L'angoscia esistenziale di Kierkegaard

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Testo

L’angoscia esistenziale di SOREN KIERKEGAARD (1818 – 1855)

Opere principali:
• Il concetto di ironia, 1841
• Aut-aut (vita estetica aut vita etica), 1843
• Timore e tremore, 1844
• Braciole di filosofia, 1844
• Il concetto dell’angoscia, 1844
• Stadi sul cammino della vita, 1845
• Postilla conclusiva non scientifica, 1846
• La malattia mortale, 1849
• Diari

Il significato della pseudonimia e dell’ironia: nel segno di una comunicazione autentica.
La pseudonimia, l’abitudine cioè di Kierkegaard di pubblicare i suoi scritti sotto molteplici e allusivi pseudonimi, non nasce dal tentativo di occultarsi (non era difficile risalire all’autore), ma rappresenta una sorta di “teatro delle maschere”, mediante il quale Kierkegaard cerca di ricreare le condizioni di una comunicazione autentica e non anonima. Egli non vuole parlare al pubblico astratto dell’editoria moderna, che non esiste neppure realmente, ma “al Singolo”, non vuole ammaestrare, ma, mediante uno pseudonimo allusivo, prendere le distanze da se stesso, in modo che il lettore, come in uno specchio, possa riflettersi e riconoscersi o rifiutarsi. La pseudonimia e l’ironia dovrebbero servire a introdurre una comunicazione effettiva, aperta, non anonima, che costringa il lettore a mettersi in discussione. “Scrivere è e dev’essere un’azione e perciò un esistere personale”.
Lo scrittore deve essere, in un certo senso, un maestro, deve “reduplicarsi”, dove “reduplicarsi è essere ciò che si dice”. Alla maniera dei grandi prototipi dell’antichità, Socrate e Cristo, che testimoniano con la loro vita le loro parole. Ma mentre Socrate cerca la verità nell’anima di ogni uomo (conosci te stesso), Cristo rivela la verità, una verità che è differenza assoluta, assoluta trascendenza. Cristo è la trascendenza stessa che si finitizza, verità stessa che si fa esistenza. Solo la comunicazione autentica “rende libero l’altro”. Ma la cristianità così come è vissuta nel mondo contemporaneo, altro non è che una tranquilla vita borghese-mondana, poiché la chiesa ufficilae, con i suoi preti-funzionari, stipendiati dello Stato, ha trasformato il cristianesimo in “un paganesimo amabile e sentimentale”, quanto mai lontano dall’autentico spirito cristiano. Una Chiesa trasformata in “bottega” che propina il cristianesimo come fosse “birra”: “tra i vari servizi che lo Stato offre ai suoi cittadini, come l’acqua, la luce, le strade, la sicurezza politica, c’è anche quello di un’eterna beatitudine nell’aldilà”. Pertanto “Tutta la mia feconda attività di scrittore, scrive Kierkegaard, si riduce a quest’unico pensiero: colpire alle spalle” cioè scuotere, con la forza urticante dell’ironia socratica questo stato di illusione e di torpore.

L’aspra polemica contro l’ottimismo razionalistico. Il carattere contingente dell’esistenza, la gravosa libertà del singolo e il rischio della scelta.
Kierkegaard rivendica il carattere contingente dell’esistenza e la gravosa libertà del singolo, contro la pretesa della ragione necessitante di risolvere l’individuo nel tutto. Singolo, precarietà, scelta sono contrapposti alla necessità razionale dell’idealismo hegeliano. E mentre per l’idealismo la persona individua non è che un modo dell’universale, per Kierkegaard il singolo è più importante del tutto, l’individuo della specie (ed è questo che distingue l’uomo dagli animali), l’esistenza (il finito, il particolare) dell’essenza (l’infinito, l’universale, il concetto). Ad una presunta verità oggettiva-universale K. oppone una verità soggettiva, precaria, che scaturisce dal singolo, e concerne la possibilità, ma solo la possibilità, della salvezza. Esistere significa scegliere, questo è il compito a cui l’esistenza non può sottrarsi. La scelta è rischiosa, esente da qualsiasi garanzia, e l’intera responsabilità ricade sul singolo. Egli non può trovare risposte preconfezionate in alcun sistema filosofico, dal momento che l’esistenza è caratterizzata dalla contingenza, dalla complessità e dalla contraddittorietà. L’esistenza non si lascia ricondurre a razionalità di sistema. E’ nel segno dell’angoscia.

