Il nome della rosa

Materie:Scheda libro
Categoria:Filosofia

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ANALISI DEL ROMANZO “IL NOME DELLA ROSA” DI UMBERTO ECO

Il romanzo “Il nome della rosa” è stato scritto da U. Eco nel 1980 ed ha acquisito, fin dal suo esordio, fama mondiale. Si tratta del suo primo romanzo cui hanno fatto seguito “Il pendolo di Foucault” (1988), “L’isola del giorno prima” (1994), “Baudolino” (2000), “La misteriosa fiamma della regina Loana” (2004).
L’autore, nato ad Alessandria nel 1932, è un grande esperto di filosofia del linguaggio, estetica, semiotica, teoria della letteratura e dell’arte, sociologia della cultura. E’ professore universitario e presidente della Scuola Superiore di studi umanistici a Bologna.
Ha pubblicato numerosi saggi, tra cui “Apocalittici e integrati”, “Lector in fabula”, “Kant e l’ornitorinco”. Numerosi anche i suoi scritti giornalistici.
Il romanzo è stato portato sugli schermi dal regista J.J.Annaud.
Quest’opera può essere definita un giallo medioevale ma, ad una lettura più approfondita, le si possono attribuire i caratteri del romanzo storico. Infatti il contesto storico è assolutamente verosimile ed è quello dell’Italia del XIV secolo; inoltre alcuni personaggi della vicenda sono realmente esistiti, come Bernardo Gui, Ubertino da Casale, Michele da Cesena, papa Giovanni XXII, l’imperatore Ludovico il Bavaro, fra’ Dolcino…
L’evento importante, cui si fa spesso riferimento, è la cosiddetta cattività avignonese, il periodo, dal 1308 al 1377 durante il quale la sede papale fu spostata da Roma ad Avignone, nel sud della Francia. Si parla di cattività, cioè di prigionia, poiché il papato era subordinato alla volontà dei sovrani francesi e non godeva dell’indipendenza dal potere politico.
Altro riferimento storico importante è il conflitto, nel seno della Chiesa, tra gerarchie ufficiali e ordini mendicanti, in particolare i Francescani, in merito alla disputa sulla povertà di Cristo.
Cenni sostanziosi vengono fatti ai movimenti ereticali, molto diffusi all’epoca, in particolare ai Dolciniani; ben delineato è anche il ruolo del Tribunale dell’Inquisizione , istituito per la lotta agli eretici, rappresentato da Bernardo Gui.
In questo romanzo il narratore è interno; si tratta infatti, secondo la finzione dell’autore, del racconto che Adso, protagonista e testimone dei fatti narrati, rievoca alla fine della sua vita. Prevale quindi l’uso della prima persona e tutta l’opera può considerarsi come un unico flashback. Contemporaneamente però si può parlare di narratore esterno in quanto è come se Adso si sdoppiasse nei due ruoli di giovane protagonista ignaro e vecchio narratore onnisciente.
La narrazione procede in modo lineare, l’intreccio corrisponde sostanzialmente alla fabula in quanto non ci sono anticipazioni dei fatti, anche se sono presenti parziali flashback soprattutto in relazione ad alcuni personaggi, di cui si raccontano vicende passate per comprendere meglio il presente.
L’opera, apparentemente non indirizzata ad un preciso destinatario, fa però esplicito riferimento a un lettore futuro, soprattutto nelle ultime pagine.
Il romanzo, ambientato nel 1327 in un monastero dell’Italia nord occidentale non meglio identificato, vede come protagonista Guglielmo di Baskerville, un monaco francescano incaricato dall’abate Abbone, priore del monastero, di indagare sulla morte misteriosa del miniatore Adelmo. Interroga i monaci, studia ogni piccolo indizio e alla fine scopre la causa non solo della morte di Adelmo ma anche delle altre numerose tragiche morti che si verificheranno nel monastero, fino al tragico rogo finale che vedrà la distruzione di tutti i libri della ricchissima biblioteca.
E’ un frate francescano molto dotto, infatti conosce il greco e il latino; ha letto libri molto importanti, per esempio le opere di Aristotele ed è amico e ammiratore di filosofi del tempo, come Guglielmo di Ockam e Ruggero Bacone.
Fisicamente agile e resistente nonostante l’età matura, Guglielmo si distingue per la sua voglia di indagare e di scoprire e per l’uso costante delle sue brillanti capacità intellettuali.
