La filosofia medioevale

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Testo

Fin da quando è nata, la filosofia ha avuto un ruolo molto importante nel formarsi e nello sviluppo delle società umane. Infatti, essa discende direttamente dal pensiero dell’uomo, che agisce seguendo i canoni del suo tempo, e poiché pensare è agire, si può concludere che la filosofia non solo nasce dal contesto umano, politico e sociale delle varie epoche, ma plasma le successive. Sembra quasi instaurarsi un circolo paradossale tra uomo, filosofia e società, poiché ognuno determina l’altro, ma non esiste da solo, e tutti influenzano la loro evoluzione. Non c’è dunque da stupirsi se nei secoli si è avuta una notevole fioritura di dottrine filosofiche, più o meno fortunate, ognuna di loro rappresenta un tentativo dell’uomo di adattare il suo pensiero al mondo in cui vive, o viceversa di adattare il mondo al suo pensiero. L’uomo è quindi solo un arbitro, non molto imparziale, del contenzioso fra pensiero e realtà, fra la natura ed il trascendente; a seconda del periodo storico in cui vive ed opera predilige l’una o l’altra verità, subordinandole l’altra, o addirittura scindendole. Maggiore è la diversità fra le epoche, più evidente risulta la trasformazione del pensiero filosofico, anche quando pare che non ci siano cambiamenti essi sono in atto, per la semplice ragione che né l’uomo né la realtà che egli costruisce, con gli atti, tra cui il pensare, per se stesso sono stazionari, ma dinamici. Poiché, però, i mutamenti avvengono nell’arco di generazioni, possono risultare meno evidenti, se non intervengono dei fattori a determinare una forte linea di demarcazione. Un ottimo esempio di ciò ci è dato dal passaggio dell’uomo dal Medioevo al Rinascimento, infatti, questi due periodi storici sono nettamente separati, addirittura contrastanti l’uno con l’altro. Ad un primo e superficiale esame può sembrare che l’Europa si sia svegliata d’un tratto da un sonno millenario, in cui la ragione aveva dormito, lasciando libero campo alla superstizione e alla passionalità. In poche parole, è assai evidente il distacco che c’è fra l’aurea età classica, il barbaro Medioevo e l’assonnato Rinascimento, che piano piano esce dal suo letargo, cercando di riappropriarsi della gloria passata, ma non copiandola, bensì rielaborandola, a volte rifiutandola, e comunque facendola diventare attuale ed appropriata alla nuova realtà sociale. In verità una differenziazione così netta non c’è, il mutamento è graduale, cioè avviene in modificazioni che possono durare anni o secoli, ma in questo caso è molto evidente il passaggio definitivo, poiché se il conservatorismo medievale aveva potuto celare o oscurare le piccole correnti di pensiero non ufficiali, esso è travolto dall’esplosione di quello che troppo a lungo era stato represso, pur esistendo. Si arriva dunque allo scontro aperto fra le vecchie scuole di pensiero, prevalentemente improntate su una concezione aristotelica del mondo e del trascendente, e i nuovi filosofi, che tendono ad un modello neoplatonico, pur superandolo di fatto e discostandosi da Platone. Alla fine prevarrà il movimento innovatore, che sgancerà la società da modello classico, interpretato dai cristiani o dagli averroisti, lanciando l’uomo verso il progresso, inteso come ricerca del nuovo prescindendo dal vecchio, in pratica decade il concetto di “auctoritas” che aveva soggiogato il Medioevo: mai più si dirà “Ipse dixit”. È da notare quanto quello che avvenne fosse simile a quello che era già avvenuto, infatti, la filosofia nacque con gli Jonici di Mileto, che si interessarono del cosmo e dell’origine di tutte le cose, similmente i filosofi che si riproposero di rielaborare la filosofia, dandole una nuova genesi, si occuparono in principio della natura e del suo “funzionamento”. Il cosmo che diventa natura e l’origine di tutte le cose che si trasforma nei meccanismi che governano e determinano la natura stessa, indicano come la posizione dell’uomo venga rivalutata, distogliendo l’attenzione dal trascendente che è al di là dell’uomo. Mentre prima si cercava un essere superiore, che agiva in un realtà superiore, ora si presta attenzione all’uomo, il cui ambiente è il concreto, la natura, ma se il cosmo era controllato direttamente dall’essere superiore, che ne decideva il destino ed il comportamento, la natura non dipende dalla volontà dell’uomo, anzi