uno principio et fine uno, seguito subito dopo dal De constantia philosopihiae e dal De con stantia philologiae. Nel 1725 ultimò la sua opera maggiore, Principi di una Scienza nuova (riveduta e ripubblicata nel 1730, con una terza edizione nel 1744). Nel 1728 uscì la prima parte della sua Autobiografia; la seconda parte venne ultimata nel 1731 e fu pubblicata solo nel 1818. morì il 20 gennaio 1744.
Vico prospettò problemi essenziali e soluzioni sul terreno della storia cui si richiameranno più tardi il positivismo e lo storicismo. Ma il mancato approfondimento di alcuni temi centrali della cultura moderna è la ragione per cui nel ‘700 Vico visse nell’isolamento, nell’ ‘800 ebbe scarsa risonanza e solo nel ‘900, per merito di Benedetto Croce, fu studiato e rivalutato.
II. I limiti del sapere dei “moderni”
La critica del metodo analitico cartesiano
Vico critica il metodo analitico cartesiano sia sul piano della ricerca scientifica, sia su quello propriamente filosofico. Sul piano scientifico, il metodo cartesiano matematicamente ispirato è del tutto astratto, privo del criterio di controllo fattuale delle ipotesi scientifiche; le verità fisiche che non sono prodotte dall’uomo, non risultano infatti dimostrabili con la stessa attendibilità degli assiomi geometrici, che sono invece creazione umana. Sul piano filosofico, con il cogito cartesiano si può pervenire alla coscienza dell’esistenza, cioè all’accettazione del fatto, ma non alla scienza, che riguarda invece le cause e gli elementi costitutivi del fatto; inoltre, il metodo cartesiano si preclude l’accesso all’ampia gamma del verosimile, che sta a metà fra vero e falso ed è in realtà la verità umana per eccellenza, cui s’ispirano la poesia, l’arte, la storia.
III. Il “verum- factum” e l’unione di “filologia” e “filosofia” nella scienza della storia
“Norma del vero è l’averlo fatto”
La convinzione di fondo di Vico è che sia possibile avere scienza solo di ciò che si è in grado di fare o rifare: “Norma del vero è l’averlo fatto”. È questa la via per raggiungere l’autentica chiarezza e distinzione, che sono le caratteristiche del sapere rigoroso. Verum et factum convertuntur: il fatto o il fare è la condizione del vero, e il vero è la stessa cosa del fatto. Ora, se Dio è somma sapienza perché artefice di tutto, l’uomo ha tuttavia un regno in cui è il protagonista incontrastato: il mondo della storia, con le sue istituzioni, i commerci, le guerre, i costumi, i miti. Della storia si può e si deve dunque avere scienza, ma, essendo una “scienza nuova”, occorre precisarne elementi, principi e metodo.
Il vero è l’idea (filosofia), il certo è il fatto (filologia)
L’orientamento generale della lettura vichiana della storia è costituito dalla sintesi vitale di ideale e reale, di vero e certo, e dunque di “filosofia” e “filologia”.
Il vero è l’idea (filosofia), il certo è il fatto (filologia): verità e certezza, idea e fatto, devono quindi compenetrarsi fino alla loro convertibilità, fino a trovare il fatto nel vero e il vero nel fatto. Il vero che la filosofia elabora e offre alla filologia si articola in tre nuclei teorici:
a) l’idea eterna, risultante da quell’insieme di valori (giustizia, verità, ecc.) tematizzati da Platone;
b) l’incidenza di tale idea nella mente umana;
c) la ricostruzione della genesi di un fatto storico rilevante, indicandone le modificazioni provocate sugli stessi uomini che ne sono gli attori.
Il certo che la filologia elabora e offre alla filosofia si muove in due ambiti:
a) le tradizioni, intese come espressione autentica del volgo;
b) il linguaggio, giacché il nesso tra lingua e vita è radicale, e in particolare bisogna ammettere una lingua mentale originaria e comune a tutte le nazioni, che ha reso possibile la storia umana.
E così la sapienza volgare (la filologia), partecipando alla sapienza ideale (la filosofia), consente di guardare alla storia come a una serie di eventi attraverso cui gli uomini hanno realizzato o anche disatteso le storia ideale eterna che scorre sotto le storie delle nazioni.
La concezione della storia e l’eterogenesi dei fini
L’uomo è il protagonista della storia, e lo è con i due tratti originari della sua natura:
1. la socievolezza, che emerge malgrado i sacrifici che ha imposto;
2. la libertà, che si determina e manifesta solo operando.