“Era dunque l’apparenza fisica di frate Guglielmo tale da attirare l’attenzione dell’osservatore più distratto. La sua statura superava quella di un uomo normale ed era tanto magro che sembrava più alto. Aveva gli occhi acuti e penetranti; il naso affilato e un po’ adunco conferiva al suo volto l’espressione di uno che vigili, salvo nei momenti di torpore[…] Anche il mento denunciava in lui una salda volontà, pur se il viso allungato e coperto di efelidi […]poteva talora esprimere incertezza e perplessità.”
Il suo nome allude significativamente a Guglielmo di Ockam, il grande filosofo tardomedioevale rappresentante insigne del nominalismo, cui tutto il romanzo, fin dal titolo, fa riferimento. Baskerville invece allude spiritosamente ad uno dei più famosi romanzi di Conan Doyle, “Il mastino di Baskerville”, in quanto il frate appare come uno Sherlock Holmes ante litteram, capace di risolvere problemi apparentemente irresolubli grazie a elegantissime catene di inferenze logiche.
Il suo allievo, Adso, è un novizio dell’abbazia di Melk. E’ inevitabile cogliere un’assonanza tra il suo nome e quello di Watson, la “spalla” di S. Holmes! E non può sfuggire la voluta insistenza su questo parallelismo quando Guglielmo, rivolgendosi al novizio, lo apostrofa con un “Elementare, mio caro Adso!”
Il padre del giovane lo ha affidato al francescano affinché lo educhi e lo istruisca. Non appare nessuna compiuta descrizione fisica in quanto è egli stesso la voce narrante e anche le sue caratteristiche psicologiche e morali vanno desunte dai suoi comportamenti. Ha imparato molto dal suo maestro, è in grado di aiutarlo nelle indagini con acute riflessioni. Durante tutto il suo soggiorno in Italia viene tormentato dall’immagine “peccatrice” di una bella ragazza del villaggio, con la quale ha un intenso e breve incontro e che verrà condannata poi come eretica. Il soggiorno con il maestro e le drammatiche esperienze vissute al monastero nel breve periodo in cui vi soggiorna segneranno indelebilmente la sua crescita.
Altri personaggi importanti che intervengono nella vicenda sono i monaci dell’abbazia.
L’abate Abbone è un frate benedettino che dirige sia spiritualmente sia materialmente l’abbazia. All’arrivo di Guglielmo e di Adso sembra molto contento ma, col passare dei giorni e con l’accumularsi di orrendi delitti, mostra minor spirito di collaborazione e appare irritato dalla mancata soluzione del mistero. Legato ai beni materiali dell’abbazia, è orgoglioso del potere che in essa esercita. Sarà una delle vittime della vicenda, quando Jorge lo imprigionerà nel passaggio segreto della biblioteca, destinandolo ad una fine lenta e tragica.
Jorge da Burgos, ex bibliotecario, è uno dei personaggi più inquietanti della vicenda e, alla fine, si scoprirà che è lui l’artefice diretto e indiretto di tanti delitti. Custode di un testo ritenuto perso, il secondo libro della Poetica di Aristotele che tratta della commedia, non esita, ritenendo questo testo contrario alla morale, ad architettare una morte orrenda per chiunque ad esso si avvicini: avvelenando le pagine del libro incriminato, anche i suoi lettori saranno inevitabilmente contaminati e condannati.
“[…]era un monaco curvo per il peso degli anni, bianco come la neve, non dico solo il pelo ma pure il viso e le pupille. Mi avvidi che era cieco. La voce era ancora maestosa e le membra possenti anche se il corpo era rattrappito dal peso dell’età. Ci fissava come se ci vedesse, e sempre anche in seguito lo vidi muoversi e parlare come se possedesse ancora il bene della vista. Ma il tono della voce era invece di chi possieda solo il dono della profezia.”
Uno spiritoso richiamo fonicocollega il suo nome a quello di Jorge-Borges, lo scrittore argentino, anche egli cieco, che ha scritto l'affascinante racconto La biblioteca di Babele.
Jorge ha passato le consegne di bibliotecario a Malachia di Hildesheim cui ha rivelato come accedere e muoversi nelle sale dell’intricato labirinto, assolutamente inaccessibili agli altri tranne che all'aiuto bibliotecario.
