La filosofia tedesca

Materie:Riassunto
Categoria:Filosofia

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Testo

LA FILOSOFIA TEDESCA

La Filosofia della Fede di Hamann e lo Storicismo di Herder

In Germania, negli ultimi decenni del Settecento, si va sempre più rafforzando un filone di pensiero apertamente polemico verso l’illuminismo e verso il kantismo. Le esigenze da cui scaturirono queste polemiche furono, in generale, quelle della fede e della tradizione religiosa. La filosofia kantiana appariva muta o ostile di fronte a tali esigenze perché era una filosofia della ragione: alla ragione, come organo di conoscenza, si contrappose la fede, l’intuizione mistica, il sentimento, o in generale qualche facoltà postulata ad hoc capace di procedere al di là dei limiti della ragione verso quella realtà superiore che è l’oggetto specifico dell’esperienza mistica, della religione.
La filosofia della fede in questo senso s’inizia con l’opera di Johann Georg Hamann (1730-1788), chiamato il “mago del nord”. Egli batte in breccia le pretese della ragione. «Cos’è l’arcilodata ragione con la sua universalità, infallibilità, esaltazione, certezza ed evidenza? Un ens rationis, un idolo, cui la superstizione assegna attributi divini». Non la ragione ma la fede costituisce l’uomo nella sua totalità. Quindi, la credenza di Hamann è una fede mistica, un’esperienza misteriosa nella quale trovano posto non soltanto i fatti naturali e le testimonianze dei sensi ma anche i fatti storici, le testimonianze della tradizione e i fatti divini della rivelazione. La sua fede è la rivelazione immediata della natura e di Dio. Non fa distinzione tra ciò che è sensibile e ciò che è religioso, ciò che è umano e ciò che è divino, ma riconosce il più alto principio del sapere nella coincidentia oppositorum.
Sulla stessa linea di pensiero si trova Johann Gottfried Herder (1744-1803). La sua dottrina filosofica più importante è il concetto di cristianesimo come religione dell’umanità, e della storia come un progressivo sviluppo verso la compiuta realizzazione dell’umanità stessa (ma ciò toglie il libero arbitrio). Nelle Idee per una filosofia della storia dell’umanità afferma che nella storia e nella natura ogni sviluppo è sottoposto a determinate condizioni naturali e a leggi immutabili. La natura è un tutto vivente, che si sviluppa secondo un piano totale di organizzazione progressiva. In essa agiscono e lottano forze diverse e opposte. L’uomo, come ogni animale, è un suo prodotto, ma è al culmine dell’organizzazione, perché con lui nasce l’attività razionale, e quindi l’arte e il linguaggio che lo portano all’umanità e alla religione. La storia umana segue la stessa legge di sviluppo della natura, che procede dal mondo inorganico e organico fino all’uomo per portarlo alla sua vera essenza. Natura e storia educano l’uomo all’umanità, e questa educazione è frutto non della ragione, ma della religione, che si connette alla storia umana sin dai primordi e rivela all’uomo ciò che c’è di divino nella natura.
A ciò è condotto dall’analogia fra il mondo della natura e quello della storia, entrambe creature di Dio. Dio, che ha ordinato nel modo più saggio il mondo della natura e ne garantisce la conservazione e lo sviluppo, potrebbe permettere che la storia del genere umano si svolgesse senza un piano qualsiasi, al di fuori della sua saggezza e della sua bontà? A questa domanda deve rispondere la filosofia della storia che deve dimostrare che il genere umano non è un gregge senza pastore ma che per esso valgono le stesse leggi che determinano l’organizzazione progressiva del mondo naturale. (Per il cristianesimo l’uomo ha si un pastore ma per lui non valgonole stessi leggi naturali).

Jacobi e la «polemica sullo spinozismo»

La filosofia della fede di Hamann e Herder conduceva quindi ad una conclusione panteistica. Quella di Jacobi invece è sviluppata verso un rigoroso teismo: egli intende dividere Dio dalla natura (questa forma di teismo non è né panteismo, né Gesù; è un’entità, una specie di Demiurgo).
Lo scopo della sua speculazione è di difendere la validità della fede come sentimento dell’incondizionato, di Dio. Egli rigetta la speculazione «disinteressata»; vuol difendere non la verità, ma «una determinata verità». Per lui la ragione è uno strumento, non la stessa esistenza umana. Essa risulta di due rappresentazioni originarie: quella dell’incondizionato, di Dio, e quella del condizionato, di noi stessi; ma quest’ultima presuppone la prima. Quindi abbiamo più certezza dell’incondizionato che del condizionato, della nostra esistenza. Ma tale certezza non è data dalla ragione ma dalla fede. Né la ragione e né una filosofia che si avvalga di essa potrà mai giungere a dimostrare l’esistenza di una divinità creatrice.

Fra «Sturm und Drang», Classicismo e Romanticismo: Schiller e Goethe

La filosofia della fede si può considerare nel suo complesso come l’espressione filosofica di quel movimento letterario-politico che si chiamò Sturm und Drang, in pratica «tempeste e impeto». La ragione contro cui questa filosofia polemizza è la ragione finita, cioè la ragione cui Kant aveva segnato le competenze ed i limiti; alla quale contrappone la fede come organo capace di cogliere ciò che ad essa è inaccessibile.
Non l’arte ma la natura stessa fu il tema che ispirò la riflessione filosofica di Goethe. Egli è convinto che la natura e Dio sono strettamente congiunti e fanno tutt’uno. «Tutto ciò che l’uomo può raggiungere nella vita è che il Dio-natura gli si riveli», egli dice. La natura non è che «l’abito vivente della divinità». Perciò non si può giungere a Dio se non attraverso la natura, come non si può giungere all’anima se non attraverso il corpo.

Humboldt: la storia, il linguaggio e lo Stato

A Schiller e Herder s’ispira l’opera di Wilhelm von Humboldt (1767-1835). Egli ritiene che lo scopo degli uomini è negli uomini stessi, nella loro formazione progressiva, nello sviluppo e nella realizzazione della forma umana che è loro propria. Sotto questo aspetto lo studio dell’uomo deve essere l’oggetto di una scienza – l’antropologia – che, pur movendo a determinare le condizioni naturali dell’uomo, mira a scoprire, attraverso di esse, l’ideale stesso dell’umanità, la forma incondizionata, alla quale nessun individuo si adegua mai perfettamente, ma che rimane lo scopo cui tutti gli individui tendono ad avvicinarsi. Lui chiama spirito dell’umanità l’ideale forma umana che non si trova mai realizzata empiricamente, sebbene sia il termine di ogni attività umana; e riconosce in questo spirito dell’umanità la forza spirituale dalla quale dipendono tutte le manifestazioni dell’uomo nel mondo. I grandi uomini sono stati quelli nei quali più prepotentemente si è affermato lo spirito dell’umanità; e i grandi popoli quelli che si sono più avvicinati nel loro sviluppo alla realizzazione integrale di quello spirito.
La storia appare a Humboldt come «lo sforzo dell’idea per conquistare la sua esistenza nella realtà». L’idea si manifesta nella storia in un’individualità personale, in una nazione, e in generale in tutti gli elementi necessari e determinanti che lo storico ha il compito di sceverare e mettere in luce nell’insieme degli aspetti insignificanti o accidentali. Per l’uomo che non può conoscere il piano totale del governo del mondo, l’idea può rivelarsi soltanto attraverso il corso degli eventi, di cui essa costituisce nello stesso tempo la forza produttiva e lo scopo finale.
All’idea dell’umanità si collega il linguaggio. Il linguaggio è l’attività stessa delle forze spirituali dell’uomo. E poiché non vi è nessuna forza dell’anima che non sia attiva, non c’è nell’interno dell’uomo nulla di così profondo o di così nascosto che non sia trasformi nel linguaggio e non si riconosca in esso.
L’esigenza di garantire la libera realizzazione dello spirito e dell’umanità nell’uomo porta Humboldt a restringere i limiti dell’azione dello stato. L’opera Sui limiti dello Stato riduce il compito positivo dello stato alla garanzia della sicurezza interna ed esterna, ma esclude, come eccedente i limiti dello stato, ogni azione positiva diretta a promuovere il benessere e la vita morale e religiosa dei cittadini. Ciò che concerne direttamente lo sviluppo fisico, intellettuale morale e religioso dell’uomo cade fuori dei limiti dello stato, ed è il compito proprio degli individui e delle nazioni.
Il Romanticismo come «problema»