La storia è dunque ciò che gli uomini hanno voluto che fosse, sebbene nel quadro delle convinzioni e dei mezzi disponibili.
Questo punto di vista rientra nella più ampia e fondamentale concezione vichiana della eterogenesi dei fini: l’uomo crea infatti le istituzioni, ma queste retroagiscono sull’uomo che le ha create, facendo emergere lentamente, prima che l’uomo se ne renda conto, delle potenzialità nascoste e dei germi di idealità superiori. La storia è dunque il luogo nel quale bisogni e fini reconditi, iscritti nella natura dell’uomo, emergono e si impongono via via alla sua attenzione e al suo spirito, il quale così si dilata e si affina.
IV. Le età della storia e la Provvidenza divina
L’età degli dei, l’età degli eroi, l’età degli uomini
Vico ripartisce la storia in età degli dei, età degli eroi e età degli uomini.
La prima comincia con “uomini stupidi, insensati”, la cui natura era data dal prevalere dei sensi, e gli uomini, poiché erano incapaci di riflettere, identificavano i fenomeni di natura con diverse divinità. In questo ambito i primi governi furono divini: “gli uomini cedettero ogni cosa comandare gli dei”.
La seconda età, quella degli eroi, è caratterizzata dal predominio della fantasia. Le prime associazioni di uomini, formatesi per proteggersi contro gli oppressori, furono presto capeggiate da capi tribù la cui autorità venne fondata sul diritto eroico basato sulla forza.
La terza età è quella degli uomini “o della ragione tutta spiegata”. È un periodo caratterizzato da lotte interne alle singole città, provocate da chi cominciava a ribellarsi e a pretendere concessioni. È questa l’età in cui gli uomini pervengono finalmente alla coscienza critica.
Il linguaggio nella “scienza nuova”
Un posto centrale nella “scienza nuova” occupa il “linguaggio”. Il linguaggio non è una creazione arbitraria, ma si è formato sotto la pressione di impellenti necessità. Vico descrive vari tipi di linguaggio: quello gestuale, il geroglifico, il cantato che precede quello in prosa. Vico inoltre sostiene che la poesia è l’espressione più appropriata per “l’animo perturbato e commosso”, e il valore di questa è riconoscibile nei miti, gli “universali fantastici”, a cui il filosofo accorda molta importanza.
La storia, oltre che opera dell’uomo, è anche opera di Dio
La storia, oltre che opera dell’uomo, è anche opera di Dio, la cui Provvidenza è l’artefice di quella storia ideale eterna che scorre sotto le storie di tutte le nazioni. Da sempre gli uomini avvertono la presenza di questo progetto ideale che si chiarisce via via nei secoli, ma non la possono dominare, bensì ne sono dominati.
La provvidenza è il veicolo di comunicazione degli uomini con Dio, è il ponte tra l’eterno e il tempo, è il senso della storia, il quale è nella storia e insieme fuori dalla storia. Ciò si spiega ancora una volta con l’eterogenesi dei fini, in quanto gli effetti delle azioni vanno sempre oltre l’intenzionalità esplicita degli uomini: in ultima analisi, è in virtù della Provvidenza che l’uomo fa più di quanto sa, e spesso non sa quello che fa.
La legge dei ricorsi storici
L’opera della Provvidenza è universale ma non necessitante. Gli uomini conservano libertà e responsabilità, e possono mantenersi fedeli al progetto ideale eterno, come pure tradirlo.
La legge dei ricorsi storici o delle cadute delle nazioni, dunque, non è una legge universale, ne tantomeno necessaria. Tuttavia, la legge dei ricorsi è una possibilità oggettiva, perché il ricorso ha luogo quando il dominio della ragione cade nell’astrattezza e nel progressivo inaridimento del sapere; allora la perdita di rapporto simbiotico con il passato e l’incapacità di alimentarsi alle sorgenti della fantasia provocano la rottura con il mondo ideale della Provvidenza.
Per Vico, dunque, la storia non è una sorta di sviluppo unilineare e progressivo in cui è tutto positivo; quando la ragione entra in crisi, si ha l’indebolimento di tutto l’uomo e del suo mondo istituzionale; ma anche in questo stadio di corruzione e di decadenza si fa sentire la presenza insopprimibile del progetto ideale eterno, attraverso cui opera la Provvidenza, che sprona gli uomini a riprendere la strada.

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