L'aborto

Materie:Tesina
Categoria:Filosofia

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Testo

1. L’aborto dall’antichità al Settecento

Fino a metà del Settecento, la gravidanza era un momentaneo mutamento nel corpo femminile, era un evento che riguardava un solo soggetto, la donna. Per questo essa era stata per molti secoli identificata con la procreazione e solo grazie ad essa l’esistenza femminile trovava senso e giustificazione.
Il feto, prima d’essere messo al mondo, viene considerato una parte della donna o meglio delle sue viscere.Tale opinione fu condivisa per lunghissimo tempo da filosofi, teologi e legislatori, sebbene non si basassero su alcuna teoria scientifica e sebbene medici illustri dell’antichità come Ippocrate e Asclepiade fossero d’avviso contrario. Così, nel caso in cui si fosse dovuto scegliere tra la gestante e il concepito, mai si sarebbe messa sullo stesso piano la vita della donna con quella del feto, giacché per secoli fu inammissibile la comparazione tra un essere formato e uno non ancora considerato tale.
La donna era ritenuta solo un campo da seminare, ed era considerata l’unica responsabile in caso di sterilità della coppia. Questa però aveva pieno controllo in tutto ciò che riguardava la gravidanza: erano solo le donne ad impartire consigli, istruzioni e accorgimenti alle gestanti e alla sua creatura, erano loro che aiutavano a partorire ed abortire, con i saperi oralmente tramandati di donna in donna e strettamente legati alle conoscenze interfamigliari della vita quotidiana. L’aborto era spesso procurato dalla levatrice, a volte dalla donna stessa, molto raramente dai medici che, in quanto seguaci di Ippocrate, erano generalmente contrari all’aborto.
Poiché l’accorgersi di essere in cinta era incontestabilmente questione femminile, una donna che non avesse dato notizia della propria gravidanza, non poteva essere accusata di aver abortito giacché non v’era modo di provare l’avvenuto concepimento. Fino alla seconda metà del Settecento era sempre stato dato per scontato che la decisione di interrompere la gravidanza fosse di esclusiva pertinenza femminile, dal momento che ambiente sociale e istituzioni si disinteressavano di quanto avveniva tra il concepimento e il parto. Ciò non significa però che il frutto della nascita fosse socialmente economicamente e politicamente irrilevante; da sempre il bambino venuto alla luce diventa rilevante per il padre e per la comunità.
L’interruzione di quel processo naturale interno alla donna per lo più rimaneva una questione privata che si verificava in situazioni di povertà, come conseguenza indesiderata della prostituzione, dello stupro o risultato del tentativo di salvare la vita della madre, o laddove fosse praticata per violare interessi economici o come vendetta per privare il marito di una discendenza.
È stato sostenuto che l’aborto venisse usato come metodo di controllo delle nascite, accanto al coitus interruptus, all’infanticidio e all’abbandono di neonati, senza contare sia i frequenti aborti spontanei che gli interventi praticati per “normalizzare” le mestruazioni…..
Mentre per noi oggi intervenire sull’andamento della gestazione a concepimento avvenuto è un qualcosa di definibile in termini “interruttivi”, in passato si parlava di aborto solo da quando la massa informe nel grembo materno fosse divenuta un feto, dal momento che le perdite di sangue erano considerate semplici flussioni.
Il silenzio delle fonti storiche in un tema è un importante indice indiretto di come il tutto fosse, di fatto e culturalmente, di ambito femminile. Quel poco che sappiamo a partire dall’età tardo-antica e per buona parte del medioevo emerge da quanto scritto e raccolto da chierici e confessori anche se spesso in modo succinto e impreciso. Alcuni testi latini come La storia naturale di Plinio il Vecchio, erano ricchi di notizie su piante officinali e se molte indicazioni sono espressione di superstizioni, ve ne sono altre che hanno invece reale effetto farmacologico (cantano nel 1993 i Nirvana , dove pennyroyal è un abortivo già conosciuto nell’antica Grecia). Le donne avevano famigliarità con erbe e droghe, come emerge dai miti di Medea e di Andromaca. In particolare quest’ultima, come racconta Euripide, divenuta dopo la caduta di Troia schiava e concubina di Neottolemo figlio di Achille, deve difendersi dall’accusa di il ventre della moglie legittima.

