L'origine dello Stato

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Testo

L'origine dello Stato
La questione del concetto di Stato è stata lungamente una questione al centro del dibattito politico e filosofico.
Lo Stato è un soggetto trascendente, emanazione di Dio in terra, infallibile per il suo primato etico, ente che concede ai cittadini i diritti di cui essi usufruiscono? Oppure lo Stato è frutto di un patto sociale, di un accordo tra donne e uomini già naturalmente in possesso dei propri diritti, e che decidono di sacrificare parte della propria libertà per regolare le relazioni sociali?
1. Platone
Fin dall’inizio della sua ricerca teorica, Platone si avvicina alla filosofia intesa socraticamente come scienza non solo teoretica - ricerca della verità - ma anche pratica e morale - come scienza del bene e del male –; il piano puramente teorico del pensiero, del ragionamento, della discussione intorno alla verità delle cose viene tenuto insieme a quello del comportamento morale, del rapporto politico fra il cittadino e la polis, fra l’individuo e la comunità. La ricerca della verità è consapevolezza di ciò che è bene e di ciò che è male; ricerca che avviene in un contesto di rapporti umani, politici e sociali, quale era quello della polis, Atene, nel corso del V secolo a. C.
La teoria politica di Platone si fa più complessa e articolata nella Repubblica dove il filosofo viene descritto come il perfetto politico, e cioè come colui che sa cos’è la giustizia e la applica consapevolmente. Egli comincia con la domanda su cosa sia veramente giustizia, approdando a una feconda analogia fra la giustizia nell’uomo e la giustizia nello Stato.
Così afferma Platone nella “Repubblica”:
"Ti dirò. Noi chiamiamo giustizia sia quella di un singolo uomo che anche quella di un’intera città? O forse no?"
"Sì, è così."
"E non è più grande una città di un singolo uomo?"
"Certo, è più grande."
"Forse dunque in ciò che è più grande potrebbe esserci una giustizia più grande e più facile da esaminare. Se volete perciò cercheremo innanzitutto nella città che cosa mai sia la giustizia; e poi in questo modo la osserveremo anche in ciascuno preso singolarmente, considerando la somiglianza di ciò che è più grande nell’idea di ciò che è più piccolo."
[Repubblica, II, 368e-369a].
Da questo punto in poi viene ricercata la genesi dello Stato, la sua origine di carattere economico, fondata cioè sulla necessità di soddisfare i bisogni naturali dell’uomo e della comunità. Ma, aumentando la popolazione, aumentano e si complicano quei bisogni che si distaccano dalla iniziale naturalità e necessitano di un allargamento, che provoca guerre, ma soprattutto disequilibri interni.
La giustizia viene allora identificata proprio con l’equilibrio, con la capacità di ciascuno - e di ciascuna classe presente nello Stato - di svolgere bene il proprio compito. Ma per fare questo è necessaria la massima consapevolezza dell’identità fra l’interesse proprio e l’interesse dello Stato. Gli unici a possederla, secondo Platone, sono i filosofi, ai quali viene affidato il comando supremo: vige così la noocrazia, l’egemonia e il potere di chi sa. Si impone quindi il concetto e il termine nous, mente, conoscenza e consapevolezza filosofica, la quale solamente può identificarsi senz’altro con il potere politico. La perfezione politica dello stato, in altri termini, presuppone la perfezione filosofico-etica di esso, incarnata dalla classe dei filosofi al potere, che riportano l’equilibrio all’interno della democrazia e prospettano la concreta possibilità di fondare lo Stato non su interessi particolari e privati ma universali e generali.
La riflessione politica di Platone, dopo la Repubblica, si sviluppò ulteriormente, e l’idea di Stato come attuazione consapevole ed equilibrata della giustizia viene specificata dalla necessità di osservare le leggi: viene considerata la forma di costituzione democratica come la meno pericolosa perché la divisione dei poteri presente in essa limita quelle tendenze nocive provenienti dal mancato rispetto delle leggi e dal prevalere di forze particolari sull’interesse comune; si prende a tema la necessità, da parte dello Stato che intende perfezionarsi, di darsi una costituzione, un insieme di leggi, il più possibile misurata e bilanciata, giusta.
Questo maggiore senso del concreto che l’ultimo Platone sembra manifestare nella sua ricerca in campo politico, individua nello Stato spartano la forma costituzionale migliore, poiché essenzialmente mista: l’unità del principio monarchico è nella figura del Re, di quello aristocratico nel Consiglio degli anziani e di quello democratico nell’Eforato.
In conclusione si può dire che l’ultimo Platone si sia evoluto in senso pessimistico per quanto riguarda la politica, nella misura in cui prende atto della sempre maggiore difficoltà di fondare uno Stato veramente giusto ed equilibrato; d’altra parte però non abbandona la sua convinzione profonda della necessità di tenere organicamente unite la vita politica con la vita filosofica, la conoscenza dell’uomo con quella dello Stato.
1.1. L’origine dello Stato platonico
La visione platonica dello Stato, e più precisamente della sua origine, da dove e come nasce la polis, ossia una comunità politica di uomini in cui vigano rapporti di reciproco scambio e assistenza, nella massima consapevolezza del bene comune e dell’interesse generale, potrebbe essere facilmente confusa con una spiegazione contrattualistica, tale che l’accordo di ciascun individuo con tutti gli altri permette la riproduzione della comunità nella sua interezza (Locke).
A ben vedere però, il ruolo dell’individuo nella polis viene subordinato a quello della stessa città: prima viene la configurazione politica in cui i cittadini vivono e si riproducono, poi viene la possibilità, per l’individuo, di "esistere e vivere" come tale. Il singolo uomo, isolato politicamente, non è nemmeno pensabile.
Solo dopo che il logos (cioè il ragionamento) abbia fatto luce sulla struttura sociale ed economica della città-stato, si può rivolgere il pensiero al ruolo politico e etico dell’individuo, cioè al suo modo di vivere nella città. Così sviluppa questo concetto Platone:
"Io, dissi, credo che la città nasca perché ciascuno di noi non può certo bastare a se stesso, ma ha bisogno di molti altri. O credi che ci potrebbe essere qualche altra causa originaria per la fondazione di una città?"
"Nessun’altra."
"Ebbene, allora l’uno ricorre all’altro per bisogno di una cosa e a un altro ancora per un’altra; avendo bisogno di molte cose, molti compagni e persone che si aiutano a vicenda si raccolgono in un solo luogo, e a questa convivenza noi diamo il nome di città. Non è così ?"
"Certamente."
"E uno mettendo insieme le sue cose con un altro non lo fa perché ritiene che ciò sia a sé stesso più vantaggioso?"
"E' così."
"Allora su, diss’io, facciamo come dal principio una città servendoci del logos. La creerà, così sembra, il nostro bisogno"
"Come no?"
"Ma il primo e il più grande dei bisogni è quello di procurarsi del cibo per esistere e vivere."
[Repubblica, II, 369b-d]
L’origine dello Stato (cioè della polis) nel mondo greco viene fatta risalire alla necessità imprescindibile per l’uomo di soddisfare i propri bisogni. Non è pensabile il soddisfacimento anche dei bisogni primari e più materiali (come il trovare e preparare il cibo) in una condizione di asocialità e di isolamento. L’individuo singolo non basta a sé stesso, non riesce a conservarsi, a riprodursi come tale. La riproduzione del singolo uomo non può che avvenire in un contesto ‘comunitario’; la compartecipazione dei singoli alla ‘cosa comune’ è dettata dalla consapevolezza del vantaggio che ne deriva. Il vantaggio di "esistere e di vivere" cioè di riprodursi.
