L'EGEMONIA CULTURALE ITALIANA E L'ETA' CARTESIANA

Materie:Riassunto
Categoria:Filosofia
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LA FINE DELL’EGEMONIA CULTURALE ITALIANA E L’ETA’ CARTESIANA
Sino a Galilei la cultura filosofica europea e quella italiana paiono quasi identificarsi, stante il persistere, almeno sino ai primi del ‘600, dell’egemonia culturale della penisola. A partire dalla morte di Galilei (1642), questa connessione appare interrotta e bisogna arrivare alla fine del secolo, con la scuola cartesiana di Napoli, per trovare una traccia evidente dell’influenza esercitata dal pensiero europeo sulla cultura italiana. Va inoltre osservato che l’Europa del XVII secolo è caratterizzata dalla prevalenza di una corrente di pensiero che si potrebbe chiamare franco – olandese e che raccoglie attorno alle figure ampiamente esemplari di Cartesio e Spinoza figure e movimenti di un’area culturale che abbraccia la Francia nel periodo della sua egemonia continentale (1635 – 1688), l’Olanda dell’età immediatamente successiva alla pace di Westfalia (1648), la stessa Germania dei piccoli principati renani ed elbani. Persino un pensatore della grandezza di Leibniz, il massimo intellettuale europeo dell’età dell’assolutismo, sarebbe incomprensibile se non si tenesse conto della sua matrice culturale cartesiana e dei suoi rapporti con la cultura franco – olandese. Inoltre, all’egemonia politica la Francia associa un’egemonia culturale e il tipo dell’intellettuale quale Cartesio configura negli scritti metodologici (in particolare nel “Discorso sul metodo”) e nelle “Lettere sulla morale”, si identifica di fatto come il tipo ricorrente dell’intellettuale europeo. Pertanto si potrebbe affermare che all’egemonia culturale italiana del ‘400 – ‘500 si sostituisce, nel corso di tutto il Seicento, un’egemonia culturale francese.
La storiografia tende a rifuggire da uno schema interpretativo come quello qui suggerito perché parlare di un trasferimento del ruolo egemonico della cultura dall’Italia alla Francia ci farebbe correre il rischio di smarrire gli elementi di continuità, la cui esistenza è nostro compito accertare. Di fatto la filosofia trova in Francia la più adeguata realizzazione perché lì trova ciò che da tempo ormai richiede: di essere l’espressione di un pensiero e di una coscienza nazionali. Il perché di questa istanza della filosofia non è così immediatamente avvertibile nella struttura dei diversi sistemi concettuali del XVII secolo – a prescindere dalla ‘morale provvisoria’ costruita da Cartesio a conclusione del suo sistema – ma, sia pure con non poche difficoltà, è reperibile nella complessa dialettica dei rapporti che le conseguenze della Riforma, il consolidamento delle monarchie occidentali e le guerre di religione determinano nel tessuto sociale europeo e nella relazione fra intellettuali e sovrastrutture politiche. Ragioni queste che necessitano di una trattazione analitica della loro incidenza.
C’è un aspetto delle conseguenze della Riforma protestante sul quale vale la pena fissare l’attenzione: il declino della Chiesa di Roma quale referente ideologico privilegiato e generalizzato. Nel momento stesso in cui il primato dell’istituzione ecclesiastica romana, intesa quale unica depositaria della religiosità, è contestato, entra in crisi anche la relazione dialettica teologia – filosofia che, nell’ambito della metafisica, l’Umanesimo e il primo Rinascimento avevano conservato, mutuandolo dalla tradizione medievale. Invece, nel momento stesso in cui la Riforma si risolve nella definitiva proliferazione delle chiese cristiane, l’interesse della speculazione per la modificazione dei rapporti fra dotti e Chiesa viene meno e la Chiesa stessa non appare più come unica depositaria della verità.
Adesso l’interlocutore immediato del filosofo è un preciso tipo di lettore che rinvia a una ben localizzata e specifica realtà sociale. Questa nuova realtà sociale è quella degli stati nazionali. Il maggiore o minore successo di una filosofia a presentarsi come messaggio universalistico discenderà dal ruolo storico oggettivo esercitato da una specifica realtà nazionale. In particolare, il fatto che l’intera tradizione filosofica europea del Seicento sia risolvibile nella corrente franco – olandese è testimonianza del ruolo svolto dalla Francia come nazione guida dell’assolutismo e dall’Olanda come espressione di una ricerca, coronata dal successo, di una via alternativa all’assolutismo regio.