2. L’aborto nel mondo greco

La pratica dell’aborto qui era largamente diffusa in tutte le classi sociali, moralmente accettata e giuridicamente lecita. Al fondo l’idea che il feto fosse semplicemente una parte del corpo materno, e la convinzione che esso si animasse solo al momento della nascita, dove per animazione s’intende l’unione tra anima e corpo. Gli stoici non erano favorevoli alle pratiche abortive, poiché ritenevano che la vita andasse vissuta seguendo l’andamento della natura: interrompere una gravidanza significava non rispettare un processo spontaneo ormai in sito. Le critiche contro questa pratica non furono però mai rilevanti, non vi erano leggi punitive ed il solo limite effettivo era connesso alla tutela dell’interesse maschile, giacché il ricorso alla pratica poteva ostacolare l’aspettativa dell’uomo (padre, marito o padrone) interessato alla discendenza.
Artefici principali dell’aborto erano le levatrici o le stesse gestanti. Quanto ai mezzi si menzionavano farmaci, accompagnati da cantilene magiche, violenti esercizi fisici e strumenti meccanici. Tutte queste modalità presentavano rischi notevoli e finanche mortali per la donna, rischi di cui erano ben consapevoli.
Un riferimento all’aborto è presente anche nella Politica di Aristotele. Egli sostiene che 1. Il passaggio introduce però una distinzione molto importante perché si afferma che il ricorso ad esso, deve avvenire 2. La distinzione tra aborto lecito e illecito viene condizionata dunque dal momento in cui esso viene praticato. E tale momento, come risulta da altre opere aristoteliche e come già in Ippocrate, varia in base al sesso del nascituro poiché s’ipotizza un più rapido sviluppo del feto maschio (40 giorni, contro gli 80 necessari a quello femminile). Di due secoli dopo è una breve iscrizione di Delo, in cui tra le impurità si cita espressamente quella che segue l’aborto. Per essa si prevede un lungo periodo di quarantena, laddove per il parto sono sufficienti sette giorni. Ancor più duro e netto è il pressoché coevo regolamento del santuario di Dioniso a Filadelfia di Lidia, che sancisce il divieto d’accesso a coloro che abbiano fatto ricorso ad aborto e metodi contraccettivi. Nel II secolo d.c. Sorano di Efeso introduce la nozione di aborto terapeutico, praticato cioè nel caso in cui la gestazione metta in pericolo la vita della madre.

3. L’aborto nel mondo romano

Il primo cenno indiretto all’aborto si trova nella legge delle XII tavole (V secolo a.c.) secondo cui la madre poteva essere ripudiata dal marito per sottrazione di prole.
Anche se mancano testimonianze sufficientemente sicure, è certo che lo stoicismo, alquanto diffuso a Roma nella prima metà del I secolo a.c., influenzò la giurisprudenza romana, introducendo l’idea della non autonomia del feto rispetto al corpo della madre. Per il filosofo Epitteto (I secolo) ad esempio . Interessante è la posizione del maestro di Epitteto, Musonio Rufo, che non riteneva l’aborto un atto rivolto contro il feto, ma lo condannava in quanto detrimento del bene comune, grave atto di empietà, offesa agli dei e al matrimonio, alla famiglia e alla natura, tanto da dichiararsi favorevole alle leggi contro l’aborto.
A Roma dunque l’aborto non fu considerato reato fino al periodo classico: il feto era giuridicamente mulieris portio vel viscerum (ossia veniva considerato parte del corpo o delle viscere della madre). La decisione di abortire però era in realtà di pertinenza femminile solo per le donne non sottoposte a potestà come le prostitute. Per le altre, non solo la pratica era causa di separazione matrimoniale, ma nel caso in cui la donna incinta fosse condannata alla pena capitale l’esecuzione era rimandata a dopo il parto.
L’argomento assunse una valenza morale negli scritti di Ovidio. Ferma e inequivocabile è la condanna per quelle donne che per le semplici preoccupazioni estetiche attentavano alla loro vita uccidendo con ferri o potenti veleni le creature che portavano, pur consce dei rischi che correvano e della riprovazione sociale.
Durissimo è anche il giudizio di Plinio il Vecchio: l’aborto è una devianza tipicamente femminile, elementi come questi rendono il genere umano inferiore alle belve. Pungente Giovenale: 3.
La prima sanzione esplicita del mondo romano fu un rescritto (databile tra il 193 e il 217) con cui vennero introdotte due sanzioni penali contro questa pratica: esilio temporaneo a carico delle divorziate o delle sposate che si fossero procurate l’aborto contro il volere del coniuge; lavori forzati in miniera e relegazione in un isola con per chi avesse somministrato infusi o filtri amorosi. Addirittura era prevista la pena capitale in caso di morte della donna. L’aborto venne classificato tra i crimina extraordinaria, puniti discrezionalmente al di fuori del sistema formulato e senza sanzioni prefissate.

