Odissea IX

Materie:Appunti
Categoria:Filosofia

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Testo

Odissea: XI canto, vv.170 – 335

Quando al mattino apparve l’aurora dalle rosee dita,
io, radunata l’assemblea, dissi a tutti
«Voi altri, rimanete qui ora, miei cari compagni;
io, invece, con la mia nave e i miei compagni,
andrò a fare conoscenza di questi uomini, chi essi siano
per sapere se sono violenti; selvaggi e ingiusti
oppure ospitali e hanno un cuore timoroso degli dei.»
Così detto salii sulla nave e ordinai ai compagni
Di salire anche loro e di sciogliere le cime.
Essi salirono subito e sedettero ai banchi
Seduti in ordine il mare bianco battevano con i remi.
Ma quando quel luogo raggiungemmo, che era vicino,
là in lontananza vedemmo una grotta, vicino al mare,
con una ampia apertura, coperta di alloro; là molti
animali, pecore e anche capre stavano; attorno un recinto
alto c’era, (fatto) di pietre conficcate nel suolo,
e alti pini e querce dalle alte fronde.
Qui viveva un uomo gigantesco, che pascolava le greggi
Da solo, in disparte, non con altri
Stava, ma stando in disparte, non conosceva la legge.
Era una meraviglia mostruosa, non assomigliava
Ad un uomo mangiatore di pane, piuttosto ad una cima selvosa
Di alti monti, che appare distante dalle altre.
Allora io esortai gli altri cari compagni
A restare presso la nave e a custodirla,
ed invece io, dopo aver scelto i migliori dodici
andai; ebbene avevo con me un otre di pelle di capra di vino nero
Dolce, che mi diede Marone, figlio di Euanto,
sacerdote di Apollo, che aveva protetto Ismaro;
poiché l’avevamo risparmiato con il figlio e con la moglie
per rispetto del dio, dato che abitava nel bosco sacro pieno di alberi
di Febo Apollo, ed egli mi diede splendidi doni:
sette talenti d’oro ben lavorato,
un cratere tutto d’argento, ed inoltre
del vino dopo aver versato 12 anfore in tutto,
dolce, puro, bevanda degli dei; nessuno lo
conosceva né servi né ancelle a casa,
ma lui stesso, la sposa e la sola dispensiera.
Quando lo bevevano quel vino dolce come il miele rosso
Avendo riempito una coppa, con 20 misure d’acqua lo mescolava
Si spandeva dal cratere un profumo soave,
di vino; non sarebbe stato piacevole starvi lontano.
Avendone riempito una grande otre lo portavo e anche dei cibi in un sacco
Subito infatti il mio cuore fiero mi disse
Che avremmo incontrato un uomo rivestito di grande forza
Selvaggio, che non conosceva né le leggi umane né quelle divine.
Velocemente giungemmo nella grotta, e non lo trovammo
Dentro, ma conduceva al pascolo le pingui greggi
Entrati nella grotta osservammo ogni cosa;
i graticci erano pieni di formaggio, i recinti erano pieni
di agnelli e capretti; stavano tutte rinchiuse distinte
e separate, da una parte quelle nate prima, da una parte le mezzane
da una parte le ultime nate; tutti i recipienti erano pieni di siero
secchi e catini, ben fatti, nei quali era solito mungere.
Pregavano con parole all’inizio me i compagni
Di tornare indietro dopo aver preso i formaggi, e poi
Navigare sulla distesa salata dopo aver spinto capretti e
Agnelli dai recinti navigare con la nave sull’acqua salata.
Ma io non li ascoltai – e sarebbe stato meglio –
Per vederlo, se mai mi desse i doni ospitali.
Certo egli apparso non doveva risultare amabile ai compagni.
Allora acceso il fuoco facemmo sacrifici e anche noi
preso del formaggio mangiammo, e lo aspettavamo dentro
seduti; fino a che giunse dal pascolo; portava un ingente peso
legna secca, per prepararsi la cena.
Gettandolo nella grotta provocò un gran frastuono,
e noi, spaventati, ci rifugiammo nella parte più profonda della grotta
Poi lui spinse nell’ampia grotta le pingui greggi,
che era solito mungere; lasciò fuori i maschi,
gli arieti e i caproni, fuori nel cortile cintato.
Poi pose come chiusura un masso grande e pesante dopo averlo sollevato;
22 buoni carri a 4 ruote
non lo avrebbero smosso dal suolo;
un masso tanto grande mise alla porta.
Seduto egli mungeva le capre e le pecore belanti.
Tutte quante in ordine, e sotto ciascuna pose un piccolo.
Subito dopo aver fatto cagliare metà del latte bianco,
raccoltolo lo ripose nei cesti intrecciati
metà lo mise nei vasi, perché fosse per lui
da bere affinché se ne servisse come cena.
Poi, dopo che si affrettò a sbrigare le sue cose,
allora accese il fuoco e ci vide, ci chiese:
«Chi siete, stranieri,? Da dove navigando le umide vie,