Con il termine «Romanticismo», che in origine faceva riferimento al romanzo cavalleresco, ricco di avventure e di amori, si indica il movimento filosofico, letterario, artistico ecc. che, nato in Germania negli ultimi anni del secolo XVIII, ha poi trovato la sua massima fioritura, in tutta Europa, nei primi decenni dell’Ottocento, importando di sé la mentalità di gran parte del secolo.
Per una prima lettura, che risale in parte ai romantici stessi, e che è stata codificata da Hegel, il Romanticismo sarebbe quell’indirizzo culturale che trova la sua nota qualificante nell’esaltazione del «sentimento» e che si concretizza nei rappresentanti del circolo tedesco di Jena e in tutti i letterati europei seguaci delle loro idee anti-classicistiche. Questo modo di considerare il Romanticismo ha avuto, sino ai giorni nostri, molta fortuna, entrando anche nell’uso comune, dove il termine «romantico» s’identifica con gli aggettivi «sentimentale», «poetico» ecc.
Questa accezione «ristretta» di Romanticismo, pur cogliendo un aspetto basilare del movimento, ha finito per apparire troppo angusta. Il suo rischio è quello di privilegiare esclusivamente il suo aspetto letterario ed artistico, oscurando le componenti filosofiche o risolvendole negli scritti dei filosofi romantici del periodo. Per questo, secondo una seconda interpretazione, il Romanticismo si configura come una «temperie» o un’«atmosfera» storica, una situazione mentale generale, che si riflette nella letteratura, nella filosofia, nella politica, nella pittura ecc.
Questo significato, più ampio del primo, prospetta il Romanticismo in senso storico-culturale, vedendo in esso una «costellazione» di idee e di atteggiamenti che sorge in relazione a determinate situazioni socio-politiche e che si nutre di un tipo di cultura diversa p antitetica a quella dell’età illuministica. Infatti, mentre nella prima interpretazione si discorre soprattutto di «scuola romantica», nella seconda si parla di preferenze di «epoca romantica», di «civiltà romantica» e di «cultura romantica».
Il Romanticismo è pieno di uesta accezione del QQZXC«ambivalenze», poiché coesistono in esso il primato dell’individuo e quello della società, l’esaltazione del passato e l’attesa messianica del futuro, l’evasione nel fantastico e il realismo, il titanismo e il vittimismo, il sentimentalismo e il razionalismo ecc.
Tutti questi motivi, anche se opposti tra loro, sono finalizzati verso un obiettivo comune. Ad esempio, l’esaltazione del sentimento da un lato e la celebrazione idealistica ed hegeliana della «ragione dialettica» dall’altro, non sono totalmente contrapposte, poiché scaturiscono da un analogo sentimento: la polemica contro l’intelletto illuministico. Infatti, entrambi mirano a risolvere lo stesso problema: il ritrovamento di una via per l’Assoluto.

Il Circolo di Jena

Storicamente, il Romanticismo tedesco ha come luogo di formazione la città di Jena e trova i suoi animatori ed esponenti di punta in Friedrich Schlegel (1772-1829), August Wilhelm Schlegel (1767-1845), Karoline Michaelis (1769-1809), Friedrich von Hardenberg, detto Novalis (1772-1801). Rientra nell’atmosfera culturale del circolo anche il poeta Friedich Hölderlin.

Atteggiamenti caratteristici del Romanticismo tedesco

Analizziamo ora alcuni tratti del romanticismo tedesco. Ovviamente non è detto che questi tratti si trovino tutti e contemporaneamente in tutti gli autori, poiché si tratta di motivi la cui presenza, in un determinato scrittore, autorizza a parlare di «aspetti» più o meno accentuatamente «romantici» della sua opera.

Il rifiuto della ragione illuministica e la ricerca di altre vie d’accesso alla realtà e all’Assoluto

Si afferma talora che i romantici rifiutino la religione. Poiché questo non è sempre vero, si dovrebbe affermare che i romantici, pur nella verità delle loro posizioni, sono tutti d’accordo nel respingere la ragione illuministica. Infatti il Romanticismo nasce proprio con il ripudio di quel tipo di ragione della quale l’Illuminismo aveva fatto la propria bandiera ed il proprio strumento interpretativo del mondo. Già incriminata dal «bagno di sangue della Rivoluzione e del militarismo napoleonico, la ragione dei philosophes viene anche ritenuta incapace di comprendere la realtà profonda dell’uomo, dell’universo e di Dio.

L’esaltazione del sentimento e dell’arte

Da taluni, l’organo più funzionale per rapportarsi alla vita e per penetrare nell’essenza più riposta dell’universo viene rintracciato nel sentimento: una categoria spirituale che l’antichità aveva per lo più ignorato o disprezzato. Il sentimento appare come un’ebbrezza indefinita di emozioni, in cui palpita la vita stessa al di là delle strettoie della ragione.
Per questo, il sentimento viene ritenuto in grado di aprire a nuove dimensioni della psiche e di risalire alle sorgenti primordiali dell’essere. Anzi, il sentimento appare talora come l’infinito stesso, o meglio come l’infinito nella forma dell’indefinito.
L’esaltazione del sentimento procede parallelamente al culto dell’arte vista come «sapienza del mondo» e «porta aurorale» della conoscenza, ossia come ciò che precede ed anticipa il discorso logico e nello stesso tempo lo completa, giungendo là dove questo non può arrivare e configurandosi come ciò da cui nasce e a cui finisce sempre per ritornare la filosofia. Al poeta si conferiscono delle doti quasi sovra-umane e profetiche, che fanno di lui un «esploratore dell’invisibile», con poteri i intuizione superiori a quelli degli uomini comuni e della ragione logica.
Questo primato dell’arte creativa implca un primato del linguaggio poetico e musicale, visto come «parola magica» in cui si concretizza l’essenza stessa dell’arte.
In seguito la musica diviene la «regina delle arti», anzi l’arte romantica per eccellenza, poiché sprofondando l’ascoltatore nel flusso indeterminato di emozioni e di immagini gli fa vivere l’esperienza dell’Infinito.

La celebrazione della fede religiosa e della «ragione dialettica»

Oltre all’arte anche la religione è un’esperienza fondamentale dei romantici vista come via di accesso privilegiata al reale e come un sapere immediato che riesce a cogliere il Tutto nelle parti, l’Assoluto nel relativo, il Necessario nel contingente, l’Unità nella molteplicità, l’Eterno nel tempo ecc. «Artista può essere solo chi ha una sua religione, un’intuizione originale dell’infinito». Dio lo si coglie ovunque. Tuttavia, mentre molti sono rimasti su posizioni panteistiche, altri si sono anche convertiti a religioni positive.
La polemica contro la divinità illuministica, il rifiuto di identificare l’uomo con Di, ha condotto alcuni romantici ad una vera e propria conversione alle religioni tradizionali.
Un esempio è Schlegel che aderisce al cristianesimo, preferendolo al protestantesimo per il cerimoniale liturgico. L’opposto è Hegel che che polemizzava contro le filosofie del sentimento e della fede affermando che solo tramite la logoca e la ragione si può parlare dell’infinito.