egli la subisce. Nasce dunque il problema di stabilire l’origine e l’essenza di questa realtà concreta, tangibile, essa vive in se stessa e di se stessa, oppure c’è qualcosa che è al di fuori di essa? In verità, i precursori dell’umanesimo, perché tali sono coloro che per primi si oppongono all’averroismo e all’aristotelismo eterodosso, si pongono la seconda domanda più per diplomazia che per convinzione. Negli ultimi anni del Medioevo l’influenza della Chiesa era ancora forte, e l’inquisizione più spietata che mai, come una fiera che ferita sente avvicinarsi la fine e diventa ferocissima, così la Chiesa era diventata molto aggressiva per cercare di difendere un’autorità che sentiva sottrarsi, a poco a poco, ma inevitabilmente. Era fin troppo facile venire accusati d’eresia e finire sul rogo, inoltre non potevano essere cancellate di colpo credenze tanto radicate, dunque si teorizza ancora un’entità trascendente, ma, di fatto, si prende in esame solo l’immanente, che non può essere analizzato basandosi solo sulla ragione, proprio perché reale, si avverte quindi la necessità e l’opportunità di ricorrere ai sensi e all’esperienza. Inizia a nascere quel nuovo e rivoluzionario metodo d’indagine che avrà come “padre” ideale Galileo Galilei, il quale arriverà addirittura a subordinare la ragione alla pratica, lungi da ciò, i suoi predecessori iniziarono a considerare anche l’osservazione diretta e sensibile della natura, delegando comunque alla ragione un ruolo preminente. Essendo cambiato il modo di vedere e considerare la natura, di conseguenza ne cambiò anche il concetto. L’imperare del cristianesimo e autori quali S. Francesco d’Assisi presentavano il creato come espressione, personificazione e glorificazione di Dio, quindi la perfezione degli equilibri naturali era vista come il riflesso della perfezione divina, così come la sua bellezza era considerata immagine e somiglianza dello splendore di Dio. Le grandi personalità del Medioevo furono, infatti, quasi tutte esponenti del clero, o comunque fortemente influenzate da un religione che rasentava il fanatismo, per giustificare la corruzione che l’investiva. Al terrore e all’angoscia dell’avvento del nuovo millennio, che aveva caratterizzato una fase di stallo, in cui l’unica preoccupazione della società era attendere la fine, si sostituì una eccessiva fiducia nell’immutabilità del creato, sostenuta dalla tesi geocentrica. Si passa dunque da un periodo in cui s’impiegano gli ultimi anni del mondo o per purificarsi o per soddisfare i piaceri terreni, ad una società molto rigida, in cui ognuno aveva un ruolo che doveva rimanere immutato in eterno. Questa concezione del mondo derivava dalla concettualizzazione dell’universo, secondo cui i dieci cieli che lo componevano erano eterni e immutabili e le classi sociali il riflesso della trinità di Dio, che per sua natura non era soggetta né al tempo né a modificazione alcuna. Una fede così salda poteva soltanto mettere al bando la ragione, inoltre si credeva che le autorità del passato, primo fra tutti Aristotele, avessero già disputato di tutto e trovato una risposta a tutto, quindi era inutile intraprendere processi di ricerca che, se esatti, poiché il vero era già stato rivelato agli uomini, avrebbero ricondotto, chi li avesse intrapresi, alla medesima conclusione. Una fiducia tanto spropositata nell’età classica finì per travisarla, in quanto le interpretazioni erano forzose e mirate a dimostrare che i grandi intelletti del passato erano stati illuminati da Dio, pur non conoscendolo. Infatti, coloro che non poterono essere ricondotti ad una visione precristiana del mondo, ma anzi risultarono in contrasto con essa, furono bollati come pazzi ed eretici. Tale sorte toccò, ad esempio, a Democrito, la cui teoria atomica fu demonizzata, perché troppo immanentista e materialista. Altro gran falso storico fu ritenere Virgilio annunciatore e precursore del cristianesimo, di qui l’interpretazione allegorica dell’Eneide e l’interpretazione figurale di Virgilio stesso, da parte di Dante. Infatti, la Commedia dantesca deve essere vista come un compendio di tutte le dottrine filosofiche medievali, di tutte le correnti stilistiche e letterarie del tempo, come un’opera moralistica intesa a riportare sulla “diritta via” sia il potere politico sia quello religioso, essendo ormai entrambi corrotti ed in lotta. In poche parole la Divina Commedia è