Queste oggettive condizioni storiche determinano il destino della filosofia europea. La celebre massima di Spinoza “nihil detestare, at omnia comprendere” chiarisce il nuovo fine della filosofia europea, la formulazione di una gnoseologia talmente esaustiva da rendere conto e giustificazione degli infiniti condizionamenti del reale, che va accettato e riconosciuto per quello che è, nella speranza che da questa conoscenza scaturisca una nuova forma di libertà.
LE RADICI STORICHE DEL RAZIONALISMO - Nel composito quadro della filosofia europea del XVII secolo è possibile reperire una tendenza unitaria, le cui componenti possono essere così riassunte:
a) la costituzione di un sistema concettuale in cui è possibile ospitare ogni differente aspetto della realtà, e trovare la soluzione di ogni problema particolare, la risposta ad ogni interrogativo;
b) l’elaborazione, a partire da questa premessa, di una metodica generale, che sia insieme arte del pensiero e canonica per l’uso del pensiero stesso al fine di determinare gli ambiti delle singole scienze e provocare l’accumulazione di conoscenze e scoperte;
c) la formulazione di un’etica generale che, anche quando riconosca la provvisorietà delle sue prospettive, sia in grado di fornire all’uomo norme costanti e oggettive di comportamento;
d) il rinvio continuo della metodica e dell’etica alla matematica;
e) il ribaltamento della subordinazione della scienza e del sapere in generale alla teologia, che ora viene accettata nella misura in cui risponda alla duplice istanza di presentarsi come disciplina filosofica e di fornire al pubblico l’immagine di un Dio inteso quale presenza rassicurante;
f) la configurazione in definitiva del vecchio Dio della scolastica come il primo dei filosofi, la mente in grado di cogliere le verità dell’universo, l’architetto perfetto della perfetta macchina del mondo, il garante dell’intrinseca bontà e dell’intimo ordine di questo.
Non si potrebbe perciò trovare nome migliore per definire tale tendenza che il termine di metafisica. La metafisica, come progetto esaustivo, sostituisce a suo tempo la teologia medievale e la scienza rinascimentale, e pur conservando in larga misura i tratti caratteristici di entrambe, possiede un suo elemento specifico che serve a meglio individuarla: la presupposizione che l’ordine naturale è un ordine per l’uomo, ma che l’uomo debba essere esaltato in ciò che gli si può attribuire come certezza esclusiva, la ragione.
Questo però implica che la metafisica, nella sua aspirazione a presentarsi come scienza della razionalità, privilegi del reale soprattutto quegli aspetti che possono essere ridotti a ragione: così, per esempio, occupazione prediletta della metafisica del Seicento è il dominio della matematica e la riduzione della scienza fisica a una sorta di geometria della natura i cui fenomeni vengono ricondotti a una rigida concatenazione di sequenze causali e in queste risolti. In questo essenziale riduttivismo matematico, in cui la distanza dalla scienza galileiana si fa via via sempre più netta, la metafisica opera tuttavia una sorta di falsificazione della realtà, intesa non più come centro di una relazione dialettica continuata fra uomo e natura – come nelle intenzioni di Pico, di Bruno e di Campanella – , ma come un labirinto geometrico, del quale il metafisico, dotato dei potenti strumenti del metodo, può in ogni momento trovare l’ingresso. Come dirà Leibniz, la conoscenza è una sorta di “crittografia”: nella “Dissertatio de arte combinatoria”, egli perverrà ad affermare che conoscere i modi di combinazione del reale equivale a possedere lo strumento per la sua creazione, allo stesso modo in cui chi sappia operare la scomposizione di un numero nei suoi fattori primi è in grado in qualsiasi momento di ricomporlo. Ciò nondimeno, proprio la prospettiva “falsante” della metafisica, la tendenza alla contemplazione di un mondo che non c’è se non nella narrazione filosofica, pone in netta evidenza la storicità del progetto metafisico, il suo radicamento in una società dominata dalla tensione e dall’insicurezza.
L’ “esprit de système” che anima la tendenza metafisica è perciò il riflesso della generale tendenza della società a organizzarsi come un meccanismo di sicurezza collettiva, che possa allontanare il fantasma del disordine politico-religioso e mantenere una pace sociale che i nuovi stati nazionali stanno faticosamente raggiungendo. Il metafisico è, in altre parole, esponente di una classe, gli intellettuali dello stato, cui è demandato il compito di elaborare interpretazioni sistematiche – e perciò rassicuranti – della totalità. Di qui la tendenza del metafisico a formulare un discorso che abbia valore definitivo, secondo un’istanza che, se da un lato sembra conferire alla filosofia il significato d’eternità già rivendicato dall’antica metafisica, dall’altro rinvia appunto all’enorme pressione che, in modo irriflesso e spontaneo, prìncipi e società esercitano sul dotto. Questa tendenza è nettamente avvertibile nella tradizione razionalistica da Cartesio a Leibniz.

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