Dolore: argomento multidisciplinare

Materie:Tesina
Categoria:Filosofia

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Testo

Andolina Grazia
22 marzo 2003
GIOSUE’ CARDUCCI
A) (1835-1907) Poeta dell'Italia Unita, antimanzoniano e convinto restauratore della classicità, soprattutto romana, come idea di bellezza ed eleganza (concetto foscoliano di "poesia civile" e di "bellezza serenatrice"), ma anche come virilità ed eroicità contro un presente deludente di piccoli uomini. Docente di eloquenza all'Università di Bologna fino al 1904. Questo periodo fu ricco di molti studi filologici e critici. La sua attività poetica è estremamente vasta e varia e gli fruttò il Nobel per la letteratura nel 1906. Forse nessun poeta italiano fu così celebrato in vita e così dimenticato nei nostri anni. Questo è comprensibile, perché C. è di gusto fortemente ottocentesco e retorico per l'orecchio moderno. Grandissima importanza ebbe per la vasta sperimentazione del metro italiano e classico (interessante da questo p.d.v. Odi barbare). Passa dalla fase giovanile fervida e polemica, con atteggiamenti filo-repubblicani (Giambi e d epodi), a un più tranquillo rapporto con la casa Savoia (fase monarchica). Fu senatore del Regno (1890) e poeta ufficiale, "vate della terza Italia" gode di prestigio e autorvolezza. Gli ultimi anni furono segnati da un gusto più intimo e malinconico (Rime e ritmi). Renato Serra dirà: "malinconia selvatica e gentile"; anche D'Annunzio lo sottolinea: "la forza di passione e di malinconia ch'era in lui" porta ad un sentimento nostalgico che contiene quel particolare "accento religioso" di cui ci parla il Croce. (Lina o Lidia =Carolina Cristofori Piva; Delia =Adele Bergamini).
B) Opere
Juvenilia (1880, ma la 1° 1850-1857) (titolo= verso di Ovidio: ad leve rursus opus, iuvenilia carmina veni -tornai di nuovo all'opera leggera, ai carmi giovanili)
È la prima raccolta di poesie (100) organizzata da C. che in essa riordina anche alcuni testi delle precedenti Rime di San Miniato. In essa l'autore esprime affetti intimi come l'amore e la nostalgia, o il dolore per il suicidio del fratello Dante, esalta i valori come la libertà, la virtus romana, la patria e la storia, difende polemicamente il classicismo contro i patetici manzoniani e i tardoromantici. (in questi anni faceva parte di un gruppo di filoclassicisti: Amici pedanti).
Levia gravia (1868, ma la 1° 1857-1870) (Il 1870 fu un anno particolare: di crisi. La sua vita è segnata da gravi lutti -madre e figlio Dante- che lo porteranno a rivedere alcune posizioni: meditazioni e rinnovamento spirituale
La raccolta prevede due libri (29 componimenti) e raduna testi del decennio 1861-1871, periodo bolognese e di tensione politiche. Come suggerisce il titolo, che è parallelo a Juvenilia, si trovano accostate poesie dal tema leggero o intimo a testi di spessore sociale e politico. Sono interessanti le rievocazioni storiche dall'atmosfera suggestiva come Poeti di parte bianca.
A Satana (1865 con lo pseudonimo di Enotrio Romano)
Inno dai toni accesi e polemici non tanto verso la Chiesa in sé, ma contro l'oscurantismo e la superstizione, contro tutto ciò che soggioga lo spirito libero dell'uomo, che frena il progresso. Si trova espresso il disprezzo per il presente mediocre e squallido, mentre sono esaltati gli ideali del Risorgimento. Il simbolo della modernità e della libertà e la locomotiva, che è trasfigurata in un moderno mostro. La pubblicazione di questo inno scatenò accese polemiche. Esso rappresenta lo spostamento del pensiero carducciano su posizioni radicali e giacobine.
Giambi ed epodi (1867-1872 e pubblicati 1882)
(titolo=endiadi: metri giambici del greco Archiloco e gli Epodi di Orazio) (due libri, 30 testi)
Lo spirito polemico dell'inno A Satana e l'attenzione al sociale di Levia gravia dominano la terza raccolta poetica di C. In essa spiccano da un lato il rimpianto per il passato e la cultura classica e, dall'altro, lo sdegno verso il deludente presente postunitario. I Giambi rappresentano la fase in cui il patriottismo repubblicano e risorgimentale toccano il vertice. Il pensiero è laico ed anticlericale. La poesia si fa satirica.
Rime nuove (1894 redazione definitiva)
Rappresentano una svolta radicale rispetto al passato: C. diviene il poeta ufficiale dei Savoia. La raccolta è complessa: 9 libri (105 testi) in cui si distinguono 3 filoni: paesaggistico, autobiografico e storico. Ritorna con prepotenza il tema della morte e della labilità della vita (morte del figlio Dante di 3 anni) Funere mersit acerbo e Pianto antico. Il VII libro, noto con il titolo di Ça ira, rievoca, in 12 sonetti, i fatti terribili della Rivoluzione francese. Compaiono alcune sezioni con traduzioni da autori stranieri: Goethe, Heine, August von Platen (apertura verso la cultura europea).
Odi barbare (1° 1877; definitiva 1893) (odi=perché composte in metri che ricalcano quelli greci e latine; barbare=perché sembrerebbero oscure agli antichi. Estranee ai classici, ma anche difficili per i moderni)
C'è continuità tematica con la raccolta precedente, ma la novità di questa famosa raccolta è certamente di natura formale e metrica: egli vuole piegare il verso italiano (accentuativo) ai ritmi classici (verso quantitativo). Sperimentazione di metri insoliti per la lett. ita.
Rime e ritmi (1° 1899) (rime=versi tradizionale: ritmi=versi barbari)
Si tratta dell'ultima raccolta poetica, venata di toni nostalgici e malinconici. Il linguaggio è ancora ricco di latinismi ed è ancora aulico, anche se l'autore si apre a sperimentalismi ricchi di suggestioni e attualità. Per questo l'ultima raccolta è più vicina al gusto moderno. Spiccano i paesaggi limpidi ed intimi e, in genere, si ripropongono, anche se mitigati, i temi tradizionale della poesia carducciana.
