La scolastica

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Testo

LE ORIGINI DELLA SCOLASTICA
LA SCOLASTICA
Introduzione Storica
Agostino, considerato l’ultimo uomo della Patristica e il primo della Scolastica, muore e con lui “termina” la civiltà romana e, per questo, si vive un periodo di crisi, anche se rimane vivo il pensiero cristiano. Fu il re dei Franchi Carlo Magno, con il suo impero, che rilanciò la cristianità.Quando non era ancora Carlo Magno, passò il periodo più difficile della sua vita. Egli fece una spedizione a Roncisvalle ma li, tramite il tradimento da parte di uno dei suoi capi, Gano di Maganza, fu assalito dai Baschi. La retroguardia dell’esercito di Carlo fu attaccata e subì una pesante sconfitta dove morì Orlando, uno dei cavalieri e grande amico di Carlo. Nei giorni seguenti Carlo, disperato, si reca da solo in campagna e vede una chiesetta con dentro solo un crocifisso. Entrato, s’inginocchia davanti al crocifisso ed inizia a pregare. Ma in quel preciso momento gli appare un monaco inglese di York, Alcuino, che si rivelerà una figura fondamentale per Carlo. Alla fine del secolo VIII la sua opera è stata l’inizio della ricostruzione intellettuale dell’Europa. Nato nel 730 in Inghilterra, si formò nella scuola episcopale di York, in seguito fu chiamato da Carlo Magno a dirigere la “Schola Palatina” (del palazzo regale), un fondamentale centro di cultura, e divenne l’organizzatore degli studi dell’impero franco. Morì nell’804. Alcuino insegna a Carlo a leggere e scrivere e gli spiega che lui ha un dovere fondamentale da portare a termine:
1) Risollevare l’impero dopo il periodo della crisi.
2) Attuare e cioè diffondere la “guerra della cultura”, quindi risollevandola, imparando a leggere e scrivere, cercando di conoscere una delle città fondamentali della storia: Roma. Ispirandosi a questa città, presto fondò molte scuole nel suo immenso impero e impose anche agli stessi figli di imparare la lingua. Si ha quindi il periodo della “Rinascita” che è di due tipi:
1) Carolina = come cultura.
2) Carolingia = come storia.
Carlo fu certamente il più grande imperatore della storia e grande uomo di cultura, infatti, scrisse anche di filosofia.

Filosofia e «Scholae»
La parola scolastica designa la filosofia cristiana nel medioevo. Il nome scholasticus indicò nei primi secoli del medioevo l’insegnante delle sette arti liberali, cioè di quelle discipline che costituivano:
1) Trivio: grammatica, logica o dialettica, retorica;
2) Quadrivio: geometria, aritmetica, astronomia e musica.
In seguito si chiamò scholasticus anche il docente di filosofia o teologia, il cui titolo ufficiale era quello di magister (magister artium o magister in theologia) e che teneva le sue lezioni dapprima nella scuola del chiostro o della cattedrale, poi nell’università (studium generale). L’origine e lo sviluppo della scolastica si collegano strettamente alla funzione dell’insegnamento.
Le forme fondamentali dell’insegnamento erano due:
1) Lectio: consisteva nel commento di un testo.
2) Disputatio: consisteva nell’esame di un problema.
Mentre la Patristica fissa i dogmi per combattere eresie ed errori nella Chiesa, la Scolastica approfondisce il Vangelo come “Cristianesimo applicato”. Generalmente il problema della Scolastica era quello di portare l’uomo alla comprensione della verità rivelata. In primo luogo la Scolastica non è come la filosofia greca cioè una ricerca autonoma che affermi la propria indipendenza critica di fronte ad ogni tradizione, in quanto essa è proprio il fondamento e la norma della ricerca. In parole più semplici, mentre i geci vanno alla ricerca della verità, i cristiani hanno già in loro la verità e devono arrivarci tramite il ragionamento, quindi con i poteri naturali e con l’aiuto della grazia divina. La verità è stata rivelata all’uomo per mezzo delle Sacre Scritture, con i dogmi, che la comunità cristiana ha posto a fondamento della sua vita storica, attraverso i grandi padri e dottori ispirati e illuminati da Dio. L’uomo, quindi, deve solo accedere a questa verità, comprenderla, per quanto possibile, mediante i poteri naturali e l’aiuto della grazia divina, e di farla propria per assumerla come fondamento della propria vita religiosa. Ma in questo compito l’uomo non può e non deve affidarsi alle proprie forze, ma affidarsi alla tradizione religiosa che gli fornisce, attraverso la Chiesa, una guida illuminatrice e una garanzia contro l’errore. Si tratta, quindi, di un’opera comune più che individuale: il singolo individuo, infatti, non può e non deve affidarsi soltanto alle sue forze, ma può e deve ricorrere all’aiuto degli altri e specialmente agli ispirati dalla grazia divina. E qui nasce l’uso costante delle autorictates nella speculazione. Auctoritas è la decisione di un concilio, un detto biblico, una sententia di un Padre della Chiesa, che consiste nella volontà del singolo di sentirsi appoggiato e sorretto dall’autorità e dalla tradizione ecclesiastica. I greci non possedevano un principio di autorità ma i Pitagorici si. Il principio che domina nel medioevo è caratterizzato da:
1) Vangelo.
2) Chiesa.
3) Platone e Aristotele.
La Scolastica non si propone di formare ex novo concetti o dottrine ma di intendere la verità già data nella rivelazione, non di trovarla. Perciò, come assume dalla tradizione religiosa la norma della ricerca, così assume dalla tradizione filosofica gli strumenti e il materiale della ricerca stessa. La filosofia, perciò, è considerata unicamente un mezzo per raggiungere lo scopo prestabilito: “ancilla theologiae” = serva della teologia.
La Scolastica è divisa in quattro fasi:
1) Pre-scolastica: è quella della rinascenza carolingia, nella quale è presupposta e ammessa senz’altro l’identità di ragione e fede;
2) Alta scolastica: va dalla metà dell’XI secolo fino alla fine del secolo XII. Si espone il problema del rapporto tra ragione e fede ed è posto chiaramente sulla base della potenziale antitesi dei due termini;
3) Fioritura della scolastica: va dal 1200 ai primi anni del 300. Si hanno i grandi sistemi scolastici che costituiscono ciò che si dice propriamente la “fioritura della scolastica”. In tale periodo, ragione e fede, pur essendo distinte fra di loro, vengono concepite come armonicamente conducenti agli stessi risultati;
4) Decadenza della scolastica: comprende il XIV secolo, e si ha il dissolvimento della scolastica per la riconosciuta insolubilità del problema che ne è fondamento, poiché si ritiene che ragione e fede siano domini eterogenei.
SCOTO ERIUGENA
Dopo Alcuino, non ci furono grandi organizzatori dell’insegnamento nel regno franco. Rabano Mauro, Servato Lupo, Pascasio Radberto, Godescalco, Enrico e Remigio di Auxerre furono solo figure secondarie. Grande invece appare la figura di Giovanni Scoto, detto “Eriugena” dalla sua regione nativa (Eriu = Erin, Irlanda). Nato verso l’810 e posto da Carlo il Calvo a capo della Scuola Palatina, tradusse in latino i trattati dello pseudo-Dionigi l’Areopagita e altri scritti patristici. La sua opera fondamentale è intitolata “Divisione della Natura”, ed, infatti, la sua metafisica è incentrata nella divisione delle quattro nature:
1) Prima Natura: crea e non è creata ed è la causa di tutto = Dio Padre (giusta);
2) Seconda Natura: è creata (come l’Eone) e crea ed è l’insieme delle cause primordiali = Logos-Figlio (eretica);
3) Terza Natura: è creata e non crea ed è l’insieme di tutto ciò che si genera nello spazio e nel tempo, in pratica il mondo (gnostica);
4) Quarta Natura: non crea e non è creata ed è Dio stesso come fine ultimo della creazione, come il termine finale al quale tutte le cose devono ritornare (tempo circolare; gnostica).
