Karl Marx

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Testo

KARL MARX
K. Marx nasce a Treviri il 15 maggio 1818. Studia all’università di Bonn e a quella di Berlino, prima Giurisprudenza e poi Filosofia. Si laurea in filosofia a Berlino nel 1841 con una tesi dal titolo: “Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro”. Poco dopo diventa capo/redattore della “Gazzetta Renana” (organo dei radicali borghesi della Renania). A Parigi nel 1844 entra in contatto con Proudhon (socialista che verrà criticato), Bakunin (anarchico), Engels (piccolo industriale, il quale gli sarà amico e collaboratore per tutta la vita). Tra il ’44 e il ’45 matura il suo distacco dalla sinistra hegeliana di cui faceva parte egli stesso (contro la quale scrive una delle sue opere fondamentali: “L’ideologia tedesca”). Dal ’44 al ’48 vive in Belgio a Bruxelles. Dal 1849 fino alla morte vive in Inghilterra a Londra, dove fonda nel 1864 la Prima Internazionale (Associazione internazionale dei lavoratori), sciolta nel 1872. Muore il 14 marzo 1883. Le influenze culturali che stanno alla base del pensiero marxiano sono essenzialmente tre: la filosofia classica tedesca da Hegel a Feuerbach; l’economia politica borghese da Smith (fondatore del liberismo economico) a Ricardo; il pensiero socialista (primo pensiero come dottrina) da Saint-Simon ad Owen (socialisti utopisti). Queste tre esperienze intellettuali vengono ripensate da Marx alla luce di una sintesi creativa che, pur muovendo da esse, procede criticamente oltre i loro risultati. Marx critica tutti e tre ma ne è influenzato.
LA CRITICA AD HEGEL
Critica alla filosofia del diritto di Hegel.
È innegabile che l’hegelismo abbia esercitato su Marx, per affinità o per opposizione, un notevole influsso. Anche quando M. si allontanerà maggiormente da Hegel, qualcosa dell’antico maestro resterà sempre. Il primo testo in cui M. si misura col maestro è la “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico” (1843), uno scritto filosofico-politico che noi divideremo in due momenti: uno filosofico-metodico e uno storico-politico.
1) Il primo momento colpisce al cuore il metodo di Hegel, cioè il suo modo di filosofare, ovverola dialettica, ma Marx critica il modo in cui Hegel porta avanti la dialettica. Secondo M. lo “stratagemma” di Hegel consiste nel fare delle realtà empiriche le manifestazioni necessarie dello Spirito. Hegel parla di una condizione di fatto dicendo che in quanto è stato incarna lo Spirito. Marx dice che in questo modo Hegel trasforma realtà empiriche come se fossero necessarie, cioè non potrebbero non essere. Ciò significa che invece di limitarsi a CONSTATARE il darsi di determinate istituzioni politiche nella storia, Hegel le fa diventare un momento necessario e razionale deducendone la piena “logicità”: fa diventare verità filosofica quelli che sono puri fatti storici ed empirici, cioè tutto viene a compimento, così anche lo Stato è, al suo tempo, compimento della storia. Marx definisce questo procedimento MISTICISMO LOGICO (condizione in cui ci si allontana dalla realtà materiale per arrivare a Dio → non si riconosce più il mondo), poiché in virtù di esso le istituzioni, anziché comparire per ciò che DI FATTO sono, finiscono per essere personificazioni di una realtà spirituale (ad es. Hegel spaccia ciò che è, lo stato Prussiano, come l’essenza (compimento assoluto dello Stato) dello Stato). M. conclude con Feuerbach, che questo è il risultato del capovolgimento idealistico tra soggetto e predicato, concreto ed astratto. Mentre l’uomo comune pensa che prima esistano le mele, le pere, le fragole e le mandorle REALI e poi il CONCETTO di frutto, il pensatore idealista (quello affetto da misticismo logico) ritiene che prima esista “il frutto” e poi, in seguito, come sue manifestazioni necessarie e derivate, la mela, la pera, ecc.; capovolgendo così l’ordine reale delle cose. L’idealismo fa dunque del concreto la manifestazione dell’astratto: Hegel dopo essersi costruito il concetto astratto di Spirito (quello di Hegel è l’essenza del divenire storico) partendo DALLA realtà, finisce per fare DELLA realtà la manifestazione dello Spirito. Al metodo “mistico” di Hegel, M. oppone il metodo TRASFORMATIVO (stessa trasformazione di Feuerbach), che consiste nel ri-capovolgere (cioè nel capovolgimento concreto e astratto) ciò che l’idealismo ha capovolto: nel riconoscere ciò che è veramente soggetto e veramente predicato. Ma oltre che essere fallace sul piano filosofico, il metodo di Hegel è anche CONSERVATORE sul piano politico, poiché porta a “santificare” la realtà esistente, la concepisci come qualcosa di intoccabile, a “razionalizzare” (perché nella realtà c’è una razionalità immanente) i dati di fatto e conducendo all’accettazione delle istituzioni statali vigenti, devi accettare l’assoluto perché non è criticabile; ma lo Stato del tuo tempo è qualcosa di reale, è una realtà esistente. Marx è d’accordo sul fatto che la realtà diviene attraverso opposizioni. Marx riconosce ad Hegel il merito di avere introdotto la concezione DIALETTICA della realtà come totalità storico-processuale costituita di elementi concatenati fra di loro e mossa da OPPOSIZIONI, ma lo accusa di considerare queste ultime come opposizioni CONCETTUALI e non REALI (concrete; quello che è nella storia sono opposizioni reali tra uomini o classi sociali), cercando troppo facilmente una mediazione e una sintesi (non sempre esiste nella realtà) tra gli opposti.
2) Il momento storico-politico [teniamo qui conto anche degli “Annali franco-tedeschi” del ‘44]. D’accordo con Hegel, M. ritiene che la categoria fondamentale del moderno sia quella della SCISSIONE, che si manifesta soprattutto nella frattura tra SOCIETÀ CIVILE (interessi privati in Hegel) e STATO (collettività in Hegel). Mentre nella POLIS greca l’individuo si trovava in un’unità sostanziale con la comunità di cui faceva parte, si identificava con la polis, l’individuo fa della polis il prolungamento della sua individualità, nel mondo moderno di Marx l’uomo è costretto a vivere come due vite: una “in terra” (interessi privati) come “borghese”, cioè nell’ambito dell’egoismo e degli interessi particolari della società civile, e l’altra “in cielo” come “cittadino”, ovvero nella sfera superiore dello stato e dell’interesse comune. “In terra” e “in cielo” fa riferimento a come si percepisce il cristiano, come percepisce la sua vita. Marx traduce questa espressione in ambito politico. Il cristiano non si preoccupa delle diversità e ingiustizie sulla terra, perché poi ci sarà una vita migliore in cielo, vive nell’illusione. L’uomo politico fa più o meno lo stesso perché vive una doppia vita; sa che la società è formata da interessi privati e lo Stato farà prevalere quelli collettivi. Per Marx non è così perché il cielo è una illusione, ma viene legittimato il privato attraverso lo Stato. Tuttavia il cielo dello Stato, secondo M., è puramente illusorio, poiché la sua pretesa di porsi come organo che persegue l’interesse comune, è falsa: anziché essere lo Stato che “imbriglia” (vincola) la società civile incalzandola al bene comune, è piuttosto la società civile che imbriglia lo Stato (strumento che le classi più orti hanno per legittimare i propri interessi) abbassandolo a semplice strumento degli interessi particolari delle classi più forti. Insomma: la società moderna è la società della particolarità reale e dell’universalità illusoria. Come i cristiani, pur essendo tutti diseguali in terra, si consolano di essere tutti eguali in cielo, così gli individui dell’epoca borghese, pur essendo tutti diseguali nella società civile, si consolano di essere tutti eguali di fronte allo Stato che è un’illusione. Secondo M. la falsa universalità dello stato deriva dunque dal tipo di società che si è formata nel mondo moderno, caratterizzata dall’individualismo e dall’atomismo (separazione del singolo dal tessuto comunitario).