“La sua figura era alta e, benché estremamente magra, le sue membra erano grandi e sgraziate. “ Il suo potere in realtà è condizionato dalla volontà di Jorge che continua ad essere il vero conduttore della biblioteca. Malachia, contagiato dalla curiosità per il libro misterioso, morirà mostrando i chiari segni dell’assunzione del veleno, cioè i polpastrelli e la lingua anneriti, in seguito al gesto di umettare le dita per voltare le pagine.
Altro personaggio intrigante è Berengario da Arundel, aiuto bibliotecario. E’ giovane, dal volto pallido e dal corpo bianco e molle. Soffre di epilessia e spesso si sottopone a bagni tiepidi per calmare le convulsioni. Proprio nei “balnea” verrà trovato il suo cadavere. Anche lui si rivela essere una vittima del libro misterioso oltre che dei rimorsi legati al rapporto carnale con Adelmo, cui ha concesso di vedere il libro in cambio di favori sessuali.
Di Adelmo, suicida e non assassinato, sappiamo solo che era un abilissimo miniatore, capace di dar vita a pagine stupende animate da mostri immaginari, spesso inconsueti e non sempre in accordo con le regole tradizionali di quest’arte.
La seconda vittima è Venanzio da Salvemec, traduttore dal greco e dall’arabo, devoto ammiratore di Aristotele. Viene ucciso in un luogo non identificato ma viene trovato morto in un orcio pieno di sangue suino.
Severino da Sant’Emmerano si occupa dell’erboristeria, ha cura dei balnea, degli ospedali e degli orti. Conosce i poteri di tutte le erbe ed è dotato di spirito pratico e di grandi qualità di sperimentatore. Proprio per questo si intende immediatamente con Guglielmo, di cui condivide la curiosità intelligente e le tecniche di indagine e proprio per questa sua collaborazione sarà ucciso nel suo laboratorio, prima che possa consegnare a Guglielmo il libro prezioso di cui era riuscito ad impadronirsi.
Bencio da Uppsala è un giovane monaco scandinavo, studia retorica. Ha uno spirito indipendente e mal sopporta le regole e i vincoli dell’abbazia. Inizialmente aiuta Guglielmo nell’indagine, fornendogli indizi preziosi sulla relazione tra Berengario e Adelmo, successivamente nega il suo aiuto per non dover rinunciare all’eventuale posto di aiuto bibliotecario.
Remigio è il cellario dell’abbazia, cioè colui che si occupa degli approvvigionamenti e della cucina . E’ un uomo di aspetto volgare ma giovanile, canuto e piccolo ma ancora robusto e veloce. Cede volentieri ai peccati di gola e di lussuria ma riscatta queste sue debolezze affrontando coraggiosamente una morte ingiusta e accusando apertamente la Chiesa ufficiale di corruzione. In gioventù aveva aderito al movimento dei Dolciniani, ritenuti eretici, e per questo anche lui, come Salvatore, verrà condannato al rogo dall’Inquisizione.
Nicola da Morimondo è il maestro vetraio ma diventa il nuovo cellario, dopo la condanna di Remigio. Fornisce a Guglielmo lenti nuove, dopo che le originali sono misteriosamente scomparse.
Salvatore è un aiutante del monastero, personaggio bizzarro sia fisicamente sia nel comportamento. E’ gobbo, storpio, lurido, con occhi rotondi e bocca ampia e sgraziata, fornita di denti neri e aguzzi. Parla un linguaggio tutto suo, risultato da un miscuglio di latino e di lingue volgari quali l’inglese, il francese, lo spagnolo, l’italiano, testimonianza della sua vita raminga e vagabonda. Ecco ad esempio la sua ricetta del “casio in pastelletto”. “Facilis. Pigli el casio che non sia troppo vecchio, ne troppo insalato e tagliato in feteline a boconi quadrii o sicut te piace. Et postea metterai un poco de butierro o vero de structo fresco à rechauffer sobre la brasia. E dentro vamos a poner due fette da casio e come te pare sia tenero, zucharum et cannella supra positurum du bis. Et mandalo subito in tabula, che se vole mangiarlo caldo caldo.”
Sarà condannato e giustiziato anche lui come eretico, dopo aver subito orribili torture.
La misteriosa ragazza è un personaggio che fa una breve tragica comparsa nella vicenda. Spinta dalla miseria è costretta a prostituirsi per avere in cambio cibo da Remigio e Salvatore. Regalerà a Adso l’unica emozione amorosa della sua vita, in uno slancio di passione disinteressata. Accusata ingiustamente di stregoneria verrà bruciata assieme agli altri due.