C) La critica: molto studiato da Croce: "poeta vate della nuova Italia", "evocatore possente della storia". Rivalutato anche dalla critica recente: W. Binni: lo definisce un tardo romantico saldato con il realismo del 2° 800: "egli chiude il glorioso periodo della poesia ita. dell'800" anche se la sua poetica è già venata di "ricchezza di sensibilità e di inquietudine". Russo: lo vede come poeta ottocentesco, anche se manifesta alcune inquietudini novecentesche: " poeta funebre", "canta la solitudine, l'amore e la morte". Il 1998 è stato un anno intenso per gli studi carducciani: ha preso il via la pubblicazione della seconda Edizione Nazionale (a c. di Mario Saccenti) e per la Newton & Compton è uscito il volume interamente commentato delle poesie.
PIANTO ANTICO

L'albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno,
da' bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l'inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.
Commento alla poesia
"Pianto antico"

Ai primi caldi del mese di giugno, il verde melograno rifiorisce nel piccolo orto solitario, ma Dante il bimbo, del poeta, che rallegrava tutto e tutti col suo chiasso, riposa ora nella terra fredda e buia.
Il sole non lo rallegra più e nemmeno l’amore dei suoi genitori ha il potere di svegliarlo e di ridargli la vita.
Giuseppe Ungaretti
La prima edizione de Il Dolore è del 1947, ma le singole liriche erano già tutte apparse in precedenza soprattutto su riviste. Il poeta indica come data di composizione un periodo che va dal 1937 al 1946, in gran parte coincidente con l'epoca di elaborazione de La Terra Promessa (1935 - 1953) e di Un Grido e Paesaggi (1939 - 1952): fra i tre libri esistono in effetti notevoli convergenze testuali, particolarmente rilevabili fra alcune poesie (dedicate al figlio morto) de Il Dolore e la poesia Gridasti: Soffoco della silloge Un Grido e Paesaggi. Lo stile di queste tre raccolte è influenzato anche dalle numerose traduzioni cui Ungaretti fu duramente provato dalla vita ed ebbe, nel contempo, la possibilità di approfondire la propria fede: " 'Il mistero' non è più motivo di dubbio, non c'è più l'inquieta sospensione nè l'esistenziale disperazione, e il mistero è questa volta umanamente toccato per via d'amore, di dolore, di fede, di sentimento quotidiano, cioè, è il dubbio superato, la contraddizione risolta nell'aperta dichiarazione. [...] Se Ungaretti nel Sentimento compie il cammino da creatura a Dio per via di immaginazione, abolito il tempo e la storia, in Il Dolore egli trova il mistero come incarnato nella storia, nelle figure del fratello, del figlio, dei morti, nella provocatorietà della loro presenza".
Il motivo del dolore è suggerito sia dalle disgrazie familiari sia dalla visione di Roma occupata dell'Italia straziata dalla guerra. Le prime sono tuttavia prevalenti. Oltre al normale umano significato che tali lutti hanno, specialmente quello del figlio, per Ungaretti esse rappresentano la cancellazione di quella sorta di residuo edenico che è l'età infantile: col fratello muore infatti l'ultimo testimone dell'infanzia del poeta e col figlio la speranza di rivivere di riflesso quest'esperienza. Insieme l'anomalia della morte di un bimbo di nove anni lo porta a considerare la natura sotto un aspetto nuovo. Gli si configura così in modo preciso la violenza che la vita stessa comporta e l'ineluttabilità di essa. Per esprimere l'angoscia di tale scoperta e la sofferenza nella sopportazione della vita, Ungaretti modula il suo canto su un tono nuovo utilizzando la parola gridata o l'affanno reso con dei puntini di sospensione. Non si può tuttavia parlare di autocommiserazione, in quanto il suo non è atteggiamento passivo, ma espressione di forza; anche nel dolore personale Ungaretti non si isola, ma s'immedesima nel ruolo di cantore dell'umano dolore, non solo del proprio. E in tal senso, anche nelle composizioni ad oggetto più intimo e personale, si avverte il senso di solidarietà che unisce i sofferenti singoli.
Le liriche di Il Dolore si presentano raccolte in sei sezioni:
Tutto ho perduto
• Tutto ho perduto
Giorno per giorno
• Giorno per giorno (1-17)
Il tempo è muto
• Amaro accordo
• Tu ti spezzasti
Incontro a un pino
• Incontro a un pino
Roma occupata
• Mio fiume anche tu
I ricordi
• L'angelo del povero
• Non gridate più

GRIDASTI: SOFFOCO
da UN GRIDO E PAESAGGI
Non potevi dormire, non dormivi...
Gridasti: Soffoco...
Nel viso tuo scomparso già nel teschio,
Gli occhi, che erano ancora luminosi
Solo un attimo fa,
Gli occhi si dilatarono... Si persero...
Sempre era stato timido,
Ribelle, torbido; ma puro, libero,
Felice rinascevo nel tuo aguardo...
Poi la bocca, la bocca
Che una volta pareva, lungo i giorni,
Lampo di grazia e gioia,
La bocca si contorse in lotta muta...
Un bimbo è morto...
Nove anni, chiuso cerchio,
Nove anni cui nè giorni, nè minuti
Mai più s'aggregeranno:
In essi s'alimenta
L'unico fuoco della mia speranza.
Posso cercarti, posso ritrovarti,
Posso andare, continuamente vado
A rivederti crescere
Da un punto all'altro
Dei tuoi nove anni.
Io di continuo posso,
Distintamente posso
Sentirtile mani nelle mie mani:
Le mani tue di pargolo
Che afferrano le mie senza conoscerle;
Le tue mani che si fanno sensibili,
sempre più consapevoli
Abbandonandosi nelle mie mani;
Le tue mani che si fanno sensibili,
Sempre più consapevoli
Abbandonandosi nelle mie mani;
Le tue mani che diventano secche
E, sole - pallidissime -
Sole nell'ombra sostano...