Le quattro nature costituiscono il circolo della vita divina, che parte da Dio Padre, muove attraverso il Logos al mondo e ritorna a Dio stesso. Il mondo è considerato come un “momento” della vita divina: esso è una teofania, una manifestazione divina. Ci si può chiedere se la dottrina di Scoto che afferma l’unità sostanziale del mondo e di Dio non sia un radicale panteismo. In realtà, secondo Scoto Eriugena, il mondo è assolutamente identico a Dio, ma Dio non è assolutamente identico al mondo. Dio trascende il mondo e, nonostante che viva in esso, non s’identifica mai con esso. “Dio solo è l’essenza di tutte le cose perché egli solo è; ma pur essendo tutto in tutte le cose, non cessa di essere tutto al di fuori di tutte le cose”. L’inferno finisce e non è eterno, un giorno ci sarà l’apocatastasi, dove tutto sarà ricongiunto con Dio, anche Satana. Il tutto è l’esatto contrario del Cristianesimo che afferma che Satana verrà sconfitto prima dall’Arcangelo Gabriele. Nel Rinascimento verrà ripreso il tema, su cui Eriugena spesso insiste, della superiorità dell’uomo sulle altre creature: “L’uomo intende come l’angelo, ragiona come uomo, sente come l’animale irragionevole, vive come il germe, consiste di anima e corpo e non è privo di alcuna cosa creata”. Queste considerazioni saranno riprese poi da Pico della Mirandola. Dall’altro lato il concetto della deificazione dell’uomo, cioè del suo congiungersi con Dio nell’estasi, sarà ripreso nella mistica medievale. Eriugena nega che i cieli siano composti di una sostanza ingenerabile e incorruttibile (l’etere) come voleva Aristotele: una negazione che si troverà poi di nuovo solo in Nicolò Causano nel XV secolo. Infine presenta un sistema astronomico per il quale la terra sta immobile ma gli altri pianeti girano intorno al sole: un sistema che troverà sostenitori anche nel secolo di Copernico.
ANSELMO D’AOSTA
Vita e opere
Il contrasto esasperato tra fede e ragione non ebbe molta fortuna nella filosofia medioevale, che preferì attenersi costantemente al principio della loro possibile armonia. La figura principale figura di questo periodo è Anselmo d’Aosta che, pur insistendo sulla superiorità indiscutibile della fede, non ritiene possibile un contrasto tra essa e la ragione. Nacque ad Aosta nel 1033, fu abate del monastero di Bec, poi dal 1093 sino al 1109, anno della morte, arcivescovo di Canterbury. Si trovò implicato nelle vicende della chiesa inglese del tempo, che difendeva i suoi privilegi contro le pretese del re. Nonostante ciò si dedicò alla speculazione. Le sue opere principali:
1) Il Monologion o Soliloquio;
2) Il Proslogion o Discorso rivolto agli altri;
3) Un gruppo di quattro dialoghi su argomenti vari (la verità, Il libero arbitrio, ecc.).
Il motto di Anselmo è credo ut intelligam (credo per capire). Non si può intendere nulla se non si ha fede; ma occorre confermare e dimostrare la fede con motivi razionali. Anselmo ritiene l’accordo tra la ragione e la fede intrinseco ed essenziale. Certo, se un contrasto ci fosse, bisognerebbe dar torto alla ragione e rimaner fermi alla fede; ma Anselmo è convinto che tale contrasto non ci può essere, perché anche la ragione, come la fede, deriva dall’illuminazione divina.
L’argomento dei gradi
La verità fondamentale della religione, l’esistenza di Dio, è secondo Anselmo, una pura verità di ragione: la ragione può dimostrarla con le sue sole forze. Nel Monologion, Anselmo la dimostra con l’argomento dei gradi. Vi sono molte cose buone nel mondo, ma tutte sono buone più o meno, non assolutamente; presuppongono dunque un bene assoluto che sia la loro misura e dal quale esse traggono il grado di bontà che posseggono; e questo bene assoluto è Dio. Lo stesso ragionamento si può fare per ogni valore o perfezione esistente nel mondo ed anche per l’essere delle cose, che sono tutte, più o meno, e presuppongono l’Essere unico e sommo.
L’argomento ontologico
Il Proslogion ricorre a un’argomentazione (prova ontologica = dell’essere) che muove dal semplice concetto di Dio per giungere a dimostrare l’esistenza di Dio. L’argomento è diretto contro chi nega assolutamente tale esistenza, come fa lo sciocco del XIII Salmo: “che disse in cuor suo: Dio non c’è”. Evidentemente, anche chi nega l’esistenza di Dio, deve avere il concetto di Dio, giacché è impossibile negare la realtà di qualcosa che non si pensa neppure. Ora il concetto di Dio è il concetto di un essere “di cui non si può pensare nulla di maggiore” (quo maius cogitari nequit). Ma ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore non può esistere nel solo intelletto. Se fosse nel solo intelletto, si potrebbe pensare che potrebbe esistesse anche in realtà e cioè che fosse maggiore; ma in tal caso ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore sarebbe anche ciò di cui si può pensare qualcosa di maggiore. E’ impossibile dunque che ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore esista nel solo intelletto e non nella realtà.
L’argomento si fonda su due punti:
1) ciò che esiste in realtà è maggiore, cioè più perfetto, di ciò che esiste nel solo intelletto;
2) negare che ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore esista in realtà, significa contraddirsi perché significa ammettere nello stesso tempo che si può pensarlo maggiore, cioè esistente in realtà.
IDEA DI DIO come “ESSERE PERFETTO” → ESSENZA → ESISTENZA.
In parole povere: “Io ho l’idea di Dio come essere perfetto, l’essenza di Dio vale l’esistenza”.
“L'essere perfettissimo, per essere tale, non può mancare di esistenza, altrimenti non sarebbe il più perfetto”.
La critica
Un contemporaneo di Anselmo, tale Gaunilone, nel Libro a difesa dell’insipiente, in cui assumeva la difesa dell'ateo, attaccò la dimostrazione di Anselmo, movendole essenzialmente due critiche: in primo luogo, la dimostrazione dovrebbe valere per ogni forma di perfezione, vale a dire che se parliamo di un'isola felice, perfetta, allora, a rigore, secondo Gaunilone, seguendo il ragionamento di Anselmo, si dovrebbe arrivare a dire che essa esiste. E questo dovrebbe valere per tutti gli enti perfetti. Ma Anselmo, nel Libro apologetico, fa notare che il suo ragionamento vale solo per l'essere perfetto in assoluto, Dio, e non per i "perfettissimi" di ogni categoria (l'isola perfetta, la casa perfetta, ecc): infatti, per fare un esempio, nell'essere perfetto assoluto ci sarà la sapienza, nell'isola perfetta non ci sarà. La seconda critica mossa da Gaunilone (alla quale Anselmo non fu in grado di controbattere) consiste nel fatto che, anche ammesso che funzioni, il ragionamento di Anselmo deve partire da un concetto corretto di Dio che solo chi ha fede può avere; il ragionamento anselmiano, dunque, funziona, ma solo per chi già ha la fede, non per l'ateo. Anselmo riconobbe che Gaunilone aveva ragione e ammise che il suo ragionamento serviva solo a chiarire al credente i fondamenti della sua fede. La prova ontologica chiarisce al credente che Dio é "causa sui" (ossia non é creato ma crea), e che in Lui (e solo in Lui) l'essenza implica l'esistenza. Grandi filosofi come S. Tommaso e Kant svolgono le intuizioni di Gaunilone Tommaso sostiene che l’argomentazione anselmiano è valida solo se si presuppone già ciò che vuole dimostrare, cioè l’esistenza del Perfettissimo – doipo di che può ben dire che esso non può fare ameno di esistere. Ma il problema non è se l’essere perfettissimo, in quanto tale, non può fare a meno di esitere, ma se esso esiste realmente. Ad esempio, se nel Partendone di Atene esiste un quadro d’oro, esso deve per forza avere quattro lati. Il vero problema rimane, però, di sapere se esso esiste. Analogamente, se si fosse già in Paradiso, al cospetto della perfezione assoluta di Dio, si capirebbe che Egli non può non esistere. Il problema, però, è sapere se esistano un Dio e un Paradiso. Tuttavia la prova ontologica sarà smascherata come errore da Kant, che lo riteneva o tautologico, poiché presuppone già l’esistenza di Dio, oppure impossibile, poiché fondato sulla pretesa di derivare, mediante una specie di «salto mortale» metafisico, una realtà da un’idea, in L'unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio (1763): l'esistenza non può a nessun titolo far parte dell'essenza e il concetto di Dio è perfetto di per sé, indipendentemente dal fatto che Dio esista o meno. Per smascherare Anselmo, Kant si serve di un esempio molto efficace: immaginiamo di avere in tasca cento talleri. I cento talleri esistenti che io porto nelle mie tasche non sono affatto più perfetti dei cento talleri pensati, poichè, se così fosse, pur avendo cento talleri in tasca, dovrei averne in mente di meno, visto che, per Anselmo, l'essenza "vale meno" dell'esistenza. Il che sarebbe assurdo: ne consegue che non è vero che una cosa esistente è più grande della medesima cosa pensata come inesistente.