Bernardo Gui è un frate domenicano inviato dal papa per risolvere una questione dottrinale circa la povertà di Cristo, dibattuta tra francescani e Chiesa ufficiale. Inquisitore, darà una sua soluzione dei delitti accusando di essi i tre “eretici”, Remigio, Salvatore e la ragazza.
“Era un domenicano di circa settant’anni, esile ma dritto nella figura. Mi colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel celare pensieri e passioni che nell’esprimerli a bella posta.”
Dall’inquisizione di Bernardo Gui deve difendersi un altro personaggio molto significativo, Ubertino da Casale, che sembra l’esatto opposto di Guglielmo. Quanto questi è razionale tanto quello è mistico e uomo di fede. I due sembrano simboleggiare il conflitto tra ragione e fede che ha animato tutta la filosofia del medioevo.
E’ un frate francescano spirituale, in contrasto col papa riguardo alle questioni sulla povertà del clero. Accettato dai benedettini, dovrà fuggire all’arrivo della delegazione papale per sfuggire ad eventuali accuse di eresia.
La vicenda è ambientata in Italia. Il luogo non viene precisato nella sua collocazione esatta ma senz’altro il monastero descritto è situato nell’Italia nord-occidentale, presumibilmente tra Liguria e Toscana, non lontano dal mare.
Già nell’esordio è presente una descrizione del paesaggio che fa da sfondo all’abbazia: un luogo montagnoso su cui è caduta la prima neve (siamo a fine novembre), scosceso e ricco di tornanti. Il clima è umido, freddo e variabile. “[…]Il sole era affievolito. Da bella e limpida che era, la mattina stava diventando umida e ombrosa. […] ma a quell’altezza era difficile distinguere le brume che venivano dal bosco da quelle che scendevano dall’alto.[…]”
La descrizione poi si concentra sulla grande abbazia, circondata da una cinta di mura. Si apre su un unico varco da cui parte un viale, lungo il quale si trovano gli orti e il giardino botanico, i balnea, l’ospedale e l’erboristeria. Sul fondo si erge l’edificio, a forma quadrangolare e sorretto da torrioni eptagonali. “Per la mole, e per la forma, l’Edificio mi parve come più tardi avrei visto nel sud della penisola italiana Castel Ursino o Castel del Monte, ma per la posizione inaccessibile era di quelli più tremendo, e capace di generare timore nel viaggiatore che vi si avvicinasse a poco a poco.”
Al centro dell’area sorge la chiesa, alla cui destra si trovano la casa dell’abate, il dormitorio e la casa dei pellegrini.
Gli interni appaiono spogli e angusti per quanto riguarda le celle dei monaci, imponenti e maestosi oltre che ricchi di oggetti preziosi per quanto riguarda i luoghi di uso collettivo, come la chiesa, la cripta, lo scriptorium. Quest’ultimo affascina particolarmente il visitatore Adso. “[…]Le volte, curve e non troppo alte, […] sostenute da robusti pilastri, racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima luce […] L’abbondanza di finestre faceva sì che la gran sala fosse allietata da una luce continua e diffusa, anche se si era in un pomeriggio d’inverno. […] Vidi altre volte in altri luoghi molti scriptoria, ma nessuno in cui così luminosamente rifulgesse, nelle colate di luce fisica che facevano risplendere l’ambiente, lo stesso principio spirituale che la luce incarna, la claritas […]”
La chiesa appare edificata nello stile che i posteri avrebbero chiamato gotico, anche se meno severo di quello che è possibile vedere nelle cattedrali del nord Europa, mitigato dalla solarità tipica dello spirito italiano. E’ ricca di bassorilievi, popolati di mostri e personaggi biblici e Adso ne è allo stesso tempo colpito, affascinato e spaventato.
Un discorso a parte merita la biblioteca. Posta all’interno dell’edificio e costruita come un labirinto, nasconde tesori librari preziosissimi e induce Guglielmo e Adso a più di un’avventura. I libri vi sono classificati secondo un criterio logico che solo il bibliotecario conosce e che sfida Guglielmo ad un vero e proprio gioco di enigmistica, nell’intento di trovare il misterioso volume di cui ha avuto indicazioni cifrate.
Il romanzo è diviso in sette giornate, scandite al ritmo delle varie ore liturgiche: Mattutino, Laudi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro, Compieta.
