Il pensiero kantiano

Materie:Appunti
Categoria:Filosofia

Voto:

2 (2)
Download:284
Data:26.02.2007
Numero di pagine:37
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
pensiero-kantiano_1.zip (Dimensione: 28.4 Kb)
readme.txt     59 Bytes
trucheck.it_il-pensiero-kantiano.doc     97.5 Kb


Testo

Immanuel Kant
Immanuel Kant nacque a Königsberg (nella Prussia orientale, ora la cittadina è in Lituania e si chiama Kaliningrad) nel 1724. Il padre fa il sellaio. La madre influisce in particolare sull'educazione religiosa del figlio trasmettendogli la propria fede pietistica (Il Pietismo, fondato da Spener nella seconda metà del 1600, dava grande importanza ad una fede viva, operante, austera). Kant compie gli studi superiori al Collegium Fridricianum, ove sono presenti influssi del pensiero illuministico. Nel 1740 si iscrive all'Università di Königsberg e vi studia teologia, filosofia, matematica, fisica. Dopo la laurea e la libera docenza, comincia ad insegnare all'università ma con scarsi proventi, sicché deve sopperire alle sue necessità dando lezioni private. Comincia intanto a farsi conoscere negli ambienti accademici con una notevole quantità di opere sui più diversi argomenti: Storia universale della natura e teoria del cielo, L'unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio, Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica... nel 1770 scrive la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis per il conseguimento della cattedra di "logica e metafisica". D'ora in poi si dedicherà interamente alla elaborazione delle sue opere e del suo pensiero.
Kant condusse sempre una vita molto regolare e metodica, al punto che fiorirono molti aneddoti su di lui: dicevano infatti ad esempio che gli abitanti di Königsberg regolavano i loro orologi quando vedevano passare il filosofo davanti alle loro case, durante la passeggiata quotidiana. Una sola volta Kant non fece la sua passeggiata: quando fu impegnato nella lettura dell'Emilio di Rousseau. Nel 1781 apparve il capolavoro che pone le basi della filosofia critica kantiana, la Critica della ragion pura. Due anni dopo pubblicò i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza, che sono una esposizione semplificata della celebre Critica. Nel 1787 apparve la seconda edizione della Critica della ragion pura che contiene importanti modifiche rispetto alla prima edizione. L'anno seguente, 1788, è la volta della Critica della ragione pratica ,dedicata al problema morale. Nel 1790 appare infine la Critica del Giudizio dedicata ai problemi dell'estetica e del sentimento. La pubblicazione, nel 1793, di La religione nei limiti della semplice ragione provoca un intervento censorio del governo prussiano, che ammonisce Kant di non trattare più pubblicamente argomenti religiosi. Kant risponde al sovrano (Federico Guglielmo II) con una nobile e ferma lettera in cui dichiara di sottomettersi per dovere di obbedienza, ma ribadisce la legittimità delle sue idee e si impegna a rispettare l'ammonizione solo fino alla morte del sovrano medesimo. Nel 1795 Kant scrive Per la pace perpetua, in cui auspica la creazione di una federazione di tutti gli Stati che sostituisce il diritto alla forza. Due anni dopo il sovrano muore e Kant si ritiene libero da ogni censura, ma ormai la sua fama lo tiene al riparo da ulteriori restrizioni. Muore nel 1804, all'età di 80 anni.
GLI SCRITTI PRECRITICI
Do qui un cenno ai più importanti scritti di Kant prima della pubblicazione delle tre Critiche.
Iniziamo con la Storia universale della natura e teoria del cielo (1705), in cui Kant descrive la formazione dell'universo a partire da una nebulosa primitiva , secondo le leggi della meccanica newtoniana. Si ricordi che nel 1796 l'astronomo Laplace giunse ad una ipotesi simile a quella kantiana e da allora la teoria cosmologica fu ricordata come "teoria di Kant-Laplace". L'intento dichiarato dell'opera era quello di "dedurre dallo stato primitivo della natura, col suo aiuto delle leggi della meccanica, la formazione dei corpi celesti e l'origine dei loro movimenti". L'ordine delle leggi dell'universo implica l'esistenza di un ordinatore e quindi di Dio. Ciò però non significa che si debba ricorrere a Dio nella spiegazione dei fenomeni naturali. I diversi mondi si sono formati da una nebulosa originaria (la materia si è organizzata attorno ad un nucleo centrale, evolvendo dal caos primordiale) per effetto esclusivo delle forze di attrazione e repulsione; le medesime forze determinano i movimenti orbitali dei pianeti. La storia della natura è ciclica. I sistemi cosmici andranno in rovina e la materia tornerà nel caos ,da cui poi si riformeranno nuovi mondi. Kant ha così cercato di applicare la teoria newtoniana ad una ipotesi generale di formazione dell'universo, che Newton non aveva fatto. Kant ha limitato l'intervento divino alla sola creazione della materia e delle leggi naturali, utilizzando poi, per spiegare ogni altro fenomeno tranne per i fenomeni del mondo vivente, i principi della teoria newtoniana, la causalità meccanica e la gravitazione. Nella conclusione dell'opera, Appendice sugli abitanti dei corpi celesti, Kant, per "puro diletto dello spirito", sostiene che "sia assurdo negare che altri pianeti oltre al nostro siano abitati". Non solo l'uomo non è l'unico abitante dell'universo, ma vi sono altri esseri che sono più perfetti dell'uomo stesso. Visto che il corpo è un elemento che limita la ragione e la spiritualità, un essere è tanto più perfetto quanto più si trova lontano dal Sole, visto che la densità della materia è tanto minore quanto maggiore è la distanza dal Sole. A mezza strada tra la perfezione degli esseri che dovrebbero abitare Giove e Saturno e la brutalità degli abitanti di Mercurio, sta appunto l'uomo, sempre in tensione tra istinto e ragione.
Nei Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica (1765), Kant discute le teorie dello svedese Emanuele Swedenborg, un occultista e visionario che diceva d'essere in contatto col mondo degli spiriti. Una donna, Charlotte Knobloch, chiese a K il suo parere a riguardo e il filosofo, dopo avere letto con scrupolo i libri dello svedese, pubblicò un volumetto in cui, prendendo spunto dalle fantasticherie dell'occultista, attaccava la metafisica del suo tempo, facendo un parallelo fra i sogni dei visionari e quelli dei metafisici, "fabbricanti di castelli in aria". Secondo K, le questioni che esulano dal campo dell'esperienza devono essere abbandonate perché intorno ad esse non si producono altro che "invenzioni". La metafisica come la intende K - "di cui la sorte ha voluto che mi innamorassi" - sarà d'ora in poi una scienza dei limiti della ragione. I problemi che la metafisica dovrà trattare sono quelli entro i confini dell'esperienza umana. "Merito della saggezza sta nello scegliere, tra gli innumerevoli problemi che si presentano, quelli la cui soluzione sta a cuore all'uomo".
Nel 1770 Kant scrive la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis per la nomina a professore ordinario di "logica e metafisica" presso l'Università di Königsberg. E' un'opera che rappresenta il passaggio dalla fase precritica a quella critica. Vediamo in che senso. Kant distingue nettamente tra la conoscenza sensibile e quella intellettuale. La prima è dovuta alla passività o ricettività del soggetto che riceve appunto i dati sensibili: essi ci fanno vedere le cose così come ci appaiono, cioè ci fa conoscere i fenomeni, le cose come si manifestano a noi e non come sono in sé. La seconda è una facoltà del soggetto che ci permette di cogliere le cose così come sono, nel loro vero essere, che può essere colto solo dal pensiero, e per questo motivo Kant chiama le cose come vengono colte dal pensiero noumeni (dal greco noein, "pensare"). Concetti dell'intelletto sono ad esempio quelli di "possibilità", di "necessità" e simili, i quali ovviamente non possono derivare dai sensi. Gli errori della metafisica tradizionale derivano dal "gioco illusionistico" di confondere conoscenza intellettuale e conoscenza sensibile. Kant sostiene che la conoscenza sensibile è intuizione, cioè conoscenza immediata. Ora, ogni conoscenza sensibile avviene nello spazio e nel tempo: lo spazio e il tempo non sono proprietà caratteristiche delle cose, realtà ontologiche (come diceva ad esempio Newton, e ancor prima Aristotele), né semplici rapporti fra i corpi, come credeva Leibniz. Essi sono invece le forme della sensibilità, cioè i modi con cui il soggetto coglie sensibilmente le cose. E' questa la "grande luce" che Kant dice gli sia venuta nel 1769. Essa sarà teorizzata compiutamente nella Critica della ragion pura (1781), in cui parlerà della "rivoluzione copernicana" che la sua filosofia (il criticismo ) ritiene di aver portato nel sapere filosofico. Si badi che in questa dissertazione, mentre la parte che analizza la sensibilità è già "critica", nella parte che riguarda la conoscenza intellettuale è ancora "precritica" o dogmatica poiché Kant crede ancora di poter cogliere, grazie alla conoscenza intellettuale, le cose così come sono (noumeni), mentre nella Critica della ragione pura lo dichiarerà impossibile.