4. L’aborto nel mondo ebraico

Il contrasto si sviluppa tra un mondo che vede nel feto solo un’appendice della madre con un altro, secondo cui l’embrione va inserito in un processo di vita voluto e messo in moto da Dio e ,perciò, da non interrompere. Diversamente da quanto avveniva in ambito greco e romano, infatti, aborto e infanticidio non erano accettati nel mondo ebraico.
L’ebraismo, permeato dal desiderio di popolare la terra per difendere la propria sopravvivenza e la presenza divina, considerava la fecondità una benedizione del signore, come rivela chiaramente la Scrittura sacra, ricca di passi in cui Dio promette una discendenza numerosa come segno della sua benevolenza. Fondamentale, in ogni caso, era il rispetto per la santità della vita in quanto creata da Dio, e radicato un profondo orrore per il sangue e per il suo spargimento.
Secondo la tradizione ebraica la vita inizia prima del concepimento perché, traendo origine dal momento della creazione, si snoda lungo scansioni successive: attraverso il rapporto sessuale tra l’uomo e la donna e poi, attraverso il concepimento, si passa alla fase dell’embrione. Non mancano, infatti, riferimenti ad una chiamata alla vita che comincia prima della nascita: >4. Una vita allo stadio embrionale non è però assolutamente comparabile con quella di un essere umano già nato, giacché l’embrione/feto viene considerato alla stregua di una persona solo dopo che è venuto alla luce. Prima della nascita è invece visto come una parte delle membra della donna Sul piano legale (come nel mondo romano) il feto non ha personalità giuridica propria, né alcuna rilevanza autonoma.
Né la Scrittura né l’halakah (la tradizione giuridica) considerano il feto un essere vivente, con la conseguenza che l’aborto -seppur immorale e illecito- viene nettamente distinto dall’omicidio. Né è punibile come assassinio in quanto solo con il parto il concepito diviene persona. Si tratta di un primo, importante elemento di differenza con il cristianesimo. Se l’embrione non è collocabile sullo stesso piano della persona nata, interrompere la gravidanza non solo è lecito, ma addirittura doveroso quando sia in pericolo la salute o la vita della madre.
Quando nel III secolo a.c., probabilmente ad Alessandria, la Torah fu tradotta in greco, la cultura ebraica ne fu influenzata in quanto la parola ebraica ason venne resa non più con il significato di disgrazia, bensì con quello di formato. Venne introdotta dunque la distinzione tra feto formato e non, e questo implicò che il feto formato fosse un essere vivente: l’aborto dunque diveniva omicidio.
Nell’aprile 1977 l’Assemblea dei rabbini d’Italia sancì che nella legislazione ebraica l’aborto, pur essendo atto illecito, non fosse punibile alla stregua dell’omicidio. Nonostante questo però, l’atto abortivo poteva giustificarsi solamente qualora il feto rappresentasse un pericolo per la vita della madre. Ogni altra situazione (malformazioni, violenza, incesto, problemi psichici della madre) avrebbero costituito sempre un caso specifico da sottoporre all’esame di una competente autorità rabbinica. Inoltre, sebbene la legge ebraica consideri con attenzione i fattori sociali ed economici del singolo caso, questi da soli non sono in genere considerati sufficienti per consentire l’interruzione della gravidanza. Un importante elemento di decisione è comunque fornito dallo stadio di gestazione: nelle fasi iniziali il favore verso il ricorso all’aborto è maggiore.

