I venti dello scontro svegliano la fiammia dell'intelligenza illuminista

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Categoria:Filosofia

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Testo

LAVORO DI APPROFONDIMENDO SULL’ILLUMINISMO:

I VENTI DELLO SCONTRO SVEGLIANO LA FIAMMA DELL’INTELLIGENZA ILLUMINISTA

«Smarrito di notte in una immensa foresta non ho che una modesta lanterna per orientarmi. Sopraggiunge uno sconosciuto che mi dice: «Amico mio per trovare meglio la strada soffia sulla fiammella». Lo sconosciuto è un teologo” (D. Diderot)

INTRODUZIONE
Anche se non si può affermare che la politica dell’Illuminismo si identifichi con quella della rivoluzione, è certo che fra le due intercorrono legami spesso evidenti. Il portato storico dei fatti del 1789 non può essere giustificato dalla sola opera culturale degli intellettuali francesi settecenteschi, dato che la rivoluzione è frutto di cause in prima istanza economiche e politiche, ma tanto meno si può pensare ad un movimento vittorioso senza principi ispiratori capaci di smuovere e agitare, più o meno compostamente, le forze da schierare contro la reazione aristocratica.
È proprio inquadrato storicamente che, a mio parere, si deve leggere lo sforzo di tutti gli illuministi, da Voltaire a Montesquieu. In effetti, se è vero quanto dice Turgot, cioè che “la natura, ineguale nei suoi benefici, ha dato a certi spiriti una abbondanza di talenti che ha rifiutato ad altri” e che “le circostanze sviluppano questi talenti o li lasciano avvolti nell’oscurità”, quale palco migliore potevano trovare questi intellettuali per mostrare, al mondo e alla storia, la propria fervida intelligenza, se non un ambito rivoluzionario come quello della Francia del XVIII secolo, pronta a mitizzare i propri ideologi e a renderli eterni?
Peraltro ci si trova in una zona d’Europa in cui il sostanziale equilibrio delle classi sta favorendo da secoli lo sviluppo dello stato assolutista, accumulando tensioni sociali verso un inevitabile scontro; è ovvio quindi che, al minimo accenno polemico, lo scontro culturale assuma i toni politici della satira e della critica. La poesia di Voltaire, il romanzo di Rousseau e Laclos, la scienza enciclopedica di Diderot e D’Alambert, diventano tribuna di denuncia e derisione, trasformando l’arte e la sperimentazione in militanza intellettuale.
Forse, per quel che può contare una riflessione a posteriori, possiamo riconoscere dei limiti nella particolare teoria borghese francese che, facendosi spesso più agitatrice che rivoluzionaria, perde il senso della storia. È un confine forte e pericoloso per gli illuministi; una maggiore considerazione della storia, infatti, avrebbe lasciato una maggiore resistenza all’ideologia nemica che si basava proprio sul passato. Non potendo, per la mancanza materiale di specifiche istituzioni politiche, dibattere “empiricamente” i propri interessi, la borghesia francese, e i suoi teorici, caratterizza la propria concezione dello stato nella sola forma generale. In terra di Francia, le teorie lockeane diventano strumento di critica ai privilegi e all’assolutismo, ma perdono la loro praticità relegate all’attività di pochi e in pochi casi; gli illuministi scontano il peso dell’impossibilità di espressione in uno stato oppressivo e, purtroppo, si siedono, in alcuni casi, su un “moralismo prudente”. Detto questo, come vedremo, l’idea di progresso dà freschezza alle pagine del ’700 francese e riesce a superare anche i limiti impostigli dall’intellettualismo.
È bellissimo vedere rinascere la fiamma della buona fede in uno stato parassita e imputridito, la ragione farsi largo prepotentemente nella storia ed avere la capacità di ribaltare la falsità del senso comune.