Il senso dell’infinito

Mentre Kant aveva basato la sua filosofia sul finito facendo valere il principio del limite, i romantici cercano ovunque l’oltre-limite, ciò che rifugge dai contorni definiti e si sottrae alle leggi dell’ordine e della misura. I romantici sono infatti anime assetate di Assoluto e bramose di andare oltre lo spazio, il tempo, il dolore, la caducità, la morte ecc.
L’infinito si qualifica come il protagonista della cultura romantica. I romantici differiscono tra loro per il diverso modo di intendere l’Infinito e di concepire i rapporti con il finito. Il modello più seguito è quello panteistico, sia di tipo naturalistico, che identifica l’Infinito nella Natura, sia di tipo idealistico, che identifica invece l’Infinito con lo Spirito, ossia l’Umanità. Mentre il primo è immanentista, il secondo è una sorta di teismo e di trascendentismo.
Accanto al modello panteistico, troviamo un altr’altra concezione del rapporto tra Infinito e finito, che vede l’Infinito distinto dal finito, che viene concepito come manifestazione dell’Infinito.

La «Sehnsucht», l’«ironia» e il «titanismo»

Tipica dei romantici è la concezione della vita come inquietudine, brama, sforzo incessante. I romantici credevano che l’uomo fosse in mano ad un «demone dell’infinito» che rende l’uomo, insofferente di ogni limite e mai soddisfatto della realtà, irrequieto e in tensione perenne, che lo sempre alla ricerca di un nuovo obbiettivo e, una volta raggiunto, ne cerca subito un altro procedendo verso un infinito che non potrà mai cogliere.
Due espressioni esemplificano tale modo d’essere: lo «spirito faustiano» di Goethe, oppure lo «Streben (sforzo)» di Ficthe, che vede l’io impegnato in un infinito superamento del finito per la conquista della propria umanità. L’intuizione romantica dell’uomo è, quindi, in funzione del desiderio d’infinito. Solo in relazione alla «brama dell’infinito» si possono comprendere alcuni stati d’animo tipici dei romantici.
L’espressione Sehnsucht, che può essere tradotta con «desiderio», «sforzo», «aspirazione struggente», «brama appassionata», sintetizza linterpretazione dell’uomo come desiderio e mancanza, come desiderio frustrato di un infinito che sfugge. Lo sforzo nel raggiungere l’infinito rappresenta, per il romantico, il senso della vita.
Altri due atteggiamenti tipici del romantico sono l’ironia e il titanismo. L’ironia consiste nella «superiore» coscienza dell’impossibilità di raggiungere l’infinito. L’ironia prende atto, poiché consiste nel non prendere «sul serio» tale scopo, per questo il filosofo introduce lo homour.
Il titanismo esprime invece una ribellione nei confronti di quest’impotenza a raggiungere l’infinito. Tant’è vero che il titanismo, talora, porto molti al suicidio, visto come atto di sfida estrema verso il destino. Il titanismo è detto anche prometeismo perché lo personificano con il mito di Prometeo.

L’«evasione» e la ricerca dell’«armonia perduta»

La brama dell’’infinito genera la tendenza all’evasione e l’amore per l’eccezionale. I romantici, non sopportando il finito e disprezzando l’abitudinario, aspirano ad evade dal quotidiano e a vivere esperienze fuori della norma, capaci di produrre emozioni intense e travolgenti. Da ciò la predilezione romantica per ciò che è «meraviglioso», «irregolare», «lontano», «misterioso», «magico», «fiabesco», «primitivo», «notturno», «lugubre», «spettrale», ecc., ossia a tutto ciò che, essendo fuori dal comune, può offrire sensazioni diverse e sconosciute.
Collegata all’evasione è la figura del «viandante» che non viaggia con l’occhio critico degli illuministi ma con la curiosità romantica. L’«errare» assume il significato della ricerca inquieta e morbosa di un «non so che» d’irraggiungibile ed illusorio.
Altro tema caratteristico dei romantici è quello della «immediatezza felice» e dell’«armonia perduta». Credono, infatti, che la ragione abbia sradicato la primitiva spontaneità dell’uomo nella quale il corpo e lo spirito non erano in lotta e la ragione non si opponeva all’istinto. Ciò implica chela storia del mondo proceda da un’armonia perduta ad un’armonia ritrovata secondo questo schema :
1) un’armonia iniziale;
2) una scissione intermedia;
3) la costruzione di un armonia futura basata sul passato.
Questa concezione vede la storia come regresso e progresso al tempo stesso. I romantici mitizzano il «passato felice» che Hölderlin pone nella Grecia.

Infinità e creatività dell’uomo

Altro carattere del romanticismo e la nozione di uomo come «Spirito». Lo Spirito è l’uomo inteso come:
1) attività infinita ed inesauribile, che si autocostituisce od autocrea liberamente, superando di continuo i propri ostacoli
2) soggetto in funzione di cui esiste e trova un senso l’oggetto e quindi la natura.
Questa teoria dell’uomo come attività incessante e ragion d’essere di ogni cosa, cioè Io = Dio, si trova per la prima volta in Fiche. Ma il suo infinito presuppone ancora un limite che si esercita attraverso un infinito superamento del finito.
Nel romanticismo possiamo trovare l’individualismo più spiccato come lo statalismo più accentuato.

L’amore come anelito di diffusione totale e cifra dell’infinito

Altro tema fondamentale è l’amore. L’esaltazione dell’amore discende dal privilegiamento del sentimento e dalla ricerca di un’evasione dal quotidiano. L’amore appare infatti come il sentimento più forte e come l’estasi suprema, ovvero come la vita della vita stessa.
La prima caratteristica dell’amore romantico è la globalità o la sintesi tra anima e corpo. Si vagheggia anche l’idea di una donna ideale che deve saper amare con la totalità del suo essere, senza freni alla passione all’infuori della sua “fedeltà interiore”.
La seconda caratteristica dell’amore risiede nella ricerca dell’unità assoluta degli amanti, la completa fusione dei due corpi di modo che «ciò che due possa diventare uno».
La terza caratteristica è la sua tendenza a caricarsi di significati simbolicie metafisici, I romantici pensano che l’amore, pur rivolgendosi a cose e creature finite, scorga in esse manifestazioni o cifre dell’assoluto, sia inteso panteisticamente, sia trascendisticamente.

La nuova concezione della storia

Un altro aspetto caratterizzante del romanticismo è la riscoperta della storia che si pone come un vero e proprio «storicismo» contrapposto all’«antistoricismo» illuminista.
Nasce una nuova concezione della storia opposta a quella illuministica. Per l’illuminismo il soggetto della storia era l’uomo, per i romantici era la Provvidenza.
Con il fallimento della rivoluzione francese e la caduta di Napoleone, infatti, si era iniziato a credere che non l’insieme degli uomini, ma una forza divina, concepita come forza immanente o trascendente, governasse la storia. La storia appariva come il prodotto di un progetto provvidenziale assoluto. Vista così la storia è un processo globalmente positivo, in cui niente è irrazionale o inutile e in cui ogni regresso è solo apparente. La storia quindi è un progresso necessario e incessante.
Ciò spiega perché lo storicismo romantico si accompagni ad una forma di tradizionalismo, che non solo giustifica, ma «santifica» il passato, ritenendolo espressione del «corso di Dio nella storia» e linfa vitale del presente e del futuro. Anche qui la divisione tra illuminismo e romanticismo e netta. L’illuminismo, filosofia critica e riformatrice, ripudiava il passato poiché vi scorgeva solo errori, pregiudizi, violenze ecc. Il romanticismo, filosofia giustificazionalistica e tradizionalistica, carica di un valore assoluto le istituzioni basilari del passato: famiglia, ceti sociali, cariche statali, Chiesa ecc. Esso trasforma il Medioevo - che per gli illuminismo era l’età della fame, dell’ignoranza, dei soprusi, della superstizione popolare – in un’epoca di fede, di unità spirituale, di fantasia e di imprese cavalleresche.