La conservazione del singolo (il suo essere in vita) può realizzarsi solo in un contesto di rapporti con altri uomini; una stabile relazione fra individualità che, a stretto rigore, non sono più tali (l’individuo da solo non può né essere né vivere).
La naturale moltiplicazione dei bisogni (il cibo, la casa, il vestito, etc.) determina la necessità di dividere socialmente il lavoro. Si prospetta perciò una città-stato composita e complessa nelle sue relazioni economiche e politiche.
E’ più conveniente per la comunità e per la disposizione naturale del singolo che ciascuno si specializzi in un’arte particolare piuttosto che doverle intraprendere tutte per soddisfare i propri svariati bisogni. Ma i bisogni di ciascuno, a ben vedere, sono infiniti: i falegnami e i fabbri costruiranno i mezzi di lavoro per l’agricoltore, i pastori accudiranno il gregge, e così via. La città si farà perciò sempre più composita e articolata. La sua grandezza aumenterà a vista d’occhio.
Le figure sociali che mano a mano verranno create si moltiplicano a vista d’occhio (il cacciatore, l’artista, il poeta, la balia, etc.), la popolazione aumenta e aumenta con essa il bisogno di ulteriori risorse, non comprese e prodotte dalla città stessa. La conquista di altre terre e di altre città, quindi la guerra, sarà la diretta conseguenza dell’espansione oltre misura dei bisogni e del lusso.
L’arte della guerra non potrà essere esercitata dagli stessi cittadini intenti a svolgere altre attività. Sarà necessario allora istituire una particolare classe di uomini, i guardiani, i quali si occuperanno esclusivamente dell’arte guerriera.
La divisione in tre differenti classi (guardiani-filosofi, guardiani-guerrieri, artigiani-commercianti) strutturerà e organizzerà la vita stessa della polis, la quale potrà dirsi perfettamente costituita quando regnerà in essa il giusto equilibrio fra le competenze di ciascuna categoria.
2. Aristotele
La vita etica dell’uomo, secondo Aristotele, si realizza in quella politica, cioè nella polis, innanzitutto come vita associata, come realizzazione della natura più profonda dell’uomo, cioè quella di essere essenzialmente un "animale politico", destinato cioè a vivere nella polis. Dunque la politica, nel pensiero di Aristotele, va studiata nel suo legame con l’etica.
La vita etica, la vita attiva, si realizza nella politica, poiché la vita associata, per l’uomo, è un’esigenza naturale. Il barbaro, che non conosce la polis, è servo per natura, il greco invece è per natura un "animale politico", un animale cioè etico che realizza politicamente il bene comune.
La formazione dello Stato non deriva da un accordo o da una convenzione stipulata dai singoli; essi, al contrario, sussistono solo all’interno della polis, la quale si configura come la struttura sociale a cui tendono tutte le altre forme di convivenza (la famiglia, il villaggio).
2.1. L’origine della polis aristotelica
Per Aristotele la centralità di questa istituzione è evidente. Così afferma infatti:
"Poiché vediamo che ogni città [o Stato] è una sorta di comunità e che ogni comunità si costituisce in vista di un certo bene (infatti grazie a ciò che sembra bene tutti fanno tutto), è chiaro che tutte prendano di mira un certo bene, ma soprattutto è chiaro che la più importante fra tutte tenda al sommo dei beni e che ricomprenda tutte le altre; questa è la cosiddetta pólis o anche la comunità politica.[…]
E’ necessario innanzitutto che si uniscano in coppia coloro che non possono stare l’uno senza l’altro, quali la femmina e il maschio in vista della riproduzione [ghenéseos] […], e chi per natura comanda e chi è comandato per la conservazione. […] Perciò da queste due comunità [maschio-femmina/padrone-schiavo] scaturisce in primo luogo la famiglia [oikía] […] Mentre la prima comunità formata da più famiglie in vista di bisogni non quotidiani è il villaggio [kome]. […] La comunità che risulta da più villaggi è la città perfetta che, mantenendosi ormai, per così dire, al limite della completa autosufficienza [autarkeías] , si è formata per rendere possibile la vita, ma in realtà esiste per rendere possibile un buon vivere. Perciò ogni città esiste per natura, se anche per natura esistono le prime comunità; infatti essa è il loro fine […]. Inoltre la causa e il fine di una cosa è il meglio; e l’autosufficienza è il fine e il meglio. […] E per natura la città è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi; perché è necessario che il tutto sia anteriore alle parti […].
Che la città esiste per natura e prima di ciascuno, è dunque evidente: infatti se ciascuno isolatamente non è autosufficiente, sarà nella medesima condizione delle parti rispetto al tutto, quindi chi non può vivere in comunità o non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte della città, di conseguenza o è una bestia o un dio. […]
Ora, la giustizia come pratica virtuosa è un elemento politico; infatti il diritto è l’ordinamento di una comunità politica: e la giustizia [dike] è scelta di ciò che è giusto.
[Politica, I, 1252a-1253a]
L’origine etica della polis viene messa subito in chiaro da Aristotele: il "bene" è l’essenza intorno a cui si viene a costituire una comunità di uomini. La città, però, non è una comunità singola che tende a un bene qualsiasi, poiché tende al bene sommo e comune a più comunità fra loro collegate sotto la sua guida. La comunità politica perciò è innanzitutto una connessione etica di comunità, un intero etico ordinato e articolato, è sia parte (una città) che tutto (ricomprende le altre città); è l’ordinamento politico in quanto tale, che si costituisce secondo distinzioni gerarchiche fra le sue diverse componenti.
La ragione prima per la quale si forma una comunità di uomini è quella della riproduzione. La riproduzione del genere però non è garantita solo dall’accoppiamento maschio-femmina, ma dalla conservazione della sua possibilità all’interno di un contesto familiare e domestico in cui sia presente il rapporto altrettanto naturale fra il padrone e lo schiavo. La riproduzione della famiglia (comunità di genere) e la sua conservazione (comunità di dominio domestico), la loro unità indissolubile e naturale, costituiscono l’originaria configurazione sociale entro cui l’uomo singolo è necessariamente ricompreso. Il villaggio si presenta come derivato familiare: l’unione di più famiglie.
La città è il composto ultimo nel quale convergono più unità familiari riunite in villaggi. Ma la città compiuta (perfetta) è quella che si mostra autosufficiente e autonoma, che si riproduce da sé e permette alle parti semplici di cui si compone (le comunità, ossia la famiglia e il villaggio) di vivere in correlazione l’una con l’altra al suo interno. L’origine della polis dunque è totalmente naturale, nella misura in cui, dice Aristotele, essa si è formata per permettere "il vivere" delle sue interne articolazioni. Il composto politico, cioè la polis, è natura, fine e meglio per la famiglia e il villaggio, oltre che la causa essenziale della loro stessa evoluzione politica.
3. Machiavelli
Il Rinascimento in Italia si caratterizza politicamente per la formazione dei principati e delle Signorie, nell’Europa delle grandi monarchie. Il pensiero politico e giuridico del XV e del XVI secolo rifiorisce proprio in seguito (e contemporaneamente) alle vicende che coinvolgono la storia dei singoli Stati.
In Italia poi, la mancata formazione dello Stato nazionale pone ai pensatori politici il concreto problema della formazione e conservazione dello Stato, oltre a quello della legittimità e fondamento della sua sovranità.