DAL PROBLEMA SUGLI UNIVERSALI ALLA MISTICA
GLI UNIVERSALI
Il Problema
A partire dal XII secolo, uno dei più frequenti temi di discussione fra gli Scolastici del Medioevo è il cosiddetto «problema sugli universali». Per «universali» si intendono quei concetti generali che possono essere riferiti a più individui o cose, come i generi o le specie. Per problema degli universali si intende la questione relativa allo status ontologico di tali concetti, cioè al loro ipotetico corrispettivo reale. In altri termini, poiché gli enti che ci circondano sono individuali e i concetti sono universali, sorge il problema della validità e verità di questi ultimi, l’interrogativo circa l’esistenza o meno di realtà universali. La diatriba fu impostata secondo un passo della Isagoge di Porfidio alle Categorie di Aristotele e i relativi commenti di Boezio: «Intorno ai generi e alle specie non dirò qui se sussistano oppure siano posti soltanto nell’intelletto; né, nel caso che sussistano, se siano corporei o incorporei, se separati dalle cose sensibili o situati nelle cose stesse ed esprimenti i loro caratteri comuni». Delle alternative proposte da Porfidio, solo quella secondo cui gli universali sarebbero realtà corporee non trova riscontro nella storia. I dottori medievali, infatti, si chiesero: se gli universali esistano come «conceptus mentis», ossia come concetti o nozioni della nostra mente, oppure se esistano anche nella realtà. In quest’ultimo caso, si domandarono se esistano separati dalle cose, come le idee platoniche, oppure dentro le cose, come le forme aristoteliche.
Soluzioni del Problema
Nel corso dei secoli, le soluzioni sul problema degli universali furono parecchie. Di alcune possediamo solo documenti incompleti o piccoli frammenti, ma le soluzioni fondamentali sono due:
1) Realismo (Formalismo): afferma che gli universali esistano in qualche modo fuori dell’anima;
2) Nominalismo (Terminismo): nega che gli universali esistano in qualche modo fuori dell’anima.
A loro volta, esse si divise in due tendenze, una moderata e l’altra radicale:
1) Realismo Estremo: gli universali, oltre che sussistere fuori della mente, godono anche di una consistenza ontologica propria, la quale fa sì essi esistano separatamente (ante rem) rispetto alle realtà mutevoli e contingenti di cui sono gli immutabili prototipi. In altri termini, è la soluzione di tipo platonico-neoplatonico-agostiniana, che identifica gli universali con le idee o modelli ante rem tramite cui Dio ha creato il mondo, ritenendo che reali sono soltanto gli universali e non già gli individui empirici. Questa tesi fu presa da Scoto Eriugena, Anselmo d’Aosta e i pensatori della Scuola di Chartres. In seguito fu ripresa e difesa da Guglielmo di Champeaux che, secondo la testimonianza dell’allievo Abelardo, sosteneva la realtà sostanziale dei generi e delle specie, scorgendo, negli individui, la manifestazione accidentale e variabile di una preesistente essenza o entità metafisica sussistente. Guglielmo, per esempio, riteneva che la specie «uomo» fosse una realtà essenzialmente identica per tutti gli uomini, i quali sarebbero moltiplicati e diversificati fra di loro solo da qualità accidentali. In seguito, lasciò questa teoria per una prospettiva realistico-moderata;
2) Realismo Moderato: gli universali, pur avendo una certa consistenza, non esistono ante rem, ma soltanto in re, ossia individualizzabili e incorporati nelle cose singole, a titolo di principi organizzatori immanenti (in senso aristotelico). In altri termini, i generi e le specie non esistono «separatamente» rispetto agli individui, ma soltanto come loro forma o essenza intrinseca. A differenza di quello estremo, riconosce pienamente la realtà degli individui, pur scorgendo la presenza, in essi, di un’essenza universale. Ammettono anche che gli universali, come nel mondo esistono soltanto in re, così nella mente di Dio esistono sotto forma di idee archetipe ante rem, conciliando così aristotelismo e platonismo;
3) Nominalismo Estremo: è l’antitesi radicale del realismo estremo. L’essere esiste soltanto in forma individuale e gli universali rappresentano soltanto il dei nomi senza alcun corrispettivo reale. Questa posizione viene riferita tradizionalmente a Roscellino che, come dice il suo avversario Anselmo d’Aosta, ridusse gli universali a flatus vocis, pure emissioni fisiche di voce, rifiutando di riconoscere un valore qualsiasi ad essi;
4) Nominalismo Moderato: l’universale non esiste nelle cose, ma soltanto in intellectu, essendo nient’altro che un segno mentale atto a raccogliere in una stessa classe una serie di individui aventi tra loro caratteristiche affini. In altri termini, riprendendo la teoria cinico-stoica del concetto, afferma che l’universale, pur possedendo consistenza ontologica, manifesta una specifica validità logico-gnoseologica. La più compiuta espressione di tale dottrina, gia presente in Enrico di Auxerre e alimentata dalla traduzione dall’arabo del De Aspectibus di Ibn Al-Haitham Alhazen, la si trova in Ockham.
Estremo
(es.: Guglielmo
di Champeaux)
Moderato
(es.: Tommaso)
Estremo
(es. Roscellino)
Moderato
(es.: Ockham)
REALISMO NOMINALISMO
ABELARDO
Vita
Abelardo è una delle più grandi figure del medioevo. Nacque nel 1709 presso Nantes; insegnò dapprima diabetica in varie località della Francia, poi teologia presso la scuola cattedrale di Parigi. Dotato di grande potenza dialettica, secondo solo a San Bernardo di Pitra Valle, convinto del valore altissimo della ricerca filosofica, ottenne come maestro un enorme successo. La sua avventura con Eloisa, la sua dialettica e la sua intemperanza polemica gli procurarono persecuzioni e condanne. La sua dottrina trinitaria fu condannata nel Concilio di Soissons. Morì a 63 anni, nel 1142, e fu sepolto nell’oratorio detto il Paracleto o Spirito Santo presso Nogent-sur Seine dove aveva insegnato per molti anni; ed accanto a lui fu sepolta Eloisa.
Ragione e Autorità
Abelardo è un assertore risoluto dei diritti delle ragioni. Ritiene che non si può credere so non a ciò che si intende (intelligo ut credam) e che bisogna in ogni caso discutere se si deve o no prestar fede. All’autorità bisogna credere solo finchè non si è scoperto il motivo razionale, la dimostrazione di ciò che essa insegna, ma così essa diventerebbe inutile poiché la ragione basterebbe a trovare la verità. Se non si dovesse discutere nemmeno su ciò che si deve o non si deve credere, non rimarrebbe che prestar fede sia a quelli che dicono la verità sia a quelli che dicono il falso. Ma in questa maniera si può cadere nell’ateismo; infatti, verso la fine della sua vita, divenne gnostico. La ricerca filosofica è da Abelardo impiantata per la prima volta su nuove basi. Nella sua opera «Sic et Non» egli raccoglie le opinioni dei padri della chiesa e le ordina in modo da farle apparire come la risposta positiva e negativa allo stesso problema. Suo scopo è quello di dimostrare la necessità di adoperare la ragione per risolvere il contrasto delle opinioni e trovare la soluzione. Questo metodo fu adottato da tutti gli scolastici e si mantenne fino alla fine della Scolastica. Esso consiste nello stabilire una questio, nell’enunciare gli argomenti che si adducono pro e contro la sua risposta positiva e negativa, infine nello scegliere una delle due soluzioni e confutare quella opposta. Il valore che Abelardo attribuisce alla ricerca lo inclina ad attribuire valore agli stesi filosofi pagani. Anche loro hanno cercato e trovato la verità, e per questo Abelardo è convinto che tra essi e l’insegnamento cristiano ci sia un accordo fondamentale. In particolare, i filosofi pagani hanno, per Abelardo, conosciuto la Trinità, per esempio Platone.
GIOACCHINO DA FIORE
Vita
Nato a Dorfe Celico presso Cosenza nel 1145 morì nel 1202 nel monastero di S. Giovanni in Fiore in Calabria da lui fondato.
Pensiero
Egli diceva che poiché lo Spirito Santo è Dio vero come il Padre ed il Figlio, occorre che dia luogo ad un’epoca storica da lui dominata, come le due epoche storiche finora trascorse sono state dominate dal Padre e dal Figlio. La prima epoca del mondo, quella della prevalenza del popolo ebraico, è stata dominata dal Padre. La seconda epoca, quella che inizia con l’Evangelo, è stata dominata dal Figlio. Il terzo periodo dovrà essere dominato dallo Spirito Santo e in esso potrà essere finalmente inteso il significato reale e spirituale del messaggio evangelico. Soltanto allora sarà realizzata la piena libertà spirituale, la verità, la contemplazione; e non solo le anime ma anche i corpi saranno trasfigurati. Questa teoria viene chiamata Millenarismo. Gioacchino è certamente considerato uno gnostico.