• DIDEROT E D’ALEMBERT
Nel costruire la storia della cultura esistono libri e opere che segnano dei punti di non ritorno, diventando coordinate di orientamento per lo sviluppo successivo del pensiero; fra queste troviamo, durante l’Illuminismo, l’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert, in questa, che essi stessi definiranno la “grande maledetta opera”, si può riconoscere l’estrema attualità del pensiero settecentesco.
Alla voce “Sovrani” Diderot scrive: “è un errore funesto alla felicità dei popoli, nel quale i sovrani cadono troppo comunemente: credono che la sovranità sia disprezzata qualora i suoi diritti siano limitati…Il cavalier Temple diceva a Carlo II che un re d’Inghilterra, che sia l’uomo del suo popolo, è il più grande re del mondo; ma se vuole essere di più, non è più nulla. Voglio essere l’uomo del mio popolo, rispose il monarca”; è una dichiarazione di linea politica chiara che mostra l’essenza della prima strategia degli enciclopedisti, desiderosi di illuminare un “re-cittadino”. Ma è una posizione che si scontra con una realtà che ne mostra il lato utopistico, mostrando, agli occhi di un ormai disincantato Diderot, i veri limiti dell’assolutismo e gli obiettivi della classe borghese rivoluzionaria; sarà egli stesso a scrivere, radicalizzando il proprio pensiero: “è stato detto talvolta che il governo migliore sarebbe quello di un despota illuminato. È questa una proposizione molto dubbia. Potrebbe accadere facilmente che la volontà di questo signore assoluto fosse in contraddizione con la volontà dei suoi sudditi. In tal caso, nonostante la sua giustizia e i suoi lumi, egli avrebbe il torto di spogliare i suoi sudditi dei loro diritti, anche se a loro vantaggio…non si deve mai permettere ad alcuno, chiunque egli sia, di trattare le persone affidate a lui come se fossero una mandria di animali”. È in questa elaborazione successiva che Diderot conia il termine “lese societe” –lesa società- in contrasto aperto al tanto usato “lesa maestà”. Il 1789 si sta avvicinando a passi di marcia, c’è chi lo registra…
D’Alembert non è da meno nel precorrere i tempi, occupandosi della voce “Copernico”, avrà modo di scrivere, polemizzando con astronomi e filosofi italiani che, dopo anni dalla ritrattazione galileiana, ancora non osavano assumere il sistema eliocentrico: “[…] non varrebbe meglio dire che in materia di Fede le Scritture parlano come detta lo Spirito Santo e in materia fisica parlano come il popolo di cui bisogna pure adottare il linguaggio se ci si vuol mettere alla sua portata? Con questa distinzione si spiega tutto; fisica e fede sono ugualmente al sicuro”. Per ironia della storia, la fede, per proteggersi dalla fisica, percorse molto del cammino descritto dal “philosophe”, trovando teologi sempre pronti a mutare la propria visione in materia di scienza quando questa si faceva più pericolosa e attentava il primato ecclesiastico nel campo della conoscenza. Il filosofo, comunque, non ha alcun timore reverenziale nei confronti della Rivelazione, e, alcuni termini dopo il suo “Copernico”, alla voce “Cosmogonia”, scrive: “la filosofia di Democrito, che attribuisce tutto al caos e al fortunato concorso degli atomi, era ampia; ma una fisica che spiega la formazione dell’universo riducendo tutto a movimento diversamente combinato e a leggi semplici e generali, è perfettamente ortodossa quando comincia col riconoscere in Dio l’unico autore di questo movimento e di queste leggi[…]”; per D’Alembert, scienza e fede si incontrano tenendo a battesimo, col nome di Dio, una causa ancora sconosciuta. È questa una chiave di lettura attualissima che descrive come lo scienziato possa essere materialista nel suo laboratorio e cattolico intransigente in società. Dopo D’Alembert non ci fu il diluvio, bensì altri ricercatori che continuarono a squarciare il velo di cieca fede che copre la natura; il piedistallo su cui è invece bene in mostra la “verità rivelata” si è dimostrato sempre più caduco, crepandosi nel succedersi delle tappe della scienza, quando il “movimento” e le “leggi” vengono scoperte e spiegate. D’Alembert ha fatto retrocedere di un passo i teologi che gli si opponevano scrivendo sulle pagine della sua enciclopedia ciò che molti eretici avevano gridato prima di finire al rogo: la Bibbia va interpretata.
Visti i toni e gli argomenti, non ci stupiamo se l’Encyclopedie è stata criticata, censurata e distrutta dalla reazione aristocratica francese ed europea; essa, a prescindere dalle intenzioni dei suoi autori, finisce con l’esprimere i bisogni materiali e morali dell’epoca nuova che, per le condizioni storiche, erano quelli della borghesia.