La settimana scorsa eri fiorente...
Ti vado a prendere il vestito a casa,
Poi nella cassa ti verranno a chiudere
Per sempre. No per sempre
Sei animo della mia anima, e la liberi.
Ora meglio la liberi
Che non sapesse il tuo sorriso vivo:
Provala ancora, accrescile la forza,
Se vuoi - sino a te, caro! - che m'innalzi
Dove il vivere è calma, è senza morte.
Sconto, sopravvivendoti, l'orrore
Degli anni che t'usurpo,
E che ai tuoi anni aggiungo,
Demente di rimorso,
Come se, ancora tra di noi mortale,
Tu continuassi a crescere;
Ma cresce solo, vuota,
La mia vecchiaia odiosa...
Come ora, era di notte,
E mi davi la mano, fine mano...
Spaventato tra me e me m'ascoltavo:
E' troppo azzurro questo cielo australe,
Troppi astri lo germiscono,
Troppi e, per noi, non uno familiare...
(Cielo sordo, che scende senza un soffio,
Sordo che udrò continuamente opprimeer
Mani tese a scansarlo...)
1939 - 1952
Seneca
Seneca nacque a Cordoba (oggi Cordova) in Spagna, tra il 12 e il 1 a.C. anche se la data è ancora incerta. Apparteneva ad una famiglia benestante di rango equestre. Fu condotto assai presto a Roma, dove si svolse la sua istruzione retorica e filosofica.
Abbandonata la vita contemplativa, Seneca intraprese il cursus honorum e rivestì l’incarico di questore. I rapporti con l’imperatore furono però ostili: dapprima Caligola progettò di ucciderlo e in seguito il nuovo imperatore, Claudio, nel 41 d. C. lo accusò di adulterio e lo spedì in esilio in Corsica. Nel 49 d.C., grazie all’intercessione di Agrippina, tornò dall’esilio e dovette accettare l’incarico di precettore dell’undicenne Nerone, cui la madre Agrippina stava già progettando la sua successione all’impero.
Alla morte di Claudio e alla successione di Nerone, Seneca si trovò a dirigere le redini dell’impero insieme ad Agrippina. Ma non durò molto: Nerone, infatti, dopo alcuni anni, uccise la madre ed istaurò un regime dispotico e totalitario. In seguito alla morte del pretore Afranio Burro, Seneca decise di ritirarsi a vita privata (61 d.C.). Tuttavia, Nerone, rimastogli ostile, lo accusò di aver congiurato contro l’impero e lo costrinse a togliersi la vita nel 65 d.C.
Le tragedie
Ci è pervenuto, sotto il nome di Seneca, un corpus di dieci tragedie di argomento mitologico. Si presuppone che quest’ultime, siano state scritte sotto l’impero Neroniano, dove egli prestava servizio.
Le controversie sulla produzione tragica di Seneca vertono su quale sia il vero intento ideologico perseguito dall’autore.
L’ipotesi più accreditata è quella secondo la quale, le tragedie, furono concepite non come un “teatro di opposizione”, ma come “teatro di esortazione”. Il carattere fortemente antitirannico delle tragedie, infatti, presuppone che Seneca abbia scelto di attribuire alla poesia uno scopo pedagogico, di farne uno strumento di ammaestramento morale, di affidarle una funzione ausiliaria rispetto alla filosofia. Dunque, i drammi senecani, furono composti per mettere dinanzi agli occhi del giovane principe (Nerone) gli effetti deleteri del potere dispotico e delle passioni sregolate.
Le tragedie di Seneca sono dominate dalla lotta tra la ratio (ragione) e il furor (inteso come pazzia):
- rappresentazione del rovinoso scatenarsi di sfrenate passioni non dominate dalla ragione,
- accentuazione di tinte fosche e cupe, degli aspetti più truci e sinistri, dei particolari più atroci e raccapriccianti,
- fortissima accentuazione patetica dell’impulso irrazionale delle passioni (amore, odio, gelosia, ambizione, sete di potere, ira, rancore) intese come furor cioè pazzia.
Il significato pedagogico e morale si individua, dunque, nell’intenzione di proporre esempi paradigmatici dello scontro, nell’animo umano, di impulsi contrastanti, positivi e negativi (rif. Apollineo e Dionisiaco di Nietzsche nella tragedia).
Ci si aspetterebbe però, dallo stoico Seneca, l’introduzione di personaggi, moralmente positivi, atti ad esprimere la certezza che una ragione provvidenziale domini il cosmo e guidi l’umanità. Ma così non è: salvo rarissime eccezioni, il quadro complessivo è fosco e raccapricciante,«La Fortuna governa le vicende umane senza alcun ordine e sparge i suoi doni con mano cieca,favorendo i peggiori».
Tale visione pessimistica, tuttavia, appare funzionale proprio a quel valore di esemplarità negativa che i personaggi tragici rivestono agli occhi del filosofo ed è tra i mezzi di cui l’autore si serve per raggiungere più efficacemente il suo obiettivo, che è, senza alcun dubbio, l’ammaestramento morale.
Le Lettere a Lucilio
Le Epistulae morales ad Lucilium sono una raccolta di 124 lettere raccolte in 20 libri, scritte durante il periodo del secessus e indirizzate all’amico Lucilio Iuniore. Le epistole, di varia estensione, sono una continua, pacata e insieme appassionata riflessione su problemi di filosofia morale. Seneca si pone, nei confronti di Lucilio, con l’atteggiamento del maestro, ma in realtà non scrive solo per giovare alla formazione morale dell’amico ma anche a quella dei posteri. Le Epistulae ad Lucilium sono, infatti, un chiaro esempio di epistole letterarie, cioè scritte con l’esplicito intento di essere pubblicate. Il modello, pur nella sua originalità, prende spunto dal modello delle epistole epicuree e ciceroniane.