Marx riconosce i processi dialettici analizzando il divenire degli elementi perché è hegeliano → Marx non contrappone essere a dover essere. Non esiste aspettativa, prospettiva futura, ma opposizione dialettica, necessità dialettica. Questa è la differenza tra socialismo scientifico (di Marx) e socialismo utopistico. In Marx non c’è nessuna teoria politica che definisce Stato, parlamenti, poteri, partiti, ecc. perché la sua non è prospettiva politica, ma indagine scientifica del suo tempo (capitalismo). Non serve a niente criticare il presente, ma bisogna studiarlo e superarlo. Questo accade se ci sono condizioni dialettiche, non serve a niente lamentarsi perché non è questo che porta al superamento; non ha senso aspettarsi dei cambiamenti perché lo Stato segua telos immanenti. La prosa di Marx è analitico-scientifica. Secondo Marx c’è un problema nell’economia che gli economisti non tengono conto: i fatti sono problemi (Marx), mentre gli economisti sostengono che ci sono fatti e non problemi. Non deve essere così perché è necessario che sia così: questo è il problema.
I “MANOSCRITTTI” DEL ’44 E IL CONCETTO DI ALIENAZIONE
Marx studia la società del suo tempo. Nei “Manoscritti economico-filosofici”, scritti a Parigi nel 1844, M. affronta per la prima volta l’economia politica, la quale ci fornisce una fondamentale anatomia (primo elemento che distingue il socialismo scientifico da quello utopistico) della società civile. Gli economisti classici (soprattutto Smith e Ricardo), a parere di M., hanno avuto il merito di gettare le basi della teoria (poi approfondita da M. stesso) del VALORE/LAVORO (valore di scambio: valore di una merce rispetto alle altre) secondo la quale il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro socialmente necessario alla sua produzione. Tuttavia gli economisti non si sono accorti che i rapporti tra OGGETTI (tra le varie merci e il lavoro stesso) presuppongono dei rapporti tra uomini (per gli economisti è scontato, Marx dice che è un problema) che essi danno per scontati, ma che non lo sono affatto. In altri termini l’economia politica stabilisce una serie di leggi economiche come fossero leggi eterne, leggi immutabili di natura, come se la natura dell’economia fosse paragonata alla natura, assolutizzando un sistema di rapporti di produzione esistenti tra gli uomini in un determinato momento della storia umana, dal momento storico. Essa eternizza (cioè rende immutabile) un sistema economico (quello capitalistico) come fosse l’unico modo di produrre e distribuire la ricchezza sociale e non considerandoli come un fatto storico. Ad es. la PROPRIETÀ PRIVATA appare come un FATTO da cui partire, un dato metastorico che funge da POSTULATO di ogni ricerca economica. Viceversa, per M., questo fatto deve ridiventare un PROBLEMA: la proprietà privata non è un dato assoluto, essa è il risultato, la conseguenza del LAVORO ESPROPRIATO; è un fatto che consegue dalla ALIENAZIONE del lavoro umano. Come nella religione (vedi Feuerbach) l’uomo mette la propria essenza in Dio, così il lavoratore mette nell’oggetto del lavoro la propria vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all’oggetto, che esiste fuori di lui, estraneo a lui, che gli è nemico. Vediamo perché. Partiamo da una citazione presa da “Il Capitale”, un’opera di molto successiva ai “Manoscritti” del ’44, a proposito del lavoro in generale del concetto di oggettivazione (in Marx alienazione ≠ oggettivazione) (non del lavoro alienato, ma del lavoro in sè): . Ciò che caratterizza il lavoro dell’uomo è che egli oggettiva il lavoro, mette in esso convinzioni, desideri, metta la propria essenza oggettivata nel lavoro. L’uomo oggettiva qualcosa che contiene la sua essenza, si riconosce nel proprio lavoro, tanto che il lavoro è essenza propria dell’uomo. Solo in determinate condizioni sociali la forza lavoro non si oggettiva con il lavoro (catena di montaggio, operai): quello che produci non sei più tu, non ti riconosci in quello che produci perché non sei più tu (alienazione). In Hegel la coscienza infelice è alienata Kant che poi si riconosce. In Marx il lavoro è alienato e non è più parte dell’uomo, è altro. Nel momento in cui tu fai qualcosa, ma non ti riconosci, allora non ti senti uomo ma bestia; ti senti uomo quando smetti di lavorare, cioè quando dormi o mangi (cioè nelle funzioni animali). Ti senti uomo nelle condizioni animali e animale nelle condizioni umane (lavoro). Ciò (il lavoro nella sua essenza) significa che nel LAVORO l’uomo esprime la propria essenza: nel prodotto del suo lavoro egli mette le proprie idee, i propri bisogni, la propria natura. Nel lavoro l’uomo trasforma la natura, si OGGETTIVA in essa, la “umanizza”(riferimento alla dialettica servo-padrone), fa di essa il proprio corpo inorganico. Sennonché se guardiamo la storia e la società vediamo che il lavoro non viene più compiuto per il bisogno di oggettivare la propria umanità, le proprie idee, i propri progetti. Vediamo invece che l’uomo lavora per la sua pura sussistenza, per sopravvivere. La proprietà privata, fondata sulla divisione del lavoro, tra chi ha i mezzi di produzione e chi lavora e basta, rende il lavoro COSTRITTIVO, fai qualcosa che non vuoi. L’operaio viene mutilato nella sua creatività e umanità. Marx descrive l’ALIENAZIONE del lavoro (lavoro separato da chi lavora) e nel lavoro, perché l’uomo si aliena nel lavoro, in quattro aspetti fondamentali, strettamente connessi tra loro: 1) il lavoratore è alienato rispetto al PRODOTTO della sua attività, in quanto egli, in virtù della sua forza-lavoro, produce un oggetto (sia quello diretto che quello indiretto, cioè il capitale che è conseguenza del lavoro) che non gli appartiene e che gli si oppone (lavoro = nemico). 2) il lavoratore è alienato rispetto alla sua stessa ATTIVITÀ, che prende la forma di un lavoro costrittivo, nel quale egli è STRUMENTO di fini che gli sono estranei. 3) il lavoratore è alienato rispetto al suo stesso WESEN, ossia alla sua ESSENZA di uomo, perché non esprime la propria essenza e non si riconosce più nel prodotto. Infatti la prerogativa dell’uomo rispetto all’animale è il lavoro libero, creativo e universale, mentre nella società capitalistica è costretto ad un lavoro forzato, ripetitivo e unilaterale. 4) il lavoratore è alienato rispetto all’ALTRO (colui che detiene i mezzi di produzione ), all’altro uomo che per lui è soprattutto il capitalista: colui che lo tratta come un mezzo e lo espropria del frutto della sua fatica, facendo sì che il suo rapporto con lui, e con l’umanità in genere, diventi per forza conflittuale e si esprime nella lotta di classe.