La filosofia politica romantica

La politica dei primi romantici passa attraverso una fiammata filo-rivoluzionaria e appaiono portatori di istanze individualistiche ed anti-statalistiche che si espimono in forme di radicalismo repubblicano e di anarchismo. Tale fase trova riscontro nel tema della lotta dell’individuo contro la società.
In una seconda fase i romantici, in virtù del loro storicismo provvidenzialistico e tradizionalistico, elaborarono schemi politici sempre più statalistici e conservatori, convinti sia che l’individuo è tale solo all’interno di una comunità storica ed in virtù della sua appartenenza alle istituzioni tradizionali quali famiglia Stato Chiesa ecc., sia che il disordine delle forze umane produrrà solo caos se non interviene Iddio o la Chiesa da lui istituita.
Ciò porto in Germania alla restaurazione e a Metternich mentre in Italia alle società segrete, quindi se da un lato il romantico era conservatore dall’altro era liberale e patriottico.
Questo bifrontismo politico risulta evidente nella diversa portata teorico-pratica del concetto di «nazione». Mentre nel 700 l’idea di «popolo» era definita in termini di volontà ed interessi comuni e concepita come risultato di un contratto e di una libera convenzione, il concetto romantico di nazione risulta definito secondo elementi quali razza, lingua, cultura, religione. Per cui mentre il popolo in senso settecentesco è la coesistenza di individui che vogliono vivere insieme, per il romantico è la coesistenza di individui che devono vivere insieme perché per loro lo stato è fondamentale (“l’uomo è un animale politico”).
La filosofia politica del Romanticismo tedesco tende sempre più a svilupparsi in una direzione statalista e statolatrica (per loro lo stato è un idolo da idolatrare). Il pensiero politico tedesco, esaltando, sin da Herder, il mito della «nazione missionario», ossia del popolo «civilizzatore ed educatore», avente il compito di condurre intellettualmente gli altri, e celebrando, sin da Fichte, il «primato» moderno della Germania, finisce per gettare le basi delle successive esaltazioni nazionali dei tedeschi, sino al loro tragico compimento nel nazismo. E la stessa guerra fra le nazioni, aborrita dagli illuministi (v. la pace perpetua di Kant,il cosmopolitismo), finisce per trovare in Hegel una sua giustificazione filosofica. In Italia invece si assiste ad una saldatura fra il concetto di nazione e quello di libertà, intesa come libertà nello stato (di certo Garibaldi non voleva educare il mondo).

La nuova concezione della Natura

Altro grande tema del Romanticismo è la Natura. L’amore ed il fascino per la Natura, che nascono dallo Sturm und Drang e si alimentano con la «riscoperta di Spinosa», costituiscono uno dei dati più caratteristici del movimento.
Questo sentimento per la natura che si esprime in una nuova concezione complessiva di essa, accomuna filosofi, poeti, uomini di scienza ecc. e si definisce per antitesi nei confronti di quella nata con la Rivoluzione scientifica e teorizzato dall’illuminismo soprattutto dal materialismo francese.
I romantici, a differenza degli illuministi, non studiano il lato scientifico della Natura, ma quello divino.Per esempio, davanti ad un fulmine non si chiedono il perché, ma si limitano a provare delle emozioni. Rispetto quindi alla Rivoluzione scientifica che considerava la natura “guidata” da una serie di cause efficienti, nasce proprio un nuovo modo di concepire la natura. In questo modo i romantici rifiutano gli studi di Galileo e di Newton che consideravano la Natura come un ordine oggettivo o come un’insieme di cause efficenti. Loro non mirano a spiegare la natura, ma a viverla.
I romantici pervengono così ad una filosofia della natura organicistica (il tutto in funzione del tutto), energetico-vitalista (la natura è una forza dinamica, vivente ed animata), finalistica ( la natura è una realtà che deve raggiungere scopi, immanenti o trascendenti), spiritualistica (la natura è qualcosa di intrinsecamente spirituale) e dialettica (la natura è organizzata secondo coppie di forze opposte,con un polo positivo e uno negativo, che hanno delle unità dinamiche).

L’ottimismo al di là del pessimismo

Sotto alcuni aspetti il Romanticismo sembra essere il trionfo del pessimismo (v. Foscolo, Leopardi e Byron). Nella letteratura romantica dominano gli stati d’animo tristi e melanconici e abbondano protagonisti inquieti e delusi, alla ricerca di una felicità sempre sognata e mai raggiunta. Del resto, il romanticismo nasce da una coscienza di infelicità e da un anelito verso l’infinito, un desiderio di superare gli ostacoli dell’esistenza.
E’ importante vedere come i «personaggi del dolore» sono alcuni degli stessi geni romantici, ma vittime di tragici destini: Wackenroder muore a soli 25 anni, Novalis a 29 anni a causa di una tubercolosi, Holderlin finisce la sua vita racchiuso in una torre solitaria e in preda alla follia. Famosa è infatti la frase leopardiana nel “Dialogo della Natura e di un’anima”,(se sei infelice e soffri sei un grande).
In questo periodo nasce addirittura la voluptas dolendi (il piacere del dolore), ossia l’autocompiacimento della sofferenza stessa, intesa come il prezzo che ognuno deve pagare per entrare nella schiera dei grandi. Si può allora dire che il Romanticismo è sostanzialmente pessimista? Come si spiega allora le tesi della storia della filosofia secondo la quale il romanticismo è sostanzialmente ottimista? In realtà questa apparente antitesi fra Romanticismo letterario e filosofico nasce da una mancata distinzione fra la disposizione verso gli stati d’animo melanconici e la visione complessiva del mondo professata dai poeti e dai filosofi di quest’età. In pratica, la letteratura, espressione del singolo, tende ad essere più pessimistica, mentre la filosofia, espressione di un pensiero globale, risulta più ottimistica, in quanto tende a risolvere il negativo nel positivo.
Anche negli altri stati europei, il Romanticismo presenta le stesse caratteristiche di un «pensiero ottimista al di là del pessimismo», ossia la medesima forma mentis, portata a cercare un qualche riscatto o una qualche redenzione al negativo, sia di tipo trascendistico(Dio), panteistico(la Natura), idealistico(lo Spirito), estetico(la poesia e la bellezza), storico-politico(il progresso dell’umanità),ecc.
Un’altra prova di come il Romanticismo è più ottimista che pessimista la si trova in Italia con Leopardi,legato sul piano filosofico, alla cultura settecentesca e illuministica, e Manzoni, profondamente partecipe della cultura romantica. Il primo elabora una visione pessimistica della realtà, contro ogni provvidenzialismo religioso o laico e ostile ad ogni «soluzione» filosofica o fideista del problema del male. Il secondo, invece, parla di «provvida sventura» e crede in una finale redenzione della sofferenza e della negatività attraverso la fede in Dio e nella Provvidenza.Lui con il termine di provvida sventura intende dire che esiste il male, ma sopra di esso c’è la provvidenza che ci porterà del bene.

Figure del Romanticismo tedesco

Hölderlin

Una delle più significative personalità del Romanticismo letterario è il poeta Frierich Holderlin (1770-1843), che fu amico di Schelling e di Hegel e ammiratore di Fichte. La sua opera più famosa è l’Iperione nella quale il protagonista dopo una delusione amorosa e una militare si ritira in solitudine e finisce per godere ed esaltare il suo dolore. L’idea che trasmette quest’opera è quella di “Essere uno col tutto, questa è la vita degli dèi, e il cielo dell’uomo”.Questo tutto è l’infinito e vive e si rivela nell’uomo.Ciò che rivela l’infinito all’uomo è la bellezza e la prima figlia della bellezza è l’arte, la seconda figlia è la religione, che è amore della bellezza. Per cui quella conciliazione con il mondo che Hegel realizza nella dialettica dell’idea, Holderlin la realizza nel sentimento della bellezza infinita nella quale c’è conciliazione tra uomo e mondo.