Uno dei temi principali dell’opera è l’invito al secessus e l’esortazione all’otium.
Per conquistare la felicità si deve raggiungere la sapientia; che si può acquistare solo ed esclusivamente impegnandosi a tempo pieno nella lotta contro le passioni, contro gli impulsi e i desideri irrazionali che da ogni parte aggrediscono e minacciano l’uomo, privandolo della pace dell’anima (atarassia epicurea).
La ricerca del vero bene, inoltre, consiste unicamente nella ricerca della virtù: bisogna liberarsi dai falsi giudizi del volgo e astenersi da ogni occupazione frivola e moralmente inutile; si deve poi evitare il contatto con la folla, riservandosi alla compagnia di pochi e scelti amici e dedicandosi ad un dialogo continuo e fecondo con i grandi filosofi del passato (teoria epicurea del “vivi nascosto”).
LETTERA IV
ACCETTARE LA MORTE RECA RIMEDIO A TUTTI I MALI DELLA
VITA. TUTTE LE COSE SONO EFFETTO DEL MODO CON CUI SI PENSA
Mi fa grande pena che tu soffra di frequenti catarri e piccole febbri che seguono i catarri troppo persistenti e diventati poi cronici: tanto più mi fa pena perché anch'io ho sperimentato questo genere di malattia, che in principio ho trascurata. La mia giovinezza poteva ben spregiare le offese delle malattie e contrapporre loro sdegnosamente la sua forza. In seguito però ho dovuto soccombere, e sono arrivato ad un momento nel quale, ridotto ad un'estrema magrezza, avevo l'impressione di liquefare. Più volte ho sentito una gran voglia di romperla con la vita: ma mi ha trattenuto la tarda età del mio ottimo padre, ho smesso di pensare come potessi morire da forte, ed ho pensato piuttosto che il vecchio padre non aveva la forza di accettare un tale atto da parte mia. Pertanto m'imposi di vivere: ed ho fatto esperienza, che per vivere talora è necessaria della forza.
Ti dirò quali cose mi siano state allora di conforto, ma voglio dirti prima che queste cose in cui cercavo la quiete hanno avuto l'efficacia di una medicina. I buoni onesti conforti diventano rimedi, e ciò che ha sollevato lo spirito finisce per giovare anche al corpo. I nostri studi sono stati la mia salvezza: se mi sono alzato da letto ed ho riacquistata la salute ne rendo merito alla filosofia; alla filosofia io debbo la vita ed è il minore dei debiti che ho verso di essa. Alla piena guarigione hanno anche contribuito gli amici che colle loro premure, colla loro assistenza e anche colle loro conversazioni, mi hanno dato grande sollievo. Nulla, mio Lucilio ottimo fra gli uomini, ristora e solleva un ammalato come l'affetto degli amici, nulla giova tanto a rasserenarti l'aspettazione della morte e a toglierti i timori: pensando essi in vita, non avevo l'impressione di andare verso la morte. Mi pareva che sarei vissuto non con loro ma attraverso loro: mi pareva che non avrei dovuto esalare il mio fiato ma consegnano ad altri.
Così mi sono formata una decisa volontà di venire in aiuto a me stesso e di adattarmi perciò a soffrire pazientemente ogni dolore: quando si è messo da parte l'idea di affrontare la morte, l'estrema miseria è non avere l'animo di affrontare la vita. Cerchiamo dunque i rimedi a tutto questo. Il medico da parte sua ti prescriverà le passeggiate e gli esercizi che dovrai fare, ti dirà di non abbandonarti con troppa indulgenza all'ozio, a cui ci porta per natura la malferma salute, che tu legga a voce chiara e che tenga così in attività le vie e gli organi della respirazione dove risiede il male, ti consiglierà di andare in barca, e così con questo leggero ondeggiamento fare un po' di massaggio alle viscere; ti dirà che cibi devi prendere, quando devi bere un po' di vino per ravvivare le tue forze e quando devi cessare perché non ti irriti e non ti esasperi la tosse. Io poi ti prescrivo un rimedio che deve servirti non solo per questa malattia ma per tutta la vita: disprezza la morte. Nulla più ci può rattristare quando abbiamo superato la paura della morte. In ogni malattia vi sono queste tre cose gravi: la paura della morte, il dolore del corpo e l'interruzione dei piaceri. Della morte abbiamo detto abbastanza. Aggiungerò solo questo che la paura della morte non è un sentimento proprio soltanto dello stato di malattia, ma proprio della stessa natura umana. In molti casi è avvenuto che la malattia ha allontanata la morte e la salvezza è venuta agli ammalati dall'impressione di andare verso la morte. La ragione essenziale per cui tu dovrai morire non è che tu sia infermo ma che tu vivi. E questa permane anche quando tu sei guarito: e quando avrai riacquistato il pieno possesso delle tue forze, tu ti sarai salvato dalla malattia ma non dalla morte.
Torniamo ora a quello che è il vero incomodo: la malattia porta grandi sofferenze, che però sono rese tollerabili dagli intervalli. Infatti l'accesso violento del dolore ha sempre un termine: non si può soffrire molto e a lungo: la natura amorosamente provvida ha disposto in modo che il dolore sia tollerabile o breve. I dolori più forti hanno sede nelle parti più magre del corpo: i nervi e le articolazioni e tutto ciò che vi è di più esile nelle nostre membra soffrono aspramente quando hanno accolto in un membro il germe del male. Ma presto queste parti s'intorpidiscono e proprio per l'intensità del dolore ne perdono il senso: e questo avviene a volte perché lo spirito vitale, impedito nel naturale corso della sua attività, si altera e perde la virtù da cui trae il vigore e per cui ha capacità di avvertirci del male, ed altra volta avviene perché l'umore corrotto non avendo più dove diffondersi, distrugge da se stesso la propria virtù e toglie la sensibilità alle parti che ha invaso. Così la podagra e la chiragra e ogni dolore di vertebre e di nervi danno un periodo di riposo quando hanno ottusa la sensibilità delle parti che hanno prima tormentate. In principio il bruciore prodotto da queste malattie è causa di grande pena, ma quando l'accesso si prolunga, allora il male vien meno e si spegne in una specie di torpore. Il dolore ai denti agli occhi agli orecchi non meno che al capo è acutissimo proprio per questa ragione, che nasce nei limiti d'una angusta parte del corpo: ma se il dolore aumenta eccessivamente, allora si converte in una specie di sopore. Nei dolori eccessivi dunque vi è questo sollievo, che se li sentiamo troppo forti, si finisce necessariamente per cessare di sentirli.