forse la più grande, completa e varia enciclopedia sul Medioevo mai scritta, che si propone un obiettivo non poco ambizioso: redimere non solo l’umanità tutta, ma anche le sue istituzioni fondamentali. Il grande sviluppo delle scienze occulte in questo periodo non deve stupire, in quanto esse, per il loro carattere empirico ed allo stesso tempo trascendente, affascinavano il rozzo volgo dei bassi ceti, che consapevole di non poter ricevere alcun aiuto dalla realtà confidava nel potere della magia. Infatti, se la realtà ha barriere tanto forti da non poter essere superate dagli uomini, perché volute da Dio stesso, solo qualcosa che andava al di là del concreto poteva aprire in esse un varco che permettesse agli uomini di migliorare il proprio stato. La superstizione medievale non fu del tutto negativa e non negò affatto la ragione, poiché si basava proprio su di essa, anche se con interpretazioni non molto logiche e rigorose, d’altra parte spinse gli uomini verso campi di ricerca inesplorati, su cui l’“auctoritas” non aveva influenza, non avendoli affrontati. Dalle primitive scienze occulte si sono poi evolute le scienze moderne, tramite un lento processo di razionalizzazione e schematizzazione dei fenomeni trattati, è inoltre interessante notare che la comparsa dei primi esperti in determinati settori disgregava la concezione universale ed enciclopedica del sapere. Per avere un esempio di ciò basti pensare all’alchimia, pratica occulta e mistica fra le scienze occulte, da cui è derivata l’odierna chimica. Con i primi accenni del Rinascimento inizia a mutare quel quadro che vede Dio al di fuori dell’universo, intento a gestire la giustizia nell’Empireo e a far muovere gli altri cieli con la sua presenza di fronte ai beati. Uomini come Leonardo da Vinci, Nicolò Copernico e Galileo Galilei minano le basi di questa concezione del mondo, iniziando a negare proprio il geocentrismo tolemaico, che vedeva la Terra al centro dell’universo. È chiaro che l’uomo in sé e per sé non aveva alcuna rilevanza, era anzi messo da parte e trascurato, poiché troppo insignificante per essere degno di nota, soprattutto se paragonato alla grandiosità di Dio, di cui la natura era specchio e riflesso. I grandi del passato, per quanto ammirati, non erano glorificati come uomini, ma come tramiti della saggezza divina, in loro infusa dalla grazia e dalla bontà del Creatore, erano considerati autorevoli portavoce, ma non autori. Il movimento che inizia a delinearsi nel XV-XVI secolo rivaluta l’uomo, il suo vivere quotidianamente e nel concreto, ben diverso dall’eternità trascendente, ponendolo al centro del mondo, della natura, e similmente a quanto era accaduto in precedenza, si avverte la necessità di analizzare e delineare l’ambiente che ruota intorno a questo nuovo fulcro. L’Umanesimo rinascimentale ha molti punti di contatto con l’umanismo sofistico, sebbene più evoluto ed inserito in un contesto sociale assai diverso. Di fatto, entrambi tendono ad una rivalutazione dell’uomo, che acquista maggiore importanza a scapito della divinità, infatti, la sofistica è stata definita come una sorta di preilluminismo, e dall’Umanesimo si svilupperà poi l’Illuminismo vero e proprio. Poiché solo quando l’uomo diventa importante in se stesso, la ragione riesce a svincolarsi dalla religione, diventando autonoma. Alla base della nuova filosofia della natura c’è il pampschismo, una sorta di evoluzione del concetto di ilozoismo, infatti, entrambe le dottrine riconoscono una vitalità intrinseca alla natura, che la spinge ad agire, a creare e a distruggere tutte le cose; ma mentre l’ilozoismo considera la natura una sorta di forza dinamica, il pampschismo la ritiene un’entità spirituale. Di qui la differenziazione, poi, fra materialismo e spiritualismo, infatti, se con Democrito era nato il materialismo, e conseguentemente la prima forma di ateismo, la filosofia della natura non nega lo spirito, ma lo pone nella natura, anziché al di fuori di essa. Come già aveva cercato di fare Anassimene da Mileto, ponendo nell’aria non solo il principio di tutte le cose, ma anche ma la vita e lo spirito stesso del creato. Dalla visione di un mondo che respira si evince senza sforzo l'anelito del Rinascimento verso il dinamismo. La nuova società rinascimentale si rispecchia alla perfezione nel divenire eracliteo, ma teme il disordine democriteo: la vita diventa movimento, ma non caos.