Schlegel

Per Friedrich Schlegel (1772-1829), il concetto della poesia romantica,non è altro che il trasferimento del dominio della poesia, considerata come mondo a sé, del principio fichtiano dell’infinito. Lui, cioè, trasferisce nella poesia l’idea dell’infinito.Per lui quest’idea accomuna poesia, filosofia e religione in modo tale che nessuna di queste attività può sussistere senza l’altra. “Poesia e filosofia sono sfere e forme diverse o anche i fattori della religione”.

Novalis

Friedrich von Hardenberg(1772-1801), detto Novalis, parla di idealismo magico. Per lui questo dilatarsi dell’uomo sino all’infinito, questo suo trasformarsi in volontà infinita creatrice della natura e onnipotente, è il fondamento dell’idealismo magico.Mago è infatti colui che sa dominare la natura sino al punto da farla servire ai sui fini arbitrari.Questo è il punto a cui l’uomo può gingere mediante la poesia.

Schleiermacher

Friedrich Schleiermacher (1768-1834) difende l’originalità e l’autonomia della religione nei confronti delle altre forme della vita spirituale. Per lui la religione non è moralità perché può essere morale anche chi non è religioso”(vero). Non è sapere perché la misura del sapere non è la misura della santità(falso). Essa è piuttosto un sentimento:è la conoscenza immediata che un essere finito è nell’Infinito e attraverso l’Infinito, che ogni essere temporale è nell’Eterno e attraverso l’Eterno.
Al sentimento dell’unità con l’infinito è legato quello della dipendenza dall’infinito.Questo sentimento implica quindi una stretta connessione tra Dio e il mondo,al quale noi apparteniamo.La religione vera pone dunque capo al panteismo.Di questa religione, le religioni positive sono aspetti parziali e più o meno incompiuti (per lui non c’è un Dio trascendente ma uno immanente, e il cristianesimo non ha capito che il vero Dio è il mondo).

L’idealismo romantico tedesco

Significati del termine «idealismo»

Nel linguaggio comune questo termine indica colui che è attratto da determinati “ideali” o “valori”-etici, religiosi, conoscitivi, politici, ecc.- e che sacrifica per essi la propria vita.
In filosofia si parla di idealismo a proposito di quelle visioni del mondo che privilegiano la dimensione “ideale” su quella “materiale”. In questo senso il termine idealismo nasce nel linguaggio filosofico verso la metà del Seicento e viene usato soprattutto per il platonismo. In seguito la parola fu usata per alludere alle varie forme di idealismo gnoseologico e romantico o assoluto.
Per gnoseologico s’intendono tutte quelle posizioni di pensiero che finiscono per ridurre l’oggetto della conoscenza a idea o rappresentazione. (Io studio un oggetto ed esso è una mia idea perché io lo studio). In tal caso il termine idealismo serve a raccogliere tutte quelle dottrine (da Cartesio a Berkeley, da Kant ai neocriticisti) per le quali vale in qualche modo la tesi secondo cui il mondo è una mia rappresentazione.
Nel secondo caso, l’idealismo costituisce il nome della grande corrente filosofica post-Kantiana che nacque in Germania nel periodo romantico. Dai suoi fondatori, Fichte e Shelling, quest’idealismo fu chiamato «trascendentale» o «soggettivo» o «assoluto». L’aggettivo trascendentale tende a legarlo al punto di vista kantiano, che aveva fatto dell’«io-penso» il principio fondamentale della conoscenza (estetica, dialettica e analitica trascendentale). La qualifica di soggettivo tende a contrapporre questo idealismo al punto di vista di Spinoza, che aveva bensì ridotto la realtà ad un principio unico, la Sostanza, ma aveva inteso la Sostanza stessa in termini di oggetto o di natura. Infine l’aggettivo assoluto mira a sottolineare la tesi che l’Io o lo Spirito è il principio unico di tutto e che fuori di esso non c’è nulla. (Non è lo stesso panteismo di Spinoza perché i romantici svalutano la natura. Infatti per loro Dio sono loro stessi. Possiamo quindi dire che l’idealismo romantico è l’orientamento filosofico secondo il quale tutta la realtà non è altro che una manifestazione dell’idea.

Dal kantismo al fichtismo: caratteri generali dell’idealismo

In Kant l’io era qualcosa di finito (alla fine disse infatti che la natura l’ha creata Dio), in quanto non creava la realtà, ma si limitava ad ordinarla secondo proprie forme a priori. Sullo sfondo dell’attività dell’io si stagliava il concetto di cosa in se (Dio, anima, mondo), ossia di una X ignota, che il filosofo della Critica aveva ammesso per spiegare la recettività del conoscere e la presenza di un dato di fronte all’io. L’idealismo sorge quando Fiche, spostando il discorso dal piano gnoseologico (o di dottrina del conoscere) al piano metafisico (o di dottrina dell’essere), abolisce lo «spettro» della cosa in sé, ovvero la nozione di una qualunque realtà estranea all’io (afferma che l’io è tutto perché non esiste nulla al di fuori di lui), che in tal modo diviene una realtà creatrice (=fonte di tutto ciò che esiste) ed infinita (=priva di limiti esterni). Da ciò la tesi tipica dell’idealismo tedesco, secondo cui «tutto è Spirito» (se l’io è infinito e non esiste nulla al di fuori dell’io,tutto è Spirito).
Bisogna tener presente però che con il termine «Spirito» (o con i sinonimi «Io», «Assoluto», «Infinito» ecc.) Fichte intende la realtà umana, considerata come attività conoscitiva e pratica e come libertà creatrice. (Quando si afferma che per Fiche e per gli idealisti lo Spirito coincide con l’umanità, essa si intende come un’entità autocoscienze, razionale e libera, che potrebbe esistere anche in altre zone dell’universo. Infatti,per gli idealisti, vi è spirito là dove c’è intelligenza e libertà. Inoltre visto che anche Cartesio riuscì a dimostrare di essere Res Cogitans ma non Res Extensa, potremmo dire che Cartesio ha innescato un meccanismo che ha portato fino all’io assoluto.
Ci si può porre, però, due domande:
1) in che senso lo Spirito, e quindi il soggetto conoscente ed agente, rappresenta la fonte creatrice di tutto ciò che esiste?
2) che cos’è dunque, per gli idealisti, la Natura o la materia?
La risposta risiede nel concetto di dialettica, secondo cui non essendoci nella realtà il positivo senza il negativo, la tesi senza l’antitesi, lo Spirito ha «Spirito» ha bisogno della sua antitesi che è la Natura, altrimenti sarebbe vuoto ed astratto. Di conseguenza, mentre le filosofie naturalistiche e materialistiche avevano sempre concepito la natura come causa dello Spirito, asserendo che l’uomo è un prodotto o un effetto di essa, Fichte dichiara che è piuttosto lo Spirito ad essere causa della natura, poiché quest’ultima esiste solo per l’io e in funzione dell’io.
Inizialmente esiste l’Io, l’Idea, ma è vuota, incompleta. La Natura non esiste, ma è l’Io stesso che la produce poiché gli serve per completarsi e diventare pieno, cosciente, completo attraverso lo scontro con essa, diventare cioè Spirito.
In finale:
1) lo Spirito crea la realtà nel senso che l’uomo rappresenta la ragion d’essere dell’universo, che in esso trova appunto il suo scopo;
2) la Natura esiste non come realtà a sé stante ma come momento dialettico necessario della vita dello Spirito.
La chiave di spiegazione di ciò che esiste, vanamente cercata dai filosofi fuori dell’uomo, ad esempio in un Dio trascendente o nella Natura, si trova invece nell’uomo stesso, ovvero nello Spirito. Ma se l’uomo è la ragion d’essere e lo scopo dell’universo, che sono gli attributi fondamentali che la filosofia occidentale ha riferito all’umanità, vuol dire che egli coincide con l’Assoluto e con l’Infinito, cioè con Dio stesso.
La figura classica di un Dio trascendente e staticamente perfetto, per il primo Fiche, è solo una «ciarla scolastica» o una «chimera», in quanto presuppone l’esistenza di un positivo senza il negativo (Fichte dice ai cristiani che sono degli utopisti e dei ciarlatani). Per gli idealisti, l’unico Dio è lo Spirito dialetticamente inteso, ossia il soggetto che si costituisce tramite l’oggetto, la libertà che opera attraverso l’ostacolo, l’io che si sviluppa attraverso il non-io.
Per cui con l’idealismo ci troviamo di fronte, per la prima volta nella storia del pensiero, ad ina forma di panteismo spiritualistico, cioè personale (=Dio è lo Spirito operante nel mondo, cioè l’uomo), che si distingue sia dal panteismo naturalistico (=Dio è la Natura), sia dal trascendentismo di tipo cristiano ed ebraico (=Dio è una Persona esistente fuori dell’universo). L’idealismo è anche una forma di monismo dialettico(=esiste un’unica sostanza:lo Spirito inteso come realtà positiva realizzante se medesimo attraverso il negativo:la natura il non-io ecc.).