• VOLTAIRE
Anche la produzione filosofica di Voltaire si può leggere come un percorso di formazione politica; egli, pur essendo e rimanendo fino alla morte fermo sostenitore dell’assolutismo illuminato, capirà, dopo averne fatto esperienza, che il suo ambito di lotta dovrà mutare. Voltaire pensa, infatti, di poter modificare il comportamento dei sovrani muovendoli alle leggi positive dettate dalla ragione; guardando alla filosofia come mezzo di istruzione dei principi, dà al philosophe il compito di essere consigliere di corte, egli ,“non avendo alcun interesse particolare, non può parlare che in favore della ragione e dell’interesse pubblico”, ed è quindi la persona più indicata alla creazione di leggi giuste ed eque “solo all’interno delle quali si trova la libertà”. Purtroppo Voltaire non ha considerato la possibilità che i sovrani abbiano nella realtà quotidiana interessi da seguire che superino qualsiasi speculazione filosofica di buon senso, essi devono pensare a mantenere il dominio della propria classe, peraltro ormai in declino, e non hanno alcuna intenzione di dedicarsi alle riforme che il philosophe consiglia. I principi accolgono Voltaire come pensatore e intellettuale ma nella pratica non lo ascoltano mai; è così che egli scopre, empiricamente, che la sua battaglia riformistica dovrà essere combattuta all’esterno di un regime oscurantista e fanatico nella veste di lotta culturale. Già Rousseau aveva deriso la formula re-filosofo affermando che un principe, al massimo: “pensa da filosofo”, ma poi “si comporta da re”, dimostrando come resti utopico sperare di rovesciare il centro di un sistema muovendosi al suo interno. In realtà la filosofia di Voltaire finisce con l’essere “critica religiosa, esegesi biblica, riflessione sulla realtà dell’uomo sempre attenta al caso concreto, all’esempio, e sempre alla ricerca della soluzione meno scolastica possibile” (D’Alembert), ma non è poco, soprattutto in un ambito di discussione in cui è la cultura ad essere il primo strumento politico e in cui il primo avversario da battere è un chiesa sempre più oscurantista e fanatica. Il filosofo scrive un “Dizionario di Filosofia Portatile” in cui si prende gioco delle credenze aprioristiche, inutili nella pratica, degli ecclesiastici dogmatici e degli accademici di tutte le epoche, mostrando con limpidezza e candore quanto risulti ridicolo ricercare cause ultime e schemi generali senza giungere ad alcuna conclusione pragmatica. Infatti, alla voce “Bene”, Voltaire afferma: “il problema del bene e del male resta, per coloro che cercano in buona fede di chiarirlo, un caos insondabile; per coloro che amano disputare è un giuoco intellettuale: sono dei forzati che giocano con le loro catene”, sono parole di scherno pungente, freschissime nella loro schiettezza, che sembrano quasi banali alle orecchie moderne ma sataniche (così le definiscono i contemporanei del filosofo) per quelle di un erudito del 1700. Ma il philosophe non si ferma qui e si fa ancora più deciso nel parlare di virtù, concludendone la definizione dando una precisa connotazione politica alla sua trattazione: “alcuni teologi affermano che il divino imperatore Antonino non era virtuoso: che era uno stoico testardo, il quale, non pago di comandare agli uomini, voleva anche godere della loro stima; che riferiva a sé il bene che faceva al genere umano; che fu per tutta la vita giusto, operoso, benefico per semplice vanità e che, con le sue virtù, non fece che ingannare la gente. E allora grido: «Mio Dio, dacci spesso furfanti simili!»”. La lotta al fanatismo è lotta politica quando questo è strumento di difesa del potere costituito, quando si erge come ostacolo per il libero fluire costruttore della ragione rivoluzionaria, quando impedisce agli uomini di sviluppare le proprie forze intellettuali e produttive; è questo il senso del filosofare di Voltaire; per quanto fra gli enciclopedici Diderot e D’Alembert e quest’ultimo illuminista ci furono diversi screzi e dispute, le loro opere finiscono con l’avere il medesimo segno. La censura in campo politico e religioso portava, in Francia come in altre nazioni d’Europa, a considerare la libertà di stampa come una questione vitale; la caratteristica di Voltaire è la divulgazione brillante, e la caratteristica della sua teoria politica è di essere sostanzialmente una tattica: libertà di parola, libertà di stampa, libertà della scienza, libertà religiosa.

“Il pretismo, è senza dubbio, un fiore sterile, ma un fiore sterile che cresce sull’albero vivo della vivente, feconda, vera, possente, onnipotente, oggettiva, assoluta conoscenza umana” (Lenin)

BIBLIOGRAFIA: Il testo filosofico di Cioffi, Luppi, Vigorelli, Zanette - 1993 Ed. Bruno Mondadori / L’illuminismo, Dizionario storico a cura di Vincenzo Ferrone e Daniel Roche – 1998 Ed. Laterza / editoriali sulla genesi del pensiero borghese da Raccolta Lotta Comunista 1965-1985

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A cura di Demartini Federico

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