Riassumendo: l’alienazione del lavoro consiste nel fatto che il lavoro è esterno al lavoratore, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma ma si nega, si sente non soddisfatto ma infelice, sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio si sente uomo presso di sé solo fuori dal lavoro, quando è animale, e si sente alienato, fuori di sé nel lavoro. Il lavoro non è il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. Per questo, a causa di ciò, l’uomo si sente libero solo nelle sue funzioni animali (mangiare, bere, procreare, abitare una casa, vestirsi) e si sente una bestia nelle sue funzioni veramente umane, cioè nel lavoro. L’operaio diventa una merce (forza lavoro) tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. Il lavoro è qui estraneo e indipendente dall’uomo che lo produce: la vita che questi ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea; quanto maggior valore l’operaio produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede. [riferito al concetto di Marx di alienazione e differenza tra Hegel e Feuerbach] Facciamo qui un piccolo “excursus” sul concetto di ALIENAZIONE presente nella filosofia tedesca precedente e che M. acquisisce soprattutto riferendosi ad Hegel e Feuerbach. Per Hegel l’alienazione è il movimento stesso dello Spirito (o dell’Idea) che si fa altro da sé (nella natura) per tornare poi in sé e per sé; egli fa inoltre cenno all’alienazione nella dialettica servo/signore parlando del lavoro come oggettivazione del soggetto e nella coscienza infelice, intendendo Dio come altro da sè. Tuttavia, per M., l’errore di Hegel sta proprio nell’aver identificato l’ALIENAZIONE con l’OGGETTIVAZIONE del soggetto, non rendendosi conto che ciò che aliena l’individuo non è l’oggettivazione in quanto tale, attuata tramite il lavoro, ma QUELL’oggettivazione negativa e disumanizzante che è propria del lavoro operaio nella società del capitale. Dunque, mentre per Hegel OGNI oggettivazione è un’alienazione, lo stesso non vale per M. In Feuerbach l’alienazione si identifica con la situazione dell’uomo religioso che, scindendosi, si sottomette ad una potenza esterna (Dio) che lui stesso ha posto, estraniandosi dalla sua propria essenza. M. accetta da Feuerbach la STRUTTURA FORMALE del meccanismo dell’alienazione come condizione di scissione e di autoestraniazione presente anche in Hegel. Tuttavia, mentre per Feuerbach l’alienazione è ancora un fatto puramente coscienziale, derivante da un’errata interpretazione di sé, in M. essa diviene un fatto REALE, di natura socio-economica, che si identifica nella condizione storica del salariato della società fondata su ben determinati rapporti di produzione. La dis-alienazione, secondo M., si potrà avere solo con il superamento della proprietà privata e con la messa in comune dei mezzi di produzione.
Tesi materialista di Marx: è la vita che determina la coscienza.
LE “TESI SU FEUERBACH”
A) Con le “Tesi su Feuerbach” (1845) inizia il parziale distacco di Marx da Feuerbach e anche dalla sinistra hegeliana. La principale “rivoluzione teoretica” di Feuerbach consiste, per M., nella rivendicazione della NATURALITÀ e CONCRETEZZA degli individui umani viventi e nel rifiuto dell’idealismo teologizzante di Hegel, che ha ridotto l’uomo a soggetto spirituale. Il merito sta dunque nel rovesciamento di soggetto/predicato. Nel far ciò, tuttavia, Feuerbach ha perso di vista la STORICITÀ dell’uomo (se l’uomo è fatto di carne e sangue non è più un uomo, ma questo uomo, in questa società, nelle sue condizioni di vita) (che Hegel aveva rilevato), non rendendosi conto che l’uomo più ancora che natura (essenza) è SOCIETÀ (l’uomo è ciò che la sua società fa ciò che egli sia come sia) e quindi STORIA, in quanto l’essere umano consiste dell’insieme di rapporti sociali. Mentre Feuerbach parlava dell’uomo come di un’essenza atemporale (un uomo) fornita di certe proprietà immutabili, Marx sostiene che l’individuo è reso tale, uomo concreto davvero, dalla società storica in cui egli vive, sei come sei perché vivi in questa società; per cui non esiste l’“UOMO” in astratto, quello di cui parla Feuerbach, ma i singoli uomini prodottisi in una determinata società e in un specifico mondo storico. Feuerbach concepisce ancora l’uomo come “genere umano” come Hegel perché è ancora uomo come genere, cioè come natura immodificabile: dalla concezione di Feuerbach è sparita la dialettica hegeliana, cioè la capacità di concepire una realtà qualsiasi come un divenire, cioè con la sua storia; egli non comprende che l’esistenza materiale dell’uomo è attività, la sua esistenza dipende da ciò che fa: essa coincide dunque con il lavoro, un’attività di produzione di oggetti che è al tempo stesso autoproduzione del soggetto.
B) Un secondo punto che unisce e divide Marx da Feuerbach è l’interpretazione della religione. Feuerbach aveva sostenuto che la teologia è antropologa. Su questo “umanesimo” M. è d’accordo con Feuerbach. Tuttavia, secondo Marx, Feuerbach (è l’uomo che crea Dio, la religione serve per giustificare il dolore della vita → Dio diventa l’eco di dolore dell’uomo) non ha completamente risolto il problema principale: quello di capire perché l’uomo crea la religione. Ciò può essere spiegato solo con l’intimo dilaniamento e la contraddizione interna dell’uomo contemporaneo (non sempre l’uomo è nella stessa condizione verso la religione, bisogna capire quando ha bisogno): egli proietta il proprio essere in un Dio immaginario, quando la sua esistenza in una società divisa in classi, gli impedisce di realizzare la propria umanità, non può sentirsi uomo qui e deve ipotizzare di sentirsi uomo da un’altra parte; per superare l’alienazione religiosa occorre modificare le sue attuali condizioni di vita, deve modificarle qui, non aspettare da un’altra parte. Anche il sentimento religioso è dunque un prodotto sociale: è l’uomo che crea la religione, ma l’“UOMO” è “il mondo dell’uomo”, è il suo mondo che crea la necessita della religione. Questo Stato, questa società producono la religione, che è una coscienza rovesciata del mondo, perché anch’essi sono un mondo rovesciato> esiste il mondo degli Dei perché esiste il mondo irrazionale e ingiusto degli uomini: , non per tener buoni i popoli, ma la condizione in cui l’uomo non si riconosce più in sé. Marx non irride affatto al fenomeno religioso, non è cioè un’ironia nei confronti della religione; la religione non è per lui un’invenzione di preti ingannatori, quanto piuttosto l’opera di un’umanità sofferente ed oppressa, costretta a cercare consolazione nell’universo immaginario della fede, trovi consolazione solo nella fede, l’illusione di essere uomo dove non lo sei. Ma le illusioni non svaniscono se non si eliminano le situazioni che le creano e le esigono (cioè le strutture sociali che le hanno prodotte).
C) Un altro limite di fondo del pensiero di Feuerbach risiede, secondo Marx, nel suo tendenziale teoreticismo (questione di coscienza, di teoria e non di azione) e contemplativismo. Egli ha ignorato l’aspetto attivo e pratico della natura umana, l’aspetto della PRAXIS (azione in greco) (fondamentale anche nella teoria della CONOSCENZA, che non è solo passività, ma anche attività del soggetto sull’oggetto anche quando conosco, come Hegel). Al vecchio materialismo settecentesco (e di F.), M. oppone un nuovo materialismo, che considera l’individuo soprattutto come prassi (storia della prassi lavorativa umana), come azione: (XI^ tesi).
IL MATERIALISMO STORICO
Materialismo non ha niente a che vedere con il termine materialismo in generale.