In questo complesso quadro storico e culturale si colloca la figura di Machiavelli (1469-1527), il massimo pensatore politico della prima metà del Cinquecento. La sua riflessione si concentra sulla ricerca di una logica interna che regoli le dinamiche politiche, liberandola da richiami e dipendenze di carattere morale e religioso.
Da una parte è necessario rintracciare nella storia passata quei principi che preservano dalla decadenza una comunità politica, dall’altra proprio questa osservazione rivolta al passato fa luce sulla natura umana in quanto tale. Nonostante ciò il ritorno alla repubblica romana, come principio e costume politico garante di stabilità, non costituisce per l’autore il vagheggiamento di uno "stato ideale", essendo la sua analisi volta tutta verso la realtà quale essa "è" e non quale essa "dovrebbe essere".
"Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati. E’ principati sono, o ereditarii, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e’ sono nuovi. E’ nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna. Sono questi così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi ad essere liberi; e acquistonsi o con le armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù".
[Machiavelli, Il Principe]
La figura del "principe", come costruttore e conservatore dello Stato, si rende realisticamente necessaria in un contesto storico-politico quale era quello dell’Italia cinquecentesca che si manteneva in condizioni di anarchia e servitù, a fronte della formazione delle grandi monarchie europee e in considerazione del fatto che un regime repubblicano può essere utile a uno Stato già consolidato. Viceversa, per la fondazione di esso è necessario un forte principato, nel quale il principe costringa la malvagia e riottosa natura umana a rispettare le leggi, scegliendo di volta in volta se comportarsi da "volpe" o da "leone", usando spregiudicatamente i mezzi necessari a conseguire i suoi fini. Il giudizio morale e religioso sui "mezzi" e sulla politica in genere va sospeso, essa piuttosto va giudicata iuxta propria principia, cioè secondo l’utile e secondo l’interesse e non secondo il bene o il male.
Il principe dunque può e deve essere anche "non buono" e limitarsi nella sua crudeltà solo quando può ritorcersi contro di lui e il suo Stato. La violenza fonda uno Stato, ma, per conservarlo, essa non deve essere perpetuata; il principe deve anzi arginare la casualità degli avvenimenti ed esercitare quella "virtù" che si rifà piuttosto alla virtus pagana del buon cittadino che a quella salvifica cristiana, la quale anzi avrebbe degenerato e indebolito l’uomo attuale rispetto agli antichi. Machiavelli afferma infatti che:
"Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano, di privati, principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono; […]. Io voglio all’uno e all’altro di questi modi detti, circa il diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’ dì della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall’altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdé […] e se gli ordini suoi non li profittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna."
[Machiavelli, Il Principe]
Tra la fortuna e la virtù si inserisce la forza, o meglio il raggiungimento a tutti i costi di un risultato utile politicamente, portato a termine da una personalità consapevole delle proprie capacità e della condizione oggettiva in cui opera. In questo senso, la vicenda di Cesare Borgia è paradigmatica poiché racchiude in sé tutti e tre i termini dell’agire politico: virtù (come capacità di intervenire adeguatamente sulle cose politiche), fortuna (come ineliminabile casualità propria della natura umana), forza (come capacità di usare senza incertezze il proprio potere).
Dunque l’origine dello Stato, secondo il Machiavelli, si presenta piuttosto come fondazione di un principato per opera di una forte e virtuosa personalità politica, la quale sappia scegliere oculatamente i mezzi con i quali formare il principato.
"Quinci nasce che una repubblica ha maggiore vita ed ha più lungamente buona fortuna che uno principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de’ temporali, per la diversità de’ cittadini che sono in quella, che non può uno principe."
[Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, III, 9]
Inoltre, nei Discorsi Machiavelli sembra preferire il regime repubblicano-democratico, in quanto la collegialità e l’alternanza al potere possono meglio garantire quella flessibilità e adattabilità alle circostanze che al singolo è negata.
4. Hobbes & Locke: l’origine contrattualistica dello Stato
La moderna e borghese concezione dello Stato come di un corpo politico fondato su di un contratto fra popolo e re, da cui deve dipendere l’autorità del sovrano, garantisce al suddito l’esercizio dei suoi diritti naturali di ‘uomo’, dai quali il diritto positivo, e cioè statuale, non può discostarsi opprimendoli o cancellandoli.
Il diritto naturale costituisce l’oggetto proprio della teoria giuridica del giusnaturalismo (4), al quale diedero veste sistematica l’olandese Grozio (1583-1645) e il tedesco Pufendorf (1632-1694). Nello stesso periodo in Francia si distinse la teoria politica di Jean Bodin (1529-1596) volta a sganciare lo Stato dai conflitti fra le diverse confessioni religiose e a dichiararne la sovranità assoluta sulla società civile.
In questo quadro si inserisce il pensiero e l’opera di Hobbes (1588-1679). Il suo intervento in ambito di teoria politica viene seguito da quello propriamente illuminista di Locke (1632-1704).
4.1. Hobbes
La filosofia politica di Hobbes vuole avere carattere scientifico. La sua concezione filosofica della realtà può essere definita come un meccanicismo di stampo materialistico, che si basa sulla convinzione metodologica secondo la quale la scienza deve avere per oggetto ‘corpi’ generati dall’uomo, i quali possono perciò essere indagati e conosciuti. Il ‘calcolo’ filosofico è il lavoro proprio della ragione che fornendo nomi adeguati alle cose ne conosce la causa e gli effetti reali. Gli oggetti propri della filosofia sono perciò costruzioni umane di cui va riconosciuto e ricostruito il processo genetico. Di Dio, che non è un nostro prodotto, non possiamo conoscere le cause, dunque non ne possiamo dare una corretta definizione.
La politica fa pienamente parte della filosofia. Lo Stato, il ‘corpo politico’ è appieno una nostra costruzione, dunque possiamo indagarlo e definirlo scientificamente.
Lo Stato non è, come voleva Aristotele, un ente naturale, ma decisamente artificiale (come una macchina), costruito volutamente dagli uomini sulla base di una convenzione da essi liberamente stipulata, per ragioni che riguardano innanzitutto la necessità di auto-conservarsi e mantenersi in vita. Per cui la politica, come le altre scienze, deve seguire un metodo rigidamente deduttivo e procedere secondo il principio di causa-effetto, e da essa si desume l’esigenza fondamentale dell’unità dello Stato e l’obbligo politico che ne consegue di obbedire alle leggi emanate dal sovrano: questi sono i principi fondamentali su cui si costruisce il corpo politico.
Il potere sovrano e l’obbligo politico di obbedienza devono direttamente scaturire dalla volontà stessa degli individui, dal consenso che viene da loro espresso idealmente in un ‘patto’ che istituisce la forma politica di Stato e non da numerosi organismi (corporazioni, ordini, assemblee degli ordini, etc.), che pretendevano di controllare e partecipare a pieno titolo alla sovranità. Non vi può essere "nessuna obbligazione per un uomo, la quale non derivi da un atto personale poiché tutti gli uomini sono egualmente liberi per natura". Sebbene Hobbes sia consapevole che l’origine di uno Stato è determinata da violenza e conquista, l’obbligo politico si instaura solo se tra sovrano conquistatore e popolo sopravviene un patto: "non è dunque la vittoria a conferire il diritto di dominio sul vinto, ma il patto da costui concluso." Bisogna postulare dunque un patto, qualunque sia la reale origine di uno Stato. I rapporti tra potere sovrano e popolo devono essere regolati come se il primo sia nato dal consenso dei secondi.