Per gli ignoranti poi nelle sofferenze del corpo c'è anche questo male che, totalmente presi dalla preoccupazione del corpo, non si abituano a cercare le loro soddisfazioni nell'interiorità dell'anima. Pertanto l'uomo grande e saggio distoglie la sua attenzione dal corpo e si occupa molto di quella che è la parte migliore e divina dell'essere suo, mentre dell'altra gracile e lamentosa si occupa appena quel tanto che è assolutamente necessario. "Però riesce spiacevole ", dirà qualcuno, "astenersi dal cibo, soffrire la sete e la fame." Senza dubbio in un primo momento queste privazioni sono penose: poi i desideri a poco a poco si smorzano perché si stancano, e vengono meno quelle reazioni organiche da cui il desiderio nasce: lo stomaco s'impigrisce e l'avidità del cibo si cambia in ripugnanza. Gli stessi desideri si spengono, e allora non è più dolorosa la privazione di ciò che hai cessato di desiderare. Aggiungi che qualsiasi dolore ha sempre delle pause, o almeno dei momenti in cui si fa più mite. E aggiungi anche che è sempre possibile guardarsi dal male prima che venga, e anche quando sia per assalirci opporglisi colle medicine: giacché tutti i mali soprattutto quando si ripetono in maniera abitudinaria hanno sempre dei segni premonitori. La sofferenza di una malattia è sempre tollerabile quando si disprezza l'estremo effetto che essa ci minaccia. Non aggravare tu stesso i tuoi mali aggiungendo anche il peso dei lamenti: il dolore è sempre abbastanza leggero quando non lo aumentiamo noi stessi colle nostre idee. Se al contrario tu cominci a farti coraggio e a dirti: non è niente o almeno è cosa di poca consistenza, e allora resistiamo; presto cesserà i, tu rendi leggero il dolore in quanto lo ritieni tale. Tutte le cose dipendono sempre nel loro significato dall'idea che ce ne formiamo: e questo non solo sentiamo nell'ambizione, nell'amore delle pompe esteriori e nell'avarizia, ma avviene anche nel dolore. La sofferenza è sempre relativa al concetto che abbiamo delle cose che sono fonte di dolore. Ognuno è tanto infelice quanto crede di esserlo. Bisogna smetterla coi lamenti per ciò che si è sofferto nel passato: bisogna lasciare queste solite frasi: " nessuno mai ha avuto peggior sorte della mia, quanti crucci, quanti mali ho sofferto! Nessuno credeva che io mi sarei risollevato. Quante volte sono stato pianto dai miei e licenziato dai medici come ormai perduto! Non si è così tormentati nemmeno sul cavalletto della tortura." Anche se sono vere tutte queste cose, ormai una volta passate non sono più ragione di dolore. Ma che giova rinnovare i dolori passati e renderci infelici solo perché siamo stati infelici? E non è forse vero che anche un poco esagerano i mali sofferti e mentono a se stessi? Osservo poi che pare sia quasi un piacere aver sopportato ciò che è doloroso sopportare: ed è naturale godere per la cessazione del proprio male. Due cose dunque bisogna con un taglio netto eliminare dal nostro spirito, il timore del futuro e il ricordo delle sofferenze passate: questo non ci riguarda più e quello non ci riguarda ancora. Qualche volta trovandoci fra le difficoltà cerchiamo di confortarci dicendo: "forse un giorno ci sarà grato ricordate queste cose. " Al contrario è dovere combattere quest'idea con tutte le forze; chi cede sarà vinto e chi si oppone al suo dolore vincerà. Purtroppo invece i più fanno proprio il contrario, attirano cioè essi stessi sopra di sé la rovina che dovrebbero fronteggiare. Se tu cerchi di sottrarti e sfuggire al peso che ti preme, ti minaccia e t'incalza, esso ti seguirà e ti verrà addosso in maniera anche più grave. Ma se invece tu resterai fermo e gli opporrai uno sforzo deciso, finirai per respingerlo. Quanti colpi prendono gli atleti sulla faccia e in tutto il corpo! per amore della gloria sopportano ogni dolore non solo mentre lottano, ma anche quando si preparano alla lotta con un esercizio che costa anch'esso patimenti. Superiamo anche noi tutte le avversità; e il premio della vittoria, non sarà una corona o una palma, né una suonata di tromba che faccia il silenzio generale per la proclamazione del nostro nome, ma sarà la virtù, la saldezza dell'anima, la pace acquistata. " Sento un grande dolore ", tu mi dici. Ma puoi forse credere di non sentirlo più se lo sopporti con femminea debolezza? Il nemico è sempre più pericoloso quando è alle spalle del fuggente: si capisce che anche i mali della fortuna incalzino più duramente chi cede e si volge in fuga. " Ma è una cosa grave ", tu aggiungi. Ma dunque dobbiamo essere forti per portare pesi leggeri? Preferisci che la malattia sia lunga oppure che sia violenta ma breve? Se la malattia è lunga, la stessa sua lunghezza produce delle interruzioni, anche con qualche momento di confortante ripresa, e in molto tempo come ha avuto un principio così dovrà avere una fine. Se è breve e rapido il suo sviluppo, avrà anch'esso due alternative, o ha fine, o porta alla fine l'ammalato. Che differenza fa se a un certo momento non ci sia più la malattia, oppure non ci sia più io? In entrambi i casi è finito il dolore.