La narrazione alterna sequenze descrittive, quando vengono presentati ambienti e personaggi; narrative, quando, soprattutto attraverso la forma dialogica, gli eventi della storia prendono forma; riflessive, quando Adso medita sul suo passato e sul suo presente.
Lo stile dell’opera è particolarmente interessante. L’autore è riuscito ad intrecciare il linguaggio dotto delle dispute teologiche e filosofiche con quello semplice, addirittura dialettale, di protagonisti più umili, come ad esempio Salvatore.
Il latino è spesso presente, sia in riferimento al suo uso corrente da parte dei protagonisti, sia in citazioni di opere famose.
Nonostante le prese di distanza dell’autore, che avverte il lettore di non aver voluto riferirsi al presente, emerge comunque un messaggio che può essere di insegnamento in tutti i tempi. L’opera invita a diffidare di qualsiasi forma di integralismo e di fanatismo; nella condotta è bene invece seguire l’uso della ragione, osservare i fatti prima di interpretarli, non partire da idee preconcette ma costruirle sulla base di un umile e paziente lavoro intellettuale, così come il personaggio di Guglielmo di Baskerville/Umberto Eco ha voluto mostrarci.
Si sa che Umberto Eco è un grande appassionato di enigmi e di enigmistica, e Il nome della rosa è un romanzo insieme enigmistico ed enigmatico. Enigmistico, perché contiene una serie di "giochi" da risolvere, fra cui un "giallo di citazioni" non denunciate come tali .Enigmatico perché alcune tesi possono non emergere a una prima lettura del testo e si rivelano progressivamente: si può quindi parlare anche di romanzo iniziatico.
Sembra essere "la parola" il tema dominante del racconto, annunciato fino dal titolo, presente con intonazioni diverse nei punti strategici della narrazione. “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”, leggiamo all'inizio del romanzo. I nomi sono segni con i quali l'uomo tenta di dare un ordine al mondo. Il semiologo Umberto Eco non ha scritto soltanto per divertirsi e divertirci con gli stereotipi del romanzo storico, poliziesco, fantastico. Ha scritto il romanzo filosofico della parola, della sua forza e dei suoi limiti e dell'uso negativo o positivo che l'uomo può farne.
Nell'antica biblioteca medievale avviene la più alta celebrazione della parola scritta che si esprime però attraverso una cultura aristocratica, chiusa, severa negatrice del riso che fa ridere della verità, incapace di apprezzare il mondo nuovo che è fuori, laggiù, nelle città operose, dove sta nascendo un modello di cultura laica che ha trovato nell'uso della lingua volgare lo strumento agile per una comunicazione più ampia. “In questo paese il più grande filosofo del nostro secolo non è stato un monaco, ma uno speziale”, dice Guglielmo da Baskerville, alludendo a Dante Alighieri.
Il messaggio forse più profondo dell’opera è una messa in guardia nei confronti di una "passione insana per la verità", intesa come certezza assoluta, la quale conduce inevitabilmente all'intolleranza e ai roghi.

Riferimenti filosofici
La filosofia di Guglielmo di Occam è il nominalismo relativista secondo cui si conoscono soltanto le realtà individuali - questo cavallo, quest'uomo -, mentre i presunti "universali" (di ascendenza platonica) - l'uomo, il cavallo - sono semplici segni che servono a connotare - cioè a "notare insieme" - gruppi di realtà individuali, di cui esprimono - peraltro in modo incerto e impreciso - qualche generale rassomiglianza.
Il metodo di Guglielmo da Baskerville è certamente quello di Sherlock Holmes - il suo nome fa riferimento al romanzo holmesiano “Il mastino dei Baskerville” e Adso assona con Watson.
All'inizio del romanzo, in una scena tipicamente holmesiana, Guglielmo stupisce i suoi interlocutori descrivendo nei più minuti particolari, da qualche tenue traccia, un cavallo che non ha mai visto; quando Adso-Watson gli chiede come ha fatto, risponde con una lezione di occamismo, spiegando che "tra la singolarità della traccia e la mia ignoranza, che assumeva la forma assai diafana di un'idea universale", ha scelto la traccia singola, senza correre dietro alle idee universali che sono "puri segni", ed è così pervenuto alla "conoscenza piena", che è "l'intuizione del singolare".