Tre filosofi assai importanti per lo sviluppo del naturalismo rinascimentale furono: Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Soprattutto Telesio ebbe una grande importanza su gli altri due, infatti, anche se non si può dire che essi abbiano fondato una vera e propria scuola filosofica, ebbero legami molto stretti ed un comune orientamento filosofico, evidenziato dal loro comune antiaristotelismo. Il loro atteggiamento è, però, in un certo senso anomalo, poiché mentre nella maggior parte delle scuole del tempo dominano le interpretazioni averroistiche ed eterodosse di Aristotele, essi non si discostano solo dall’aristotelismo ma anche dal neoplatonismo, preferendo rifarsi addirittura ai Presocratici. Tuttavia non si può negare che la filosofia aristotelica abbia influito sul loro pensiero, se non altro per questo loro continuo rifiutarla. Essi, come i Presocratici, ricercano i principi generali dei fenomeni, le leggi della natura, interessandosi in tal modo ad una sorta di metafisica della natura. Non possono comunque essere definiti scienziati, in quanto privi di quel metodo di indagine proprio di Galileo, ma ciò è del resto comprensibile, visto che sono i primi a riflettere l’atmosfera di rinnovamento del XVI secolo, e nonostante questo loro limite il contributo dato al progresso del pensiero umano è stato notevole ed ha avuto grandi ripercussioni sulle dottrine filosofiche posteriori.
Bernardino Telesio nacque a Cosenza nel 1509 e vi morì nel 1588. Seguì, prima a Roma e poi a Milano, lo zio Antonio, umanista e letterato. S’iscrisse in seguito all’Università di Padova dove restò per un decennio e poi si ritrasse in solitudine in un convento benedettino dove trascorse un lungo periodo di meditazione e di ricerca. Quando nel 1564 Pio IV gli offrì l’arcivescovado di Cosenza, Telesio rifiutò, indicando nel fratello il suo sostituto. L’ultimo decennio della sua vita fu amareggiato dalla morte del suo primogenito Prospero. La sua opera fondamentale è il De rerum Natura iuxta propria principia, edita nella forma completa e definitiva a Napoli nel 1586. Secondo Telesio la natura va studiata senza schemi teologici o mentali precostituiti, ma tramite i sensi e l’esperienza diretta, che testimonia esattamente i fatti della natura. Egli sostituisce ai concetti aristotelici di massa e forma quelli di massa materiale di forza. La massa materiale è identica ovunque, non potendo né aumentare né diminuire, mentre le forze si dividono in caldo e freddo, la prima dilata e la seconda restringe. Dunque le forze sono esterne alla materia, che mettono in moto, ma non possono agire senza di essa. Sole e Terra sono i due corpi elementari, in quanto l’uno sede del calore e l’altra sede del freddo, in virtù di questo non subiscono i mutamenti degli altri corpi: è qui evidente una concezione tradizionale del cosmo. Per Telesio l’anima è fatta di materia, altrimenti non potrebbe subire l’azione delle forze esterne né tanto meno determinare il moto dei corpi. Inoltre, poiché la conoscenza avviene soltanto tramite il contatto fisico, e visto che i sensi umani sono estensioni della percezione tattile, le uniche teorie fondate sono quelle che si basano sui sensi, e non sulla ragione, che è empirica e quindi distaccata dalla realtà. La vera peculiarità dello spirito risiede, per Telesio, nella memoria, cioè nella capacità di conservare e riprodurre i movimenti in esso impressi. Per attenuare il contrasto con la Chiesa, suscitato dal suo materialismo, Telesio accennò anche ad una sostanza spirituale, che non sviluppò e che costituisce quasi un elemento estraneo alla sua filosofia. In ogni modo, egli fu uno fra i primi ad interessarsi del naturalismo, improntando su di esso anche la sua etica, che si basava su valori assai terreni ed umani, inoltre il suo pensiero rappresenta il primo passo verso il distacco dalle concezioni medievali.