A) IL CONCETTO DI IDEOLOGIA
Il testo fondamentale in cui M. presenta la propria concezione materialistica della storia è “L’ideologia tedesca” (1845-46), scritto in collaborazione con Engels durante l’esilio di Bruxelles, e rimasta inedita fino al 1932. Tale concezione non si definisce materialistica perché postula la riducibilità di tutta la realtà a materia, ma perché riconduce le forme di esistenza umana alle >, non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza, cioè al processo di autoformazione costituito dalla prassi lavorativa. L’originalità di quest’opera risiede nel tentativo di cogliere il MOVIMENTO REALE della storia (il contrario di ideologia → qualcosa di non reale, un inganno, una falsa rappresentazione della realtà che nasconde quella vera), al di là delle rappresentazioni ideologiche che ne hanno velato da sempre la struttura. Basilare è qui la contrapposizione tra scienza reale positiva ed IDEOLOGIA, che mistifica la realtà. M. intende per ideologia una falsa rappresentazione della realtà, mistificazione della realtà: essa è il processo per cui alla comprensione oggettiva dei rapporti reali fra gli uomini si sostituisce un’immagine deformata di essi. Gli uomini infatti si formano un’idea di sé, della propria posizione nella totalità sociale, in rapporto alle istituzioni politiche e alle varie realtà culturali della propria epoca; ma la realtà della loro vita, concretizzata dalla posizione di classe all’interno del modo di produzione, resta invece perlopiù nascosta alla loro coscienza. La “coscienza sociale” (come gli uomini si rappresentano) non corrisponde dunque immediatamente all’”essere sociale”(ciò che gli uomini sono): tale coscienza è “ideologica”, è coscienza “falsa” che occulta la realtà perché l’immagine che gli uomini hanno di sé è un’immagine che nasconde la propria condizione reale e che, in virtù di questo occultamento, svolge una funzione essenziale per mantenere l’ordine sociale esistente: nascondendo l’arbitrarietà dello sfruttamento e del dominio di classe, ne legittima l’esistenza. L’intento di M. è quello di svelare, al di là delle ideologie mistificanti, la verità (condizioni materiali di vita) sulla storia, mediante il raggiungimento di un punto di vista obbiettivo sulla società, che permetta di descrivere non ciò che gli uomini . Ma che cos’è l’umanità (modo attraverso cui produce se stessa attraverso il lavoro) intesa in modo scientifico e non ideologico? M. risponde che essa è una specie evoluta, composta di individui associati, che lottano per la propria sopravvivenza. Di conseguenza, la storia non è, primariamente, un evento spirituale, ma un processo MATERIALE (costruzione delle condizioni ,materiali di vita) fondato sulla dialettica bisogno/soddisfacimento: . Quali sono le condizioni? È proprio questa azione materiale che “umanizza” (il lavoro è umanizzante) l’uomo e l’uomo ha una storia perché costruisce se stesso oltre la propria evoluzione. Infatti si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole, ma essi cominciarono di fatto a distinguersi dagli animali allorché, in virtù della necessità, cominciarono a PRODURRE i loro mezzi di sussistenza. Alla base della storia vi è dunque il LAVORO, attraverso cui l’uomo si rende tale. L’uomo lavora e lavorando produce se stesso.
B) STRUTTURA E SOVRASTRUTTURA statica sociale
Se vogliamo andare a vedere la realtà dell’uomo, bisogna andare a vedere il lavoro. Non puoi capire la sovrastruttura senza ricondurla alla struttura: non puoi capire una cosa senza la struttura, cioè senza il lavoro.
Nell’ambito di quella produzione sociale dell’esistenza che costituisce la storia, bisogna distinguere, secondo M., due elementi di fondo: le forze produttive e i rapporti di produzione. Vediamo cosa intende.
UOMINI che producono
Le forze produttive MODO con cui producono
Struttura MEZZI di cui si servono per produrre
I rapporti di produzione
I rapporti di produzione indicano le relazioni che si instaurano fra gli uomini nel corso della produzione, soprattutto rapporti tra classi, e che trovano la loro sanzione giuridica nei rapporti di proprietà. I rapporti di produzione risultano definiti soprattutto dal possesso o meno dei mezzi di produzione. Forze produttive e rapporti di produzione costituiscono, nel loro insieme, la STRUTTURA della società, che è definita dal modo specifico di PRODURRE e di DISTRIBUIRE la ricchezza. La struttura si identifica quindi con l’ossatura economica della società. Rispetto alla totalità sociale, la struttura rappresenta la base reale sulla quale si eleva una SOVRASTRUTTURA giuridica e politica (tutto il resto che non sia una struttura sociale) e alla quale corrispondono determinate forme della coscienza sociale. Il termine sovrastruttura sta ad indicare che secondo il materialismo storico i rapporti giuridici, le forze politiche, le dottrine etiche, artistiche, religiose e filosofiche non debbono essere intese (idealisticamente) come delle realtà a sé stanti, ma come delle espressioni dei rapporti che definiscono la struttura di una certa società storica. Di conseguenza non sono le leggi, lo stato, le forze politiche, le religioni, le filosofie ecc. che determinano la struttura economica della società (come sostiene l’idealismo storico), ma è la struttura economica che determina le leggi, lo stato, le religioni, le filosofie ecc. (materialismo storico): ; le forze motrici della storia non sono di natura spirituale, bensì di natura socio-economica. Le rappresentazioni e i pensieri (le idee), lo scambio spirituale degli uomini, sono una emanazione diretta del loro comportamento materiale. Non solo sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma sono gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle forze produttive. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Va ad ogni buon conto rilevato che il termine sovrastruttura (ÜBERBAU) sottolinea la dipendenza (non è che le idee non influiscono. Se però esistono vuo,l dire che esistono nelle condizioni materiali di vita che le hanno permesse) dei fenomeni politici e culturali dalla base economica, ma non riduce questi ultimi a qualcosa di superfluo o di poco importante. M. non nega che le idee possano influire sugli avvenimenti storici, ma, dal suo punto di vista, ciò può accadere soltanto perché le idee esprimono già, a loro volta, determinati mutamenti di struttura (ad es. è vero che le idee dei “philosophes” (illuministi) hanno agito sugli avvenimenti successivi, ma ciò è potuto accadere solo perché le idee “rivoluzionarie”, in Francia, rispecchiavano a loro volta una sistemazione già oggettivamente “rivoluzionaria”). La struttura era già pronta per accogliere quelle idee. Movimento storico degli uomini: come cambiano le società? Legge interpretativa della storia.
C) LA LEGGE DELLA STORIA
Dinamica sociale: come mutano le condizioni degli uomini, considerando l’equilibrio all’interno della struttura.
Forze produttive e rapporti di produzione, oltreché rappresentare la chiave di lettura della STATICA della società, sono anche lo strumento interpretativo della sua DINAMICA, poiché si identificano con la molla propulsiva del suo divenire, ovvero con la legge stessa della storia. Il materialismo storico diventa legge interpretativa del mutamento storico. Marx ritiene infatti che ad un determinato grado di sviluppo delle forze produttive tendano a corrispondere determinati rapporti di produzione e di proprietà (ad es. rapporti di produzione di tipo feudale corrispondono a forze produttive di tipo agricolo). Non può esserci sempre equilibrio; il modo di produzione muta velocemente, più dei rapporti di produzione → frattura; gli uni non sono più funzionali agli altri. Tuttavia i rapporti di produzione si mantengono soltanto sino a quando FAVORISCONO le forze produttive e vengono distrutti quando si convertono in OSTACOLI o catene per le medesime. Ora, poiché le forze produttive, in connessione con il progresso tecnico, si sviluppano più rapidamente dei rapporti di produzione (che esprimendo delle relazioni di proprietà tendono a rimanere statici), ne segue periodicamente una situazione di frizione o di contraddizione dialettica (non per i concetti, ma per le sue situazioni storiche) fra i due elementi, che genera un’epoca di rivoluzione sociale. Infatti le nuove forze produttive sono sempre incarnate da una classe in ascesa (cioè dai rapporti di produzione in cui è esponente una classe in ascesa), mentre i vecchi rapporti di proprietà sono sempre incarnati da una classe dominante al tramonto. Di conseguenza, risulta inevitabile lo SCONTRO fra di esse. Alla fine finisce quasi sempre per trionfare la classe che risulta espressione delle nuove forze produttive, che in tal modo riesce ad imporre la propria maniera di produrre e di distribuire la ricchezza imponendo la propria ideologia, nonché la sua specifica visione del mondo (ideologia), , cioè l’ideologia sociale. [Tipica esemplificazione di questo modello teorico è la Francia del settecento, dove, ad un certo punto, vi fu uno scontro aperto fra la BORGHESIA (espressione delle nuove forze produttive di tipo capitalistico) e l’ARISTOCRAZIA (espressione dei vecchi rapporti di proprietà agrario-feudali). Vinse alla fine la borghesia, che riuscì ad imporre i suoi rapporti di proprietà e la sua visione del mondo]. Il carattere DIALETTICO di questo sviluppo implicito nella concezione materialistica della storia di M., ed il suo persistente legame con Hegel, risulta quindi evidente. Anche per M., come per Hegel, la storia si configura come una totalità processuale dominata dalla forza della contraddizione e mettente capo ad un risultato finale (il comunismo, per M.). Esiste tuttavia una notevole differenza di contenuto: M. ritiene di aver fatto camminare la dialettica di Hegel “SUI PIEDI” anziché “SULLA TESTA”: 1) in quanto il soggetto della dialettica storica non è più lo spirito, ma la struttura economica e le classi; 2) in quanto la “dialetticità” del processo storico è concepita come empiricamente osservabile nei fatti; 3) in quanto le opposizioni che muovono la storia non sono astratte e generiche, bensì concrete e determinate, e tutte ricondotte alla dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione.