È grazie alla nuova logica di Occam (filosofo del Trecento, v. testi di storia e filosofia, precursore dell’empirismo moderno e difensore del nominalismo) che Guglielmo da Baskerville risolve gli enigmi dell'abbazia.
E’ con un motto nominalista che il romanzo si chiude: "Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus", "La rosa originaria - la presunta essenza (idea platonica) della rosa - consiste in un nome, noi non abbiamo che nudi nomi".
Le conseguenze del nominalismo occamista sono di straordinaria ampiezza: se si conosce soltanto l'individuale, ogni presunta verità che vada al di là dell'individuale singolare e provvisorio è del tutto malferma; forti sono le assonanze con il relativismo sofistico, con lo scetticismo e, se si vuole, anche con il cosiddetto "pensiero debole" del secolo XX:
La tesi filosofica sostenuta dall’autore è che una "passione insana per la verità", intesa come certezza assoluta (v. ad esempio l’integralismo di B. Gui) porta all'intolleranza e ai roghi.

L'essere e le idee: il problema degli universali
Che cosa sono le idee? Che cos'è l’essere?
Nel Medioevo l'interpretazione della natura e dell'uomo è legata alla visione cristiana di Dio Tutti i problemi ruotano intorno al tema del rapporto tra creatore e creatura.
La natura è intesa come segno della perfezione divina e viene posta in rilievo l'esigenza dell'anima di trovare nella vita materiale e sensibile la via spirituale per l'unione con Dio. Lo studio del pensiero dell'uomo è quindi importante, in questo contesto, perché nella mente l'uomo trova la via per accedere alla verità del mondo. La logica, quindi, e la teoria della conoscenza, non sono discipline filosofiche che vanno coltivate per se stesse, ma perché attraverso esse l’uomo può migliorare la propria comprensione della verità del mondo, cioè di Dio.
È in questa chiave che si deve intendere la notevole rilevanza che assume durante tutta l'età della filosofia scolastica il cosiddetto problema degli universali, cioè il problema della natura delle idee.
Quanto alla sua impostazione, il problema deriva da Platone. Quando poi, tra la fine del XII secolo e l'inizio del XIII, le opere di Aristotele vengono introdotte in Occidente, la questione si arricchisce delle tematiche tratte dalle sue opere.
Storicamente, il problema degli universali nella sua formulazione medievale è sorto nell'ambito della filosofia scolastica del XII secolo dalle differenti interpretazioni di un passo di Porfirio (233-305), il filosofo neoplatonico che ha raccolto in Enneadi gli scritti di Plotino.
Che cosa sono le nostre idee? Sono solo elaborazioni mentali, strumenti del pensiero per orientarsi nel mondo, classificarne gli enti e i rapporti tra le cose e permettere così il linguaggio? Oppure, come vuole Platone, le idee hanno una realtà oggettiva in sé? Impostato in questi termini. non si vede l'aspetto teologico del problema. Esso è invece centrale, perché dalla scelta per l'una o l'altra soluzione dipende l'interpretazione della natura, dell'anima e di Dio.
realismo-nominalismo
Il problema è noto come problema degli universali perché le idee di cui parliamo sono quelle che definiscono non le realtà individuali (questo uomo, questa casa), ma i concetti universali (l'idea di uomo, l'idea di casa).
Nella Scolastica medievale si è chiamata realista la posizione di quanti pensano che le idee abbiano una realtà oggettiva in sé, mentre nominalista è la posizione di chi ritiene si tratti solo di elaborazioni della mente, la cui unica realtà consiste nell'essere pensate e nell'essere dette: la realtà dell'idea è solo nel nome con cui la esprimiamo.
il problema dell'essere
Strettamente connessa con la disputa sugli universali è l'analisi che la Scolastica compie del classico problema dell'essere, che assume nella filosofia cristiana un significato decisivo perché pone in questione Dio stesso. Si tratta infatti di comprendere l’essere di Dio (il Creatore) e quale rapporto vi sia con l'essere del mondo (il creato).
Il problema dell'essere si lega con la questione degli universali perché la posizione nominalista porta a una concezione dell'essere diversa dalla posizione realista. Per i nominalisti, infatti, l'essere è proprio solo degli enti individuali e non possono esistere realtà universali, come le idee. Per i realisti, al contrario, l'esistenza oggettiva delle idee va ammessa in modo rigoroso.