Idealismo

orientamento filosofico secondo cui la realtà è la manifestazione dell’ idea

Spirito
Ragione



Hegel
Fichte

Vita

L’infinità dell’Io

Kant aveva riconosciuto nell’io penso il principio supremo di tutta la conoscenza. Fiche trae per la prima volta le conseguenze di tali premesse. Se l’io è l’unico principio, formale e materiale del conoscere, se alla sua attività è dovuto sia il pensiero della realtà oggettiva sia la realtà stessa nel suo contenuto materiale, l’io è non solo finito, ma infinito.
Questo è il punto di partenza di Fichte, il filosofo dell’infinità dell’Io, della sua assoluta attività e spontaneità, della sua assoluta libertà. La deduzione di Kant è trascendentale, volta a giustificare la validità delle condizioni soggettive della conoscenza. La deduzione di Fichte è una deduzione «assoluta» o metafisica, perché deve far derivare dall’Io sia il soggetto che l’oggetto del conoscere. La deduzione di Kant mette capo ad una soluzione trascendentale (l’io penso) che implica un rapporto tra l’io e l’oggetto fenomenico. Quella di Fichte mette capo ad un principio assoluto, che pone o crea il soggetto e l’oggetto fenomenici in virtù di un’attività creatrice, cioè di un’intuizione intellettuale. La Dottrina della scienza ha lo scopo di dedurre da tale principio il mondo del sapere; e di dedurlo necessariamente, in modo da dare il sistema unico e compiuto di esso.

La «Dottrina della scienza» e i suoi tre principi

Fichte vuole costruire un sistema nel quale la filosofia non rimanga semplice ricerca del sapere, ma divenga un sapere assoluto e perfetto. Il concetto della sua opera è quello di una scienza della scienza, di un sapere che mette in luce il principio su cui si fonda la validità di ogni scienza e che si fondi sullo stesso principio.
Il Principio della dottrina della scienza è l’Io o l’Autocoscienza. Nella Seconda introduzione alla dottrina della scienza (1797) egli introduce questo principio. Noi possiamo dire che qualcosa esiste solo rapportandolo alla nostra coscienza, facendo un essere-per-noi (l’oggetto). La coscienza è però tale solo in quanto è coscienza di se medesima, ossia autocoscienza. In sintesi: l’essere per noi (l’oggetto) è possibile soltanto sotto la condizione della coscienza (del soggetto) e questa soltanto sotto la condizione dell’autocoscienza. La coscienza è il fondamento dell’essere, l’autocoscienza è il fondamento della coscienza.
La pirma Dottrina della scienza tenta di dedurre dal principio dell’autocoscienza la vita teoretica e pratica dell’uomo. Fichte comincia con lo stabilire i tre principi di questa deduzione. Il primo principio è ricavato da una riflessione sulla legge d’identità (per cui A = A), base universale del sapere. Però, egli dice che tale legge non è il primo principio della scienza, poiché implica un ulteriore principio che è l’Io.
L’esistenza iniziale di A dipende dall’Io che la pone, poiché senza L’Io, l’identità logica (A = A) non si giustifica. Il rapporto d’identità è posto dall’Io, poiché è l’Io che lo giudica. Ma l’Io non può porre questo rapporto se prima non pone se stesso. L’esistenza dell’Io ha quindi la stessa necessità del rapporto logico A = A, poiché l’Io non può affermare nulla se non afferma prima la propria esistenza. Quindi, il principio supremo del sapere è l’Io stesso, non quello d’identità, che è posto dall’Io. Questi, a sua volta, si pone da sé poiché la sua caratteristica è l’auto-creazione.
Il primo principio della Dottrina della scienza stabilisce che l’«Io pone se stesso», inteso come attività auto-creatrice ed infinità. Il secondo stabilisce che «l’Io pone il non-io», ovvero che l’Io non nolo pone se stesso, ma oppone a sé qualcosa che, essendogli opposto, è un non-io (oggetto, mondo, natura). Il non-io è però posto dall’Io e quindi nell’Io. Infatti, che senso avrebbe un Io senza un non-io , cioè un soggetto senza oggetto, un’attività senza ostacolo, un positivo senza un negativo?
Il terzo principio mostra come l’Io, posto il non io, viene limitato da esso, come il non-io viene limitato dall’Io. Perveniamo così alla situazione concreta del mondo, nella quale abbiamo una molteplicità di io finiti che hanno di fronte a se una molteplicità di oggetti a loro volta finiti. La formula di tale principio è: «L’Io oppone nell’Io all’io divisibile un non-io divisibile».
Quindi l’Io crea il non io, si infrange con esso e forma tanti piccoli pezzi chiamati io individuali.

I TRE MOMENTI DELLA DEDUZIONE FICHTIANA
L’Io pone se stesso
(tesi)
Come attività autocreatrice e infinita
Come condizione incondizionata di se stesso e della realtà
Come principio primo del sapere
L’Io pone il non-io
(antitesi)
Per realizzarsi come attività, l’Io è costretto s contrapporre, a se tesso, in se stesso, qualcos’altro da sé
L’Io oppone, nell’Io, ad un io divisibile un non io divisibile
(sintesi)
Avendo posto il non-io, l’Io si trova ad esistere sotto forma di io divisibile (= molteplice e finito) limitato da una serie di non-io altrettanto divisibili (= molteplici e finiti)