LA MISTICA
Mentre la Scolastica cerca di avvicinare l’uomo a Dio mediante la speculazione filosofica, la Mistica cerca di portare l’uomo a Dio attraverso l’esercizio dei poteri che all’uomo sono conferiti dalla grazia divina. La Mistica è lo sforzo di trasumanarsi, di vincere o annullare la natura finita dell’uomo per congiungersi direttamente a Dio. Il fondatore della Mistica medievale è Bernardo di Chiaravalle, nato in Francia nel 1091 e morto nel chiostro di Clairvaux nel 1153. A Bernardo la ricerca scolastica appare inutile, egli definisce le discussioni dei filosofi come «loquacità piena di vento» e riduce la sua sublime filosofia a «conoscere Gesù e la sua crocifissione». A ciò indirizza la via mistica che si divide in due gradi:
1) Considerazione: l’intenzione della anima che investiga la verità;
2) Contemplazione: il vero e certo intuito della verità;
A sua volta, l’ultimo si divide in altri due gradi:
1) Ammirazione della maestà divina;
2) Estasi o excessus menti: l’anima umana si perde in Dio «come una piccola goccia d’acqua caduta nel vino si dissolve ed assume sapore e colore del vino». L’estasi è un processo di deificazione, per il quale l’uomo dimentica completamente il corpo e la propria umanità.
Da San Bernardo la via mistica viene contrapposta alla ricerca scolastica, da Ugo e Riccardo di San Vittore, i più famosi mistici medievale dopo di lui, essa viene considerata in accordo col pensiero razionale. Fu colui che, assieme al cugino Ugo di Pains, fondò i templari per proteggere la Chiesa Cattolica dagli infedeli e bandì la terza crociata.
LA CULTURA ISLAMICO-ARABA
Tra le condizioni che più efficacemente stimolarono l’attività culturale dell’Occidente nel XII secolo furono i rapporti con il mondo orientale e soprattutto con gli Arabi. Il mondo arabo aveva, infatti, già assimilato, nei secoli precedenti, l’eredità della filosofia e delle scienze greche, in parte ignote alla cultura occidentale che conosceva solo quanto era riuscito a filtrare attraverso l’opera di autori latini e dei padri dela Chiesa. Per questo la filosofia araba appariva ai pensatori occidentali come la manifestazione stesa della ragione, come una forza di liberazione dalle pastoie della tradizione. La filosofia occidentale aveva anche in comune con quelle orientali la natura stessa del suo problema. Anche la filosofia araba è una scolastica, cioè il tentativo di trovare una via d’accesso razionale alla verità rivelata; e la verità rivelata cui essa cerca di accedere, quella stabilita dal Corano, ha molti caratteri di somiglianza con quella cristiana. Infine, come la filosofia cristiana, la Scolastica araba vive a spese della filosofia greca, specialmente del neoplatonismo e dell’aristotelismo. La cultura araba aveva cominciato a svilupparsi a partire dal califfato di Haroun El Rashid (785-809) con la traduzione di numerose opere di scienziati e filosofi greci ed ebbe grande fioritura tra l’XI e il XII secolo durante la quale apportò contributi originali alla scienza e alla filosofia. Nella filosofia si possono distingere due tendenze fondmanetali, la neoplatonica e l’aristotelica: della prima il massimo rappresentante è Avicenna, della seconda è Averroè. Ma il neoplatonismo prima di Avicenna ha avuto notevoli rappresentanti specialmente nelle persone di Alkindi (morto nell’873) e di Al Farabi (morto nel 905).
AVICENNA
Vita
Ibn-Sina, che gli scolastici latini conobbero col nome di Avicenna, era persiano e fu famoso come medico, oltre che come filosofo. Morì a 57 anni nel 1037. Le sue opere principali sono certamente: il Canone di Medicina e il Libro della Guarigione, dalk quale furono tradotte la Logica, la Fisica e la Metafisica.
Pensiero
Avicenna formulò nel modo più chiaro, che poi rimane classico, il principio che caratterizza la filosofia araba nel suo insieme: l’affermazione della necessità dell’essere, cioè l’affermazione che tutto ciò che è o accade, è o accade necessariamente e non potrebbe essere o accadere in modo diverso (Teoria del Fatalismo Assoluto = Predestinazione Assoluta. Il cristiano si trova in una posizione intermedia tra la totale predestinazione e la totale libertà). Egli diceva: «Se una cosa non è necessaria in rapporto a se stessa, bisogna che sia possibile in rapporto a se stessa, ma necessaria in rapporto ad una cosa diversa». L’essere che è necessario in rapporto a se stesso è Dio; l’essere che è possibile in rapporto a se stesso, ma necessario rispetto ad altro, cioè rispetto a Dio, è la natura. Le cose naturali, giacché esistono, sono necessarie perché derivano necessariamente da Dio, essere necessario. Perciò la creazione non è un atto libero, ma un processo che ha la sua prima origine in Dio e che si svolge necessariamente. Tutto quello che esiste nel mondo naturale è quindi necessitato ad esistere (ateismo come una sorte di “anarchia” o “assoluta libertà”). Tutti i filosofi arabi si interessano al problema, derivante dalla dottrina aristotelica, dell’intelletto attivo, che essi identificarono con Dio e dal quale distinsero altre specie di intelletto. Già Al Kindi aveva distinto:
1) Intelletto attivo = quello divino;
2) Intelletto potenziale o materiale (ilico) = quello umano che riceve dal primo i principi in base ai quali può ragionare e dedurre;
3) Intelletto acquisito = quello che ragiona e astrae i concetti dalle immagini, producendo così l’insieme delle conoscenze umane.
Questa dottrina venne riprodotta ad Avicenna. Essa interessò molti scolastici latini perché sembrava porre in dubbio l’immortalità dell’anima. Difatti il solo intelletto immortale è quello attivo che non ha bisogno del corpo per funzionare; mentre l’intelletto potenziale e l’intelletto acquisito hanno bisogno del corpo perché operano mediante immagini che derivano dalla sensibilità. Lo stesso Avicenna affermava che l’anima dell’uomo, dopo la morte, ritorna all’Intelletto universale ed è quindi immortale solo come pura attività intellettuale.
AVERROE’
Vita
Il più celebre dei filosofi arabi è Ibn-Rashid, che gli scolastici chiamarono Averroè, considerato il “Tommaso degli Arabi”. Dante stesso nell'Inferno ( IV , 144 ) lo definisce come colui "che ' l gran comento feo". Nacque a Cordova in Spagna nel 1126, subì l’esilio per le sue idee filosofiche e morì il 10 dicembre del 1198, all’età di 72 anni. Scrisse un Commento grande, un Commento medio e una parafrasi sulle opere di Aristotele. Scrisse anche la Distruzione dei filosofi, diretta contro Avicenna e in generale contro tutti i filosofi, in difesa della libertà della creazione, quindi della non necessità del mondo.
Pensiero
Aristotele è, per Averroè, “la regola e l’esemplare che la natura creò per dimostrare l’ultima perfezione umana”. La dottrina di Aristotele è perciò la verità stessa e Averroè non si propone che di esporla e chiarirla (però a modo suo). Egli è convinto che la filosofia aristotelica è in fondamentale accordo con la religione mussulmana e che anzi non fa che esprime meglio, in forma scientifica e dimostrativa, la verità che essa insegna nella forma semplice e primitiva agli uomini incolti. Ma l’insegnamento principale di Aristotele è, per lui, la necessità di tutto ciò che esiste. Il mondo stesso è necessario perché creato necessariamente da Dio. Infatti, Dio è perfetto, per cui ciò che egli fa deve necessariamente seguire da sempre dalla sua perfezione. Il mondo non può aver avuto inizio nel tempo, ma è eterno come Dio stesso. Inoltre, per la sua necessità, il mondo è tale che tutto ciò che in esso accade doveva accadere proprio nel modo in cui accade. L’ordine del mondo non può essere modificato o infranto, ma dirige la stessa azione dell’uomo che, pertanto, non ha nessuna capacità né libertà di iniziativa. Averroè ammette, come Avicenna, che il mondo è stato creato giacchè l’essere del mondo è un essere possibile che non verrebbe alla realtà senza l’azione creativa di Dio. Ma egli vede nella creazione non un atto libero di Dio, bensì una necessaria manifestazione di Dio stesso: che, come tale, non ha avuto inizio nel tempo. Dacché c’è Dio, cioè ab eterno, ci deve essere il mondo, perché il mondo deriva dalla natura stessa di Dio ed è una sua manifestazione necessaria. La necessità dell’essere e l’eternità del mondo sono due delle dottrine tipiche dell’averroismo. La terza dottrina tipica è quella dell’intelletto (Dio = Mondo→Panteista). Averroè afferma che “l’intelletto è unico per tutti gli uomini, ed è separato dalla loro anima”, cioè esiste solo una mente che pensa e governa per tutti (Dio), e con questo concetto nega anche l’immortalità dell’anima, giacché l’intelletto è unico e vi è solo una variazione di corpi (praticamente siamo dei fantasmi corporei viventi in Dio = Gnosi). Questa teoria fu accettata anche in ambito cristiano e fu interpretata erroneamente dagli scolastici cristiani come dottrina della doppia verità: una verità di ragione cui l’uomo giunge con la filosofia, e una verità di fede che è invece rivelata e imposta dall’autorità religiosa. Riassumendo:
1) Verità Soggettiva: è indispensabile e serve per far comprendere la gente incolta;
2) Verità Oggettiva: è la verità tipica dei filosofi, quella ufficiale.