Lo Stato hobbesiano si presenta come un’istituzione fondata essenzialmente sul consenso dei sudditi e perciò moderna, in quanto lascia cadere ogni giustificazione divina o naturale della propria origine.
Il potere sovrano affidato consensualmente dai sudditi a un terzo (un individuo o un’assemblea) deve essere assoluto, poiché deve mantenere la pace fra gli uomini, i quali per natura sono tendenzialmente egoisti e incapaci di autoconservarsi in una condizione di pace stabile e duratura.
Il mondo naturale degli uomini è disgregato e in preda a costante competizione fra i singoli, i quali nel perseguimento del loro utile vengono in contrasto con quello degli altri, creando uno stato di guerra che impedisce una pacifica convivenza necessaria all’autoconservazione. La filosofia morale, e cioè la capacità umana di distinguere il bene dal male, e la capacità di accordarsi su ciò che è bene, può venire in aiuto di questa condizione fortemente instabile, ma non può risolvere definitivamente la naturale disposizione dell’uomo alla guerra competitiva e all’egoismo. Solo una costruzione artificiale, quale è lo Stato, può regolare i naturali rapporti umani. Se non ci fosse il ‘corpo politico’ l’uomo vivrebbe in uno stato di natura in tutto simile a uno stato di continua guerra civile, nell’impossibilità di mantenersi in vita, sebbene per natura gli uomini abbiano diritto all’autoconservazione e alla realizzazione del proprio utile, e dunque siano naturalmente liberi e uguali. Ciò afferma nel “Leviatano”:
"La sola via per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di assicurarli in modo tale che con la propria industria e con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della pluralità delle voci, ad una volontà sola; ciò è come dire designare un uomo o un’assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona, e ognuno accettare e riconoscere se stesso come autore di tutto ciò che colui che sostiene la parte della loro persona, farà o di cui egli sarà causa, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comuni, e sottomettere in ciò ogni loro volontà alla volontà di lui, ed ogni loro giudizio al giudizio di lui. Questo è più del consenso o della concordia; è un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in maniera tale che, se ogni uomo dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno STATO."
[Hobbes, Leviatano]
La persona dello Stato è rappresentata dal sovrano (ossia dall’esercizio del potere sovrano) che può anche non essere un monarca, ma un’assemblea di tutti nella democrazia e di pochi nell’aristocrazia. La sovranità detiene in modo unitario e indivisibile tutti i diritti e i poteri dello Stato: la giustizia, la guerra, l’amministrazione, la decisione in campo religioso, etc., sono tutti ambiti in cui deve intervenire l’autorità del sovrano, al fine di evitare un ritorno allo stato di natura, ovvero una ricaduta del ‘corpo politico’ nella dannosa e lacerante guerra civile. Sebbene l’individuo sia libero privatamente di coltivare le sue convinzioni, anche la sua coscienza religiosa, lo Stato decide in materia di fede e in tutto il resto per quel che concerne la vita pubblica.
4.2. Locke
Ciò che separa Locke dall’assolutismo hobbesiano è l’introduzione esplicita e argomentata della categoria di individuo libero e uguale sia nello stato di natura che in quello di diritto. Il rapporto Stato/individuo viene modificato da Locke in senso ‘liberale’: la sovranità non appartiene unilateralmente alla persona dello Stato, ma innanzitutto a quella del suddito poiché "nulla può far diventare suddito un uomo se non l’associazione fatta in forma di un impegno positivo e di una esplicita promessa o contratto". Al di fuori di questo meccanismo, cioè al di fuori del potere politico pattuito liberamente dai singoli individui, vi è uno stato di natura in cui essi vivono in rapporti di perfetta eguaglianza. Il rapporto politico di sudditanza o di sovranità a cui sottostanno, interviene proprio in virtù della naturale libertà con la quale i singoli decidono di unirsi a Stato.
Anche il sovrano perciò, così come il popolo, è sottoposto a precise norme che regolano la sua stessa istituzione e che permettono al popolo di resistergli qualora tentasse arbitrariamente di violarle. La guerra civile si presenta perciò come conflitto di potere e non come un disordinato e agiuridico stato naturale. L’uso della forza come reazione violenta ad un sopruso viene pienamente giustificato e preferito a una pace imposta come dall’alto.
La possibilità della guerra e in particolar modo della guerra civile, è la molla reale che innesca il meccanismo contrattualistico e che giustifica, nella teoria lockiana, il passaggio a una condizione di stabilità socio-politica, a un ordinamento sociale e politico fuori dal quale le moderne e ormai borghesi forze produttive, e i nuovi rapporti di proprietà sganciati da vincoli feudali, non riuscirebbero autonomamente e durevolmente a riprodursi. Così motiva le sue posizioni:
"E’ stato dimostrato che l’uomo nasce con pieno titolo a una perfetta libertà e all’illimitato godimento di tutti i diritti e privilegi della legge di natura, alla pari di qualsiasi altro individuo o gruppo di individui nel mondo. Egli ha dunque per natura il potere non solo di conservare la sua proprietà - cioè la vita, la libertà e i beni - contro le offese e gli attentati degli altri uomini, ma anche di giudicare e punire le altrui infrazioni a quella legge, con la pena ch’egli è convinto quel reato meriti, perfino con la morte nel caso di crimini la cui efferatezza, a parer suo, lo richieda. Ma, poiché nessuna società politica può darsi o sussistere se non ha in sé il potere di salvaguardare la proprietà e, in vista di ciò, punire le infrazioni commesse da tutti coloro che a quella società appartengono, la società politica si dà lì, e solo lì, dove ogni singolo ha rinunciato a quel naturale potere e lo ha affidato alla comunità in tutti i casi in cui non sia impedito dal chiedere protezione alle leggi da essa stabilite. Così, essendo escluso ogni privato giudizio di ciascun uomo particolare, la comunità diventa arbitra, in forza di norme stabili e determinate, imparziali ed eguali per tutti." [Locke, Secondo Trattato]
"Ogni qualvolta dunque un certo numero di uomini si uniscono in un’associazione, rinunciando ciascuno al potere esecutivo della legge di natura e devolvendolo alla comunità, ivi e ivi soltanto si dà una società civile o politica. E questo avviene dovunque un certo numero di uomini, nello stato di natura, si associno a costituire un solo popolo, un solo corpo politico, sotto un solo supremo governo; oppure quando un individuo si associa e incorpora in un regime già esistente, autorizzando così la società o, che è lo stesso, il legislativo di essa, a legiferare in suo luogo secondo le esigenze de pubblico bene sociale; e alla esecuzione di quelle leggi egli deve contribuire come fossero decisioni prese da lui stesso. E ciò fa uscire gli uomini dallo stato di natura e li fa entrare in una società politica, […]."
[Locke, Secondo Trattato, §89]
L’abbandono dello stato di natura da parte degli uomini è certamente motivato dalla necessità di evitare il conflitto e la guerra civile. L’istituzione di un giudice comune che dirima le controversie fra i singoli individui costituisce la Society, cioè una collettività in cui l’individuo sia volontariamente annullato a favore di una sola volontà e voce. Questa prende forma politica nel Governement.