Chiarificazione

Questi tre principi sono i capisaldi della dottrina di Fichte poiché stabiliscono:
a) l’esistenza di un Io infinito, attività libera e creatrice;
b) l’esistenza di un io finito (limitato dal non-io), cioè di un soggetto empirico (l’uomo come intelligenza o ragione);
c) la realtà di un non-io, cioè dell’oggetto (mondo natura), che si oppone all’io finito, ma è compreso nell’Io infinito, dal quale è posto.
Per capire bene questo processo descrittivo, occorre specificare che:
1) Questi principi non sono interpretati cronologicamente, ma logicamente, in quanto Fichte non dice che esiste prima l’Io infinito, poi l’Io che pone il non-io, ed infine l’io finito, ma solo che esiste un Io che, per poter esistere concretamente deve porre davanti a sé un non-io, trovandosi così ad esistere concretamente come io finito. Con ciò, Fichte vuole dimostrare che la natura non è una realtà autonoma, che precede lo spirito, ma qualcosa che esiste soltanto come momento dialettico della vita dell’Io, e quindi per l’Io e nell’Io:
2) L’Io diventa finito ed infinito al tempo stesso, finito perché limitato dal non-io, infinito perché il non-io esiste solo in relazione all’Io e dentro l’Io, costituendo il polo dialettico o il «materiale» indispensabile della sua attività;
3) L’Io «infinito» e «puro» non è diverso dall’insieme degli io finiti nei quali si realizza, come l’umanità non è diversa dagli individui che la compongono, anche se l’Io infinito perdura nel tempo mentre i singoli io nascono e muoiono;
4) L’Io infinito, più che la sostanza degli io finiti, è la loro meta ideale. Cioè, gli io finito sono l’Io infinito poiché tendono ad esserlo. In tale affermazione si nasconde un «messaggio» tipico della modernità: il compito dell’uomo è l’umanizzazione del mondo, ossia il tentativo incessante, da parte nostra, di «spiritualizzare» le cose e noi stessi, dando origine ad una natura plasmata secondo i nostri scopi e ad una società di esseri liberi e razionali.
5) Tale compito però si staglia sull’orizzonte di una missine mai conclusa, poiché se l’Io, la cui essenza è lo sforzo (lo Streben) riuscisse a superare i suoi ostacoli, cesserebbe di esistere, ed invece del movimento della vita che è lotta e opposizione, subentrerebbe la stasi della morte. Al posto del concetto statico (l’Essere) della perfezione, subentra un concetto dinamico (Divenire), che pone la perfezione nello sforzo indefinito di un auto-perfezionamento.

La struttura dialettica dell’Io

Dire che la storia «filosofica» del mondo si articola nei tre momenti dell’autoposizione dell’Io (tesi), della opposizione del non-io (antitesi) e della determinazione reciproca fra Io e non-io (sintesi), significa dire che l’Io presenta una strutture triadica e «dialettica» articolata nei tre momenti di tesi-antitesie-sintesi e incentrata sul concetto di una «sintesi degli opposti».
Dovunque lo spirito si attua, esso vive di opposizione e di lotta, e le sue affermazioni, per essere veramente tali, debbono essere vittorie.

La «scelta» fra idealismo e dogmatismo

Egli ritiene che la filosofia non è una costruzione astratta, ma una riflessione sull’esperienza che ha come scopo la messa in luce del fondamento e dell’esperienza stessa.
Per lui, il dogmatismo finisce sempre per rendere nulla o problematica la libertà, l’idealismo, invece, facendo dell’Io un’attività auto-creatrice in funzione di cui esistono gli oggetti, finisce sempre per strutturarsi come una rigorosa dottrina della liberà.

La dottrina della conoscenza

Fichte si ritiene realista ed idealista al tempo stesso: realista perché alla base della conoscenza ammette un’azione del non-io sull’io, idealista perché ritiene che il non.io sia un prodotto dell’Io.

La dottrina morale

Ma perché l’Io pone il non-io? Il motivo è di natura pratica. L’Io pone il non-io ed esiste come attività conoscente solo per poter agire. Detto altrimenti, l’io pratico costituisce la ragione stessa dell’io teorico. Da ciò la denominazione di idealismo etico del pensiero di Fichte, che si può sintetizzare nella doppia tesi secondo cui noi esistiamo per agire e il mondo esiste solo come teatro della nostra azione.
Agire significa imporre al non-io la legge dell’Io, ossia forgiare noi stessi e il mondo alla luce di liberi progetti razionali. Il carattere morale dell’agire consiste nel fatto che esso assume la forma del «dovere», ovvero di un imperativo volto a far trionfare lo spirito sulla materia, sia mediante la sottomissione dei nostri impulsi alla ragione, sia tramite la plasmazione della realtà esterna secondo il nostro volere.
Quindi, l’Io, che è libertà, per realizzare se stesso deve agire moralmente. Ma non c’è attività morale là dove non c’è sforzo; e non c’è sforzo là dove non c’è un ostacolo da vincere. Tale ostacolo è la materia, l’impulso sensibile, il non-io. La posizione del non-io è la condizione indispensabile affinché l’Io si realizzi come attività morale. Ma realizzarsi come attività morale significa trionfare sul limite del non-io, tramite un processo di autoliberazione dell’Io dai propri ostacoli. Processo grazie al quale l’Io mira a farsi «infinito», libero da impedimenti esterni. Ovviamente, l’infinità dell’Io non è mai una realtà conclusa, ma un compito incessante.

La missione sociale dell’uomo e del dotto

Per Fichte, il dovere morale può essere realizzato dall’io finito solo insieme agli altri io finiti. Egli arriva a dedurre filosoficamente l’esistenza degli altri in base al principio per cui solo altre nature intelligenti, come me, possono sollecitarmi ed invitarmi al dovere. Ammessa l’esistenza di altri esseri intelligenti, io sono obbligato a riconoscere ad essi lo stesso scopo della mia esistenza, la libertà. Così, ogni io finito risulta costretto a porre dei limiti alla sua libertà e ad agire in modo tale che l’umanità risulti sempre più libera. Farsi liberi e rendere liberi gli altri in vista della completa unificazione del genere umano: ecco il senso dello «Streben».
Per realizzare questo scopo, si richiede una mobilitazione di coloro che ne possiedono la maggior consapevolezza teorica, in pratica dei «dotti». Gli intellettuali non devono isolarsi, ma essere persone pubbliche e con precise responsabilità sociali: «Il dotto è in modo specialissimo destinato alla società; in quanto tale egli esiste propriamente mediante e per la società», egli «deve condurre gli uomini alla coscienza dei loro veri bisogni e istruirli sui mezzi adatti per soddisfarli».
La proposta dell’idealismo fichtiano è: «Il fine supremo di ogni uomo, come di tutta la società e di tutta l’operosità sociale del dotto è il perfezionamento morale di tutto l’uomo».

La filosofia politica di Fichte

Rivoluzione francese, Stato liberale e società autarchica

Il pensiero politico di Fichte si svolge attraverso diverse fasi evolutive influenzate dalle vicende storiche contemporanee, dalla Rivoluzione francese che all’inizio difende, alle guerre napoleoniche e all’invasione della Germania, che stimola lo sviluppo della sua filosofia in senso nazionalistico, parallelamente alla sempre maggiore importanza attribuita allo Stato e alla vita comunitaria.
Negli scritti Rivendicazione della libertà di pensiero dai principi d’Europa che l’hanno finora repressa e Contributo per retificare il giudizio del pubblico sulla Rivoluzione francese, Fichte condivide una visone contrattualistica ed antidispotica dello Stato. In particolare afferma che lo scopo del contratto sociale è l’educazione alla libertà, di cui è corollario il diritto alla rivoluzione.
Nello Lezioni sulla missione del dotto, Egli scorge il fine della vita comunitaria nella «società perfetta», intesa come insieme di essere liberi e ragionevoli, e considera lo Stato come semplice mezzo in vista di essa, finalizzato al «proprio annientamento, in quanto lo scopo di ogni governo è di rendere superfluo il governo».
Nei Fondamenti del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza, egli fa dello Stato il garante del diritto. I diritti originari dell’individuo sono tre:
1) la libertà;
2) la proprietà;
3) la conservazione.
Questi diritti possono essere garantiti solo da una forza superiore, esercitatile non da un solo individuo, ma solo dalla collettività degli individui, in pratica lo Stato. Lo Stato, quindi, realizza e garantisce il diritto naturale.
Tale prospettiva individualistica trova una sua integrazione e parziale correzione nello Stato commerciale chiuso, in cui afferma che lo Stato non deve limitarsi soltanto alla tut3ela dei diritti, ma deve rendere impossibile la povertà, garantendo a tutti i cittadini lavoro e benessere. Polemizzando contro il liberalismo e il mercantilismo e difendendo il principio secondo cui nello Stato secondo ragione tutti devono essere subordinati al tutto sociale e partecipare con giustizio ai suoi beni, egli perviene ad una forma di statalismo socialistico (basato su di una regolamentazione statale della vita pubblica) ed autarchico (autosufficiente sul piano economico).
Per Fichte, lo Stato ha il compito di sorvegliare l’intera produzione e distribuzione dei beni, fissando il numero degli artigiani e commercianti, di modo che il loro numero sia proporzionale ai beni prodotti, e programmando gli orari e i salari di lavoro, i prezzi delle merci ecc. Per fare ciò in libertà, efficienza e giustizia, lo Stato deve organizzarsi come un tutto chiuso, senza contatti con l’estero, sostituendo l’economia liberale di mercato ed il commercio mondiale con un’economia pianificata e con l’isolamento degli stati
Tale «chiusura commerciale» è possibile quando lo Stato ha tutto ciò che occorre per la fabbricazione dei prodotti necessari; là dove questo manchi, lo Stato può avocare a sé il commercio estero e farne un monopolio. Questa autarchia che abolisce ogni contatto dei cittadini con l’estero, ha per Fichte anche il vantaggio di evitare scontri fra stati, nati sempre da contrapposti interessi commerciali.