Ciò è la base del “relativismo moderno” = il tutto dipende dalle varie opinioni e decisioni degli uomini. I personaggi del 700-800 ammirano Averroè e condannano il Cristianesimo principalmente nei dogmi. In conclusione afferma che la verità é una , ma molteplici sono i gradi e i modi in cui si accede ad essa . A tale proposito Averroè riprende da Aristotele la distinzione fra tre tipi di argomentazione:
1) Dimostrativa o scientifica, che parte da premesse vere;
2) Dialettica, che parte da premesse condivise dai più o dai più autorevoli;
3) Retorica, che parte da premesse che paiono persuasive all'auditorio.
Esse rappresentano tre vie attraverso le quali ci si accosta alla verità: quella dimostrativa é propria del filosofo, quella dialettica lo é del teologo e quella retorica é appropriata ai più, inclini ad immaginarsi in maniera antropomorfa la divinità. I tre livelli e modi di comprensione della verità corrispondono a tre livelli di una gerarchia tra uomini, ma tutti i modi pervengono a riconoscere, anche se per vie diverse, che Dio esiste ed é uno e ha creato il mondo, di cui si prende cura provvidenzialmente; che Maometto é il suo profeta; che dopo la morte l'uomo sarà giudicato da Dio e destinato all'Inferno o al Paradiso e che avverrà la resurrezione finale. E' una concezione aristocratica della verità: i migliori, ossia i filosofi, raggiungeranno una verità di più alto livello, mentre i peggiori (gli uomini comuni) raggiungeranno attraverso la religione una verità meno elevata. La fede, tuttavia, é necessaria e obbligatoria per tutti, anche per i filosofi, secondo Averroè; ma, per questi ultimi, é anche lecita la ricerca razionale, che perviene a conclusioni cogenti. Averroè ritiene che l'intelletto, la funzione più alta dell'anima, poiché incorporeo, sia immortale e che, quando sarà separato definitivamente dal corpo, esso potrà attingere direttamente gli intelligibili, ossia gli universali, che sono gli oggetti veri e propri della conoscenza intellettiva. Ma di quale intelletto si tratta? Aristotele aveva riconosciuto nella materia il "principium individuationis", dunque, un intelletto separato dal corpo e, quindi, dalla materia non può essere individuale, ma universale. Si tratta del famoso NOUS POIETIKOS (intelletto attivo o produttivo): io ho intelletto in potenza; con le esperienze sensibili diventa intelletto in atto: ma ci deve essere qualcosa in atto che consenta il passaggio: ecco il "nous poietikos" (che compare una volta sola in tutte le opere di Aristotele), quel qualcosa che essendo già in atto (ha cioè già in atto tutte le forme) mi consente il passaggio; che cosa sia il nous poietikos Aristotele lo dice solo di sfuggita: afferma che è qualcosa che sopravviene dall'esterno ed è incorruttibile. Viene in ogni caso negata l'immortalità dell'anima: il nous poietikos è qualcosa al di fuori dell'uomo. Averroè diceva "chi pensa è immortale, chi non pensa muore": se pensando si partecipa dell'attività del nous poietikos si partecipa all'immortalità del nous poietikos: si ha una forma di immortalità; é un “immortalità aristocratica”, riservata ai pochi che sanno usare il cervello. Tale intelletto, anche per Averroè, come per vari suoi predecessori, é unico per tutti gli uomini, ingenerabile e incorruttibile .
AVICENNA
AVERROÈ
Intelletto
Passivo
individuale (molteplice)
unico e separato
Attivo
unico e separato
unico e separato
CENNI STORICI
Nel 11 secolo si passa dalla società feudale a quella comunale. In questo periodo di rinascita nascono due elementi due lementi fondamentali:
1) Cattedrali Gotiche: elemento medievale;
2) Università: elemento comunale, cristiano.
Le Università Erano luoghi di studio dove si approfondiva un solo campo come preparazione per il lavoro. Le prime università nacquero a Bologna, che si specializzò in Diritto, a Salerno, che si specializzò in Medicina e a Parigi (Sorbona), che si specializzò in Teologia. In seguito nacquero in Inghilterra (Oxford e Cambridge), e in Spagna (Salamanca). Successivamente Federico II ne fondò alcune in Germania (Navania e Achekberg) e a Napoli (Federico II). In seguito Bonifacio VIII ne fonda una a Roma (La Sapienza). Esse potevano essere o Statali (Bologna e Napoli) o Ecllesiastiche (Parma e Roma). Altro elemento fondamentale fu che la Res Pubblica Cristiana era motlo unita, la Chiesa si trovava al suo apogeo, al periodo di maggior splendore. Ed è proprio in questo periodo che si affermarono due uomini che cambiarono la Chiesa e, in parte, la storia: Domenico di Guzman, il dotto e sapiente fondatore dei domenicani, e Francesco d’Assisi, l’umile e platonico fondatore dei francescani. La loro influenza entrò anche nelle università, quelle ecclesiastiche, facendo nascere rivalità fra i due ordini a causa della loro diversa concezione di cogliere Dio. I francescani cercano Dio attraverso il cuore, i domenicani attraverso il ragionamento, lo studio. I seguaci principali di San Francesco furono San Bonaventura di Bagno Reggio, il più dotto, e Sant’Antonio da Padova, il più francescano, mentre i seguaci principali di San Domenico furono Sant’Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Tanta era la rivalità tra i due ordini che la stessa Sorbona, la più importante università, era fisicamente spaccata in due, l’ala francescana e l’ala domenicana. Anche se gli ideali francescani sembrano opposti a quelli domenicani, il vero opposto di San Francesco è, sena dubbio, Ignazio di Lodola, fondatore dei Gesuiti.
IL RITORNO DI ARISTOTELE IN OCCIDENTE. REAZIONI CONTRO O A FAVORE.
SAN BONAVENTURA
Vita
Il ritorno a S. Agostino culmina nella dottrina di S. Bonaventura. Giovanni Fidanza, detto Bonaventura nell’ordine francescano, nacque a Bagnoregio (Viterbo), nel 1221. Fu maestro nell’Università di Parigi ed amico di S. Tommaso. Morì nel 1274. Il suo scritto fondamentale è il Commentario alle Sentenze di Pietro Lombardo, mentre il suo capolavoro mistico è l’Itinerario della mente verso Dio.

Le dottrine generali

Contro Aristotele, Bonaventura ritiene che non ogni conoscenza deriva dai sensi: difatti l’anima conosce Dio e se stessa senza l’aiuto dei sensi esterni. Dai sensi derivano le specie o similitudini delle cose che sono quasi immagini o pitture delle cose stesse. Ma di queste specie sensibili l’anima non potrebbe fare uso se non le fosse dato da Dio un lume direttivo che la guida nell’organizzare e dividere tutte le conoscenze. Bonaventura accetta così la dottrina agostiniana dell’illuminazione divina. Come è la norma della conoscenza umana, Dio è pure la norma dell’essere delle cose: è difatti è il loro modello. L’idea o esemplare delle cose nella mente divina è identica con l’essenza divina e si moltiplica solo in riferimento alle cose create, ma non in Dio stesso. Bonaventura, quindi, accetta l’argomento ontologico d’Anselmo. «La verità dell’essere divino è tale che non si può credere effettivamente che egli non sia, se non per ignoranza di ciò che il suo stesso nome significa». Il mondo, per lui, è stato creato dal nulla e ciò vuol dire che non è eterno, perché significa che, prima di essere, era nulla. Ritiene impossibile affermare l’eternità del mondo e riconoscere valore dimostrativo a quegli argomenti che Maimonide (come poi S. Tommaso) conidera solo probabili. L’anima è per Bonaventura il motore del corpo. Essa non è pura forma (come volevano gli aristotelici) ma ha una sua propria materia; quindi è sostanza nel senso perfetto del termine: separabile dal corpo, incorruttibile ed immortale. Bonaventura riconosce all’uomo nel campo della conoscenza la capacità di iniziativa e nel campo dell’azione la libertà. Come la conoscenza è guidata dalla luce divina, così dalla stessa luce è guidata la condotta dell’uomo. Questa luce è la sinderesi o scintilla della coscienza: un criterio naturale di giudizio, che guida l’uomo verso il bene così come i principi dell’intelletto, che derivano anch’essi dall’azione illuminatrice di Dio, lo guidano verso la verità.