CRITICA DELLA RAGIONE PURA (1781):
INTRODUZIONE GENERALE
L'opera è divisa in due grandi parti: la Dottrina degli elementi e la dottrina del metodo. La prima è suddivisa in Estetica trascendentale e in logica trascendentale. Quest'ultima è divisa a sua volta in Analitica trascendentale e Dialettica trascendentale.
La Dottrina trascendentale degli elementi indaga gli elementi formali della conoscenza che, per Kant, sono puri e a priori. L'Estetica trascendentale studia la sensibilità e le sue forme a priori che sono lo spazio e il tempo, mostrando come su di esso si fondi la matematica; l'Analitica trascendentale studia l'intelletto e le sue forme a priori (le 12 categorie), e mostra come su di esse si fondi la fisica; infine la Dialettica trascendentale studia la ragione e le sue tre idee di anima, mondo e Dio, mostrando come su di esse si fondi la metafisica. In ultimo, la Dottrina del metodo (che è la parte più breve e conclusiva dell'opera) determina l'uso possibile degli elementi a priori della conoscenza cioè appunto il metodo della conoscenza stessa.
Il titolo dell'opera può essere inteso come "l'esame dei fondamenti del sapere" ovvero come "l'esame critico della validità e dei limiti che la nostra ragione possiede in virtù dei suoi elementi puri a priori". Si badi: la ragione può essere intesa nel titolo come facoltà conoscitiva in generale, anche se poi Kant all'interno dell'opera distingue chiaramente tra sensibilità, intelletto e ragione, come vedremo. Si ricordi inoltre che per Kant puro è ciò che è fonte di conoscenza a priori, ovvero ciò a cui non è mescolato nulla di empirico, non derivando dall'esperienza; inoltre l'aggettivo trascendentale riguarda per Kant il nostro modo di conoscere le cose in quanto è reso possibile da forme a priori; in generale è ciò che precede qualsiasi esperienza e ne è la condizione, per cui "trascendentale" diventa anche sinonimo di "puro" o di "a priori".
Il pensiero di Kant è detto criticismo perché distinguendosi dal dogmatismo (che accetta le dottrine senza interrogarsi sulla loro validità o meno) fa appunto della critica lo strumento della filosofia. "Criticare" per Kant vuol dire giudicare, valutare, soppesare, ossia interrogarsi sul fondamento delle conoscenze umane chiarendone le possibilità, la validità, i limiti. Il che non è affatto scetticismo perché tracciare il limite di una esperienza vuol dire garantire, entro il limite stesso, la sua validità. Kant può finalmente respingere lo scetticismo di Hume perché la sua indagine vuole stabilire, da un lato, come siano possibili la matematica e la fisica in quanto scienze, e dall'altro come sia possibile la metafisica, intesa sia come disposizione naturale sia come presunta scienza. Il tutto viene sintetizzato da Kant nella celebre formula "Come sono possibili i giudizi sintetici a priori?" e cioè: come possiamo avere una conoscenza che sia valida scientificamente?
CRITICA DELLA RAGION PURA.
ESTETICA TRASCENDENTALE
La conoscenza scientifica consta di proposizioni o di giudizi universali e necessari ed inoltre aumenta continuamente il sapere. Ma che cosa è un giudizio?
In generale un giudizio consiste nella connessione di due concetti di cui uno (A) è il soggetto e l'altro (B) funge da predicato. Si presentano allora due casi:
Il predicato (B) può essere contenuto nel concetto che funge da soggetto (A) e dunque può essere ricavabile dalla pura analisi del soggetto: in questo caso il giudizio è analitico come quando dico che "ogni corpo è esteso". Infatti il concetto di estensione è sinonimo di corporeità e quando affermo che "ogni corpo è esteso" non faccio altro che rendere esplicito ciò che si intende per "corpo".
Il concetto che funge da predicato (B) non si trova implicito nel concetto che funge da soggetto (A) ed allora il giudizio è sintetico perché il predicato (B) aggiunge al soggetto (A) qualcosa che non è ricavabile per mera analisi del soggetto ma è qualcosa in più. Ad esempio quando dico che "ogni corpo è pesante" esprimo un giudizio sintetico giacché il concetto di pesantezza non è implicito nel concetto di tutti i corpi. Si ricordi che l'esempio kantiano si rifà ad Aristotele, per il quale alcuni corpi - terra e acqua - sono per natura pesanti, mentre altri - aria e fuoco - sono per loro natura leggeri. Noi potremmo fare altri esempi, dicendo "il tavolo è rotondo", "la mela è verde" ecc. (la rotondità o il verde non appartengono necessariamente ai due oggetti presi in esame).
I giudizi analitici sono giudici a priori (cioè non dipendono dall'esperienza), universali e necessari ma non ampliano le nostre conoscenze. I giudizi sintetici ampliano sempre le nostre conoscenze però, essendo a posteriori (cioè basandosi sull'esperienza) non possono essere universali e necessari. La scienza, per essere tale cioè conoscenza valida, non si può basare né sui soli giudizi analitici né sui meri giudizi sintetici ma deve basarsi su un terzo tipo di giudizi che Kant chiama giudizi sintetici a priori, tali cioè che siano sia universali, necessari e a priori che sintetici, cioè aumentino le nostre conoscenze. Per Kant le operazioni della aritmetica sono "sintesi a priori". Il giudizio 5+7=12 (oppure 5668797+235408) è un giudizio sintetico a priori in quanto il risultato è stato ottenuto col sommare e non per via solo analitica (il 5 o il 5+7 non contiene a priori il 12 ma abbiamo dovuto contare); una volta però ottenuto il risultato, esso sarà per sempre valido per tutte le menti pensanti. Lo stesso vale per la geometria (ad es. "la linea retta è la più breve tra due punti", infatti il concetto di "linea più breve" è aggiunto e non è ricavabile con nessuna analisi da quello di "linea retta"), e così pure per la fisica e persino per la metafisica, almeno nelle sue pretese, secondo Kant, vi sono essere giudizi "sintetici a priori" (ad esempio "il mondo deve avere un primo inizio"). Il problema da affrontare adesso è: come sono possibili i giudizi sintetici a priori?
La cosiddetta "rivoluzione copernicana"
Kant ritiene, a differenza del razionalismo, che la scienza derivi anche dall'esperienza; però pensa anche, a differenza dell'empirismo, che alla base dell'esperienza vi siano dei principi non derivabili dall'esperienza stessa. In sintesi, come ho già detto, la scienza è data, per Kant, dall'esperienza più i principi sintetici a priori. Fino ad allora, si era tentato di spiegare la validità della conoscenza supponendo che fosse il soggetto a dover ruotare intorno all'oggetto (come il Sole, secondo Tolomeo, ruota intorno alla Terra, che è immobile al centro dell'universo), cioè la verità consisteva nel prendere atto che l'oggetto aveva certe sue caratteristiche che il soggetto, se voleva dire il vero, doveva riconoscere come tali. Kant invece suppone che sia l'oggetto a dover ruotare intorno al soggetto (come secondo Copernico è la Terra che gira intorno al Sole) nel senso che è il soggetto che condiziona l'oggetto e non viceversa, come s'era pensato fino ai suoi tempi. In altre parole, noi non siamo degli spettatori passivi quando diciamo di conoscere qualcosa. Al contrario, nel ricevere i dati sensibili, noi "imprimiamo" attivamente ad essi l'ordine e le leggi del nostro intelletto. Ad esempio quando diciamo che "questa cosa di fronte a me è un tavolo", lo possiamo dire perché il fatto di vederlo uno, tridimensionale, colorato ecc. non dipende dall'oggetto ma soltanto da noi stessi, dal soggetto che sta conoscendo. Noi insomma non possiamo fare a meno di conoscere il tavolo in uno spazio e in un tempo determinato, non possiamo non vederlo colorato, con certe qualità ecc.; non possiamo non attribuirgli certe caratteristiche (è uno, ha certe qualità). Tutti questi sono i modi con cui il soggetto coglie sensibilmente le cose. Questi modi non appartengono all'oggetto ma sono delle "forme" di cui l'uomo è dotato e che non può fare a meno di adoperare durante il processo di conoscenza. Come dice Kant:"Noi delle cose non conosciamo a priori se non quello che noi stessi vi mettiamo".