Giordano Bruno nacque a Nola nel 1548 e morì a Roma nel 1600.Nel 1572 divenne sacerdote, ma a causa di un processo per eresia dovette deporre l’abito. Si recò in Francia e in Svizzera e a Ginevra aderì alla chiesa calvinista. Ribellatosi ai suoi professori si rifugiò a Parigi, dove fu chiamato da Enrico III in Inghilterra come ambasciatore di Francia. Recatosi a Venezia fu tradito dal suo protettore, che lo consegnò al Sant’Uffizio. Gli inquisitori lo tennero in prigione per sette anni e non potendo farlo ritrattare lo bruciarono vivo come eretico. Bruno si occupò di vari argomenti, quali la tecnica della memoria, l’esame critico di Aristotele, l’esaltazione del sistema copernicano, i problemi legati ad una concezione filosofica dell’universo. In ogni modo nel suo pensiero si possono distinguere tre aspetti fondamentali: uno neoplatonico, un secondo naturalistico ed un terzo d’ispirazione pitagorica e democritea; anche se il suo antiaristotelismo resta sempre una costante. Per Bruno, Dio è l’artefice interno del mondo, causa e principio di tutti i fenomeni, quindi è un intelletto universale immanente nel mondo ed identificabile con la natura. La sua concezione animistica del mondo lo spinge ad affermare che la forma, vale a dire l’anima, non è sufficiente a spiegare i fenomeni naturali, e bisogna dunque ammettere, anzi postulare, l’esistenza della materia. Critica la scissione di Aristotele della forma dalla materia, essendo queste due strettamente collegate, ciò lo porta a affermare che la “coincidentia oppositorum” non esiste solo in Dio, ma anche nella natura stessa. Secondo Bruno ad una causa infinita corrisponde un effetto infinito, quindi esisterebbero infiniti mondi; inoltre sostiene che esistono due intelligenze: una immanente, raggiungibile con la ragione; e l’altra trascendente, raggiungibile solo con la fede, ma, come in Telesio, il trascendente è solo accennato. L’unità della natura implica che gli infiniti mondi coesistano tutti in un medesimo spazio infinito, in cui ogni punto può essere considerato centro; per questo egli esalta Copernico, la cui concezione dell’universo è in accordo con la sua teoria. L’atomismo di Bruno è permeato di motivi neopitagorici, che lo spingono a ricercare una matematica magico-simbolica, in grado di spiegare l’origine degli atomi, che chiama monadi, e della monade divina, ossia Dio stesso. Bruno rispetto a Telesio sembra più legato alla vecchia concezione di anima e di corpo, ritenendoli due cose separate e continuando a preferire l’intelletto ai sensi come strumento d’indagine. La virtù somma cui tendere è l’“eroico furore”, in pratica l’unità e l’infinità e non più Dio, ma non si cura di questo, poiché sostiene che la filosofia e la teologia siano indipendenti l’una dall’altra ed ipotizza quindi che possano convivere parallelamente. Questa sua “ingenuità” gli costò il rogo.
Tommaso Campanella nacque a Stilo nel 1568 e morì a Parigi nel 1639. Divenne domenicano da giovane, ma presto si scontrò con le autorità ecclesiastiche per la disciplina conventuale ed il pensiero ormai stantio dell’ordine. A Napoli subì il suo primo processo per eresia cui ne seguirono altri tre. Nel 1599, confinato in un convento, ordì una congiura contro gli Spagnoli per costituire una repubblica, secondo un programma di riforme che espose nelle sue opere. Fallita la congiura fu portato a Napoli e processato, riuscì a salvarsi fingendosi pazzo, ma fu condannato al carcere a vita. Dopo 27 anni di galera fu liberato dagli Spagnoli nel 1626, deportato a Roma e definitivamente rilasciato nel 1629. Riuscì a guadagnarsi i favori di Urbano VIII e della corte pontificia, ma le sue simpatie per la Francia lo costrinsero a recarsi in quel Paese, dove Luigi XIII e Richelieu lo accolsero benevolmente, e vi rimase fino alla morte. Campanella cerca di attuare un programma di riforma del cristianesimo, tramite cui unificare tutte le chiese e tutti i popoli. Egli concorda pienamente con Telesio e al disprezzo per Platone ed Aristotele unisce una profonda ammirazione per il senno latino degli autori classici. Comunque, Campanella si differenzia da Telesio per il concetto di percezione, infatti, sostiene che l’atto conoscitivo è basato su se stessi, poiché, pur dubitando di tutto, non si può dubitare della propria esistenza. Egli crea così una nuova metafisica, basata su tre principi fondamentali: potenza, sapienza, amore; in pratica ogni essere è in quanto può essere, ogni essere è in quanto sa di essere, ogni essere, in quanto è e sa, ama il proprio essere. L’essere supremo è colui che possiede tutte queste doti in quantità infinite, poi vengono gli essere finiti, così dicendo egli crea un accettabile compromesso fra immanente e trascendente. Nella “Città del Sole” Campanella esprime le sue idee politiche, che sono senza dubbio utopiche per il suo tempo e che sembrano anticipare il comunismo: sono, infatti, dettate dalla vita di lotte e ribellioni che conduce. Egli è una figura estremamente complessa, travagliata e divisa dall’incertezza del suo tempo, che è un periodo di transizione e divisione fra vecchio e nuovo. I grandiosi, ma irrealizzabili, progetti di Campanella hanno lasciato un profondo segno nella storia del pensiero naturalistico, inteso a ricercare nella natura una religione alternativa, solida quanto quella cristiana ed a questa parallela.
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