forse per qualche vostra faccenda, oppure navigate a caso
come i briganti che navigano sul mare e rischiano
la loro vita, portando danno agli stranieri?»
Così disse e dentro di noi si spezzò il cuore
Terrorizzati dalla voce tremenda e dal mostro.
Ma anche così rivolgendogli parole dissi:
«Siamo Greci e navighiamo da Troia,
in preda a tutti i venti sopra il vasto abisso del mare
desiderando di tornare in patria, altre strade, altre rotte
abbiamo percorso, questo ha voluto il pensiero di Zeus
Ci vantiamo di essere soldati dall’Atride Agamennone,
di cui oggi la fama è grandissima sotto il cielo;
ha distrutto una grande città e ucciso tanti uomini,
Noi se vuoi ti abbracciamo le ginocchia,
se vuoi darci il dono ospitale o qualche altra
cosa, com’è usanza per gli ospiti.
Ma rispetta, signore, gli dei; noi siamo supplici,
Zeus è vendicatore di supplici e ospiti ,
Zeus che accompagna gli ospiti e assicura loro il rispetto.»
Così dissi ed egli subito mi rispose con fare impietoso:
« Sei sciocco, straniero, o vieni dal mondo lontano,
se mi esorti a rispettare o a temere gli dei.
I ciclopi non si curano di Zeus egioco
Né degli dei beati: noi siamo molto più potenti.
Non risparmierò certo per preoccupazione per il timore di Zeus
Né te, né i tuoi compagni, se il mio cuore dice altro.
Ma dimmi dove hai lasciato la solida nave
Forse da qualche parte ai limiti estremi o qui vicini, affinché io lo sappia.»
Così diceva tentandomi, ma non rimase nascosto a me che so molte cose
Ma a mia volta mi rivolsi a lui con parole ingannevoli;
«La nave me la ha distrutta Poseidone ennosiegeo
gettandola sugli scogli ai confini della vostra terra
dopo averla sospinta su un promontorio;il vento l’aveva portata dall’alto mare.»
Così dissi e quello non mi rispose con animo spietato
Ma quello con un balzo allungava le mani sui compagni
Afferrati due come cuccioli li sbatté a terra
Il cervello scorreva fuori a terra bagnando il suolo.
Tagliatili a pezzi si preparò la cena
Mangiava come un leone montano, e non lasciava nulla,
intestini, carne, ossa con il midollo.
Noi piangendo alzammo le mani a Zeus,
vedendo quelle azioni nefande, l’impotenza dominava il mio cuore.
Dopo che il ciclope si fu riempito il grande ventre
Mangiando carni e bevendo latte puro
Giaceva dentro la grotta disteso tra le greggi.
Io pensai nel mio cuore magnanimo
Andandogli vicino, traendo fuori la spada affilata dal fianco,
di ferirlo al petto, dove il diaframma chiude il fegato
tastando con la mano; ma un altro impulso mi trattenne:
infatti saremmo morti là anche noi di ripida morte;
infatti non saremmo stati in grado dall’alta porta
di allontanare la pesante pietra con le braccia che lui ci aveva posto
Così piangendo aspettammo l’aurora lucente.
Quando al mattino apparve l’aurora dalle rosee dita
Allora accese un fuoco e mungeva le belanti pecore,
Tutte quante in ordine, e sotto ciascuna pose un piccolo.
Poi dopo che si affrettò a sbrigare le sue cose
Afferrandone due di nuovo si preparò la colazione.
Dopo aver mangiato spinse fuori dalla grotta le pingui greggi
Senza sforzo tolse la grande pietra; e poi
Di nuovo ve la pose, come se avesse tolto la chiusura alla faretra
Con un forte fischio indirizzava le pingui greggi verso il monte
Il Ciclope; e io rimasi solo tramando nel profondo dell’animo,
se mai fossi riuscito a vendicarmi, se Atena mi avesse dato quel vanto.
Nel cuore questo progetto mi sembrò migliore.
C’era infatti un bastone del ciclope vicino al recinto,
verde e di olivo; che aveva tagliato(per portarlo con se)
per seccarlo; noi vedendolo lo giudicammo simile
all’albero di una nera nave con venti rematori,
grande da carico, che solca il grande abisso del mare;
era tanto grande in larghezza quanto in lunghezza a vederlo.
Avvicinatomi ne tagliai quanto un’orgia
E lo diedi ai compagni, ordinai loro di levigarlo
Essi lo resero liscio, io lì accanto lo resi aguzzo.
Sulla punta, quindi lo abbrustolivo sul fuoco ardente.
E lo misi bene nascondendolo sotto il letame,
che per la grotta era sparso in gran quantità.
Allora ordinai agli altri di trarre a sorte
Chi avrebbe avuto il coraggi di sollevare il palo con me
E pestarlo nell’occhio, quando sarebbe arrivato il dolce sonno.
Essi scelsero quelli che anche io avrei scelto,
quattro, e io mi aggiunsi come quinto tra essi.

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