L’ascesa mistica

Il misticismo di Bonaventura si ispira a quello dei Vittoriani. Nell’Itinerario della mente verso Dio, Bonaventura distingue con Ugo di S. Vittore tre occhi o facoltà della mente umana:
1) La sensibilità: quello rivolt alle cose esterne;
2) Lo spirito: quello rivolto a se stesso;
3) La mente: quello rivolto al di sopra di sé.
Ognuna di queste facoltà può vedere Dio per speculum, cioè attraverso l’immagine che le cose hanno in sé di Dio o in speculo cioè nell’orma che le cose hanno dell’essere e della bontà di Dio. Ognuna delle tre facoltà in tal modo si gemina e si hanno sei potenze dell’anima:
1) Il senso;
2) L’immaginazione;
3) La ragione;
4) L’intelletto;
5) L’intelligenza;
6) L’apice della mente o sinderesi.
A queste sei potenze dell’anima corrispondono sei gradi dell’ascesa verso Dio
1) La considerazione dell’ordine e della bellezza delle cose;
2) La considerazione delle cose quali sono nell’anima umana che, nell’apprenderle, le astrae dalle condizioni sensibili;
3) La contemplazione dell’immagine di Dio nei poteri naturali dell’anima: Memoria, Intelletto, Volontà;
4) La contemplazione di Dio nell’anima illuminata e perfezionata dalla fede, dalla speranza e dalla carità;
5) La contemplazione di Dio direttamente nel suo primo attributo, che è l’essere;
6) La contemplazione di Dio nella sua massima potenza, che è il Bene, per il quale Dio si diffonde e si articola nella Trinità.
Dopo questo sesto grado bisogna abbandonare le operazioni intellettuali e affidarsi alla grazia perché sollevi l’anima a Dio. Attraverso la grazia l’anima raggiunge l’estasi, definita da Bonaventura come uno stato di ignoranza dotta nel quale l’oscurità dei poteri umani diventa luce soprannaturale.
ALBERTO MAGNO
Uno dei filosofi più importanti che introducono Aristotele nel mondo cristiano è certamente Alberto Magno (1193-1280). Fu maestro di S. Tommaso e dottore della chiesa. Egli è convinto che la filosofia di Aristotele sia senz’altro la filosofia, cioè l’opera più perfetta cui la ragione umana può giungere. Egli distingue nettamente la ricerca filosofica dalla teologia. La filosofia deve servirsi esclusivamente della ragione e procedere per via di dimostrazioni necessarie. La teologia invece si serve di principi ammessi per fede. Per Alberto, come già per Averroè, Aristotele rappresenta il culmine della filosofia, il punto più avanzato al quale può giungere la ragione umana. Il compito che egli si propone é pertanto quello di intendere ed esporre i contenuti della filosofia aristotelica in tutti i suoi aspetti. Egli dà quindi ai suoi scritti la veste di parafrasi di quelli aristotelici, aggiungendo digressioni , integrazioni con nuovi dati (in particolare , sui minerali e su vegetali e animali ignoti ad Aristotele), interpretazioni alternative di passi del testo aristotelico. Tali parafrasi sono destinate non tanto all'insegnamento, quanto alla lettura. Con esse, egli intende presentare il vero pensiero di Aristotele, tanto che, a conclusione della Metafisica, egli afferma: " Tutto ciò che ho detto é conforme all'opinione dei peripatetici: chi vorrà mettere a prova ciò che ho detto, legga attentamente i loro libri e non indirizzi a me, ma a loro, le lodi o le critiche che meritano". Agli occhi di Alberto la filosofia, che procede mediante ragionamenti e sillogismi, é autonoma nel suo campo e non deve essere confusa con la teologia. Quest'ultima possiede principi propri, i quali le provengono dalla rivelazione e ai quali essa dà il suo assenso per fede; perciò nessuna delle due discipline può interferire con l'altra. Alberto rivaluta così la curiositas propria del sapere profano, dedita a investigare gli aspetti segreti e meno noti della natura, compreso il mondo dei metalli, dei vegetali e degli animali. Egli condanna la magia che ricorre a pratiche demoniche per agire sulla natura, ma accoglie la tesi di un legame fra le varie parti della natura e di una dipendenza delle cose e degli eventi del mondo sublunare dal movimento dei corpi celesti. Questi sono guidato da intelligenze motrici attraverso le quali la virtù della causa prima, cioè Dio stesso, esercita il suo influsso su tutto il creato.
TOMMASO D’AQUINO
PREAMBOLO
L’opera di Tommaso segna una tappa decisiva della Scolastica. Il lavoro iniziato da Alberto Magno viene da lui continuato e portato a compimento. L’aristotelismo diventa, attraverso la speculazione tomistica, flessibile e docile alle esigenze della spiegazione cristiana; e non per mezzo di espedienti occasionali o di adattamenti artificiosi ma in virtù di una riforma radicale del sistema. Riforma che non escluse l’apporto di altre fonti e che presenta, complessivamente considerata, una sua indubbia originalità.
Vita
Tommaso dei conti d’Aquino nacque a Roccasecca (presso Cassino) nel 1225 o 1226. Ebbe la sua prima educazione nel chiostro di Montecassino. Nel 1243 entrò, a Napoli, nell’ordine dei domenicani; e di lì fu mandato a Parigi, dove divenne scolaro di Alberto. Nel 1248, quando Alberto passò ad insegnare a Colonia, Tommaso lo seguì e non ritornò a Parigi che nel 1252; commentò allora la Bibbia e le Sentenze. Il successo del suo insegnamento si profilò subito. Ma nel frattempo i maestri secolari dell’Università parigina avevano iniziato la lotta contro i frati mendicanti «falsi apostoli precursori dell’anticristo» e pretendevano che fosse loro negata la facoltà di insegnare. Contro il loro libello Sui pericoli degli ultimi tempi e il loro organizzatore Guglielmo di Sant’Amore, Tommaso scrisse l’opuscolo Contro coloro che contrastano il culto e la religione di Dio. Il papa sembrò dapprima dar ragione ai maestri secolari; ma l’anno dopo decise la disputa favorevolmente agli ordini mendicanti. Il libro di Guglielmo fu condannato. Tommaso fu allora nominato, insieme a Bonaventura, maestro dell’Università parigina (1257). Nel 1259, Tommaso lasciò Parigi e ritornò in Italia dove, nel 1265, gli fu affidato l’incarico di ordinare gli studi dell’ordine a Roma. È in questo periodo di permanenza in Italia che scrisse le sue opere maggiori: Somma contro i Gentili, il secondo Commentario alle Sentenze, la I e II parte della Somma Teologica. Nel 1269 tornò a Parigi dove per un triennio tenne la cattedra di maestro di teologia. Nuove lotte lo occuparono in questo periodo. I professori secolari, con Gerardo di Abeville e Nicola di Lisieux, avevano ripreso la lotta contro gli ordini mendicanti ed egli compose allora Sulla perfezione della vita spirituale. Inoltre, contro il diffondersi dell’aristotelismo averroistico, a causa soprattutto di Sigieri di Brabante, scrisse Sull’unità dell’intelletto contro gli averroisti mentre contro l’agostinismo, altra corrente della Scolastica, compose le Questioni su temi vari. Nel 1272 ritornò in Italia per insegnare all’univeristà di Napoli. Ma nel gennaio 1274, designato da Gregorio X, partiva per recarsi al concilio di Lione per dare il suo contributo sul problema delle crociate. Durante il viaggio, però, si ammalò e si fece trasportare nel chiostro cistercense di Fossanova dove morì il 7 marzo 1274. Di Tommaso possediamo tre antiche autobiografie. Della sua vita si occupa ampiamente il suo scolaro Bartolomeo da Lucca; ed abbiamo anche gli atti del processo di canonizzazione del 18 luglio 1323, contenenti testimonianze sul carattere e sulla vita del santo. Tommaso era grande, bruno, un po’ calvo e aveva l’aria pacifica e mite dello studioso sedentario. Per il suo carattere chiuso, a Parigi lo chiamavano il bue muto. Alberto Magno, parlando di lui, disse: «Questi, che noi chiamiamo bue muto, un giorno muggirà così forte da farsi sentire nel mondo intero».Guglielmo di Tocco ne parla come un «vir modo contemplativus». Ed effettivamente Tommaso si dedicò all’attività intellettuale tutta la vita.