5. Hegel e Marx
La filosofia del diritto è per Hegel una parte importante del suo sistema che compare all’interno dell’Enciclopedia, nell’ambito dello Spirito oggettivo, e che si presenta come vera e propria scienza del diritto e dello Stato. E’ un percorso filosofico che dalle categorie più astratte (persona, contratto, volontà soggettiva) giunge a quelle più concrete e comprensive (famiglia, società civile, Stato); dalla sfera del Diritto e da quella della Moralità si arriva alla sfera dell’Eticità, nella quale le precedenti tappe del lungo e complesso cammino filosofico sono conservate e superate al tempo stesso.
La Filosofia del diritto di Hegel ha lo scopo di ricostruire ‘per la coscienza’ (e cioè per l’uomo moderno ormai capace di pensare liberamente se stesso e il suo tempo) la forma oggettiva del suo vivere sociale, la forma politica dei rapporti umani, lo Stato.
L’uomo è, secondo Hegel, capace di scienza. Lo Stato è lo "spirito che sa e vuole se stesso", è l’uomo (il genere umano in quanto popolo, cioè storicamente e socialmente determinato) che realizza oggettivamente, in una realtà storica universale, il pieno possesso della sua libertà.
Di fronte a questa ricostruzione hegeliana dell’idea di Stato, dello Stato moderno, si pone polemicamente Marx, nelle vesti di giovane hegeliano, di filosofo critico, che aspira a rovesciare (seguendo anche l’umanismo feuerbachiano) il metodo speculativo hegeliano e il suo peculiare "modo di dire", cioè la sua logica e la sua tecnica argomentativa che, secondo Marx, non coglie "la logica specifica dell’oggetto specifico", ma rimane astratta e lontana da una realtà, quella dello Stato moderno appunto, che è fortemente contraddittoria e irrazionale.
Ne “Il capitale”, lo Stato moderno viene fatto nascere contemporaneamente e in stretta connessione al nuovo rapporto di produzione.
5.1. Hegel
Nella seconda sezione dello Spirito Oggettivo, nella sfera dell’Eticità, Hegel dopo aver introdotto la suddivisione dell’Eticità nelle tre differenti sfere di famiglia, società civile e Stato afferma:
"La sostanza, che, in quanto spirito, si particolarizza astrattamente in molte persone, in famiglie o individui, i quali sono per sé in libertà indipendente e come esseri particolari, - perde il suo carattere etico; giacché queste persone in quanto tali non hanno nella loro coscienza e per loro scopo l’unità assoluta, ma la loro propria particolarità e il loro essere per sé: donde nasce il sistema dell’atomistica. La sostanza diventa per questa guisa nient’altro che una connessione universale e mediatrice di estremi indipendenti e dei loro interessi particolari; la totalità sviluppata in sé di questa connessione è lo Stato, come società civile, o come Stato esterno."
[Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche].
La "sostanza etica" è definita e spiegata da Hegel come la consapevole e voluta riproduzione dello spirito di un popolo, il quale si dirime e si articola in individualità distinte, in particolari interessi, in persone e totalità parziali, le quali al contempo sanno e vogliono se stesse solo in quanto all’interno della sostanza, come vitali articolazioni della sostanza etica.
La famiglia costituisce il momento dell’immediatezza e della naturale riproduzione generica dell’uomo; riproduzione che si fa essenzialmente etica all’interno dell’istituzione del matrimonio. Ma la famiglia è anche proprietà, nella quale i membri familiari si riconoscono come un’unica persona.
Il passaggio dalla famiglia alla società civile risiede proprio nella particolarizzazione della sostanza etica in "molte persone" (famiglie o individui veri e propri) le quali sanno di essere giuridicamente ed eticamente indipendenti l’una dall’altra, come "esseri particolari", liberi di perseguire il loro particolare interesse.
Lo spirito etico (ossia la stessa sostanza etica intesa da Hegel come soggetto consapevole) in questa sorta di necessaria frantumazione perde la compattezza e la “volontà” di riprodursi come "unità assoluta". Quello che le "molte persone" sanno e vogliono è il perseguimento del loro particolare interesse; la riproduzione di sé come di una particolarità che giuridicamente è ben distinta dalle altre. Eppure, dice Hegel, l’atomistica a cui si riduce inevitabilmente la sostanza etica (l’eticità come riproduzione consapevole di una totalità organica, della famiglia) si presenta precisamente in forma sistematica.
E’ il "sistema dell’atomistica" la prima definizione che Hegel dà della società civile, come sfera etica nella quale certo l’interesse del particolare è ciò che subito risalta agli occhi, ciò che viene innanzitutto realizzato, ma non come qualcosa di disperso e distaccato o come qualcosa di disorganico; viceversa, la riproduzione dell’interesse particolare di ciascuno si fonda sistematicamente sulla riproduzione dell’interesse altrui in una connessione stabile e duratura.
Così si legge nella “Fenomenologia”:
"Sebbene la ricchezza sia il passivo o il nullo essa è nondimeno universale essenza spirituale; è il risultato, che incessantemente diviene, del lavoro e del fare di tutti, che poi si risolve a sua volta nel godimento di tutti. […] In questo momento ogni singolo ritiene sì di agire egoisticamente; si tratta infatti di quel momento in cui il singolo si dà la coscienza di esser per sé, momento ch’egli non prende quindi per qualcosa di spirituale; ma anche considerato soltanto dal di fuori, questo momento appare siffatto, che nel suo godimento ciascuno dà da godere a tutti e, similmente, che nel suo lavoro ciascuno lavora per tutti e per sé, e tutti per lui. Il suo essere-per-sé è perciò in sé universale, e l’egoismo è solo un alcunché di opinato che non può giungere a rendere effettuale ciò ch’esso opina, vale a dire a far qualcosa che non torni a vantaggio di tutti."
[Hegel, Fenomenologia dello spirito]
E aggiunge:
"Come all’uomo tutto è utile, così lo è anch’egli egualmente, e la sua determinazione e destinazione è quindi di rendersi utile e universalmente utilizzabile membro della società. Di quanto egli ha cura di sé, proprio di altrettanto egli deve anche prodigarsi per altri; tanto si prodiga, altrettanto provvede agli affari suoi: una mano lava l’altra. Ma dovunque egli si trovi, vi si trova a proposito; è utile agli altri e viene utilizzato."
[Hegel, Fenomenologia dello spirito]
Vi è in questo mondo il consapevole perseguimento del proprio utile, vige in esso un ‘sano’ egoismo, grazie al quale la società produce e riproduce se stessa anche nel suo insieme. L’atomistica della società civile moderna non si riduce a una mera disarticolazione di singoli interessi, a uno scontro fra unilateralità, a una guerra di tutti contro tutti, ma, al contrario, a una organizzazione sistematica di particolari egoismi.
Il meccanismo con il quale l’atomistica civile si sistema a totalità organica e persegue un unico interesse generale, pur diversificandosi al proprio interno in individualità, è un puro meccanismo privo di autocoscienza, di consapevolezza. È un duro automatismo che manca di fluidità concettuale: prende atto cioè della conversione del particolare nell’universale, ma non attribuisce all’universale capacità di consapevole e voluta autoriproduzione. Insomma, l’universale interesse non è soggetto, ma prodotto di particolari soggetti distinti fra loro, i quali condividono estrinsecamente ciò che è in comune, nella misura in cui non lo sanno e non lo vogliono come scopo ultimo della loro attività. Ciò che vogliono è solo il proprio, privato interesse e la connessione con gli altri è utilizzata come strumento per meglio perseguirlo e stabilmente realizzarlo.
La consapevolezza del ‘bene comune’ e la volontà di perseguirlo da parte dei singoli, può generarsi solo da una comprensione concettuale della società civile, del suo modo di riprodursi, della sua eticità.