Qual è allora il fondamento dei giudizi sintetici a priori? E' il soggetto stesso, con le sue leggi che governano il processo della conoscenza sia attraverso i sensi che attraverso l'intelletto. E visto che i modi di conoscere a priori che il soggetto ha sono i sensi e l'intelletto, essi sono i trascendentali della conoscenza umana. Il trascendentale è dunque la condizione che permette la conoscibilità degli oggetti, sia dell'intuizione sensibile che della pensabilità stessa degli oggetti. E' ciò che si riferisce alla conoscenza in quanto possibile a priori, dice Kant. In breve, il trascendentale è ciò che il soggetto mette nelle cose nell'atto di conoscerle (e cioè lo spazio, il tempo e le 12 categorie, come vedremo).
L'ESTETICA TRASCENDENTALE
Veniamo adesso a trattare specificamente della dottrina che riguarda il senso e la sensibilità, dunque della Estetica trascendentale: essa è quindi la dottrina che studia le forme della sensibilità, il modo in cui l'uomo riceve le sensazioni ed ottiene una conoscenza sensibile. In primo luogo, alcune precisazioni terminologiche. Kant distingue fra sensazione, sensibilità, intuizione, fenomeno (e poi noumeno).
La sensazione è una semplice modificazione (un tempo si diceva affezione) che il soggetto subisce, passivamente, ad opera dell'oggetto: ad esempio quando sentiamo caldo o freddo, quando vediamo rosso o altri colori, quando gustiamo il dolce o l'amaro. In altri termini, è una azione che l'oggetto "produce" sul soggetto, modificandolo.
La sensibilità è la facoltà che noi abbiamo di ricevere le sensazioni, ossia la facoltà mediante la quale noi siamo suscettibili di essere modificati dagli oggetti.
L'intuizione è la conoscenza immediata degli oggetti. Essa non crea, non produce gli oggetti ma dipende dall'esistenza degli oggetti stessi. In altre parole, gli oggetti esistono realmente e il modo come li conosciamo immediatamente è chiamato da Kant "intuizione". Egli chiama poi intuizione empirica la conoscenza sensibile in cui sono concretamente presenti le sensazioni, mentre parla di intuizioni pure riferendosi propriamente solo allo spazio e al tempo.
Il fenomeno è l'oggetto dell'intuizione sensibile. Si ricordi che in greco la parola indica "ciò che si manifesta, ciò che appare". Dunque noi, quando conosciamo qualcosa sensibilmente, cogliamo l'oggetto quale appare a noi e non come è in sé; lo cogliamo come si manifesta a noi secondo le nostre forme della sensibilità. Nulla ci vieta di pensare che, se avessimo altri sensi, le cose ci apparirebbero in maniera diversa.
Dopo queste precisazioni, Kant approfondisce ulteriormente che cos'è un fenomeno. In ogni fenomeno c'è per Kant una materia e una forma. La materia consiste nelle varie sensazioni e, come tale, è a posteriori (= dipende dall'esperienza: non posso sentire caldo o freddo se non ho prima l'esperienza del caldo o del freddo). La forma dipende invece dal soggetto ed è il modo in cui "funziona" la nostra sensibilità, la quale, nel momento in cui accoglie i dati dei sensi, li "organizza" in maniera ordinata: infatti io vedo ad esempio un tavolo e non ho delle sensazioni separate, confuse di un qualcosa che sta di fronte a me. La forma sarà quindi a priori e consisterà nelle due intuizioni pure dello spazio e del tempo.
Lo spazio e il tempo sono per Kant modi e funzioni propri del soggetto, cioè sono i modi che noi abbiamo di cogliere sensibilmente le cose. Noi non possiamo non "inquadrare" una qualsiasi sensazione in uno spazio e in un tempo particolare. Lo spazio è la forma (= il modo di funzionare) del senso esterno ossia la condizione cui deve sottostare la rappresentazione sensibile degli oggetti esterni al soggetto. Il tempo è la forma del senso interno e cioè è la forma di ogni dato sensibile interno, in quanto da noi conosciuto. Si badi: altri esseri - dice Kant - potrebbero cogliere le cose non spazialmente né temporalmente; noi invece non possiamo non coglierle spazio-temporalmente perché "siamo fatti così", abbiamo una sensibilità che "funziona" in questo modo.
Siamo ora in grado di capire su che cosa si fonda la validità di scienze come la geometria e l'aritmetica. Esse sono valide perché si fondano sulle forme a priori della nostra sensibilità, sulle intuizioni pure dello spazio e del tempo. Proprio per questo le due scienze hanno universalità e necessità giacché lo spazio e il tempo sono "strutture" del soggetto o, meglio, di tutti i soggetti, di tutti gli uomini allo stesso modo. Tutti noi, in altre parole, abbiamo lo stesso modo di cogliere sensibilmente le cose, attraverso lo spazio e il tempo. I giudizi della geometria (postulati, teoremi ecc.) si fondano quindi sulla intuizione a priori dello spazio; la matematica si fonda invece sul tempo perché moltiplicare, sommare ecc. sono operazioni che richiedono tempo.
LOGICA TRASCENDENTALE.
1. ANALITICA TRASCENDENTALE.
L'uomo non ha solo sensazioni ma anche intelletto. Mediante le sensazioni, gli oggetti ci sono dati; mediante l'intelletto essi sono pensati. Entrambe le facoltà ci sono indispensabili : l'intelletto non può intuire (cioè, nel linguaggio di Kant, conoscere sensibilmente) né i sensi possono pensare. Perciò è giusto distinguere le loro funzioni e dunque adesso dobbiamo occuparci della logica ovvero della scienza dell'intelletto in generale. Kant distingue la logica generale o formale, che è quella che studia le leggi del pensiero, quella aristotelica, che viene comunque accettata da Kant; da un'altra logica che Kant chiama logica trascendentale, che studia i concetti puri dell'intelletto ovvero le categorie(che vedremo subito), e dunque essa studia specificamente quei concetti che non derivano dagli oggetti ma sono a priori nel nostro intelletto.
Si badi: per Kant le categorie non sono le leggi dell'ess0ere, come per Aristotele, ma sono le leggi della mente ovvero i modi come funziona il nostro intelletto (sono forme sintetizzatrici e non contenuti). Ma quante sono le categorie? per Aristotele, come si ricorderà, erano dieci. Per Kant invece le categorie sono dodici. Perché? Per Kant pensare significa giudicare cioè formulare dei giudizi : ora, ci saranno tante categorie quante sono le forme di giudizio che la logica classica formale ha classificato; se la logica è giunta a distinguere dodici tipi di giudizio diversi ci saranno allora 12 tipi di categorie, divise in 4 gruppi (secondo la quantità, qualità, relazione e modalità) con 3 tipi ciascuno.
Quantità - Qualità - Relazione - Modalità
Unità - Realtà - Inerenza - Possibilità
Pluralità - Negazione - Causalità - Esistenza
Totalità - Limitazione - Comunanza - Necessità
L'Io Penso e la Deduzione trascendentale
Pensare qualcosa è possibile solo in quanto la molteplicità delle intuizioni sensibili vengono congiunte in una sola rappresentazione: questa unità è chiamata da Kant Io Penso ovvero Appercezione Trascendentale. In altri termini, il pensare è possibile a due condizioni:
da un lato che il soggetto costituisca il termine di riferimento unitario delle varie intuizioni che devono appunto essere congiunte: L'Io Penso indica allora "L'unità trascendentale dell'intelletto", ossia quel centro mentale unificatore di carattere puramente formale o funzionale che accompagna tutte le mie rappresentazioni. Altrimenti, esisterebbe "un me stesso variopinto e differente" che riprodurrebbe la molteplicità delle rappresentazioni senza poterle unificare.