Esistenza come peccato, sentimento del possibile, angoscia.
Esistere (ex-sistere = venir fuori) vuol dire emergere da un oscuro infinito-infinito, dal nulla. Vuol dire affermare la propria individualità distinta; far scaturire l’individualità finita dall’essere infinito; staccarsi da DIO = peccato. essendo creatura di Dio non appartengo a me stesso: da tale punto di vista l’individuo non è che impotenza e nullità. Derivo dal nulla, sono nulla, eppure mi riconosco come qualcosa. Ma non posso esistere se non come peccatore, se non come paradosso e contraddizione vivente. Esistere è peccato, perdita dell’originaria innocenza. Il divieto divino pone innanzi ad Adamo la possibilità della scelta, la possibilità di affermare se stesso come volontà individuale staccandosi di Dio. Pertanto scegliere, qualunque sia la scelta, è peccato. Vivere la propria vita vuol dire peccare. Il peccato originale consiste nella traduzione in atto di tale possibilità di scelta, nella volontà di conoscere il bene e il male. Ha inizio l’angoscia del possibile. Il possibile induce l’angoscia. “La possibilità è la più pesante delle categorie… nella possibilità tutto è egualmente possibile… chi esce dalle scuola della possibilità” apprende che “dalla vita non può pretendere assolutamente nulla e che il lato terribile, la perdizione, l’annientamento abita con ogni uomo a porta a porta”. L’angoscia non è generata da un timore specifico, come il sentimento della paura, ma da un pericolo indefinito, e tuttavia minacciosamente incombente nell’orizzonte delle possibilità. Sentimento del possibile: nel possibile tutto è possibile. E tuttavia l’angoscia “è un’avventura che deve essere attraversata da ogni uomo, affinchè non vada a perdizione, o per non averla mai conosciuta o per essersi definitivamente fissato in essa; chi invece ha appreso a sentire l’angoscia giustamente ha raggiunto il grado più alto”.

Il paradosso del Cristianesimo. Anti-umanesimo. Misoginia.
Mentre il principio della filosofia (hegeliana) è la maledizione (sintesi, conciliazione), quello del cristianesimo è il paradosso, l’inconciliabiltà degli opposti. All’individuo sta di fronte perennemente il dilemma dell’esistenza: essere o non essere, salvazione o dannazione, mondanità o trascendenza, fede o legge morale, fede o ragione, affermazione del proprio io o annullamento in Dio? La realtà è un insieme di possibilità inconciliabili, che implicano scelta, negazione, distruzione. Il Cristianesimo esprime il dramma dell’individuo nella sua separazione da Dio. Non una religione consolatrice come l’hanno fatta diventare i preti che mercanteggiano il mondo. Chiesa di Stato e spirito autentico del Cristianesimo sono agli antipodi. Il Cristianesimo è una specie di follia, di supremo terrore: è la religione del Dio-uomo, del Dio-crocifisso, del Dio che pretende una fede che l’uomo non può avere senza Dio, del Dio che ordina ad Abramo di contravvenire alla legge morale che egli stesso ha dato. Sussiste un’antitesi radicale tra esperienza religiosa e mondanità. La condizione umana è considerata lo stato più infausto (anti-umanesimo). Il cristianesimo è contro tutti gli istinti, contro ogni forma di mondanità, di cui la donna, incarnazione della brama di vivere, e l’emblema. Scopo di questa vita dal punto di vista cristiano è di essere condotti al più alto grado di disgusto per la vita, per aprirsi alla fede in un essere trascendente sia l’individuo sia il mondo: Dio.