Potrà anche giovare volgere l'animo ad altri pensieri e distrarsi così dal dolore. Pensa alle azioni oneste e forti che hai compiute, e fermati a considerare con te stesso ciò che vi è in esse di meglio, e richiama alla memoria i fatti che tu hai più vivamente ammirato. Allora si presenteranno al ricordo tutti coloro che hanno dato maggior prova di fortezza e hanno vinto il dolore: uno che ha continuato a leggere un suo libro mentre stendeva la gamba per farsi tagliare le vene varicose: un altro che non ha cessato di ridere mentre i carnefici arrabbiati proprio per questo sperimentavano su lui tutti gli strumenti della loro crudeltà: si può credere che la ragione non riesca a vincere il dolore, se è riuscito a vincerlo il riso? Ed ora parla pure di tutto ciò. che vuoi, delle tue flussioni, della tosse aspra che ti fa gettar fuori una parte delle viscere, parla della febbre che ti brucia dentro i precordi, della sete, delle membra sformate per le articolazioni contorte; ma evidentemente sono qualcosa di peggio i roghi, i cavalletti, le lastre infocate, tutti questi strumenti di tortura che vengono a gonfiare delle ferite per rinnovarle e renderle più gravi e più profonde. Eppure c'è stato chi fra questi tormenti non ha dato un gemito; e questo è ancora poco, vi è chi non ha chiesto nulla e vi è chi non ha nemmeno risposto alle domande rivoltegli, e vi è infine chi ha superato anche questo ridendo di tutto cuore. Non vuoi dopo tutto questo anche tu farti beffa del dolore? "Ma la malattia ", può taluno soggiungerci "non mi lascia far nulla, mi ha strappato a tutte le mie occupazioni." E alla mia volta osservo che la malattia tiene il corpo ma non l'anima. Può far lenti i piedi del corridore, può impedire il lavoro delle mani del sarto e del fabbro; ma se hai tenuto l'animo in esercizio potrai pur sempre dare consigli e insegnamenti, potrai ascoltare ed imparare, chiedere e ricordare. Ma poi credi tu di non fare nulla, quando tu nella malattia riesci a darti un senso di saggia moderazione? Tu sanai riuscito a questo, cioè a dimostrare che una malattia si può vincere o almeno sopportare. Credimi, per la virtù c'è posto anche quando si sta a letto. Non solo le armi e il campo di battaglia danno la prova di un animo vivace, coraggioso, che non si lascia domare dai terrori: l'uomo fonte appare qual è persino sotto le coltri. Anche in quel momento egli ha pur sempre qualche cosa da fare, cioè resistere bene alla malattia: se questa non riuscirà a domare la tua volontà, costringendola suo malgrado a certe azioni e distogliendola da certe altre, tu darai un esempio insigne. Quante ragioni di lode potrebbero trovare spettatori della nostra malattia! Ebbene, se questo non è possibile, sii tu spettatore di te stesso e trova tu ragione di lodarti.
Osserviamo inoltre che ci sono due specie di piaceri. La malattia talvolta inibisce ma non toglie totalmente i piaceri corporali; anzi se consideri bene essa li eccita di più. Si beve con più piacere quando si ha sete, ed il cibo riesce più gradito quando si ha fame: dopo l'astinenza prendiamo con maggior avidità tutto ciò che la buona sorte ci manda. I piaceri dello spirito poi che sono più grandi e più sicuri, non sono negati al malato da nessun medico: e d'altra parte chi persegue questi piaceri e sa gustarli disprezza tutti i blandimenti dei sensi. " Che infelice il malato! " Perché diciamo questo? Forse perché non scioglie la neve nel vino? Perché spezzato il ghiaccio sulla bevanda che ha versato in una capace tazza non restituisce alla bevanda la sua primitiva freschezza? Perché sulla mensa stessa non gli vengono aperte le ostriche del lago Lucrino? O infine perché intorno alla sua stanza da pranzo non si agitano i cuochi in movimento portando essi stessi i fornelli colle vivande? Col crescere del lusso si è inventato anche questo sistema: la cucina si avvicina alla camera dove si cena in modo che il cibo non si raffreddi e qualche cosa sia poco caldo per il palato già un po' indurito. "Che infelice il malato!" Egli mangerà quanto è stato ben cotto ed egli ha la possibilità di digerire: non vedrà messa da parte carne di cinghiale come carne troppo vile per la sua mensa, né vedrà petti di pollo accumulati sulla credenza per evitare che i polli interi gli diano la nausea. Che cosa ti è accaduto di male? Ti avverrà talora di mangiare come un ammalato e talora come un uomo sano. Ma noi ci adatteremo facilmente a tutto questo, alle bevande medicinali, all'acqua calda e ad ogni altra cosa che sembra intollerabile a quelle persone di effemminata delicatezza che nuotano nel lusso, e sono infermi più di anima che di corpo. Solo dobbiamo liberarci da questo continuo orrore della morte.
E ce ne libereremo quando ci saremo formati un preciso concetto dei beni e dei mali e del loro ultimo termine; così finalmente non ci sarà di tedio la vita e non ci farà paura la morte. La vita non può essere pervasa da un penoso senso di sazietà se essa è tutta volta alla celebrazione di tante cose diverse, magnifiche, divine: soltanto l'ozio inerte può portarla all'odio di se stessa. Chi indaga la natura delle cose ha di fronte a sé la verità che non sazia mai: sono gli errori che danno il disgusto. D'altra parte se la morte si avvicina e ci chiama anche immaturamente e tronca a mezzo il corso della nostra vita, noi abbiamo già raccolto sempre il frutto di una lunga vita. La natura in gran parte ci è già nota, e noi sappiamo poi che ciò che è veramente onesto non si accresce col tempo. La vita appare necessariamente sempre breve a coloro che la misurano coi loro godimenti vani e quindi senza termine. Cerca di ricreare l'animo tuo con questi pensieri, e, finché siamo divisi, con quanto ci possono dare le nostre lettere. Verrà tempo in cui torneremo a vivere uniti: ma lungo o corto che quel tempo possa essere, lo allungheremo colla scienza che ci apprende ad impiegarlo bene. Dice Posidonio che "una sola giornata si stende più ampia per i dotti che un lunghissimo tempo per gli ignoranti." Intanto tieni ben stretto coi denti questo principio: non lasciarsi abbattere dalle avversità, non fidarsi degli eventi lieti, avere sempre avanti agli occhi la capricciosa licenza della fortuna capace sempre di qualunque cosa che sia mai possibile. Ciò che è aspettato a lungo giunge sempre più mite. " Addio.