Dall'altro, il soggetto deve pure avere autocoscienza, cioè deve essere consapevole di essere il termine di riferimento unitario delle varie rappresentazioni. E' insomma la coscienza di noi stessi di essere dei soggetti pensanti. Infatti qualsiasi giudizio formuliamo, ad es. "A è uguale a B", implica sempre che "Io Penso che A è uguale a B". In altri termini, affinché io possa rappresentarmi qualcosa, bisogna che la rappresentazione sia presente alla mia autocoscienza (che Kant chiama appercezione pura o trascendentale perché è a priori e si distingue dalla coscienza empirica in quanto è la condizione di tutte le mie rappresentazioni), e poiché questo vale per tutte le mie rappresentazioni, esse vengono unificate appunto da ciò che Kant chiama l'Io Penso.
Visto poi che l'Io Penso è identico in tutti gli uomini, ossia tutti gli uomini hanno la stessa "struttura unificante", il risultato della unificazione sarà valido universalmente e oggettivamente per tutti. Ad esempio quando dico che "Questo corpo è pesante", tale giudizio vale per tutti gli intelletti umani che dispongono delle mie stesse caratteristiche. Le categorie sono insomma universali: non appartengono al singolo individuo bensì alla conoscenza umana in generale. Grazie a questa universalità, esse rendono possibile l'oggettività del giudizio , in quanto il giudizio che rendono possibile deve essere valido per tutti, essere universale e necessario. Da qui giungiamo alla Deduzione trascendentale delle categorie cioè al riconoscimento della loro validità tramite l'Io Penso. Il termine "deduzione" non è qui usato da K nel solito senso di "ragionamento che parte dall'universale per arrivare al particolare"( ricordate il sillogismo aristotelico: tutti gli uomini sono mortali/Socrate è uomo/quindi Socrate è mortale?), ma nel significato giuridico di giustificazione. In altri termini: come mai la nostra conoscenza scientifica è valida? Su che cosa si basa la validità delle categorie ovvero del nostro modo di pensare le cose? La risposta è appunto l'Io Penso. Come il soggetto, quando coglie con i sensi gli oggetti, li spazializza e li temporalizza, così, quando li pensa, li ordina secondo le categorie, secondo i modi proprio del pensiero umano. Le categorie sono dunque le condizioni alle quali è possibile che qualcosa venga pensato come oggetto di esperienza. Il che indica che per Kant il concetto di "oggetto", che era tradizionalmente concepito come un qualcosa che è opposto al soggetto, presuppone, al contrario, proprio il soggetto, perché solo un soggetto può distinguere tra soggetto e oggetto, e può conoscere sia il soggetto che l'oggetto.
Lo schematismo trascendentale e l'immaginazione produttiva
Le categorie si possono però applicare solo alle intuizioni empiriche, valgono cioè solo nell'ambito dell'esperienza. La conoscenza valida per l'uomo rimane per Kant quella fenomenica, nell'ambito dell'esperienza. Si è detto più volte che le intuizioni sono solo sensibili ed i concetti sono solo intellettuali: intuizioni e concetti sono dunque eterogenei. Di qui sorge il problema di come sia possibile applicare le categorie ai dati sensibili. Ad esempio come è possibile l'applicazione della categoria di causalità ai fenomeni (dire che "A è causa di B") se la categoria è un concetto puro che non può trovarsi nei fenomeni ? (Ripensate alla questione della causalità in Hume: le cose accadono; siamo noi che vi vediamo o cerchiamo un perché). Occorre dunque una facoltà intermedia che presenti, da un lato, il carattere spontaneo proprio dell'intelletto, e dall'altro possa avere per oggetto rappresentazioni intuitive come la sensibilità. Tale facoltà intermedia è trovata da Kant nell'immaginazione. Essa ha due funzioni: nella sua funzione semplicemente riproduttiva , essa è la capacità di richiamare alla memoria, di riprodurre appunto l'immagine di un oggetto non più dato ai sensi. Nella sua funzione invece produttiva, l'immaginazione produttiva esplica la sua attività mediatrice, dando origine a quelle rappresentazioni intermedie tra la semplice immagine (nel senso comune del termine, la quale è il prodotto dell'immaginazione riproduttiva ed è sempre particolare, singola) ed il concetto (che è un prodotto della sintesi dell'intelletto ed è sempre generale) che Kant chiama schemi trascendentali , da cui la dottrina importantissima dello schematismo trascendentale. L'immaginazione produttiva dà appunto origine agli schemi trascendentali puri, ad ognuno dei quali corrisponderà una categoria o un gruppo di categorie. Ad esempio lo schema che appartiene alla categoria della quantità è il numero, quello della categoria della qualità è il grado ecc. Gli schemi sono inoltre definiti da Kant come "determinazioni a priori del tempo secondo regole". Che cosa vuol dire? Vuol dire semplicemente che tutti i fenomeni, una volta colti, diventano per così dire "interni" al soggetto, ed il tempo non è appunto il nostro "senso interno"? Il tempo è così l'intuizione che connette tutte le rappresentazioni. E' possibile collegare tra loro due rappresentazioni empiriche solo ammettendo tra loro un rapporto di tempo, ad esempi una successione o una simultaneità.
(Kant dice: gli schemi sono le categorie calate nel tempo). Si pensi alla solita categoria della causalità: è appunto lo schema relativo a questa categoria che ci permetterà di applicarla ai vari oggetti d'esperienza, cosa altrimenti impossibile.
Infine Kant passa ad illustrare le "regole dell'uso oggettivo delle categorie" che, essendo tanto generali da fondare ogni conoscenza, si identificano, in pratica, con le leggi universali della natura. Si badi però: le leggi universali che esse esprimono (ad esempio che ogni fenomeno ha una causa) hanno un carattere trascendentale e non si identificano con le singole leggi naturali particolari che sono scoperte empiricamente (ad esempio l'accelerazione ecc.).
In conclusione, siamo solo e sempre noi che costituiamo la natura come un insieme unitario di fenomeni, connesso da leggi necessarie, le quali non sono altro che le regole del nostro intelletto. Si ricordi però che la conoscenza scientifica è sì universale e necessaria ma rimane fenomenica.
Se il fenomeno è la cosa come "appare a noi", è evidente che esso presuppone la cosa "qual è in sé", cioè il noumeno. Esso è inteso da Kant in due modi: in senso negativo è la cosa quale è in sé, ossia la cosa quale potrebbe essere pensata da noi ... senza pensarla, senza usare le nostre categorie mentali ! In senso positivo il noumeno sarebbe oggetto di una intuizione non sensibile, la quale però non è data all'uomo; dunque è un concetto-limite che ci ricorda che quello che ci viene dato da conoscere nello spazio e nel tempo non è la realtà in assoluto e che quindi l'intelletto non può conoscere le cose in sé ma solo pensarle nella loro possibilità, sotto forma di X ignote, di incognite.
LOGICA TRASCENDENTALE.
2. DIALETTICA TRASCENDENTALE.
Nella "Dialettica trascendentale" Kant affronta il problema se la metafisica sia o no una scienza valida ossia ci possa dare delle conoscenze certe. Si noti: il termine "dialettica" viene qui usato da Kant in senso negativo cioè con esso egli intende l'analisi e lo smascheramento dei ragionamenti fallaci della metafisica. Chiariamo: il pensiero umano è limitato, in ambito conoscitivo, all'esperienza. La sua tendenza ad andare tuttavia oltre l'esperienza è naturale e irrefrenabile ma, non appena lo spirito si avventura al di fuori degli orizzonti dell'esperienza, cade fatalmente in errore. Queste illusioni ed errori hanno però una logica ben precisa: sono tipi di errori che non possono non essere commessi. C'è ancora da notare che il termine "ragione" ha in Kant un significato generale che indica la facoltà conoscitiva in genere, e ne ha poi uno specifico, esaminato proprio qui nella Dialettica trascendentale, che indica l'intelletto quando si spinge al di là dell'esperienza possibile. Questo spingersi oltre è (si ricordi) qualcosa di strutturale e di ineliminabile: lo spirito umano non può non cercare di spingersi oltre l'esperienza. Kant distingue allora tra la ragione (Vernunft ) che è la facoltà dell'incondizionato, cioè l'intelletto quando pretende di andare oltre l'esperienza ed entrare nell'ambito della metafisica, e l'intelletto (Verstand) quando si mantiene negli orizzonti della esperienza possibile.