Opere
Gli atti del processo di canonizzazione ci danno un catalogo degli scritti di Tommaso che enumera 36 opere e 25 opuscoli ma, con tutta probabilità , non è completo. Al periodo della prima permanenza a Parigi appartengono: Dell’ente e dell’essenza, il Commentario alle Sentenze e altri scritti. Agli anni del ritorno in Italia e della seconda permanenza a Parigi appartengono: il Commentario ad Aristotele, il Commentario al Libro sulle cause, il Commentario a Boezio, la Somma della verità della fede cattolica contro i Gentili, il secondo Commentario alle Sentenze e la Somma teologica, il suo capolavoro. Scrisse anche le Questioni, che riflettono l’attività politica di Tommaso contro gli averroismi e i teologi agostiniani. Tra gli opuscoli i più famosi sono Sull’unità dell’intelletto contro gli averroismi e Il governo di princìpi, di cui scrisse il I libro e i primi quattro capitoli del II, il resto è opera di Bartolomeo da Lucca.
Ragione e Fede
Il sistema tomistico ha la sua base nella determinazione rigorosa del rapporto tra la ragione e la rivelazione. All’uomo, che ha come fine ultimo Dio, non basta la sola ricerca filosofica fondata sulla ragione. Quelle verità stesse, alle quali la ragione può giungere da sola, non è dato a tutti raggiungerle e la via per raggiungerle non è scevra di errori. Fu perciò necessario che l’uomo fosse istruito dalla rivelazione divina. Ma la rivelazione non annulla né rende inutile la ragione: «la grazia non elimina la natura, ma la perfeziona». La ragione naturale si subordina alla fede come l’inclinazione naturale si subordina alla carità. Certo, la ragione non può dimostrare ciò che è di pertinenza della fede, altrimenti perderebbe di significato, ma può servire ad essa in tre modi diversi. In primo luogo, dimostrando i preamboli della fede, cioè quelle verità la cui dimostrazione è necessaria alla fede. Non si può credere a ciò che Dio ha rivelato, se non si sa che Dio c’è. La ragione naturale dimostra che Dio esiste, che è uno, che ha quei caratteri e quelli attributi che possono essere ricavati dalla considerazione delle cose da lui create. In secondo luogo, la filosofia può essere adoperata a chiarire mediante similitudini le verità della fede. In terzo luogo, combattendo le obiezioni che si fanno alla fede dimostrando che sono false o almeno che non hanno forza dimostrativa. Dall’altro lato, però, la ragione ha la sua verità propria. I princìpi che le sono intrinseci e che sono verissimi, poiché è impossibile pensare che siano falsi, le sono stati infusi da Dio stesso, autore della natura umana, e non possono essere cambiati da nessuno, soprattutto da Dio. Tali principi derivano dalla sapienza divina e sono costitutivi di essa. La verità di ragione non può mai venire in contrasto con quella rivelata: la verità non può contraddire la Verità. Se appare un contrasto, non si tratta di verità razionali, ma di conclusioni false o almeno non necessarie: la fede è la regola del corretto procedere della ragione.
La ragione è
utile alla fede
in quanto:
dimostra i preamboli della fede
(ad esempio l’esistenza di Dio)
chiarisce, tramite analogie e similitudini, i
misteri della Rivelazione (ad esempio la Trinità)
combatte le argomentazioni contrarie alla fede
La ragione è autonoma,
ma quando entra in
contrasto con la fede
significa che, in qualche
punto delle sue dimo-
strazioni, sta errando
(=la fede come norma
della ragione)
La Metafisica
Ente, essenza ed esistenza (o «atto d’essere»)
Il pensiero di Tommaso si configura come una filosofia dell’essere. Il centro architettonico di tale sistema si trova esposto nell’opuscolo L’ente e l’essenza in cui Tommaso si propone di mettere a fuoco alcuni termini venuti di moda in quel periodo, soprattutto in seguita alla traduzione della Metafisica di Avicenna, che rischiavano di essere usati in significati diversi e forieri di equivoci come, ad esempio, i concetti di «ente» ed «essenza». Ente (ens) ed essenza (essentia), afferma Tommaso, «sono le prime cose che l’intelletto capisce». L’ente può essere reale, cioè ciò che è presente nella realtà e che si divide nelle dieci categorie enumerate da Aristotele, o logico, cioè tutto ciò che viene espresso, tramite la copula, in una proposizione affermativa «anche se questa non pone alcunché nella realtà», ossia senza che alla proposizione debba necessariamente corrisponde qualcosa di reale.
ENTE
ossia ciò che
è, può essere:
reale = ciò che è presente nella realtà
risulta caratterizzato
da sostanza + categorie
logico = ciò viene espresso in
una proposizione affermativa
non è necessariamente
presente nella realtà

Tommaso, lasciando il significato logico dell’ente, si sofferma sull’ente reale, a proposito del quale ha senso parlare soltanto di essenza. L’essentia è ciò che una cosa è, ovvero la sua quidditas (= ciò che corrisponde alla domanda «quid est?», «che cos è?»). L’essenza, che Tommaso chiama anche natura, comprende non solo la forma, ma anche la materia delle cose, giacchè comprende tutto ciò che è espresso nella definizione della cosa. Per esempio, l’essenza dell’uomo, definito «animale ragionevole», comprende sia la «ragionevolezza» (forma), sia l’«animalità» (materia). Dall’essenza così intesa si distingue l’essere («esse») o l’atto d’essere («actus essendi»), ovvero l’esistenza. Infatti, dice Tommaso, noi possiamo comprendere «che cos’è l’uomo o la fenice ma non sapere se esistano in natura». Tali sostanze risultano composte di essenza e di esistenza che, pur essendo tra di loro inseparabili, risultano realmente distinte l’una dall’altra.
Negli esseri finiti, essenza ed esistenza stanno fra loro in un rapporto di potenza ed atto, in quanto l’esistenza rappresenta l’atto («actus essendi») grazie a cui le essenze, che hanno l’essere solo in potenza, di fatto esistono.
ENTE REALE
consta di
essenza
quiddità
È ciò che viene espresso dalla definizione
(comprende sia la forma sia la materia)
forma
natura
esistenza
essere
È l’atto per cui qualcosa esiste di fatto
atto d’essere
L’essenza sta all’esistenza come la potenza sta all’atto
Ogni realtà in cui si distinguano l’essenza e l’esistenza, ossia ogni realtà che ha l’essere ma non è l’Essere (esseri finiti e contingenti) deve per forza aver ricevuto l’essere da un essere che, non derivando la propria esistenza da altro è, esso stesso, l’Essere (la condizione dell’essere infinito e necessario, cioè di Dio). In altri termini, quegli esseri che hanno la vita, ma non sono la vita, devono averla ricevuta da un Essere che è la Vita stessa e che rappresenta la causa prima di tutte le vite e di tutte le esistenze: «Necessariamente ogni realtà, il cui essere è altro dalla sua natura, riceverà l’essere da un’altra realtà. E poiché tutto ciò che è per mezzo di un’altra si riporta a ciò che è per se come alla causa prima, dovrà esservi una qualche realtà che sia causa dell’essere di tutte le cose, in quanto essa stessa è essere soltanto; diversamente si andrebbe all’infinito alla ricerca delle cause…». Perciò, l’«aggiunta» dell’esistenza all’essenza, cioè il passaggio, da parte delle cose finite, dalla potenza all’atto esige l’intervento creativo di un Essere che avendo l’esistenza per essenza o natura risulti in grado di farne partecipi altri esseri. Tale è il caso di Dio, il quale, secondo la definizione mistica che Egli ha dato di sé nell’Esodo («Io sono colui che sono»),, si configura come l’essere per antonomasia. Vi sono, quindi, due modi in cui l’essenza può essere nelle sostanze:
1) In quella divina l’essenza è la medesima esistenza. Dio è perciò necessario ed eterno, ovvero esistente per definizione sempre;
2) Nelle sostanze finite l’esistenza è aggiunta dall’esterno ed il loro essere è quindi creato e contingente.