D) LA CRITICA ALLA SINISTRA HEGELIANA
Non sono le idee che cambiano la storia, ma è la storia che cambia le idee.
Mentre la destra hegeliana, in nome del pensiero di Hegel, cercò di giustificare il Cristianesimo e lo Stato esistente (prussiano), la sinistra, sempre in nome della dialettica hegeliana, trasformò l’idealismo in materialismo, fece della religione un fatto puramente umano e combatté la politica esistente da posizioni “democratiche-radicali”. Sennonché, per M., ciò è del tutto insufficiente. Gran parte dell’“Ideologia tedesca” è dedicata proprio alla critica dei filosofi della sinistra hegeliana definiti, da M. ed Engels, IDEOLOGI: essi vivono infatti nella “falsa coscienza” poiché non si rendono conto che le idee, in quanto rispecchiano le relazioni materiali degli uomini, non hanno un’esistenza autonoma: (pensano che sono le idee sbagliate a incatenare gli uomini), tentando conseguentemente di trasformare la coscienza (le idee) degli uomini e non le loro condizioni di vita, non accorgendosi che . Essi finiscono così per: 1) sopravvalutare la funzione delle idee (viste come forze trainanti degli avvenimenti) e degli intellettuali (concepiti come i “fabbricanti della storia”); 2) presentare le proprie idee come universalmente e sovratemporalmente valide; 3) credere che tutto il negativo del mondo risieda nelle idee sbagliate e che l’emancipazione umana consista nel sostituire a idee false idee vere, tramite una battaglia puramente filosofica; 4) fornire, di conseguenza, un quadro inevitabilmente deformante e mistificante (ideologico) del reale. A questi traviamenti dell’ideologia, M., sulla base della propria concezione materialistica della storia, oppone: 1) che le vere forze motrici della storia non sono le idee, bensì le strutture economico-sociali; 2) che le idee non hanno mai un valore universale e sovratemporale, in quanto rispecchiano sempre determinati interessi e rapporti storici fra gli uomini; 3) che la vera alienazione non risiede nelle idee, ma nelle situazioni sociali concrete, per cui la vera liberazione dell’uomo non è un problema filosofico, ma un problema pratico-sociale; 4) che i giovani hegeliani, con le loro frasi, anziché “scuotere il mondo”, non fanno che emettere dei “belati filosofici”, non rendendosi conto che essi . I giovani tengono separata la teoria della prassi; M. unisce teoria e prassi.
IL MANIFESTO per un nascente sparito comunista internazionale che ha come punto di riferimento questo manifesto.
Classe = ruolo produttivo, non riconosciuto giuridicamente, e riconosciuto tale.
Ceto = posizione di nascita, riconosciuta giuridicamente.
I punti salienti del “Manifesto del partito comunista”, scritto da M. ed Engels nel 1848, sono: 1) l’analisi della funzione storica della BORGHESIA; 2) il concetto della storia come LOTTA DI CLASSE; 3) la critica dei SOCIALISMI non scientifici o utopistici.
1) Nella prima parte del “Manifesto”, M. descrive la vicenda storica della borghesia sintetizzandone, dal suo punto di vista, meriti e limiti. A differenza delle classi che hanno dominato nel passato, che tendevano alla conservazione statica dei modi di produzione, la borghesia, secondo M., non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione e tutto l’insieme dei rapporti sociali. Di conseguenza, la borghesia appare una classe costituzionalmente dinamica nel modo di produrre e di conservarsi, che ha dissolto non solo le vecchie condizioni di vita, ma anche idee e credenze tradizionali, quindi novità anche culturali. La borghesia ha modificato la faccia della terra in una misura che non ha precedenti nella storia, creando un mondo a propria immagine e somiglianza, e mostrando ai popoli che cosa possa l’attività umana. Sorta all’interno della società feudale, la borghesia, nel suo sviluppo storico, la nega e la supera (aufebunt, Hegel, è la contraddizione interna della società feudale), respingendo nel retroscena tutte le classi tramandate nel medioevo. Per questo la borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Infatti, quando i rapporti feudali della proprietà non corrisposero più alle forze produttive (modo di produzione capitalistico) ormai sviluppate (materialismo storico), essi si trasformarono in altrettante catene: . Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi (incarnata oggi, al tempo di Marx, dai moderni capitalisti). Tuttavia, in ambito filosofico-economico, proprio per la legge della dialettica, come la borghesia, chi detiene i mezzi di produzione (in questo caso i capitalisti in ambito economico), è la contraddizione interna del feudalesimo, così il PROLETARIATO è la contraddizione interna della borghesia: . La borghesia richiede la possibilità di acquistare forza lavoro e non può esistere senza il proletariato. La borghesia non può esistere senza il proletariato. Così facendo la borghesia richiede il suo antitetico. Ed è così che le armi che sono servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo, si rivolgono contro la borghesia stessa. Come fu inutile per il signore feudale difendere i diritti feudali davanti a quella sua creatura che fu la borghesia; così ora la borghesia è inutile che lavori per la conservazione dei suoi diritti sul proletariato. La realtà è che la borghesia .
Il progresso della grande industria crea unioni di operai organizzati e coscienti della propria forza e della propria missione. La borghesia produce dunque i suoi seppellitori.
Modo di intendere la storia, cioè il modo dialettico. Le antitesi sono esistite veramente e sono le lotte di classe.
2) Scrive Marx :.
Oppressori ed oppressi: ecco, dunque, quanto vede Marx nel travaglio della storia umana nella sua totalità. E la nostra (di Marx) epoca, l’epoca della borghesia moderna, non ha affatto eliminato l’antagonismo delle classi; essa, piuttosto, lo ha semplificato, perché ha ridotto a due classi, borghesia e proletariato, dal momento che l’intera società si va scindendo sempre di più in due grandi campi nemici, in due grandi classi contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato; c’è una tendenza della società a porsi o da una parte o dall’altra.
Il socialismo del ‘900 è in stati con ipertrofia statale, sono tutto Stato, sono antimarxiani.
3) La critica dei falsi socialismi non partono da una analisi economica e si limitano a critiche e contrappone il dover essere all’essere → questa contrapposizione, per un hegeliano, è un peccato. Una delle sezioni più importanti del “Manifesto” è costituita dalla critica di Marx ai socialismi precedenti, che egli raggruppa e divide in tre tendenze di fondo:
A) Il SOCIALISMO REAZIONARIO, (vuol dire di estrema destra, e opposto a rivoluzionario) cosiddetto perché attacca la borghesia più secondo parametri conservatori, rivolti al passato, che secondo schemi rivoluzionari rivolti al futuro, proponendosi in tal modo di . Questo socialismo vorrebbe tornare all’età pre-capitalistica, respinge i mutamenti → per un hegeliano non si può tornare mai indietro perché c’è una dialettica che porta avanti. Il socialismo reazionario si presenta in tre principali forme:
I ) il socialismo feudale, medioevalistico e romanticheggiante, auspica l’abolizione della società capitalistica moderna e un recupero del passato pre-borghese e pre-industriale.