Lo Stato-Nazione e la celebrazione della missione civilizzatrice della Germania

La battaglia di Jena e l’occupazione napoleonica della Prussia, contribuiscono all’evoluzione della filosofia politica in senso nazionalistico, che si concretizza nei Discorsi alla nazione tedesca, uno dei documenti intellettuali più rilevanti della storia della Germania moderna.
Il tema fondamentale è l’educazione. Fichte ritiene che il mondo moderno richieda una nuova azione pedagogica, capaci di mettersi a servizio della maggioranza del popolo e della nazione, non di un’élite, e di trasformare alle radici la struttura psichica e fisica delle persone. Tuttavia, i Discorsi passano dal piano pedagogico a quello nazionalistico, poiché afferma che solo il popolo tedesco è adatto a promuovere la «nuova educazione», in virtù di ciò che chiama «il carattere fondamentale» e che identifica nella lingua. I tedeschi sono gli unici ad aver mantenuto la loro lingua, che si è posta come espressione della vita concreta e della cultura del popolo, a differenza di Francia e Italia, nelle quali i mutamenti linguistici e le formazioni dei dialetti neolatini hanno provocato una scissione tra fra popolo, lingua e cultura.
Per questo, i tedeschi sono gli unici ad avere una patria, nel senso più alto del termine, e a costruire un’unità organica, che, al di là degli stati e delle barriere politiche, s’identifica con la realtà profonda della nazione. Egli auspica all’avvento di una nuova generazione di tedeschi, educati e rinnovati secondo i principi del grande pedagogista G. Enrico Pestalozzi. Tuttavia Fichte proclama che solo la Germania, sede della Riforma protestante di Lutero (tedesco per eccellenza) e patria di Leibniz e di Kant, epicentro della nuova arte romantica e della filosofia idealistica, risulta la nazione spiritualmente «eletta» a realizzare «l’umanità fra gli uomini», divenendo, per gli altri popoli, ciò che il vero filosofo è per il prossimo: «sale della terra» e forza trainante, e tale missione è così importante che se fallisse tutta l’umanità perirebbe.
Quindi, in quest’ultima fase del suo pensiero politico, egli tende ad accentuare la missione «educatrice» dello Stato e a risolvere l’io empirico nel «Noi spirituale» della Nazione.

La filosofia della storia

Fichte, nelle ultime opere, afferma che «lo scopo dell’umanità sulla terra è quello di conformarsi liberamente alla ragione in tutte le sue relazioni». Rispetto a questo fine si distinguono nella storia dell’umanità due stadi fondamentali:
1) Età dell’Innocenza: la ragione è incosciente, istintiva;
2) Età della Giustificazione (età della Santificazione e del kantiano regno dei fini): la ragione si possiede interamente e domina liberamente
Lo sviluppo della storia procede tra queste due epoche ed è il prodotto dello sforzo della ragione di passare dalla determinazione dell’istinto alla piena libertà. La storia può essere divisa in quattro epoche:
1) Epoca dell’Istinto: la ragione governa l’uomo senza la volontà;
2) Epoca dell’Autorità: l’istinto della ragione si esprime in persone potenti, superiori, che impongono la ragione all’umanità incapace di seguirla da solo;
3) Epoca della Rivolta: l’uomo si rivolta all’autorità e si libera dall’istinto, espressione stessa dell’autorità. Si sveglia nell’uomo il libero arbitrio con la riflessione, ma esso è una critica negativa d’ogni verità e regola, un’esaltazione dell’individuo sopra ogni legge e costrizione
4) Epoca della Moralità: la riflessione riconosce la propria legge e il libero arbitrio accetta una disciplina universale;
5) Epoca del Regno di Dio: la legge della ragione cessa di essere un semplice ideale per divenire interamente reale in un mondo giustificato e santificato.
La prime due epoche sono quelle del dominio cieco della ragione, le ultime due del dominio veggente della ragione.

Schelling

Vita

Nacque a Leomberg nel 1775. Ingegno precoce, frequentò un seminario protestante. A venti anni pubblica degli scritti su Spinosa, Kant e Fichte. Durante il periodo della Rivoluzione francese traduce in tedesco “la Marsigliese”, e per questo fu perseguitato.
Nel 97 pubblica le Idee per una filosofia della natura, nel quale si distacca da Fichte. Nello stesso periodo prende contatti con i romantici del periodo.
Nel 98 riceve la cattedra all’università di Jena al posto di Fichte ed entra in contatto con Hegel, con il quale collabora. Inseguito, a causa di contrasti e dell’invidia del successo di Hegel, Schelling rompe i contatti con lui.
Nel 41 viene chiamato ad insegnare a Berlino per contrastare la filosofia di Hegel, ma nel 47, ormai vecchi, smette di insegnare e morì nel 1854.

La filosofia dell’identità

Egli reinterpreta il pensiero di Fichte. Egli accetta l’idealismo, ma crede ad una concezione spirituale della Natura. Per Schelling, la Natura non è un semplice strumento, ma un tutto vivente e un tutto senziente (simile all’Ilozoismo), un’attività intelligente che opera in modo inconscio.
Mentre per Fichte l’Io è tutto, per Schelling tutto (Natura) è Io, tutta la realtà è spiritualità. La materia è «spirito in letargo», «preistoria della coscienza», «intelligenza pietrificata» così come lo spirito è «materia in evoluzione». La Natura non è retta da un processo meccanicistico, ma finalistica. Schelling dice che c’è identità ed indifferenza dell’Assoluto, non c’è un Io ho un’Idea che si contrappone a qualcosa (Natura), ma un’unità assoluta tra Io e Natura, Conscio e Inconscio, Realtà ed Irrealtà.

Idealismo Estetico

La filosofia non può cogliere l’Assoluto, solo, l’Arte può farlo. Solo l’Arte coglie l’identità tra soggetto e oggetto, conscio e inconscio, realtà e irrealtà.
Il genio artistico è il creatore, l’intelligenza, l’Io, che opera come la Natura. Ma mentre la Natura parte dall’inconscio per giungere alla coscienza, l’artista parte dalla coscienza per giungere all’inconscio. La riprova di quest’unione tra soggetto e oggetto, reale e irreale e conscio e inconscio è che l’uomo, quando osserva la Natura, non capisce se lo Spirito si trova in se stesso o nella Natura . L’artista, riproducendo la Natura, diventa un tutt’uno con essa.
La Natura è un’opera d’arte inconscia, divina. L’Arte non è bella perché riproduce la natura, ma è la Natura che è bella perché permette l’opera d’arte. La Natura è produzione di un Assoluto che però ha in sé una parte oscura da purificare per essere libero. Dio, come l’uomo, deve sconfiggere il male e purificarsi per essere libero. Il male è quindi necessario alla manifestazione dell’amore e della vita di Dio.

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