Precarietà, angoscia, Aut-Aut.
Strumento di salvezza non è la ragione, ma la fede, cui si perviene attraverso la coscienza del peccato, della precarietà, dell’angoscia. L’angoscia è un’inquietudine che ha origine dal rapporto tra l’uomo e il mondo; è la condizione di chi è stretto tra opposti inconciliabili, di chi è minacciato da qualcosa di indeterminato; di chi nonostante ciò non può fare a meno di rischiare la scelta; una scelta che assume i caratteri dell’alternativa ( aut-aut) e non dell’accomodante conciliazione hegeliana (et-et). Nella astratta dialettica della ragione l’antitesi è ricondotta alla sintesi, mentre nella concreta dialettica dell’esistenza la negazione non è né superabile né recuperabile. L’angoscia è propria della condizione umana: rischio della libertà come possibilità, ma solo possibilità, della salvezza; angoscia della possibilità della noia; della possibilità del peccato, della possibilità del pentimento; l’angoscia “è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità”, “è la vertigine della libertà”. Il sentimento dell’angoscia consiste nella radicalizzazione della contingenza, nella possibilità del nulla, in una paura indeterminata dovuta a un futuro gravido di minacciose possibilità Angoscia del possibile. L’innocenza è ignoranza, naturalità, assenza di spirito. L’angoscia induce Adamo a peccare, a trasgredire il divieto divino, a diventare individuo. Ma è proprio attraverso l’angoscia che non ci consente di restare soddisfatti del finito, che prospetta la possibilità, ma solo la possibilità, carica di rischio e gravida di incertezza, della salvezza: “più profonda è l’angoscia e più grande è l’uomo”.

Lo smacco, la disperazione (morte dell’anima) come malattia mortale.
Se dal rapporto individuo/mondo ha origine l’angoscia, dalla tensione interiore con se stessi, nasce la disperazione, la vera malattia mortale del soggetto. L’individuo si trova di fronte alla duplice, ma insolubile alternativa: accettarsi così come si è, o voler essere diverso. Se si accetta ritenendosi autonomo e autosufficiente, fa invece esperienza della propria impotenza e del proprio limite; se cerca di migliorarsi ispirandosi a un modello ideale, egli cerca se stesso al di fuori di sé. Non potendo accettarsi, poiché sente in sé il senso dell’angoscia e del peccato, né sbarazzarsi del proprio io a causa della propria insuperabile finitezza, l’uomo si imbatte in una irriducibile contraddizione, di fronte alla quale si chiarisce la propria impotenza, la drammaticità della scelta, lo smacco, e da cui scaturisce la disperazione. La disperazione è la condizione propria dell’uomo nel rapporto con se stesso: gli manca forza sufficiente per realizzarsi compiutamente, ma anche per negare se stesso completamente. Se cerca se stesso trova Dio (l’infinito), negandosi; se nega Dio, colui da cui deriva la propria esistenza, annienta anche se stesso (il finito). Se sceglie se stesso si trova di fronte alla sua finitezza; se sceglie di non essere se stesso si perde nella multiformità del mondo (esteta). Sia che voglia se stesso, sia che sfugga se stesso, l’uomo non giunge a possedersi.
Di qui ha origine la malattia mortale, la disperazione, ossia il singolo che vive la propria morte spirituale, esperendo il tormento “di non poter morire” come essere finito. Ma la morte è vera morte solo se definitiva, ossia senza speranza. Per il cristiano, la morte non è la fine, né la fine è la morte. La disperazione sì, poiché è la morte dell’anima. Nella disperazione l’individuo fa esperienza dello smacco: non può volersi così com’ è (limitato e finito), ma non può neppure superare la sua finitezza senza annullarsi in Dio. A questo punto, e solo a questo punto, il singolo non può sfuggire alla scelta. Scegliere la fede è tremendo: solo chi ha fatto esperienza della disperazione è disposto a correre questo rischio.

La fede come paradosso e scandalo.
Solo la fede, cioè che la convinzione che a Dio tutto è possibile, fornisce la possibilità di uscire dalla disperazione e dall’angoscia tramite preghiera. Ma si richiede un salto decisivo: il Cristianesimo consiste appunto in TIMORE e TREMORE, le categorie del salto e del paradosso. “Cristo è il segno di questo paradosso: è colui che soffre e muore come uomo, mentre parla e agisce come Dio; è colui che è e si deve riconoscere come Dio, mentre soffre e muore come un misero uomo. L’uomo è posto di fronte al bivio: credere o non credere. da un lato è lui che deve scegliere, dall’altro ogni sua iniziativa è esclusa perché Dio è tutto e da lui deriva anche la fede: la vita religiosa è nelle maglie di questa contraddizione inesplicabile. Ma questa contraddizione è quella stessa dell’esistenza umana.” (N. Abbagnano)

Atteggiamenti esistenziali.
A tali conclusioni Kierkegaard perviene dopo aver finemente analizzato tre atteggiamenti diversi che l’uomo, nella sua esistenza, può assumere nei confronti della vita: estetico, etico, religioso. Atteggiamenti reciprocamente irriducibili, contrassegnati dal “salto”. Irriducibilità non significa che non possano coesistere nell’esperienza vitale del singolo: significa semplicemente che sono inconciliabili, contradditori, reciprocamente escludentisi. Ma tale appunto è l’esistenza umana.