II ) Il socialismo piccolo borghese che esprime il punto di vista della piccola borghesia rovinata dal capitalismo industriale e, anch’essa, vorrebbe un ritorno ad una società pre-borghese. La piccola borghesia che è stata schiacciata dal capitalismo stesso e vorrebbe un ritorno al pre-capitalismo.
III ) Il socialismo tedesco, che rappresenta la traduzione germanico e filosofica del socialismo francese. (Saint Simon, Proudhon)
B) Il SOCIALISMO CONSERVATORE o “borghese” o utopistico, è incarnato da quegli economisti, filantropi (hanno visto che il socialismo porta oppressione e vuole eliminarla in modo filantropico) e umanitari che vorrebbero rimediare agli “inconvenienti” sociali del capitalismo, senza distruggere il capitalismo stesso. Pensano che il capitalismo possa avere elementi inconvenienti, ma Marx sostiene che non esiste un socialismo riformale. Questi socialisti vorrebbero ciò che non si può. Essi vorrebbero la borghesia senza il proletariato, ma non si può, la proprietà senza il “furto”, non accorgendosi che producendo se medesimo, il capitalismo produce inevitabilmente i suoi inconvenienti, quelli che nascono come inconvenienti, ma la logica stessa del capitalismo ….. Principale esponente di questa corrente è Proudhon, che Marx aveva già bersagliato, l’anno precedente, nella “Miseria della filosofia” (1847), sarcastico rovesciamento del titolo dell’opera di Proudhon: “Filosofia della miseria”. Qui Marx aveva accusato Proudhon di essere un moralista utopista (secondo Marx è colui che ha una tendenza a contrapporre il dover essere all’essere), incapace di capire il movimento della storia e che sostituisce l’analisi economica con l’atteggiamento moralistico: ma la realtà non si può cambiare con i desideri e le lamentazioni, ci sono solo belati filosofici. Le contraddizioni delle diverse epoche storiche sono condizioni necessarie dello sviluppo sociale e del passaggio da una forma di società ad un’altra forma più matura, cioè più conforme ai tempi della storia perché è un processo dialettico. Quando c’è una trasformazione, c’è perché ci sono condizioni storiche per il cambiamento. Il processo storico ha una propria dinamica determinata dal progresso tecnologico e che si realizza attraverso la lotta di classe: per questo il moralismo non serve. Le contraddizioni sociali non si risolvono eliminando una delle parti in lotta, ma solo spingendo la lotta fino in fondo, portando a compimento la lotta interna alla società. Pertanto la questione non sta nel dividere o distribuire (come voleva Proudhon) la proprietà tra i lavoratori, ma nel sopprimerla del tutto.
C) Il SOCIALISMO E IL COMUNISMO CRITICO-UTOPISTICO (Saint Simon, Fourier, Owen). Bisogna fare appello a tutte le classi sociali perché cambino la propria posizione → Marx sostiene che le classi che hanno privilegi non accetterebbero di perdere il loro prestigio. Pur avendo avuto il merito di scorgere l’antagonismo tra le classi e gli elementi di contraddizione esistenti nel mondo moderno, questi autori hanno il limite, secondo Marx, di non riconoscere al proletariato una funzione storica e rivoluzionaria autonoma, e di fare appello a tutti i membri della società per una pacifica azione di riforme, rimanendo in tal modo in una dimensione moralistica e utopistica. Sganciati dalla realtà sociale concreta, questi socialisti hanno dedicato gran parte della propria opera alla delineazione di società ideali, non reali.
A questo tipo di socialismo “utopistico” Marx contrappone il proprio socialismo scientifico, basato sull’analisi critico-scientifica dei meccanismi sociali del capitalismo, cioè analisi economica.
IL CAPITALE
Il Capitale è una analisi economica, non è un’opera politica, ma di economia politica.
Nel 1866 Marx inizia il primo libro de “Il Capitale”, che viene pubblicato ad Amburgo nel 1867; il secondo ed il terzo libro (grazie al lavoro di Engels, che ne “decifrerà” i manoscritti) appariranno postumi nel 1885 e nel 1894.
“Il Capitale” si propone di mettere in luce i meccanismi strutturali della società borghese, al fine di svelare la legge economica del movimento della società moderna e le strutture economiche. Il fatto che il sottotitolo dell’opera sia: “Critica dell’economia politica”, rivela l’esplicita contrapposizione di Marx all’economia classica, quella che considerava le categorie economiche aproblematiche. Come si è già visto, Marx si differenzia dai grandi teorici dell’economia borghese (da Smith a Ricardo) soprattutto per il suo metodo storicistico-dialettico, cioè concepire le forme economiche come divenienti. Infatti Marx è convinto che non esistano leggi universali dell’economia, e che ogni formazione sociale abbia caratteri e leggi storiche specifiche (le leggi che valgono per il Feudalesimo, ad es., non valgono per il capitalismo). In secondo luogo Marx è convinto che la società borghese porti in se stessa delle contraddizioni strutturali interne all’economia capitalistica (non cambi niente se non ci sono le contraddizioni interne che lo permettono) che ne minano la solidità, ponendo le basi oggettive della sua fine, finisce se ci sono le contraddizioni interne che lo permettono. In terzo luogo egli è persuaso che l’economia debba far uso dello schema dialettico (mutuato da Hegel) della totalità organica, studiando il capitalismo come struttura i cui elementi risultano strettamente connessi. [Riassumendo brevemente possiamo dire, in conclusione, che da Hegel, Marx ha tratto:
1) una concezione dialettico-processuale del divenire storico-sociale;
2) la persuasione che questo divenire ha una sua logica, un suo sviluppo razionale, non casuale, ha una sua razionalità interna, e perfino un suo traguardo, che dà senso a tutto il processo;
3) l’attenzione per il rapporto tra lo sviluppo delle forme logiche (in Marx del Capitale) e lo sviluppo delle vicende storiche, legate tra di loro, la realtà come vicende storiche;
4) la convinzione che il sapere scientifico è sempre sapere non di elementi parziali o disarticolati della realtà, bensì di una totalità che collega questi elementi in determinate strutture; concezione del sapere specifico che è analisi economica del capitale].
L’analisi del “Capitale” inizia con l’analisi della merce, del concetto di merce. Ebbene, la merce ha un duplice valore: un valore d’uso e un valore di scambio (il valore di mercato, diverso dal valore d’uso → problema qualitativo). Il valore d’uso di una merce si basa sulla qualità della merce la quale, proprio grazie alla sua qualità, soddisfa un determinato bisogno. Il valore d’uso è insomma la capacità di una merce di poter servire a qualcosa, di essere utile. Tuttavia, vediamo che sul mercato, le merci più differenti vengono scambiate fra di loro. Ma queste merci tanto diverse cos’hanno in comune per poter essere scambiate? Quale è lo strumento di commisurazione? Esse hanno in comune appunto il loro valore di scambio, non è il prezzo perché nel prezzo sono coinvolte altre variabili. È confrontabile perché è un valore di quantità calcolabile, che è il valore di scambio. Il valore di scambio è qualcosa di identico che esiste in merci differenti, rendendole scambiabili, e consiste nella quantità di lavoro socialmente necessario per produrle. Per maggior comodità, allo scambio diretto è sostituita la moneta, ma resta il fatto che una merce si può scambiare con un’altra se la quantità di lavoro che ci vuole per produrle è la medesima (il valore non si identifica comunque col prezzo, sul quale influiscono anche i fattori contingenti, come la scarsità o l’abbondanza di una determinata merce). Non si può considerare la merce senza considerare il rapporto tra gli uomini. Le merci hanno dietro di sé il problema dei rapporti tra uomini. La merce risente del lavoro dell’uomo → significa considerarla in modo astorico e vuol dire qualcosa di indipendente dalle condizioni storiche. Tutto questo dimostra che parlare della merce in sé, senza badare al fatto che essa è invece il frutto del lavoro umano (il valore di scambio dipende dal lavoro) e di determinati rapporti sociali, significa, dice Marx, farne un feticcio. La realtà è che lo scambio delle merci non è tanto un rapporto tra cose, quanto un rapporto tra uomini.