5. L’aborto nel mondo cristiano

Come l’ebraismo, anche il nascente cristianesimo condanna l’aborto, in quanto non conforme ai suoi principi di rispetto per la vita e di amore verso il prossimo. Mentre le novità dell’ebraismo era stata quella di un Dio che raccomanda la fecondità al suo popolo, il cristianesimo considera il problema da una prospettiva completamente diversa. Per la prima volta, laddove la preoccupazione della tradizione classica riguardava gli interessi del padre, dello stato, occasionalmente della donna, nel cristianesimo ci si occupa del feto, parificando l’aborto all’omicidio.
Il documento più antico cristiano che condanna l’aborto è la Dottrina dei dodici apostoli (o Didaché), il primo ordinamento delle comunità cristiane primitive a noi noto, databile intorno all’anno 100 e strutturato intorno allo schema delle due vie, della vita e della morte. Se nella prima ci si limita a proibire la pratica, nell’altra emerge la motivazione del divieto: l’aborto è un peccato contro Dio perché viene distrutta una sua creatura. >5 si legge, coloro che lo praticano sono considerati assassini delle . Quest’impostazione viene poi seguita dalla Lettera di Barnaba che aggiunge la violazione dell’amore per il prossimo. 6. Il feto dunque è visto come il prossimo.
Tertulliano considererà il feto un essere umano, sia pure dipendente dalla madre, dove la dipendenza non significa (come nel pensiero pagano o per la legge romana) che il feto ne sia una mera appendice: l’embrione prima e il feto poi, già esistono a livello di entità agli occhi di Dio. Se per i romani il feto è solo speranza di una vita e non può considerarsi uomo, gli scrittori cristiani sostengono invece che sia un entità autonoma, tanto che non si estende al feto il battesimo impartito alla madre. scriverà Agostino, 7.
Nel primo periodo i cristiani non separavano l’aborto dalla violenza in generale, paragonandolo costantemente ad altre forme di spargimento di sangue come la guerra, in applicazione del concetto biblico .
Dopo l’età costantiniana, con l’affermarsi della nozione di guerra giusta, il parallelo tra partecipazione bellica e aborto fu abbandonato. L’aborto è inoltre considerato omicidio con due aggravanti: uccide la vittima prima del battesimo (precludendole la vita eterna) e chiama in causa anche il suicidio, in quanto spesso le donne muoiono per tali iniziative.
Il principio che resta immutato nel tempo è dunque che il feto, essere indifeso, vada protetto da quanti intendano sopprimerlo, e che la sua soppressione debba essere parificata ad un omicidio. >, scrive Tertulliano, 8. L’apologeta non dimentica però l’eventualità del rischio per la vita della madre, e considera l’ipotesi del feto messosi , per cui il parto diverrebbe possibile solo sacrificandola. Ebbene, definito il feto matricida, Tertulliano sostiene che in questi casi l’embriotomia è una necessaria crudelitas.
Un nuovo passaggio nella storia dell’atteggiamento cristiano si ebbe con Agostino, quando cominciò a prevalere l’idea dell’animazione ritardata, secondo cui l’infusione dell’anima nel corpo avverrebbe in un momento successivo al concepimento. Fu del resto in questo periodo che la riflessione teologica stabilì che non tutte le uccisioni dovessero ritenersi colpe, difesa personale, guerra e punizione dei crimini erano riconosciute come eccezioni e i loro artefici non si potevano classificare automaticamente come colpevoli. Per quanto in Agostino fosse forte la condanna per ogni forma di aborto, egli esita però a bollare come omicidio quello ai danni di un feto inanimato: 9. La questione del momento dell’infusione accompagnerà per secoli il dibattito ecclesiastico. Poiché l’esistenza dell’essere umano dipende dal binomio anima e corpo, occorre stabilire da quando il feto abbia l’anima per qualificare il peccato di aborto. Prima che il feto sia animato, infatti, la sua soppressione è condannata in quanto s’interrompe il processo messo in moto da Dio, ma non è equiparabile all’omicidio, giacché la vittima non è ancora un essere umano. Durante l’età patristica i più sostennero l’animazione immediata, mentre la teoria dell’animazione ritardata prevalse successivamente.