LETTERA IX
SENECA SPIEGA ALL'AMICO COME EGLI SI PREPARI A MORIRE BENE ED ESORTA L AMICO AD ACCOGLIERE OGNI EVENTO CON SERENO ANIMO
Cessiamo di volere ancora ciò che già abbiamo voluto. Io cerco di agire su me stesso in modo da apprendere a non volere più da vecchio le cose che volevo da fanciullo. Mi passano i giorni e mi passano le notti, in questa sola occupazione, che prende tutta la mia attività ed è oggetto di tutte le mie meditazioni: mettere fine ai vizi d'un tempo. Io mi adopero perché un giorno solo possa essere modello di tutta la vita. E non voglio afferrare quel giorno e godermelo come se fosse l'ultimo della vita, ma lo considero come se possa anche essere l'ultimo. Io ti scrivo questa lettera tenendo presente questo pensiero, che la morte mi può chiamare ancora mentre scrivo; sono pronto a lasciare la vita, e la godo proprio per questo che non mi preoccupo affatto quanto sia ancora lontano quel momento. Prima di essere giunto alla vecchiezza pensavo a vivere bene, ora che sono vecchio penso a morire bene: e morire bene equivale a morire con lieta accettazione senza rammarico. Procura di non fare mai cosa a tuo malgrado. Quello che si presenta come dura necessità per chi reagisce, non è una necessità per chi accetta. In altri termini, chi accetta lietamente un comando, ha già evitato ciò che è più crudo nella servitù: fare quello che non si ha voglia di fare. Non è infelice chi fa qualche cosa perché comandato, ma chi fa contro voglia. Dobbiamo dunque educare il nostro spirito così che, sappiamo volere tutto ciò che la realtà esige, e soprattutto sappiamo pensare senza tristezza alla nostra fine. Prima che alla vita bisogna prepararci alla morte. La vita è sufficientemente provvista di tutto, ma noi siamo sempre insaziati; ci sembra e ci sembrerà sempre che ci manchi qualche cosa. L'essere vissuti abbastanza non dipende dal numero degli anni o dei giorni, ma dipende dallo stesso animo nostro. Ho vissuto, carissimo Lucilio, quanto mi poteva bastare, ora sono sazio e aspetto la morte. Addio.
Lucrezio
Lucrezio vive tra il 98 e il 55 a.C. anche se tali date sono tuttora discusse dagli studiosi. Della vita non sappiamo quasi nulla per il fatto che , ai giorni nostri, sono pervenuti pochissimi scritti e documenti riguardanti l’autore. L’unica fonte è il “De rerum natura” dal quale, tuttavia, non si possono ricavare notizie sulla vita dell’autore.
Dottrina epicurea :
La concezione e la poetica Lucreziana sono basate sulla dottrina epicurea. Quest’ultima si basa, a sua volta, sui seguenti punti:
- concezione atomistica e materialistica della vita e della natura;
- abolizione della paura degli dei e delle superstizioni religiose;
- etica morale e filosofia di vita “del piacere”, inteso come il raggiungimento di una felicità priva di turbamenti e passioni (atarassia);
- utilitarismo e individualismo (teoria del “vivi nascosto”);
- avversione a qualsiasi forma di poesia considerata come un incentivo alle passioni.
“De rerum natura”
Il De rerum natura è un poema epico-didascalico in esametri, suddiviso in sei libri. Suo oggetto è l’esposizione della filosofia epicurea, nella quale Lucrezio vede l’unica via per risolvere i problemi esistenziali dell’uomo. Il destinatario è un certo Memmio, al quale Lucrezio dedica l’opera, forse per ottenere da lui un qualche protettorato o forse per realizzare l’ideale epicureo della “ Suavis amicitiae”. Lucrezio giustifica la realizzazione dell’opera in esametri (in contrasto con la dottrina epicurea) dichiarando, alla fine del libro I e all’inizio del IV, il suo intento di esplorare strade mai prima tentate da altri: «M’inebria raggiungere le fonti intatte,\ e trarne sorsi, m’inebria spiccare nuovi fiori \ e trarne al capo una splendida ghirlanda…».
Subito dopo, Lucrezio ribadisce, mediante la similitudine “dei medici e dei bambini”, il valore strumentale e divulgativo della forma poetica, destinata a mediare in modo efficace contenuti che altrimenti riuscirebbero ostici al lettore: è proprio subordinando i valori estetici ai fini pedagogici e didascalici, egli giustifica in modo ineccepibile, anche dal punto di vista filosofico, la scelta di scrivere non un trattato in prosa ma in esametri.
E molto importante, infine, l’influenza di Empedocle: con quest’ultimo, Lucrezio ha in comune, non solo la forma esametrica e l’argomento, ma anche la profonda convinzione di una missione da compiere per il bene dell’umanità.
Il contenuto dell’opera:
Il Proemio. Lucrezio apre il proemio dell’opera con un solenne inno a Venere, attenendosi alle convenzioni del genere epico. La straordinaria originalità sta nel sostituire, alle consuete Muse del genere epico, la figura di Venere. Appare evidente che quest’ultima si carica di nuovi ed inediti significati: Venere, la Dea dell’amore, del piacere e della fecondità, oltre ad assumere il significato di “forza generatrice”, assume anche quello della pace e della felicità che derivano all’uomo, dalla conoscenza e dall’accettazione delle leggi naturali (meccanicismo). La richiesta alla dea di assicurare la pace ai Romani (in contraddizione con la teologia Epicurea secondo la quale gli dei non interagiscono sugli uomini), è giustificata da Lucrezio attribuendole la forma di captatio benevolentiae nei confronti del pubblico, e in primo luogo del dedicatario Memmio.