Il valore di scambio è dato dunque dal lavoro. Ma anche il lavoro (la forza lavoro) è una merce che, sul mercato, il proprietario della forza lavoro (il proletario) vende, in cambio del salario, che è la retribuzione del valore di mercato della forza lavoro e dipende dalla domanda e dall’offerta, al proprietario del capitale. Il capitalista paga, per mezzo del salario, la merce (forza lavoro) che acquista: la paga secondo il valore che tale merce ha, valore che è dato (come per qualsiasi altra merce) dalla quantità di lavoro necessario per produrla, cioè dal valore delle cose necessarie a tenere in vita il lavoratore e la sua famiglia. Il problema vero è che l’economia classica non capisce che la merce forza lavoro è diversa dalle altre. Il valore d’uso della forza lavoro è particolare, perché il suo valore d’uso è la capacità di produrre merci. Ha un valore in più che produce oltre al suo, è una merce che produce merci.
Sennonché la forza lavoro è una merce del tutto speciale, giacché essa è una merce il cui stesso valore d’uso ha la proprietà peculiare di essere fonte di valore. In altri termini, quella merce che è la forza lavoro, non ha solo il suo valore, ma ha la proprietà di produrre valore. Vedremo tra poco le conseguenze di ciò. La forza lavoro è una merce diversa dalle altre, il cui valore d’uso è tale da produrre un valore in più, che non è retribuito e il profitto deriva da questo valore in più. L’impresa retribuisce il valore con il salario, ma non retribuisce il valore in più della forza lavoro; questo valore in più è ciò che produce il profitto. Il profitto deriva dal valore in più. Quando la forza lavoro diventa meno essenziale (con l’introduzione di macchine) il capitalista spende di più per le macchine e meno per il lavoro → decresce il saggio di profitto. Essendo il plus valore il profitto, c’è un eccesso di spesa per le macchine e una diminuzione del profitto. Succede che il capitalismo verrà meno a causa della dialettica della storia ed esso verrà seguito dal comunismo.
Il plus valore è il lavoro in più che non viene retribuito e costituisce il profitto. Se il salario retribuisce solo una parte e ce n’è una parte non retribuita, quest’ultima costituisce il profitto. Non tutto il plus valore diventa profitto perché ci sono altre spese. Chi detiene i mezzi di produzione ha spese per i salari e per il capitale fisso. La possibilità del superamento del capitalismo c’è perché ha al suo interno contraddizioni dialettiche, non perché ci si lamenta.
Marx descrive in Inghilterra mentre Dickens scrive le sue opere e parlano entrambi della stessa cosa, ma in modi diversi.
Il plus valore dipende dal capitale variabile. Quando le imprese vanno sul lastrico, c’è un minor numero di imprese che hanno i mezzi di produzione e un aumento di proletarizzazione.
Secondo Marx la caratteristica fondamentale del capitalismo è il fatto che in esso la produzione non risulta finalizzata al consumo, bensì all’accumulazione di denaro. Di conseguenza, il ciclo capitalistico non è quello “semplice”, prevalente nelle società pre-borghesi e descrivibile con la formula schematica M - D - M. (merce – denaro – merce), che allude al doppio processo per cui una certa quantità di merce viene trasformata in una certa quantità di denaro che viene trasformato in altre merci. Il ciclo economico peculiare del capitalismo è piuttosto quello descrivibile con la formula D - M - D’. (denaro (investimento a rischio) – merce - più denaro, profitto) dove un soggetto (il capitalista) investe del denaro in una merce, per ottenere più denaro. Ma com’è possibile che qualcuno acquisti una merce che gli procura più denaro, e quindi (essendo il denaro l’equivalente del valore) più valore? Da dove viene questo “più” monetario, ovvero tale plusvalore? Il plusvalore non può provenire né dal denaro in se stesso che è un puro mezzo di scambio, né dallo scambio medesimo, poiché gli scambi hanno sempre luogo fra valori equivalenti. Di conseguenza, Marx ritiene che l’origine del plusvalore non debba essere cercata a livello di scambio delle merci, bensì a livello della produzione capitalistica delle medesime. Infatti il capitalista ha la possibilità di acquistare una merce particolare, che ha come caratteristica quella di produrre valore. Tale è (come abbiamo visto) la “merce umana”, ossia la forza lavoro, la quale ha la capacità di produrre un valore maggiore di quello che gli è corrisposto col salario. Ed è questa la fonte del plusvalore. Facciamo un esempio.
Poniamo che un operaio lavori 10 ore al giorno e che in questo tempo produca un valore pari a 10. Evidentemente, se l’imprenditore gli corrispondesse tutto il valore prodotto, non avrebbe, per sé, alcun guadagno. Di conseguenza, il valore equivalente al salario deve essere inferiore al valore globale prodotto dall’operaio. Poniamo che esso sia pari a 6. In tal caso l’operaio in 6 ore di lavoro si sarebbe già guadagnato il proprio salario, cedendo al capitalista 4 ore di plusvalore, che equivalgono a 4 di pluslavoro a favore dell’imprenditore.
Con ciò Marx intende spiegare lo sfruttamento capitalista, che si identifica con la possibilità, da parte dell’imprenditore, di utilizzare la forza lavoro altrui a proprio vantaggio. Il che avviene perché il capitalista dispone dei mezzi di produzione, mentre il lavoratore dispone unicamente della propria energia lavorativa ed è costretto, per vivere, a “vendersi” sul mercato, in vista del salario.
Dal plusvalore deriva il profitto. Vediamo come: Marx distingue fra capitale variabile (capitale investito nell’acquisto di forza lavoro, cioè i salari) e capitale costante (investito per l’acquisto dei mezzi di produzione, quali i macchinari e le materie prime). Poiché il plusvalore nasce solo in relazione ai salari, ossia al capitale variabile (in quanto più aumenta il pluslavoro più cresce il plusvalore), il saggio del plusvalore risiede nel rapporto tra plusvalore e capitale variabile:

Saggio plusvalore = plusvalore / capitale variabile
Ma non tutto il plusvalore si traduce in profitto. Infatti, con esso, il capitalista deve anche acquistare macchine, materie prime ecc. Per cui il profitto scaturisce dal rapporto tra plusvalore da un lato, e la somma del capitale costante e variabile dall’altro:
Saggio del profitto = plusvalore / capitale costante + variabile
Poiché il capitalismo si regge sul ciclo D – M – D’, il suo fine strutturale è la maggior quantità possibile di plusvalore. Ciò caratterizza il capitalismo come tipo di società retta dalla logica del profitto privato, anziché dalla logica dell’interesse collettivo. Ma, secondo Marx, il capitalismo in vista del proprio insaziabile autoaccrescimento, genera una serie di contraddizioni e difficoltà che ne minano la sopravvivenza, preparandone la prevedibile morte futura.