L’aborto comincia ad essere oggetto di decisioni conciliari (canoni) solo verso l’inizio del IV secolo. Tra i concili, grande eco ebbero i canoni di Elvira e, soprattutto, di Ancira. Il concilio plenario di Elvira (300-303 circa), esaminò con particolare attenzione le questioni di carattere disciplinare e fu il primo a dettare norme in materia. Il canone 63 e il 64 che, pur non usando testualmente il termine aborto, intervengono in merito in modo indiretto: la donna battezzata che era esclusa per sempre dalla comunità cristiana, mentre alla catecumena era permesso il battesimo solo in punto di morte. Il rigore di questa disciplina, tra le più dure di tutta la storia della Chiesa in materia d’aborto, sembra spiegabile alla luce del fatto che la donna si rendeva colpevole di due peccati che la Chiesa antica considerava capitali, l’omicidio e l’adulterio. Ad Ancira viene temperata la severità della disciplina di Elvira, e si previde una scomunica di dieci anni con pubbliche penitenze. Il concilio di Lerida (546), sebbene imponesse di piangere il misfatto per tutta la vita, stabiliva che chi avesse eliminato figli adulterini con infanticidio o aborto venisse riammesso nella comunione dei fedeli dopo sette anni. Il concilio Trullano (692) assimila l’aborto all’uccisione volontaria di un adulto. I canoni irlandesi intorno al 675 sembrano chiaramente rifarsi alla tradizione aristotelica nell’affermare che 10, anche se dopo i 40 giorni, quando ormai l’aborto è omicidio, la pena non sarà la stessa di quella comminata per l’omicidio premeditato. Un altro penitenziale irlandese intorno all’anno 800 distingueva con maggior precisione tre fasi: il periodo iniziale, quello della formazione della carne e infine quello dell’infusione dell’anima.
Solo dopo il 1100 comincia la formazione della legge canonica poiché si avvertiva in maniera sempre più pressante in Occidente la necessità di una disciplina uniforme e ordinata. In questo quadro si colloca l’opera del monaco Graziano, che tentò di codificare i numerosi canoni precedenti, spesso discordanti fra loro, in un testo unitario (non a caso intitolato Concordantia discordantium canonum).
Per quanto riguarda la contraccezione, anch’essa condannata dalla Chiesa, mentre l’esplicita condanna dell’aborto risale, come si è visto, all’inizio del II secolo con la Didaché, il primo riferimento alla contraccezione si trova poco più tardi nella Tradizione apostolica attribuita ad Ippolito. La contraccezione era ritenuta violazione della sanità delle nozze, mentre la condanna dell’aborto derivava dal concetto cristiano della santità della vita umana e rientrava nella condanna della violenza. Coloro che consideravano omicidio l’aborto solo dopo la formazione del feto, accostavano le pratiche contraccettive agli interventi nei primi mesi di gravidanza. Infatti, intorno al mille i cristiani erano chiamati ad avere rapporti solo all’interno del matrimonio e al solo scopo di procreare.
Dopo il ‘200 le pene ecclesiastiche si vanno arricchendo. Ad esempio, il concilio Insulano della fine del XIII secolo non prevede solo la scomunica, ma parla di sanzioni terrene. D’altro canto però, molti canonisti indagano con sempre maggiore precisione il rapporto tra il fatto oggettivo che viene compiuto e la motivazione individuale che spinge il singolo a compiere l’azione. Il diritto canonico era attento alla rei veritas, molto più di quanto non facesse il diritto civile.
Interessante è accennare brevemente alle legislazioni di alcuni regni barbarici. La legge salica del V secolo, una delle prime raccolte barbariche a carattere prevalentemente penale emanata sotto il re merovingio Guntram (567-593), segna il passaggio dalla vendetta diretta alla composizione pecuniaria. Nella sezione dedicata ai maleficia v’è un passaggio probabilmente contro la contraccezione: verrà giudicata colpevole e multata la donna che commette un maleficium che le impedisca di avere figli. Nel regno dei Visigoti il codice del re Leovigildo alla fine del VI secolo (569-586) puniva l’aborto con la pena di morte per chi avesse elargito la pozione velenosa. Quanto alla donna, se costei era schiava le andavano inflitti duecento colpi di flagello, se era libera doveva essere ridotta in schiavitù. I codici germanici del primo Medioevo proteggevano il feto, e lo facevano molto più di quanto non avessero fatto le legislazioni precedenti. Una legge alemanna (600 circa) prescriveva che 11. In questo caso, il riferimento al sesso fornisce una precisa indicazione della fase di maturazione del feto, anche se si conferma il minore valore del feto femminile. Le leggi bavare e ostrogote consideravano aspetti più legati al controllo delle nascite. Secondo la legge bavara (VII secolo)

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