Lo stadio della vita estetica in Aut – Aut. Edonismo. Dimensione del presente.
Tale stadio è caratterizzato dalla dimensione del presente, dal lasciarsi vivere attimo per attimo, senza farsi condizionare né dal passato né dal presente né dal futuro, sfuggendo ogni scelta, disperdendo la propria esperienza nel molteplice, senza uno scopo, un programma, senza legarsi a nulla. Vita tipica dell’esteta, del seduttore, impersonato dalle figure di Don Giovanni, Faust, Johannes.
A Don Giovanni non interessa la donna in quanto specifico individuo, non ama romanticamente un essere unico al mondo; don Giovanni ama la femminilità in generale. La vita dell’esteta non ha storia: “Tutto per lui è solo questione del momento…” ma è inevitabile che il momento sia vissuto in modo sempre più sbiadito. Perciò per Don Giovanni è indispensabile mutare continuamente le occasioni di godimento, senza rimorsi o rimpianti. La soddisfazione dell’esteta dipende dal fatto che non aspira a nulla di diverso da ciò che gli offre il presente: godi la vita e vivi il tuo desiderio. Ma occorre una straordinaria potenza fantastica per saper ballare il valzer dell’istante. Immediatezza, esteriorità, istante, esperienza sempre nuova, irripetibile, eccezionale, disdegno per l’esperienza banale e il volgare calcolo. Ma l’eccezionalità del godimento diventa sempre più difficile da conseguire, la qualità dell’appagamento scade in ripetizione. Egli non sceglie automaticamente, poiché lascia che le circostanze scelgano lui; non sceglie liberamente perché lascia al caso la scelta della sua vita. E alla fine sopravviene l’indifferenza di tutto. La noia accompagna ogni piacere. La disperazione è il punto di arrivo di chi vive nella dimensione estetica. Disperazione per la vanità del tutto, per la mancanza di senso, per il bisogno di vita autentica, bisogno di scegliere se stessi e non l’apparenza molteplice. E’ la disperazione di Don Giovanni che pur avendo posseduto infinite donne sente di non averne avuta realmente nessuna. La dimensione estetica consiste appunto nel rifiutare o rimandare la scelta, nella non-scelta, nell’abbandonarsi alla corrente, nel lasciare agli altri tale incombenza: “gli altri hanno scelto per lui, perché lui ha perduto se stesso”. Ne deriva che “ogni concezione estetica della vita è [infine, consciamente o inconsciamente] disperazione”.
Faust seduce una sola donna, Margherita, che lo attrae per la sua purezza e innocenza, e sulla quale vuole esercitare un dominio assoluto grazie alla sua superiorità intellettuale.
Johannes, infine, il protagonista del Diario di un seduttore, è la vera e propria figura dell’esteta, neppure interessato al possesso effettivo della donna, quanto al gioco di vederla soccombere alle sue trame. Mentre a Don Giovanni interessa solo il possesso, a Johannes interessa solo far sì che Cordelia si innamori di lui. Ma il piacere dell’esteta è precario: subentra la noia, cui fa seguito la disperazione. Il saggio assessore Wilhelm gli pone davanti il suo destino: ”la stessa cosa si ripeterà all’infinito… la tua vita si disfa in una serie incoerente di episodi senza che tu possa spiegarla… non sai che giungerà l’ora della mezzanotte in cui ognuno dovrà smascherarsi? Credi che si possa sempre scherzare con la vita? Credi che si possa di nascosto sgattaiolare via un po’ prima della mezzanotte per sfuggirla?”.