La svolta del modo capitalistico di produzione è la nascita dell’industria meccanizzata, che introduce nel ciclo lavorativo la macchina, ossia il mezzo più potente per l’ “accorciamento del lavoro”, e quindi capace di erogare maggior plusvalore relativo e assoluto. Inoltre, rendendo meno faticose le operazioni lavorative, essa permette di ricorrere alla forza-lavoro delle donne e dei bambini, meno costosa e più docile. Ciò provoca notevoli “costi umani”: mentre nella manifattura era l’operaio ad usare gli strumenti di lavoro, ora è piuttosto il macchinario di fabbrica ad usare il salariato, che diviene solo un’appendice o un “servo” della macchina. Per questi motivi, fra lavoratore e macchina si instaura un’inevitabile relazione di ostilità (es. il “luddismo” inglese).
Ma la necessità capitalistica di un continuo rinnovamento tecnologico, genera un inconveniente strutturale: la caduta tendenziale del saggio del profitto. Con questa espressione Marx intende quella legge per cui, accrescendosi smisuratamente il capitale costante rispetto a quello variabile, diminuisce per forza il saggio del profitto (ricordiamo che il plusvalore è in rapporto solo col capitale variabile, mentre il profitto con quello costante). Ora: se V (capitale variabile) resta stabile, resta stabile anche P (plusvalore); ma se nel frattempo C (capitale costante) è accresciuto, risulta ovvio che il saggio di profitto è diminuito, derivando da P / C + V .
In altri termini, succede che il profitto, per quanto elevato, risulti progressivamente sempre più scarso rispetto a tutto il capitale impiegato, in virtù, appunto, della crescita smisurata del capitale costante. E ciò, nonostante alcune cause antagonistiche che possono attenuare o rallentare l’efficacia di questa caduta.
Inoltre tale legge di caduta finisce per produrre quell’ultima e decisiva tendenza del capitalismo che è la proletarizzazione della società, divisa in due classi antagonistiche. Infatti nel capitalismo industriale avanzato abbiamo, da un lato, una progressiva espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi (fino quasi al monopolio), e, dall’altro, una massa sempre più grande di salariati, occupati e disoccupati: comunque, sfruttati. Ma con ciò cresce anche la ribellione della classe operaia, sempre più unita e organizzata:>.
L’AVVENTO DEL COMUNISMO
Il passaggio c’è perché è dovuto alla dialettica della storia.
La disuguaglianza economica e sociale della società borghese non contrasta con l’uguaglianza giuridica e politica. Questa, anzi, è lo strumento di quella, disuguaglianza economica e sociale. Il fatto che la società occidentale borghese abbia raggiunto uguaglianza giuridica e politica, non ha scalfito la disuguaglianza economica e sociale. Immaginare che l’espansione liberale (uguaglianza giuridica) o democratica (uguaglianza politica) dei diritti di cittadinanza possa rimuovere l’ingiustizia sociale è un’illusione, non è accaduto e non accade. Lo Stato liberale e democratico non è che un “comitato d’affari della borghesia”. È funzionale al dominio di classe. Assicurando l’uguaglianza giuridica e politica esso realizza infatti quella condizione preliminare dello sfruttamento che è interesse comune della borghesia. La distinzione non è tanto marxiana, ma diventerà importante nel ‘900. Il socialista nel ‘900 sosterrà di voler portare la democrazia formale o democrazia borghese a democrazia sostanziale (socialista, nella concezione del socialista). Questa distinzione non c’è in Marx, ma trova le sue condizioni in Marx.
La possibilità concreta di una società più giusta è dunque connessa alla lotta dell’unica classe che ha interesse al rovesciamento del presente stato di cose: la classe proletaria dei lavoratori salariati. Solo il comunismo, cioè l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, può porre fine allo sfruttamento, alla disuguaglianza sociale.
Le contraddizioni della società borghese (la dialettica della storia) rappresentano, dunque, la base oggettiva della rivoluzione (non può esserci rivoluzione senza il moto di opposizione interno) del proletariato, il quale, impadronendosi del potere politico, dà avvio alla trasformazione globale della vecchia società, attuando il passaggio dal capitalismo al comunismo. Di conseguenza, il proletariato, nella prospettiva di Marx, appare investito da una specifica missione storico – universale, quando ci saranno le condizioni, solo il proletariato può compiere la missione. Infatti, mentre le fratture rivoluzionarie del passato si traducevano nel trionfo di un nuovo modo di produrre e di distribuire la proprietà e in una nuova egemonia di classe, la rivoluzione comunista non abolisce soltanto un tipo particolare di proprietà, di divisione del lavoro e di dominio di classe, ma cancella ogni forma di proprietà privata, di divisione del lavoro e di dominio di classe, dando origine ad un’epoca nuova nella storia del mondo. Il comunismo non è il passaggio di un modo di produzione ad un altro.
Insomma: lungo la “via crucis” della dialettica storica, il proletariato porta sulle sue spalle la croce dell’intera umanità, si fa classe che incarna questa missione. L’ora della rivoluzione è un giorno inevitabile, che segnerà il trionfo del proletariato e la resurrezione di tutta l’umanità. Con la medesima fatalità e necessità che presiede ai fenomeni della natura, la produzione capitalistica genera essa stessa la propria negazione. Ed è così che si passa dalla società capitalistica al comunismo. Non si tratta di un passaggio che avviene attraverso “prediche moraleggianti”: >. Si tratta di un passaggio necessario perché è dialettico ad una società senza proprietà privata e quindi senza classi, senza alienazione e soprattutto senza Stato.
Marx non dice molto su come si configurerà la nuova società ( ne fa solo qualche cenno nella “Critica del programma di Gotha” che da luogo alla socialdemocrazia tedesca (S.P.D.) del 1875 ). Nei “Manoscritti del ‘44” egli distingueva comunismo autentico da quello rozzo consistente non nell’abolizione della proprietà privata, ma nell’attribuzione della proprietà privata allo Stato: questa attribuzione ridurrebbe tutti gli uomini a proletari; questo comunismo rozzo negherebbe ovunque la personalità dell’uomo. In realtà, Marx pensa che, abolita la proprietà privata, il potere politico si ritirerebbe gradualmente, fino ad estinguersi. Marx sostiene l’esatto opposto di quello che fa il comunismo effettivo. Lo Stato infatti >. Per questo, quando non ci sarà più la proprietà privata, né esisteranno più le classi sociali, non ci sarà più nessun potere politico vero e proprio. Il potere politico, infatti, non è altro che la violenza organizzata di una classe per la oppressione dell’altra.
Tuttavia questo non potrà realizzarsi subito. Subito avremo quella che Marx chiama la “dittatura del proletariato” (fase transitoria, ma deve preparare il suo annientamento → il comunismo non deve avere classi sociali), che accentrerà tutti i mezzi di produzione nelle mani del proletariato organizzato, e che, a differenza delle altre dittature storicamente esistite (che sono sempre state dittature di una minoranza di oppressori su una maggiorana di oppressi) è una dittatura della maggioranza degli oppressi su di una minoranza di oppressori, destinata a scomparire, sia minoranza che maggioranza.
E’ chiaro che la dittatura del proletariato, secondo Marx, è solo una misura storica di transizione, che mira al superamento di se medesima e di ogni forma di Stato. Ma solo quando l’edificazione del socialismo sarà compiuta, lo Stato potrà davvero estinguersi e far posto all’ideale di un autogoverno dei produttori associati in cui il dominio sugli uomini sarà completamente sostituito dalla “semplice amministrazione delle cose” → società comunista.
Insomma: sulla società comunistica Marx non si esprime dettagliatamente. Dice solo che sarà una società senza classi perché le classi si formano solo dove c’è un conflitto di interessi economici; sarà una società internazionale perché e hanno ovunque i medesimi interessi; in essa la divisione del lavoro non avrà specializzazioni rigide; i sessi avranno pari diritti e pari opportunità; sarà una perché lo Stato è lo strumento tramite il quale la classe dominante mantiene il proprio potere; nella sua fase ultima essa sarà caratterizzata dal principio .
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