Kant chiama Idee le forme a priori ovvero i concetti puri della ragione (come le categorie erano le forme a priori o i concetti puri dell'intelletto). Esse corrispondono all'Idea psicologica o anima, all'Idea cosmologica o mondo, all'Idea teologica o Dio. La ragione è portata costitutivamente ad unificare i dati del senso interno mediante l'Idea di anima; ad unificare i dati del senso esterno mediante l'Idea di mondo; ad unificare i dati esterni ed interni con l'Idea di Dio, intesa come la totalità di tutte le totalità ed il fondamento di tutto ciò che esiste. L'errore della metafisica consiste nel trasformare queste tre esigenze mentali di unificazione dell'esperienza in altrettante realtà autonome: questa è però un'illusione strutturale così forte che non cessa neppure quando ci rendiamo conto che essa è tale.
L'ANIMA.
L'Idea dell'anima, studiata dalla psicologia razionale, intende appunto l'anima come una sostanza personale, immateriale, incorruttibile, spirituale, immortale ecc.
Per Kant chi afferma l'esistenza dell'anima come qualcosa di reale e diverso dal corpo, dotata delle caratteristiche che abbiamo appena elencato, cade in un errore trascendentale che Kant chiama paralogismo. Il paralogismo è un ragionamento sbagliato che consiste nel partire dall'Io Penso e trasformarlo in una sostanza a sé. Non si può, per Kant, parlare dell'anima come di una sostanza perché essa è una delle categorie (esattamente la prima categoria della relazione) e dunque può applicarsi solo ai dati dell'intuizione sensibile ma non a qualcosa che, per definizione, è al di là del conoscere fenomenico. L'Io Penso, d'altra parte, non è affatto una sostanza, ma solo una pura attività formale a cui non possiamo riferire nessuna categoria (è da esso che dipendono le categorie; è soggetto e non oggetto delle categorie). In altre parole, noi siamo coscienti di noi stessi come esseri pensanti ma non riusciamo a conoscere l'io quale è in sé stesso. Noi ci possiamo conoscere solo e sempre come fenomeni e dunque conosciamo solo l'io fenomenico, l'io quale appare a noi tramite le forme a priori di spazio, tempo e categorie, ma non certo l'io quale sarebbe in se stesso, l'io noumenico.
IL MONDO
L'Idea di mondo è studiata dalla cosmologia razionale e si riferisce alla totalità dei fenomeni cosmici. In realtà, però, noi possiamo sperimentale solo questo o quel fenomeno ma non la serie completa dei fenomeni, per cui il "mondo" nella sua totalità rimane al di là di ogni esperienza umana possibile. Quando dunque vogliamo fare un discorso sul mondo nella sua totalità, finiamo per cadere in errori che Kant chiama antinomie, ovvero in affermazioni o ragionamenti opposti ugualmente dimostrabili ma per ciò strutturalmente contraddittori e insolubili.

Vi sono quattro antinomie:
- La prima sostiene nella tesi che il mondo ha un inizio nel tempo e un limite nello spazio; nella antitesi che il mondo non ha limiti né nel tempo né nello spazio.
- La seconda afferma nella tesi che ogni sostanza composta consta di parti semplici, mentre la sua antitesi dice che non vi è nulla di semplice ma tutto è composto.
- La terza afferma nella tesi che oltre alla causalità naturale vi è la libertà, mentre l'antitesi nega che vi sia anche la libertà ma tutto è determinato.
- La quarta afferma nella tesi che, oltre al mondo, c'è un essere necessario, mentre l'antitesi sostiene che non vi è nessun essere necessario.
Queste antinomie rimangono appunto insolubili perché quando la ragione pretende di oltrepassare i limiti dell'esperienza non può che oscillare da un opposto all'altro senza avere mai la possibilità di decidere definitivamente per l'una o per l'altra delle alternative. Il difetto è nella stessa Idea di "mondo", la quale, essendo al di là di ogni esperienza possibile, non può fornire alcun criterio per decidere la verità di una o dell'altra affermazione.
Kant conclude facendo notare che le tesi sono proprie del pensiero metafisico e del razionalismo, mentre le antitesi sono tipiche dell'empirismo e della scienza. Inoltre, per quanto riguarda la terza e la quarta antinomia, le antitesi potrebbero valere per il fenomeno (nel cui ambito non si incontrano mai né Dio né la libertà) mentre le tesi potrebbero valere per la cosa in sé.

DIO
L'Idea di Dio è più esattamente un Ideale, il modello supremo di tutte le cose, di ogni perfezione e realtà. Ma questa Idea o Ideale che noi ci formiamo con la ragione ci lascia, secondo Kant, nella "totale ignoranza" circa la sua esistenza effettiva, anche se la metafisica fin dall'inizio ha elaborato diverse prove per dimostrarne l'esistenza. Kant riduce a tre tutte le prove possibili per dimostrare l'esistenza di Dio: la prova ontologica, quella cosmologica e quella fisico-teologica o teleologica.
LA PROVA ONTOLOGICA
(Quella di S. Anselmo, Cartesio, Leibniz ecc.). Essa afferma l'esistenza di Dio partendo dal concetto di Dio come dell'Essere perfettissimo, il quale, in quanto tale, non può mancare dell'attributo o perfezione della esistenza. Kant obietta contro questa prova in primo luogo osservando che essa salta dal piano della possibilità logica a quello della realtà ontologica, mentre l'esistenza, per noi esseri umani, è sempre e solo qualcosa che noi possiamo constatare solo per via empirica: essa non è una proprietà "logica" ma un fatto che possiamo asserire solo con l'esperienza. La differenza tra cento talleri (monete) reali e cento talleri pensati sta nel fatto che i primi esistono, si possono percepire, mentre gli altri no. In altri termini, l'esistenza degli oggetti che rientrano nella sfera sensibile ci è data dall'esperienza, ma per gli oggetti del pensiero puro non c'è alcun modo di conoscere la loro esistenza, poiché questa dovrebbe conoscersi a priori e per fare questo dovremmo avere una intuizione non sensibile bensì intellettuale, che l'uomo non ha. A parte queste considerazioni preliminari, Kant ritiene che la prova ontologica sia impossibile e contraddittoria. E' impossibile se si intende derivare una realtà da un'idea, ovvero se nel concetto di Dio non si ritiene già implicita la sua esistenza, giacché in questo caso l'esistenza dovrebbe essere aggiunta tramite l'esperienza (l'esistenza è una delle categorie) mentre Dio è ovviamente al di là di ogni esperienza sensibile. E' contraddittoria se nel concetto di Dio si ritiene già implicita la sua esistenza, giacché in tal caso non si tratterebbe più del semplice concetto ma dell'esistenza vera e propria, che , del resto, sarebbe già data per scontata : non dimostrerei allora più nulla ma la ammetterei implicitamente e mi contraddirei. In altri termini, se si presuppone l'esistenza di un Essere perfettissimo, è ovvio che non si possa fare a meno di concludere che esista necessariamente, ma il problema è proprio nel vedere se tale Essere esista davvero.
LA PROVA COSMOLOGICA
Viene da Kant espressa in questo modo: "Se qualcosa esiste, deve esistere anche un Essere necessario; ma almeno io esisto, quindi esiste un Essere necessario". In questa prova, secondo Kant, vi è un uso improprio del principio di causalità che, partendo dall'esperienza degli esseri contingenti, pretende di innalzarci, oltre l'esperienza, ad un Essere incausato e necessario. Il principio di causalità, per Kant, vale solo nell'ambito dell'esperienza (è una delle categorie e "fuori di questo non ha alcun senso"). E' insomma una regola con cui noi connettiamo i fenomeni tra loro e quindi non può servire a connettere i fenomeni con qualcosa di trans-fenomenico quale è Dio. Inoltre la prova cosmologica ricade nella prova ontologica, anzi, non è altro, dice Kant, che una prova ontologica mascherata: infatti l'Essere necessario di cui parla non è altro che l'Essere perfettissimo della prova ontologica, quindi si ritornerebbe alla prova precedente che Kant aveva già invalidato.