La sostanza etica - come sistema dell’atomistica - non si fa soggetto, e cioè manca di spiritualità, di consapevolezza e volontà diretta verso la propria realizzazione. D’altra parte, questa stessa sostanza, che è la società civile, è già Stato, sebbene come Stato esterno.
Quando Hegel dice che è "in sé" Stato, intende che la società civile è certamente lo Stato per chi espone la scienza del diritto (cioè per chi comprende concettualmente il cammino dello spirito etico, per il filosofo e non per l’economista politico), e cioè che questa "connessione universale e mediatrice di estremi indipendenti" è proprio lo Stato, quello Stato che ancora deve comparire nella sua piena e intrinseca eticità; ma che qui tuttavia già compare, sebbene come Stato esterno, non ancora consapevole di essere tale.
Allora l’origine dello Stato, secondo Hegel, non può che discendere dalla stessa società civile, se essa è già Stato, sebbene non ancora consapevole di esserlo.
Questo arricchimento della società civile in termini di eticità e di consapevolezza non le proviene dall’esterno, ma dalla sua stessa interna articolazione che unisce le individualità e gli ‘atomi’ che la compongono in totalità parziali, come Hegel chiama le corporazioni, nelle quali i singoli identificano il loro proprio interesse con l’interesse comune o corporativo.
Un ulteriore passaggio dal particolare privato all’universale pubblico è rappresentato, nell’ambito dello Stato hegeliano (la monarchia costituzionale), dalla mediazione politica degli ordini (il ceto rurale, il ceto cittadino-corporativo, il ceto burocratico) all’interno dell’assemblea legislativa; ossia la mediazione che l’elemento politico di ordine attua fra interessi propriamente civili e interessi politici.
I soggetti politici che effettivamente mediano gli interessi civili (delle corporazioni, delle cerchie, degli individui e del popolo in generale) con gli interessi dello Stato, sono gli ordini o ceti (l’ordine universale o dei funzionari governativi, l’ordine sostanziale o del possesso fondiario, l’ordine dei bisogni particolari e del lavoro, o ordine corporativo-cittadino), i quali rappresentano una suddivisione della società civile che risponde non solo a interessi corporativi o privati, ma contemporaneamente a interessi eminentemente pubblici. I ceti sono la stessa società civile così come compare nell’assemblea legislativa e nell’esercizio del potere legislativo. Essi si trovano, nella loro funzione legislativa di rappresentanza e deputazione degli interessi civili, tra il potere del governo (esecutivo e giudiziario) e il popolo diviso in cerchie e singole individualità. Il loro potere è quello non solo di fare le leggi e conservare la costituzione, ma di farle per l’interesse sia dello Stato che della società civile; la mediazione che da loro si esige consiste precisamente nel rendere pubblici gli interessi privati, attraverso la legiferazione. Il loro compito è quello di non permettere che l’elemento privato e disorganico si opponga senza mezzi termini all’interesse universale e organico dello Stato. Essi, dice Hegel, partecipano sia del governo (l’ordine universale) che dell’interesse particolare o corporativo (gli ordini privati: ceto sostanziale e ceto cittadino).
Questa loro doppia "collocazione" ha già la caratteristica di una mediazione, cioè di una connessione necessaria e organica fra Stato e società civile. La loro presenza al governo fa sì che il potere del sovrano non appaia come un "estremo isolato", cioè come un opposto unilaterale, di fronte al popolo. E d’altra parte fa sì che il popolo non si astenga dall’organizzarsi politicamente entro ambiti costituzionali.
La loro presenza evita che lo Stato si disgreghi, smetta di riprodursi e vada incontro alla propria rovina. Evita cioè che l’identità mediata fra Stato e società civile si trasformi in un’opposizione inconciliabile: da una parte l’arbitrio incontrollato del potere del sovrano e dall’altro il popolo come massa informe, cioè non distinta nell’organizzazione civile e politica.
Secondo Hegel, dunque, lo Stato e la società civile, al culmine della loro organizzazione politico-costituzionale, non solo si identificano, ma non possono non identificarsi, pena la mancata riproduzione dell’intero organismo politico e civile. La loro identità non è immediatamente data e garantita, ma è piuttosto un processo di distinzione e accordo fra i diversi poteri costituzionali, fra i diversi ambiti amministrativi (civili e governativi), fra i diversi particolari interessi, fra questi e lo Stato nel suo insieme.
Proprio quest’opera di mediazione, attuata consapevolmente e volutamente dagli ordini entro il potere e l’assemblea legislativa, rende organica e sostanzialmente etica l’identità fra la sfera civile e la sfera pubblica. Rende la società civile Stato e lo Stato società civile. Dà origine, in altri termini, all’organizzazione statuale moderna (la monarchia costituzionale), che, secondo Hegel, fonda la sua eticità sulla consapevolezza di essere un tutt’uno organico e coeso.
L’origine dello Stato moderno perciò, secondo la visione hegeliana, si presenta come un processo di mediazione costantemente in atto, che si autoriproduce, e che si mantiene in equilibrio grazie all’elemento politico degli ordini, i quali fanno passare l’interesse civile nell’interesse pubblico e statuale.
Lo Stato hegeliano non ha perciò certamente un’origine contrattualistica - contro la quale anzi Hegel si scaglia ripetutamente - ma a stretto rigore nemmeno un’origine solo ideale, come se lo Stato fosse il termine ultimo o un ‘modello’ a cui deve rifarsi, tacendo, l’interesse civile e privato. Viceversa, lo Stato per Hegel è la stessa società civile, nella misura in cui questa si riproduce come un’unità organica e mediata di interessi particolari, consapevolmente connessi l’uno all’altro e portatori di un’unica istanza etica sostanziale. Qualora la mediazione venisse interrotta e l’opposizione divenisse sostanziale, allora lo Stato andrebbe incontro al suo declino. L’inevitabilità del declino dello Stato, qualora i suoi legami con la società civile venissero recisi, ci conferma che l’origine di esso non è da cercarsi altrimenti che nel suo rapporto con quella: l’uno e l’altra sono, in altri termini, lo stesso identico organismo.
Lo Stato è la sintesi assoluta della razionalità dei singoli, che riconoscono in esso il luogo della piena realizzazione della libertà individuale. La libertà, infatti, è vera soltanto quando riesce ad essere “oggettiva”: e lo Stato garantisce l’oggettività della libertà. L’oggettività dello Stato nella relazione dialettica con gli altri Stati, all’interno della storia universale, proietta lo Spirito verso l’Assoluto.
[Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto]

“Lo Stato è la realtà dell’idea etica; lo spirito etico, in quanto volontà manifesta, evidente a se stessa, sostanziale, che si pensa e si conosce, e compie ciò che sa e in quanto lo sa”.

“Lo Stato è la sostanza etica consapevole di sé, la riunione del principio della famiglia e della società civile.”

“Lo Stato è 1) dapprima la sua formazione interna, come svolgimento che si riferisce a sé, il diritto interno degli Stati o la costituzione. È poi 2) individuo particolare, e quindi in relazione con altri individui particolari, il che dà luogo al diritto esterno degli Stati. Ma 3) questi spiriti particolari sono solo momenti nello svolgimento dell’idea universale dello spirito nella sua realtà; e questa è la storia del mondo, o storia universale [...].”
(Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto)

Lo Stato è quindi "la realtà dell'idea etica", ovvero la piena realizzazione dell'eticità. Lo Stato infatti è per Hegel la più elementare manifestazione della ragione assoluta, colta nell'elemento immediato dell'esistenza di un popolo e delle sue istituzioni.
Lo Stato si manifesta come diritto statale esterno, ossia come insieme dei rapporti che lo connettono e lo contrappongono agli altri stati. Avendo consapevolezza di sé come totalità etica, ovvero come massima espressione dell'eticità, nella quale si manifesta l'essenza stessa dell'Assoluto, ogni Stato non riconosce al di sopra di sé nessuna autorità superiore. Non esiste quindi un diritto internazionale che non si risolva semplicemente nei singoli trattati che gli Stati possono sovranamente stipulare ed altrettanto sovranamente infrangere. In caso di divergenza di interessi fra gli Stati, la guerra è il solo modo per dimostrare il diritto dell'uno sull'altro.

Il momento ultimo dello sviluppo dialettico dello Stato, la Storia universale, si colloca in una posizione intermedia tra lo spirito oggettivo e lo spirito assoluto, dal momento che in essa gli Stati, che sono la massima espressione dello spirito oggettivo, si manifestano anche come ragione assoluta. Lo spirito universale, la ragione assoluta che coincide con l'assoluta realtà, sarà colto nella sua purezza nei diversi momenti della filosofia dello spirito assoluto: l'arte, la religione e la filosofia. Esso può però rivelarsi anche in una maniera più immediata e più concreta nello spirito di un popolo, ovvero in quell'insieme di manifestazioni etiche e istituzionali (costumi, diritto, religione, costituzione politica etc ) in cui si sviluppa l'esistenza di un popolo. In questa sua determinazione nell'elemento dell'esteriorità oggettiva, della dimensione spazio-temporale, cioè della storia, lo spirito universale prende il nome di spirito del mondo. Ogni spirito di popolo potrà però esprimere più o meno adeguatamente lo spirito del mondo, a seconda della sua maturità etica, rapportata sia al momento dello sviluppo storico in cui fiorisce sia alla sua superiorità o inferiorità rispetto agli altri popoli. In ogni fase del processo storico vi sarà dunque un popolo il cui spirito rappresenta la miglior incarnazione dello spirito del mondo in quel momento, il più alto grado di autocoscienza possibile per lo spirito universale in quel punto del suo processo di realizzazione. In virtù di questa sua superiorità, tale popolo acquista una posizione di egemonia su tutti gli altri, ai quali impone in modo assoluto la sua forza, il suo diritto e la sua cultura. Questo vale però soltanto fino a che il popolo può adeguatamente esprimere l'universale: quando, a causa dell'inarrestabile sviluppo dello spirito del mondo, esso non sarà più in grado di rappresentare la nuova e più elevata autocoscienza spirituale che sta emergendo, questa funzione passerà, insieme al diritto e al dominio assoluto, a un altro popolo. In questo modo gli stessi popoli dominanti appaiono semplici strumenti delle manifestazione dello spirito del mondo, i quali vengono abbandonati al loro destino non appena abbiano consumato la loro energia ed assolto la loro funzione. Così l'individualità della storia (tanto quella nazionale quanto quella personale) obbediscono ad una "astuzia della ragione" universale, della quale persegue i disegni anche quando si crede di agire in vista di fini particolari. In base a questi principi, Hegel ravvisa 4 fasi fondamentali del processo storico, ovvero 4 mondi storici (dove il termine 'mondo' mette in risalto la dimensione esteriore, spazio-temporale in cui si sviluppa la storia). Questi mondi sono connessi al significato unitario del processo storico, in cui si manifesta a poco a poco il carattere essenziale dello spirito, ossia la libertà. E così nel mondo orientale, in cui lo spirito non è ancora pervenuto alla coscienza della propria libertà, ma è ancora intriso di naturalità, gli uomini non sanno di essere liberi: solo uno di loro è libero (il principe, l'imperatore) ma anche lui, esercitando una libertà solo arbitraria e tirannica, non è libero come uomo. Nel mondo greco e nel mondo romano nasce a poco a poco la coscienza della libertà: presso di loro alcuni sono liberi, altri no. La coscienza della libertà dell'uomo in quanto tale, ancora mancante nei due mondi classici, si realizza invece nel mondo cristiano-germanico, in cui il cristianesimo, abbracciato e propagato dalle nazioni germaniche, mostra il valore assoluto dell'umanità tramite il dogma dell'incarnazione. Questo non vuol dire ancora che tutti gli uomini sono liberi, ma solo che si sa che l'uomo in generale è libero: la progressiva realizzazione di questa consapevolezza è la struttura portante della storia europea dall'avvento del cristianesimo fino alla storia del mondo germanico moderno. Ecco allora che Hegel può sostenere che ' possiamo essere liberi solo se tutti lo sono '.
5.2. Marx
Prima di Marx e Engels e della teoria del materialismo storico, vi è stata (a partire da Hobbes fino a Hegel) un'opinione generale e condivisa sulla natura dell'evoluzione della società umana, secondo la quale - in linea con i presupposti della filosofia idealista - la società pre-statale (stadio naturale) dovesse essere caratterizzata da istinti e da passioni incontrollati, e dalla guerra costante di tutti contro tutti.
Dall'altra parte lo Stato avrebbe rappresentato il superamento di un tale regno, fatto d'istinti bestiali, attraverso l'instaurazione di una libertà guidata da norme: cioè attraverso il trascendimento di quegli istinti e di quelle passioni.
Lo Stato dunque era considerato come lo stadio finale e più alto dell'umanità, quello nel quale veniva assunto un modo di convivenza razionale.
Tale opinione sul ruolo centrale dello Stato per il genere umano e per la sua storia, si basava chiaramente su quella concezione idealistica che vedeva nella condizione pre civile (o pre statale) dell'uomo uno stadio negativo e, viceversa, in quella civile o statale lo stadio positivo: il risultato di un'evoluzione del genere umano e della sua coscienza.
Questa visione idealistica della storia (culminante in Hegel) verrà radicalmente rovesciata dalla teoria del materialismo storico di Karl Marx.
Marx iniziò col criticare la visione idealistica del legame tra la società civile (cioè la sfera dei rapporti materiali e economici) e lo Stato (la sfera delle relazioni politiche) proposta da Hegel.
Secondo lui quest'ultimo rovesciava infatti la realtà effettiva delle cose, ponendo il secondo fattore come base del primo, mentre al contrario era la società civile a condizionare e a determinare lo Stato, ovvero la società politica.
Marx riprende quindi la distinzione hegeliana tra società civile e Stato, ma rovesciando il rapporto tra i due termini. Non è la società civile ad essere una sfera pre-statuale, una sotto-struttura dello Stato, bensì è lo Stato ad essere una sovrastruttura rispetto alla società civile:

“La società civile comprende al proprio interno tutti i rapporti sociali caratterizzanti un determinato stadio di sviluppo delle forze produttive. Abbraccia perciò l'intera vita industriale e commerciale di un dato stadio evolutivo, trascendendo così ogni particolare stato e ogni particolare principio di nazionalità. Ma - d'altra parte - tale società deve affermare se stessa anche all'esterno (ossia nelle relazioni con altri gruppi sociali) e per fare ciò deve affermarsi come nazione; lo stesso deve poi fare al proprio interno come Stato.”