L’ESSERE
è di due tipi:
Dio (= l’essere per essenza in cui essenza ed esistenza coincidono)
creature (= gli enti che ricevono l’essere da Dio)
Dio sta alle creature come
il Necessario (ciò che è e
non può non esistere) sta al
contingente (ciò che può
essere o non essere)
La creazione consiste nell’aggiunta dell’esistenza all’essenza, cioè nell’atto
grazie a cui le essenze, passando dalla potenza all’atto, esistono realmente
In quest’ultima condizione si trovano non solo uomini e cose, ma anche gli angeli. Secondo Tommaso, infatti, in quelle sostanze che sono pura forma senza materia (come le intelligenze angeliche) manca evidentemente la composizione di materia e forma, ma non quella di essenza ed esistenza. Per cui, anche il loro essere risulta il frutto di una creazione divina.
Tipi di
Sostanze
composte (sinoli di forma e materia)
semplici (forme pure senza materia)
create (le anime, gli angeli)
increate (Dio)
Partecipazione ed Analogia
Dire che gli esseri finiti sono stati «creati» da Dio equivale a dire che essi hanno la loro esistenza per «partecipazione», l’atto con cui le creature, grazie a Dio, «prendono parte» all’essere: «come ciò che è infuocato e non è fuoco, è infuocato per partecipazione; così ciò che ha l’essere e non è l’essere, è ente per partecipazione».
Partecipazione
è l’atto con cui le
creature, grazie a
Dio, «prendono
parte» all’essere
Dio possiede l’essere
per natura
Le creature hanno l’essere
per partecipazione
Dio è l’essere, le creature hanno l’essere
La dottrina della partecipazione implica che il termine «essere», riferito alle creature abbia un significato non identico, ma solo simile o corrispondente all’essere di Dio. È questo il principio dell’analogicità dell’essere che Tommaso desume da Aristotele dandogli un valore diverso. Aristotele distinse vari significati dell’essere, ma solo rispetto alle varie categorie e li aveva poi riportati tutti alla sostanza, senza distinguere l’essere di Dio e quello delle altre cose. Tommaso distingue l’essere delle creature, separabili dall’essenza e quindi create, e l’essere di Dio, identico con l’essenza e quindi necessario. Questi due significati dell’essere non sono univoci, cioè uguali, o equivoci, cioè diversi, ma sono analoghi, cioè simili, ma di proporzioni diverse. Dio solo è l’essere per essenza, le creature hanno l’essere per partecipazione; esse, in quanto sono, sono simili a Dio che è il primo principio universale di tutto l’essere, ma Dio non è simile ad esse: questo rapporto è l’analogia. La tesi della diversità, pur nella somiglianza, tra l’essere del mondo e quello di Dio, consente a Tommaso di salvare l’assoluta trascendenza di Dio rispetto al mondo e di tagliare la via a ogni forma di panteismo.
Analogia
= l’essere di Dio e l’essere delle creature non sono
né univoci
(= totalmente simili)
ma in parte identici e in parti differenti, cioè simili, ma di proporzioni diverse
né equivoci
(= totalmente diversi)
Fra Dio (l’infinito) e le creature (il finito) vi è somiglianza e dissomiglianza al tempo stesso.
Partecipazione e analogia salvaguardano la trascendenza di Dio ed escludono ogni forma di panteismo.
L’essere come «perfezione» e i «trascendentali»
L’ontologia tomistica implica un esplicito primato dell’esistenza rispetto all’essenza: «Prima di avere l’essere, l’essenza è un puro nulla». Anzi, l’esistenza o l’essere appare a Tommaso come una «perfezione», e precisamente come la perfezione massima. Questa concezione dell’essere costituisce anche il presupposto della dottrina dei «trascendentali». Mentre le categorie sono gli aspetti che distinguono l’essere in diversi generi, i trascendentali sono quei caratteri che, trascendendo le categorie, qualificano l’essere poiché tale e competono, quindi, ad ogni ente. Tommaso enumera cinque proprietà trascendentali: res («la cosa»), unum («l’uno»), aliquid («il qualcosa»), verum («il vero»), bonum («il bene»). Poiché res non significa se non l’essere preso assolutamente e aliquid implica l’unum, si riducono a tre: unum, verum e bonum. L’essere, per Tommaso, presenta quindi un indubbio primato metafisico rispetto al vero e al bene. Tant’è vero che la verità e la bontà di un ente sono proporzionali al grado d’essere che esso possiede.

I Trascendentali
Sono le proprietà che trascendono le singole categorie e competono ad ogni ente. Quelli tipici sono:
l’uno
il vero
il bene
Le cinque «vie»
Sebbene la filosofia dell’essere di Tommaso sia tutta una dimostrazione dell’esistenza di Dio, egli raccoglie ed articola le sue «prove o vie» in cinque argomenti di fondo. Per Tommaso, se Dio è primo nell’ordine dell’essere, non lo è nell’ordine delle conoscenze umane, che cominciano dai sensi. Una dimostrazione della sua esistenza è dunque necessaria, e deve muovere da ciò che è prima per noi, cioè dagli effetti sensibili, ed essere a posteriori. Tommaso respinge perciò la prova ontologica di Anselmo: anche se si intende Dio come «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore» non ne segue che egli sia in realtà e non solo nell’intelletto.
1) Cosmologica: desunta dalla Fisica e Metafisica di Aristotele, parte dal principio che «tutto ciò che si muove è mosso da altro». Andando in dietro di causa in causa del movimento, non è possibile procedere all’infinito, altrimenti non ci sarebbe un primo motore e neppure gli altri si muoverebbero. È, quindi, necessario giungere ad un primo motore che non sia mosso da null’altro che è Dio;
2) Causale: nell’ordine delle cause efficienti non si può risalire all’infinito, altrimenti non vi sarebbe una prima causa e quindi neppure una causa ultima e cause intermedie: vi deve essere dunque una causa efficiente prima, che è Dio;
3) Rapporto tra Possibile e Necessario: le cose possibili esistono solo in virtù delle cose necessarie: ma queste hanno la causa della loro necessità o in sé o in altro. Quelle che hanno la causa in altro rinviano ad esso, e poiché non è possibile procedere all’infinito, bisogna risalire a qualcosa che sia necessario di per sé e sia causa della necessità di ciò che è necessario per altro; questo è Dio;
4) Governo delle Cose: le cose naturali, prive di intelligenza, appaiono tuttavia dirette ad un fine; e questo non potrebbe essere se non fossero governate da un Essere dotato di intelligenza. Vi è dunque un essere intelligente che ordina le cose naturali ad un fine; questo è Dio.
Le cinque prove
dell’esistenza di Dio
(«le vie»)
PUNTO DI PARTENZA
PUNTO DI ARRIVO
Il movimento
Dio come Primo Motore Immobile
La causa
Dio come Causa Prima Incausata
Il Possibile (= il contingente)
Dio come Ente Necessario
I gradi di perfezione
Dio come Perfezione Somma
I fini
Dio come Intelligenza Ordinatrice
Struttura logica delle prove
a) si parte da un dato di esperienza che non si spiega da sé
b) si applica il principio di causa
c) si esclude il regresso all’infinito
d) si perviene a una realtà trascendente esplicatrice
Gli attributi di Dio e il metodo analogico
Procedendo sulla strada delle cinque «vie», la ragione può scoprire altri attributi di Dio attraverso due vie:
1) Via Negativa: consiste nel negare di Dio tutte le imperfezioni delle creature, giungendo così all’idea della semplicità, unità, spiritualità ecc.. di Dio;
2) Via Positiva: consiste nel conoscere Dio «dalle perfezioni che egli comunica alle creature; le quali si trovano in Dio in grado ben più eminente che nelle creature». Essa si articola in altre due vie:
1) Via Causalitatis: consiste nel derivare dall’effetto, cioè dal mondo, delle informazioni circa la causa che lo ha prodotto;
2) Via Eminentiae: consiste nel liberare l’attributo in questione dai limiti che possiede nelle creature e nel pensarlo al superlativo, compatibile con Dio, l’essere perfetto.
Ora, poiché tali attributi sono affermati da Dio in modo eminente, non sono predicati di Dio e delle creature in modo univoco. Però, poiché ogni perfezione del mondo ha un rapporto di partecipazione e di somiglianza con Dio, non sono neppure predicati in modo equivoco, cioè ponendo, sotto le stesso nome, realtà differenti. Tommaso sostiene, quindi, che fra gli attributi di Dio e quelli delle creature esiste analogia, cioè una parziale somiglianza e dissomiglianza.
il discorso
su Dio
procede per:
via negativa
nega di Dio le imperfezioni delle creature
via positiva
causalitatis
conosce Dio dalle perfezioni che comunica alle creature
eminentiae
pensa le perfezioni al superlativo, ossia in modo adeguato all’essere di Dio
Il principio di analogia rappresenta la condizione di base del discorso teologico

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