LA PROVA FISICO-TEOLOGICA O TELEOLOGICA
(Da "telos" = fine, finalismo). Essa fa leva sull'ordine, la finalità, la bellezza del mondo per innalzarci ad una Mente suprema, ordinatrice cioè Dio creatore, perfetto e infinito. Essa - dice Kant - "è la più antica, la più chiara e la più adatta alla comune ragione". Essa però dimentica, secondo Kant, che l'ordine della natura potrebbe essere una conseguenza della natura stessa e delle sue leggi immanenti. Se poi tale prova intende asserire che l'ordine della natura non deriva dalla natura stessa, essa è obbligata a concepire Dio non solo come la Causa dell'ordine del mondo, ossia come un supremo Architetto, ma anche come la causa dell'essere del mondo, ossia come il suo Creatore: ma in questo caso si ritorna sempre alla prova ontologica. Inoltre la prova pretenderebbe di stabilire, sulla base dell'ordine cosmico, l'esistenza di una causa infinita e perfetta. Ma anche se noi sappiamo che nell'universo c'è una qualche misura o gradazione di ordine, è pur sempre relativa ai nostri parametri umani e, in ogni caso, non certo infinita o priva di imperfezioni. Non possiamo dunque concludere che la causa del mondo sia infinitamente perfetta, saggia ecc. Se ciò avviene è perché vogliamo saltare l'abisso che separa il finito dall'infinito, dunque essa "potrebbe al più dimostrare un architetto del mondo ma non un creatore del mondo".
La conclusione di Kant è che noi non possiamo dimostrare con certezza l'esistenza di Dio. Si badi: Kant non intende negare l'esistenza di Dio in sé ma solo la sua dimostrabilità tramite la nostra ragione. Egli non è affatto un ateo bensì è un agnostico (=non so, non conosco), in quanto ritiene che la ragione umana non possa dimostrare né l'esistenza di Dio né la sua non esistenza.
Altra conseguenza è che una metafisica come scienza è impossibile giacché la pretesa sintesi a priori metafisica supporrebbe un intelletto intuitivo, che all'uomo non è dato o, in altre parole, ciò che supera l'ambito dell'esperienza rimarrà sempre indimostrabile per l'uomo. Ma che senso hanno allora le tre Idee in quanto tali? Esse - dice Kant - non possono avere un uso costitutivo come le categorie, cioè non servono a conoscere alcun oggetto possibile, ma hanno un uso regolativo cioè valgono come "regole" per sistemare i fenomeni in maniera ordinata, come se tutti i fenomeni che riguardano l'uomo dipendessero da un principio unico (anima); come se tutti i fenomeni della natura dipendessero unitariamente da principi intelligibili di un unico mondo; come se la totalità delle cose dipendesse da un unico Essere necessario e creatore. Le Idee, non valendo come realtà, varranno come principi euristici (dal greco "eurischein" = scoprire), come condizioni cioè che impegnano l'uomo nella ricerca, unificando la conoscenza, rafforzano il pensiero e stimolano la ricerca a continuare per sempre.
DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO
E' la seconda e ultima parte, e anche la più breve, della Critica della ragion pura. In essa Kant distingue la filosofia dalla matematica. La prima viene definita come "conoscenza razionale mediante concetti", la seconda è invece "conoscenza razionale mediante la costruzione di concetti". La filosofia inoltre può dirsi "sistema" ma solo nel senso di "sistema di ricerca" di quell'unità a cui l'esperienza può offrire la materia. La filosofia deve poi evitare sia il dogmatismo che lo scetticismo. Con la critica invece si segnano i confini delle possibilità della ragione e si stabiliscono le sue capacità. La filosofia non è tanto una realtà quanto un ideale: non si può imparare la filosofia ma si può imparare a filosofare, cioè ad esercitare correttamente la ragione.
CRITICA DELLA RAGIONE PRATICA (1788)
La ragione può servire non solo a dirigere la conoscenza ma anche l'azione. Oltre alla ragione teoretica abbiamo quindi anche la ragione pratica. Nella Critica della ragion pratica Kant cerca di mostrare come la ragione sia sufficiente da sola, senza l'ausilio di impulsi sensibili, a muovere la volontà ad agire. Anzi, solo così possono esistere principi morali validi per tutti gli uomini, cioè leggi morali aventi valore universale. In altri termini, Kant è persuaso che esista nell'uomo una legge morale a priori, valida per tutti e per sempre. Come nella prima Critica Kant partiva dall'idea di conoscenze scientifiche universali e necessarie, così adesso parte dall'analogo convincimento che esista una legge etica assoluta, che il filosofo non deduce ma può solo constatare.
Massime e imperativi
Kant inizia distinguendo i principi pratici che portano l'uomo ad agire. Essi sono di due tipi: le massime e gli imperativi.
Le massime valgono solo soggettivamente e variano di momento in momento, da persona a persona.
Gli imperativi sono invece principi pratici oggettivi, cioè sono validi per tutti. In altre parole, sono comandi, regole, doveri che esprimono la necessità oggettiva dell'azione.
Essi sono divisi da Kant in due tipi: ipotetici e categorici.
L'imperativo ipotetico determina la volontà a condizione che essa voglia raggiungere certi obiettivi. La loro forma è quella del "Se... allora devi". Sono "ipotetici" perché valgono nella ipotesi in cui si voglia quel fine e comunque valgono oggettivamente per tutti coloro che si propongono di raggiungere quel fine. Fanno parte di essi anche le cosiddette "regole dell'abilità" (ad esempio le procedure per diventare un buon medico) ed i "consigli di prudenza" (ad esempio i vari manuali per la salute o per vivere felici).
L'imperativo categorico determina invece la volontà non in vista di ottenere un determinato effetto desiderato, ma solamente come volontà. Ordina cioè il dovere in modo incondizionato, a prescindere da qualsiasi fine o scopo, ed ha la forma del "Tu devi perché devi", "Tu devi e basta". Ora, soltanto l'imperativo categorico, in quanto ordina in modo perentorio per tutti e per tutte le circostanze, è universale e necessario ed è quindi morale.
Formalismo, autonomia e rigorismo morale
L'imperativo categorico, che si identifica per Kant con la legge morale, non può consistere nel comandare cose particolari, per quanto nobili possano essere. La legge morale, per Kant, non può mai dipendere dal suo contenuto concreto, altrimenti si cadrebbe nell'empirismo o nell'utilitarismo. La legge morale è invece tale per la sua forma di legge, cioè per la sua intrinseca razionalità : la legge morale è tale perché mi comanda di rispettarla proprio in quanto legge ("devi perché devi") ed essa è appunto tale perché vale universalmente, senza eccezioni. Questo è il formalismo morale kantiano:
morale non è ciò che si fa, ma l'intenzione con cui lo si fa. L'essenza della morale è l'adeguazione della volontà alla forma della legge. Ad esempio un principio come "Ama la Patria" non può essere confuso con la legge morale stessa, visto che, in alcuni casi, può anche essere morale non amare affatto la Patria (quando ad esempio fosse tiranna). Dunque l'imperativo morale non risiede in una manualistica dei precetti ma soltanto nella legge morale universale che Kant esprime nel modo seguente: "Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale". Il che significa che bisogna agire tenendo presenti gli altri e rispettando la dignità umana che è in noi e quindi anche nel prossimo. Sta poi a ciascuno tradurre in concreto, nelle diverse situazioni, la parola della legge. Quindi le norme etiche concrete in cui si incarna l'imperativo categorico esistono solo in funzione di esso, che è ciò che le suscita e le giustifica.