Il nominalismo
Se le idee esistono come realtà oggettive in sé, esse devono essere conosciute da Dio, create da lui, essere qualche cosa nella sua mente. La vera realtà è data dalla loro presenza in Dio. Così per l'uomo conoscere le idee significa conoscere Dio, penetrare la sua natura. Il mondo materiale non è che passeggero riflesso della perfezione di queste idee, come ha suggerito Platone.
Se invece le idee sono solo strumento della mente. la cui validità non è oggettiva, L'esistenza reale deve essere attribuita solo agli enti individuali.
Il sostenitore più importante di questa teoria è, nel XII secolo, Roscellino di Compiègne, filosofo francese del quale non ci sono pervenuti gli scritti, sicché conosciamo le sue teorie solo attraverso i giudizi dei suoi avversari. Per lui l'idea universale è flatus vocis: la sua realtà consiste solo nel fatto che pronunciamo dei nomi che indicano molte cose individuali effettivamente esistenti (l'uomo in generale, la casa in generale, e così via).
Al termine della parabola della filosofia scolastica, due secoli dopo Roscellino, è vissuto in Inghilterra Guglielmo di Ockham, filosofo e teologo appartenente all'ordine francescano. Nel suo pensiero le tematiche del nominalismo abbandonano l'impostazione tradizionale e muovono in una direzione nuova, avviando una tradizione di pensiero che sfocerà, secoli dopo, nelle teorie degli empiristi.
Ockham sostiene la tesi nominalista con notevole coerenza e radicalità. Tutta la filosofia medievale si muove nella convinzione che la ragione possa cogliere l'essenza metafisica delle cose. Ockham considera non giustificata questa fiducia nella ragione, la cui capacità di conoscenza va studiata attentamente.
I suoi discepoli hanno coniato l'espressione “rasoio di Ockham" (con allusione al "taglio", all’eliminazione di concetti non indispensabili) per indicare il principio fondamentale del suo metodo di ricerca: Ockham sostenne che non si deve ipotizzare l'esistenza di enti, anche se necessari forse a completare in modo organico e coerente una teoria, se questa esistenza non è sufficientemente suffragata dalla esperienza e resa indubitabile di fronte alla ragione dall'evidenza sperimentale. Ed ogni realismo nella considerazione delle idee ricorre ad entità di questo tipo, visto che l'esperienza ci mostra solo enti rigorosamente individuali e mai nulla di universale.
Applicando il "rasoio di Ockham" allo studio della natura, ad esempio, va eliminata la nozione aristotelica di quinta essenza, o etere, per indicare la materia di cui sono composti i cieli, perché i dati sperimentali in nostro possesso non rendono necessaria questa ipotesi. Questo di Ockham si dimostrerà un principio fecondo, perché fornirà una prima regola del metodo per la ricerca scientifica, volta all'osservazione diretta della natura, studiata senza alcun pregiudizio.
Abelardo
Figura singolare nel panorama filosofico francese del XII secolo, Pietro Abelardo (XI-XII sec.) è uno studioso inquieto, attento alle istanze della ragione, convinto che si debba guardare alla tradizione religiosa e alle Scritture con occhi liberi da pregiudizi. La sua biografia rivela un temperamento fortemente battagliero, uno spirito libero. Ha avuto in sorte una vita degna del protagonista di un romanzo, e autentico romanzo è la sua storia d'amore con Eloisa, di cui - sia autentico o meno - ci rimane un epistolario che da secoli affascina i lettori.
Gli universali e il "sermo"
Sul problema degli universali -trattato in vari scritti di logica -Abelardo si distacca dal puro nominalismo di Roscellino, di cui in un primo tempo è stato allievo. Anche per lui nella realtà non c'è nulla di universale e l'universalità è il prodotto di un'operazione mentale.
Tuttavia l'idea universale non è un semplice flatus vocis, come tale priva di valore logico autonomo e di verità.
L'universale trova la propria verità nel discorso (sermo). Infatti la parola uomo non designa un ente realmente esistente, e quindi, quando ne ascolto il suono perché qualcuno la pronuncia, essa non richiama alla mia mente un’esperienza precisa che si riferisca ad un'unica realtà; piuttosto richiama un'immagine comune e confusa di molte persone realmente esistenti. I nomi universali corrispondono a concetti indeterminati che non riproducono esattamente la realtà, ma sono legittimi se rispecchiano una caratteristica comune a molte cose individuali. La logica è quindi una disciplina specifica che studia le condizioni di validità del discorso umano.

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