Stadio della vita etica. Dovere (Aut – Aut). Il passato, l’abitudine.
Con il salto nella dimensione etica (la figura dell’assessore Wilhelm) l’uomo sceglie non la varietà delle cose intorno a lui, ma se stesso, la trasparenza, la continuità, dominata dalla fedeltà al passato (ripetitività). Sceglie il suo ruolo, si impegna nella e per la società col lavoro, formandosi una famiglia, stabilendo delle relazioni stabili di amicizia e mantenendo fede a questo impegno, in cui “l’individuo ha in se stesso il suo fine”, “sceglie se stesso”.
Figura tipica di questo stadio è quella del marito. Kierkegaard in Aut – Aut ritiene cora possibile e valida questa prospettiva. Ma nelle opere successive analizza lo smacco cui il singolo va incontro anche nella dimensione etica, lo smacco del pentimento che accompagna anche l’esistenza fondata sui valori etici: chi non intende sfuggire alle proprie responsabilità matura una duplice insoddisfazione derivante 1)dalla costante subordinazione ad una norma generale, che mette a repentaglio l’autonomia del singolo; 2)dal senso di inadeguatezza nei confronti del proprio compito. Ma pentirsi vuol dire sentire il proprio limite, negare valore alla propria personalità, denunciarne l’insufficienza. Neppure la dimensione etica della vita sfugge all’angoscia: la ripetizione (amare la stessa donna, svolgere la stessa professione, riconfermare il passato), il dovere di conformarsi alla legge morale, minacciano costantemente l’autonomia dell’individuo, la sua singolarità, che rischia di dissolversi nell’universalità e nell’anonimato.

Stadio della vita religiosa. (Timore e tremore). Disperazione, fede e speranza.
Il Cristianesimo non è religione consolatoria: è paradosso e scandalo. Il paradosso del Dio che si fa uomo può essere solo testimoniato, non compreso dalla filosofia. E’ un atto di fede incommensurabile alla ragione. Lo scandalo della fede è nella sua irriducibilità alla legge morale. La fede è al di là di ogni ragione: non chiede né da spiegazioni: crede nonostante tutto. Se l’esistenza è precarietà, contraddizione,angoscia e disperazione, la fede è rovesciamento dell’esistenza nell’immutabile; speranza, per quanto assurda, di colmare la distanza tra uomo e Dio, tra finito e infinito. La fede di Kierkegaard è ben diversa dalla “scommessa pascaliana” in cui, scegliendo Dio, c’è tutto da guadagnare e ben poco da perdere. il prezzo della fede è il mondo, la famiglia, forse la vita.
In un mondo dove tutto è possibile, Dio potrebbe anche non sceglierlo, Dio potrebbe non esistere. Dunque la scelta più rischiosa dell’esistenza è il “salto morale” oltre la ragione, decisivo nell’esperienza religiosa, dove l’individuo si trova a tu per tu con Dio nel proprio isolamento, e col senso del proprio peccato. “Vi sono molte qualità di amore… Ma appena amo liberamente, e amo Dio, non posso far altro che pentirmi”. Il rapporto con Dio non può essere che pentimento (disgusto di sé), poiché l’uomo non può esistere se non peccando: “amar Dio odiando se stesso, e quindi odiando gli altri uomini, anche il padre, la madre, la moglie e il figlio.”; l’uomo esiste solo con un atto di ribellione a Dio: la trasgressione al divieto di non mangiare all’albero della scienza del bene e del male col peccato originale, gli hanno fatto perdere l’innocenza, in cui pure Adamo era stretto dall’angoscia non del peccato, ma del nulla. Nello stadio religioso l’uomo sperimenta l’angoscia nella forma più lacerante: fede contro legge morale. La forma più radicale di Aut – Aut. Dio comanda ad Abramo vissuto nel rispetto della legge morale di sacrificare Isacco e di contravvenire scandalosamente alla legge, senza garanzia alcuna di non ingannarsi scegliendo la fede e non la morale. (il comando divino poteva anche voler mettere alla prova il buon senso di Abramo, poteva provenire dal Maligno sotto mentite spoglie, ecc.). Abramo è solo, nel silenzio, a differenza dell’eroe tragico Agamennone che pure sacrifica Ifigenia, ma col consenso e il cordoglio di tutti i greci. La fede gli impone un atteggiamento di rottura nei confronti del mondo umano e dei suoi valori.
Aut – Aut, possibilità di scelta, libertà come infinita indeterminazione, apertura a tutte le possibilità, anche alla possibilità della salvezza. Il salto nella fede non fornisce alcuna certezza duratura: nulla garantisce che l’abbandono della legge sia premiato. Nessun saldo criterio distingue la fede dalla follia. L’uomo afferma se stesso contro il conformismo della legge, ponendosi solo di fronte a Dio, e nello stesso tempo annullandosi in Dio. La fede è scandalo e paradosso. Timore e tremore. Mentre nella vita etica l’uomo sceglie se stesso, “l’oggetto della fede è la realtà di un Altro”, l’uomo sceglie la trascendenza, l’infinito.

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