In un'altra opera, la Fondazione della metafisica dei costumi (1785), Kant aveva già proposto due altre formule dell'imperativo categorico. La prima diceva: "Agisci in modo da considerare l'umanità, sia nella tua come nella altrui persona, sempre come fine e mai come semplice mezzo". La seconda era: "Agisci in modo che la volontà, con la sua massima, possa considerarsi come universalmente legislatrice rispetto a se stessa". Entrambe le formule ribadiscono che noi non solo siamo sottomessi ad una legge, ma che questa legge è il frutto della nostra stessa razionalità e dipende quindi da noi: siamo noi stessi con la nostra volontà e razionalità a dare legge a noi stessi.
La morale - dice ancora Kant - istituisce una sorta di "Regno dei fini" ossia una comunità di persone libere, che vivono secondo le leggi della morale e si riconoscono dignità a vicenda; in esso ognuno è suddito e legislatore al tempo stesso.
Secondo Kant, tutte le morali prima di lui erano eteronome cioè ponevano il fondamento del dovere in principi esterni all'uomo e alla sua ragione (Dio, la felicità, il piacere, la saggezza ecc.). La morale kantiana vuole invece essere autonoma, essere legge a se stessa, perché chiede di agire solo per il puro dovere. Il cuore della moralità kantiana è appunto il dovere per il dovere ossia nello sforzo di attuare la legge della ragione solo per ossequio ad essa, e non sotto la spinta di personali inclinazioni o in vista dei risultati che possono derivarne. Da ciò anche il rigorismo di Kant che esclude dalla morale ogni emozione o sentimento (se faccio il bene mi sento meglio, sono in pace con la mia coscienza e simili). Nell'etica kantiana si riconosce il diritto ad un unico sentimento, cioè il rispetto per la legge (riferito naturalmente alle persone).
D'altra parte la morale implica anche una partecipazione interiore, altrimenti rischia di sfociare in atti di legalismo ipocrita o in forme di autocompiacimento. Il dovere e la volontà buona (= la convinta adesione della volontà alla legge) innalzano l'uomo - dice Kant - al di sopra del mondo sensibile, fenomenico, dove vige il meccanismo delle leggi naturali, e lo fanno partecipare al mondo intelligibile, noumenico, dove vige la libertà.
La libertà viene definita da Kant come l'indipendenza della volontà dalla legge naturale dei fenomeni, ossia dal meccanismo causale naturale. Questa libertà, che non spiega nulla nel mondo dei fenomeni, spiega invece tutto nella sfera morale. Se definiamo appunto la libertà come "indipendenza dalla legge naturale" o "indipendenza dai contenuti della legge morale", la definiamo però negativamente . Se invece diciamo che la volontà è in grado di determinarsi da sé, di autodeterminarsi, allora abbiamo anche il senso positivo della parola libertà. Insomma, per Kant libertà, autonomia, formalismo sono tutt'uno.

I tre postulati della ragione pratica
Com'è noto, un postulato matematico è una proposizione non dimostrabile che viene ammessa o accettata per rendere possibile lo svolgersi di una operazione geometrica ecc. In ambito morale, Kant parla di "postulati" per riuscire ad ammettere quelle "realtà" che erano sfuggite nella Critica della ragion pura. In altri termini, Kant ammetterà, come vedremo subito, la libertà, l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio come postulati morali per poter appunto giustificare la stessa morale. Se non li ammettessimo, tutta la moralità non avrebbe alcun senso. Ciò deriva dal presupposto che per Kant, come per gli uomini del suo tempo, la morale è un fatto innegabile (bisogna aspettare i pensatori come Nietzsche, Freud ed altri per negarlo), che non ha bisogno di essere giustificato o provato, per cui anche i postulati li possiamo tranquillamente ammettere e considerare validi. Ecco qui come Kant li giustifica.

Postulato della libertà.
La libertà è la condizione stessa della morale, la quale, nel momento in cui prescrive il dovere, presuppone anche che si possa agire o meno in conformità ad esso e quindi che si sia liberi. K esprime tale postulato con la breve formula: "Tu devi, quindi puoi". Si noti: come mai Kant considera la libertà un postulato ? Visto che K è fermo alle conclusioni gnoseologiche dell'opera precedente, ritiene quindi che l'idea di una auto-causalità ovvero di un libero arbitrio non possa essere "scientificamente" affermata, in quanto il mondo dell'esperienza si regge tutto sul principio di causa ed effetto. L'uomo però appartiene, per Kant, a due mondi: da un lato, in quanto fenomeno, si riconosce come determinato e soggetto alla causalità meccanica; dall'altro, si scopre come un essere intelligibile e libero in virtù della legge morale. Nulla vieta dunque che una medesima azione possa essere prodotta da una causa libera, e quindi noumenica, ma che si dispieghi poi secondo le leggi della necessità, in dimensione fenomenica.
Postulato della immortalità dell'anima.
Poiché solo la santità , ossia la completa conformità della volontà alla legge, può rendere degni del sommo bene (che è virtù più felicità), e poiché in questa vita terrena la virtù e la felicità non sono mai, per Kant, pienamente congiunte in quanto lo sforzo per essere virtuosi e la ricerca della felicità sono sovente due azioni distinte, dobbiamo allora postulare un mondo dell'aldilà in cui sia possibile realizzare quello che in questa vita è risultato impossibile. Si deve perciò ammettere, postulare che l'uomo possa disporre, in un'altra dimensione della realtà di una durata infinita grazie alla quale progredire all'infinito verso la santità. "Ma tale progresso infinito è possibile solo presupponendo un'esistenza e una personalità dell'essere ragionevole stesso perduranti all'infinito: e ciò prende il nome di immortalità dell'anima". Si noti che ciò, secondo Kant, non contraddice il carattere disinteressato che deve avere la morale, perché c'è in noi il bisogno di pensare che l'uomo, pur agendo per dovere, possa anche essere degno di felicità.
Postulato dell'esistenza di Dio.
Se la realizzazione completa della santità implica l'immortalità dell'anima, il sommo bene, cioè la felicità proporzionata alla virtù, implica l'esistenza di Dio, in quanto richiede una Volontà santa e onnipotente che faccia corrispondere la felicità ai nostri meriti, il che rende moralmente necessario postulare appunto l'esistenza di Dio. In altri termini, la ricerca della virtù rende degni di felicità, ed essere degni di felicità ma non poterlo essere è assurdo; appunto per questo è lecito postulare l'esistenza di Dio che faccia corrispondere, in un altro mondo, quella felicità che compete al merito e che non si è realizzata in questo mondo.
Da quanto detto, deriva il primato della ragione pratica sulla ragione pura, in quanto la ragione è riuscita ad ammettere, in quanto è anche pratica, quelle realtà che non avrebbe mai potuto ammettere nel suo uso puramente teoretico. Si ricordi: i postulati kantiani continuano a non valere come conoscenze. Anche perché, se la ragionevole speranza nell'esistenza di Dio e nell'immortalità dell'anima si trasformasse in una certezza razionale, la moralità non avrebbe più alcun senso e tanto meno la nostra libertà, in quanto l'uomo sarebbe una sorta di marionetta. La morale non ha comunque bisogno della religione ma è autosufficiente, grazie alla ragione pratica. Anche se, comunque, la morale potrebbe condurre alla religione, poiché soltanto da Dio possiamo sperare quel sommo bene che la legge morale ci indica.

CRITICA DEL GIUDIZIO (1790)
Nella Critica della facoltà di Giudizio, Kant tenta di colmare "l'incommensurabile abisso fra due mondi tanto diversi" quali quello dei fenomeni, studiato nella Critica della ragion pura, e quello dei fini e della libertà, analizzato nella Critica della ragion pratica. Kant intende per "facoltà del Giudizio" una facoltà intermedia tra il conoscere e la sfera della azione morale, e cioè l'ambito del sentimento. Kant ritiene infatti il sentimento una facoltà autonoma, accanto alla conoscenza e all'azione, sulla scia degli empiristi inglesi e dei moralisti francesi. Il sentimento va qui inteso, in senso generale, come quella facoltà mediante la quale l'uomo fa esperienza di quella finalità nella realtà che la prima delle tre Critiche escludeva sul piano fenomenico mentre la seconda postulava a livello noumenico. Esso è comunque e sempre un'esigenza umana e non ha valore conoscitivo o teoretico, come già detto.