(Marx and Engels, Selected Works)

La «struttura economica della società» è costituita dai «rapporti di produzione», ossia relazioni oggettive e indipendenti dalla volontà dei singoli, determinati dal grado di sviluppo delle forze produttive e, conseguentemente, dal meccanismo della produzione sociale. Questa è la «base reale» della società, che Marx identifica con la hegeliana «società civile», nella quale affonda le sue radici una «sovrastruttura giuridica e politica» che si eleva al di sopra di essa senza però potersene distaccare e rendere indipendente, avendo anzi in essa la propria condizione di esistenza. Lo Stato non è perciò nient'altro che un prolungamento della società civile, privo di reale autonomia rispetto alla base economica della società, destinato a scomparire allorché verranno meno i suoi presupposti «materiali».
Quindi, i rapporti di produzione sono per Marx il vero fondamento della società e della storia. Essi sono ineliminabili, rappresentano l'elemento permanente lungo il corso delle vicende umane, mentre lo Stato è un prodotto storicamente determinato e quindi provvisorio, non eterno. In conclusione, mentre i filosofi “tradizionali“ della politica individuano nello Stato l'orizzonte insuperabile del progresso sociale e civile dell'umanità, Marx vede il punto d'arrivo della storia coincidere col venir meno dello Stato, con la sua estinzione.
Secondo Marx, le condizioni che si trovano alla base della società civile sono la famiglia e il clan (gruppo di famiglie); mentre la società civile stessa (l'insieme dei rapporti socio economici) è la vera base e il vero inizio della storia politica umana.
Lo Stato, ossia quella particolare formazione politica, è nato come un prodotto diretto della divisione a livello sociale del lavoro, delle classi e delle lotte sviluppatesi in seno alla società civile.
Esso, avendo quindi una natura secondaria rispetto alla società civile, non è un fenomeno determinante ma determinato. Di conseguenza, non è nemmeno una realtà conclusiva e eterna dell'evoluzione sociale, bensì una realtà transitoria avente la sua origine in condizioni storiche ben definite (le quali avranno a loro volta un termine).
La formazione della società classista e dello Stato sono spiegati in base alla divisione del lavoro, alla proprietà privata e al cambiamento interno alle comunità primitive: fattori che ne hanno determinato la dissoluzione e disintegrazione, e da cui sono sfociate poi forme di convivenza organizzate in base alla divisione in classi.
Tale visione è essenziale per comprendere lo sviluppo del mondo occidentale, ovvero l'emergere dello Stato e della società classista occidentale. In base a essa, la presenza della proprietà privata della terra è il fondamento della divisione del lavoro, del commercio e delle relazioni di spoliazione e espropriazione: insomma la causa della dissoluzione dei rapporti egualitari (comunistici) caratterizzanti le società primitive, e del passaggio allo Stato e alle società classiste.
L'emergere dello Stato e delle classi dominanti (ovvero esproprianti) nel mondo orientale avvenne in condizioni storiche e sociali estremamente diverse: non vi era proprietà privata della terra, né quindi divisione del lavoro, né economia di scambio. Lo Stato asiatico non si basava sulla proprietà privata e sulla spoliazione individuale, ma sulla proprietà collettiva e sull'espropriazione in nome della stessa comunità agraria.
Marx infatti afferma:
“Lo Stato quindi non è sempre esistito. Vi sono state in passato società che hanno fatto a meno di esso, che non hanno neanche concepito l'idea dello stato e dell'oppressione statale. Ad un certo stadio dello sviluppo economico, che implicò necessariamente la divisione della comunità in classi, lo Stato divenne una necessità proprio per causa di una tale divisione. Oggi però ci stiamo avvicinando rapidamente a uno stadio nel quale l'esistenza delle classi non solo cesserà di essere necessaria, ma diverrà addirittura un consistente ostacolo per lo sviluppo stesso delle forze produttive. [Le classi] cesseranno di esistere esattamente come, tempo fa, avevano iniziato a farlo. E, assieme ad esse, anche l'apparato statale inevitabilmente scomparirà. La società, che riorganizzerà la produzione sulla base di un'associazione libera e egualitaria dei produttori, relegherà l'intera macchina statale in un luogo dove essa, da lì in avanti, rimarrà: nel museo delle età antiche, al fianco del filatoio e dell'età del bronzo.”
La forma politica di Stato, secondo Marx, deriva certamente dalla struttura stessa della società civile, nella quale si realizza la vita e la volontà del popolo. Questo principio etico unitario perde però la sua essenziale compattezza proprio nel "passaggio" alla forma politico-statuale. Lo Stato moderno perciò, secondo Marx, tradisce l’essenza etica su cui pure poggia; il popolo non viene accolto all’interno della costituzione politica, al suo posto intervenendo la mediazione cetuale, la volontà del sovrano, il potere burocratico del governo, etc.
Ciò afferma che:
"Lo Stato è un astratto. Unicamente il popolo è concreto. Ed è degno di nota che Hegel, che ascrive senza esitare una qualità vivente all’astratto, ascriva al concreto una qualità vivente, come quella della sovranità, solo con esitazione e riserve"
[Marx, Critica del diritto statuale hegeliano]
E che:
"Il potere legislativo ha fatto la Rivoluzione Francese; esso, dove è apparso nella sua particolarità come il dominante, ha fatto in generale le grandi, organiche, rivoluzioni universali[…]proprio perché il potere legislativo era il rappresentante del popolo, della volontà del genere"
[Marx, Critica del diritto statuale hegeliano]
L’uomo-popolo-genere sarebbe il vero principio unitario, a partire dal quale lo Stato si configurerebbe come una totalità razionale, organica e spirituale insieme. L’organismo politico, che è lo Stato, sarebbe, senza mediazione, popolo, e viceversa. Lo Stato-popolo rifletterebbe l’essenza generica dell’uomo, in sé già sociale, politico e etico insieme.
Le mediazioni politiche hegeliane (la funzione degli ordini nell’assemblea legislativa) verrebbero così annullate dall’immediata identità d’essenza che, secondo Marx, deve riguardare Stato e popolo. Infatti:
"La democrazia è la verità della monarchia, la monarchia non è la verità della democrazia[…]: nella democrazia la costituzione stessa appare solo come una determinazione e precisamente autodeterminazione del popolo. Nella monarchia noi abbiamo il popolo della costituzione: nella democrazia la costituzione del popolo. La democrazia è l’enigma risolto di tutte le costituzioni"
[Marx, Critica del diritto statuale hegeliano]
Lo Stato moderno in quanto tale, secondo Marx, nasce contemporaneamente alla moderna società borghese. Ciò che va segnalato è proprio il nesso originario che unisce e tiene stabilmente insieme lo Stato e il capitale, il piano economico-strutturale e il piano politico-sovrasttrutturale.
Ma cos'è, dunque, lo Stato?

Lo Stato «non è altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità, tanto verso l'esterno che verso l'interno, al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi» (L'ideologia tedesca). Ovvero, «Lo Stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e in cui si riassume l'intera società civile di un'epoca» (Ib.).
Ed anche: «Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese» (Manifesto del partito comunista). Per cui: «Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l'oppressione di un'altra» (Ib.).

Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è per regola lo Stato della classe più potente, economicamente dominante, che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato antico fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al fine di mantener sottomessi gli schiavi, così lo Stato feudale fu l'organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini (...) e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale.
(F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato)

Viene qui ribadito, implicitamente, il carattere di sovrastruttura che è proprio dello Stato. Quest'ultimo presuppone, come condizione della propria esistenza, la società civile con i suoi inconciliabili conflitti di classe.
Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell'«ordine»; e questa potenza emanata dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato.
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