I giudizi conoscitivi e scientifici della ragione pura sono definiti da Kant giudizi determinanti perché "determinano" gli oggetti fenomenici mediante le forme a priori (spazio, tempo, categorie) per cui possiamo dire ad esempio che "questo tavolo è rotondo, basso, di legno ecc.". Vi è però un altro tipo di giudizi che Kant chiama giudizi riflettenti perché "riflettono" su un oggetto già dato il nostro "sentimento" nei suoi confronti, come quando diciamo: "Ma guarda che bel tavolo!", oppure "Che stupendo tramonto!". La Critica del Giudizio è appunto dedicata all'analisi dei giudizi riflettenti. Essi sono di due tipi: i giudizi estetici ed i giudizi teleologici ovvero finalistici.
Il giudizio estetico.
Bisogna anzitutto dire che Kant assume qui il termine "estetico" e di "estetica" nel senso a noi più comune, e cioè "dottrina del bello e dell'arte", tralasciando l'accezione che eravamo abituati ad usare nella Critica della ragion pura di "dottrina del senso e della sensibilità".
Il giudizio estetico è appunto quello che si riferisce al bello e al sublime. Ma che cos'è bello per Kant?
Il bello. Il bello non è "ciò che comunque piace", altrimenti sarebbe ad esempio. bello per un assassino trucidare le persone, ma è definito da Kant, in un primo senso, come "ciò che piace nel giudizio di gusto". Il che significa che gli uomini hanno una facoltà specifica per giudicare appunto il bello e questa è chiamata facoltà del gusto. Una cosa è quindi bella per Kant se:
è oggetto di un puro piacere estetico disinteressato, per cui l'uomo si bea nella contemplazione della cosa appunto bella . Si badi che Kant si riferisce soprattutto alla bellezza naturale e non alla bellezza del corpo (che non è sempre oggetto di... piacere disinteressato). La bellezza è concepita come un a finalità senza scopo, è un "libero e vissuto gioco di armonie formali" che non risulta imprigionabile in nessun schema conoscitivo; è oggetto di un piacere universale e necessario, su cui tutti debbono convenire. Per Kant non si può dire "è bello per me" ma soltanto "è piacevole per me", proprio per il motivo che, se una cosa è giudicata bella, essa esige da tutti lo stesso giudizio, e tutti noi parliamo in forza di una voce universale che ci sentiamo dentro come affine a quella di ogni altro. Si noti: tutto ciò senza pretendere affatto di dimostrare il perché giudichiamo "bella" quella determinata cosa, poiché non si tratta qui di giudizi logici o scientifici ma di giudizi basati sul sentimento; è ciò che piace universalmente senza concetto. Quest'ultima definizione riassume un po' le precedenti. Il bello è universale perché deve valere per tutti gli uomini, però questa universalità si riferisce ai sentimenti e dunque è "senza concetto", cioè non può essere razionale, logica, conoscitiva.
La rivoluzione copernicana estetica.
Il giudizio estetico è comune a tutti gli uomini e perciò resta spiegato il fenomeno della universalità estetica e giustificata la presenza di un "senso comune" nel gusto. Il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza e si basa sul sentimento, che è quella facoltà tramite la quale viene intuita la finalità della natura. Il bello dunque non è per Kant una proprietà delle cose in sé ma è il frutto dell'incontro del nostro spirito con le cose, cioè qualcosa che nasce solo per la mente umana ed in rapporto ad essa. Ecco la rivoluzione copernicana estetica! D'altronde, se la bellezza risiedesse negli oggetti in sé, essa non sarebbe più qualcosa di libero perché verrebbe imposto a noi dalla natura.
Il sublime.
Il sublime è un valore estetico prodotto in noi dalla percezione di qualcosa di smisurato o di incommensurabile : proprio per questo, anch'esso non è nelle cose di per sé ma nasce nell'uomo. Esso è di due tipi: matematico e dinamico.
Il sublime matematico è dato dal sentimento che proviamo nei confronti di entità naturali smisuratamente grandi come l'oceano, il cielo ecc. Questo stato d'animo è ambivalente: da un lato proviamo una sorta di dispiacere perché ci sentiamo piccolissimi e come schiacciati di fronte a tanta immensità, ma dall'altro, proviamo un qualche piacere perché lo spirito è portato ad elevarsi all'idea dell'infinito. Trasformiamo così il nostro sentimento di piccolezza fisica in una consapevolezza della nostra grandezza spirituale, per cui la vera e propria sublimità è in fondo quella dell'uomo.
Il sublime dinamico nasce di fronte allo spettacolo della natura immensamente potente (come nel caso dei terremoti, vulcani in eruzione, uragani ecc.). Anche in questo caso, se in un primo momento possiamo avvertire un senso di impotenza, proviamo poi un sentimento che si riferisce alla nostra grandezza ideale, dovuto alla nostra dignità di esseri umani pensanti, portatori di razionalità e di moralità, al di sopra della semplice natura. Si ricordi qui la scritta che Kant volle incisa sulla tomba: Il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me" (Der bestirnte Himmel ueber mir und das moralische Gesetz in mir), tratta dalla conclusione della Critica della ragione pratica.
Il giudizio teleologico o finalistico.
Il giudizio teleologico (dal greco "telos" = fine, scopo) si riferisce ovviamente alla nostra tendenza di considerare finalisticamente la natura, ovvero di vedere nella natura la presenza di cause finali. In altre parole, di fronte ad un organismo, noi non possiamo fare a meno di stupirci e di vederlo come il frutto di un fine o scopo; così pure, di fronte all'ordine e all'armonia della natura, noi non possiamo fare a meno di concepire una causa suprema, Dio, che abbia agito con un'intenzione. Se poi ci portiamo in ambito etico, non possiamo non considerare la natura in modo tale che essa è stata organizzata dalla sapienza di Dio, in modo tale da rendere possibile la libertà e la moralità dell'umanità, ed è quindi predisposta finalisticamente alla nostra specie. L'uomo, dice Kant, non è soltanto il fine della natura, ma lo scopo ultimo di essa sulla terra, in modo che, rispetto a lui, tutte le altre cose naturali costituiscono un sistema di fini. "Senza l'uomo, il mondo sarebbe un semplice deserto".
Kant ricorda tuttavia che il giudizio teleologico è privo di valore teoretico o dimostrativo in quanto la finalità è solo un nostro modo di vedere il reale. Il finalismo è considerato da Kant come una sorta di "promemoria critico" che da un lato, ci ricorda i limiti di una visione puramente meccanicistica della realtà e, dall'altro, ci rammenta la nostra impossibilità di avere conoscenze valide se trascendiamo l'orizzonte fenomenico e scientifico.
Concludiamo con un accenno a due operette kantiane particolarmente significative.
La prima è un famosissimo saggio del 1784 intitolato Risposta alla domanda: Che cos'è l'Illuminismo? A tale questione egli così risponde: "L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità, il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da altri. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! - è dunque il motto dell'Illuminismo". In altri termini, Illuminismo significa per Kant diventare maggiorenni dal punto di vista della ragione, imparare cioè a pensare con la propria testa. Per trasformare la società conta l'autonomia intellettuale dell'individuo e non è tanto il miglioramento delle istituzioni - come pensavano i philosophes francesi - la causa della "illuminazione" dei singoli. Per Kant la libertà civile trova il suo perno nella libertà di pensiero e di stampa, attraverso cui l'educazione alla ragione può essere estesa a tutti i cittadini e forse anche ai potenti che reggono le sorti del mondo.
La seconda operetta da ricordare è un saggio del 1795 intitolato Per la pace perpetua. Più esattamente, con intento ironico, si riferiva all'insegna di un oste olandese su cui era dipinto un cimitero, con la scritta appunto "Alla pace eterna". In esso Kant sostiene che per promuovere la pace bisogna:
1) costituire una federazione di tutti gli Stati;
2) avere la forma repubblicana e respingere la guerra come strumento per dirimere le controversie fra le nazioni; in caso di conflitto lo si sottopone all'arbitrato di una sorta di "superparlamento" comune;
3) infine auspica il "diritto cosmopolitico" cioè il diritto di uno straniero di non essere trattato da nemico nel territorio di un altro stato. Insomma, Kant auspica un accordo tra la politica e la morale come "imperativo categorico" per la pace.

Esempio