Il proemio prosegue con un breve ma fervido elogio di Epicuro, esaltato come l’eroe che ha saputo farsi salvatore dell’umanità, sconfiggendo l’orribile mostro della religio. Temendo che la dottrina epicurea apparisse empia agli occhi dei tradizionalisti romani, Lucrezio narra dell’episodio di Ifigenìa, figlia di Agamennone, immolata con il consenso del padre per propiziare la partenza della flotta greca per la guerra di Troia. Con tale episodio, Lucrezio, vuole scagionare l’epicureismo dall’accusa di empietà, mettendo in risalto l’atroce crudeltà e l’insensatezza dei riti religiosi.
L’opera prosegue con la trattazione dei vari argomenti raggruppati in tre gruppi di due libri: I e II trattano di argomenti fisici, il III e il IV di argomenti antropologici, il V e il VI di argomenti cosmologici.
La noia in Lucrezio
La noia è, per Lucrezio, come una malattia. Essa deriva dall’impossibilità dell’uomo di soddisfare i propri desideri, le proprie ambizioni, passioni, impulsi. Tutto ciò crea all’uomo una sensazione di profondo disagio di cui spesso non riesce a stabilire le cause precise. L’appagamento dei singoli desideri e delle pulsioni umane sarà solo momentaneo e illusorio: appagato un desiderio ne verrà di nuovo un altro e così via. Solo da un’accurata conoscenza della natura delle cose, e dall’adottamento della filosofia epicurea (atarassia), si può sconfiggere la noia ed evitare il senso di disagio.
La stoltezza degli uomini: Gli uomini si affannano perseguendo falsi scopi, miraggi illusori: gareggiano per emergere, contendono tra loro per conquistare ricchezze e potere, che sono fonti non di vera gioia ma di apprensioni, inquietudini e sofferenze. E non si accorgono che la natura non richiede altro che l’assenza di dolore fisico e spirituale: condizione che si può ottenere con la massima facilità, appagando semplicemente i bisogni elementari.
Natura madre o matrigna?
La concezione Lucreziana tra ottimismo e pessimismo
Lucrezio ci fornisce una visione del mondo e della natura triste e sconsolata: la natura è ostile all’uomo e rende la sua vita sulla terra difficile e dolorosa. Tale quadro negativo può far pensare a una visione pessimistica della realtà. Tuttavia, prendendo più accuratamente in analisi la personalità Lucreziana, possiamo giungere alla conclusione che la sua visione pessimistica non è reale, ma deriva dal desiderio di demolire i presupposti dell’ottimismo naturalistico e dell’antropocentrismo di altre scuole filosofiche, in particolare il finalismo e il provvidenzialismo degli stoici. Questa tesi è ancor più ribadita dal fatto che Lucrezio, spesso e volentieri, afferma con accenti di profonda convinzione che è possibile per l’uomo, purchè aderisca alla verità e alla sapienza epicuree, trasformare positivamente una situazione esistenziale difficile e dolorosa, sconfiggendo la sofferenza e conquistando la felicità.
LUCREZIO - De Rerum natura
• Della vita di Lucrezio si sa pochissimo: unica fonte nella traduzione del “Chronicon di Eusebio” fatta da Girolamo.
• Lucrezio scrisse negl’intervalli di lucidità che gli lasciava la follia.
• Si uccise di propria mano a 43 anni. Notizie probabilmente false scritte da Girolamo (informazioni cristianizzate).
• Nacque negli anni 90 e morì verso la metà degli anni 50 (contemporaneo di Cicerone, Catullo [età di Cesare]).
• Segue la filosofia di Epicuro e da lui prende spunto per scrivere il De rerum natura.
IL DE RERUM NATURA È:
• Un prodotto letterario di singolare complessità e rinnovato fascino.
• Composto da 6 libri con un totale di 7400 esametri.
• Opera dedicata all’aristocratico Gaio Memmio (“interlocutore privilegiato”), citato già al 26° verso.
• Memmio è uno scettico ed è legato alla filosofia romana.
• Composto da varie fasi di un percorso educativo non solo per Memmio.
• Lucrezio è epicureo e, con questa opera, vorrebbe insegnare e rendere nota a tutti questa filosofia.
• Prende come modello Memmio visto il suo alto grado di scietticità.
• L’inno a Venere (richiesta di assistenza) cerca di attrarre il lettore con le sue lusinghe di un proemio non troppo dissimile dai moduli consueti, anche se comporta una lieve infrazione alla dottrina epicurea; Epicuro infatti sosteneva che gli dei erano distaccati dagli uomini, vivevano infatti nell’intermundia.
• In seguito il tema dell’opera continuerà più distaccato e indifferente dagli dei.
• Contro il pensiero di Epicuro (la poesia non è adatta all’insegnamento morale e filosofico: ci vuole la prosa), Lucrezio scrive in versi da lui definiti “dolce miele” che rendono più facile accettare un messaggio spesso difficile.
• Si rivolge con forza al dibattito culturale del suo tempo, e non necessariamente ad un élite di studiosi.
• Lucrezio utilizza per questa opera un lessico ricercato.
passi significativi dell’opera
INNO A VENERE
• Il De rerum natura si apre con un proemio che ha lo scopo di non presentarsi in un modo troppo iconoclastico (distaccato dalla filosofia predominante: quella romana) ad un potenziale discepolo.
• L’inno a Venere contrasta l’ortodossia religiosa epicurea.
• Il testo garantisce la sua intenzione di essere strumento educativo per un pubblico specificatamente romano, di cui vuole assicurarsi fin dall’inizio il coinvolgimento emotivo e l’attenzione non ostile.
• Giustificato da Cicerone con “multae tamen artis”; infatti l’opera è vista come un opera multi ingenii.
• Venere incarna i valori positivi del mondo naturale: fertilità, vitalità, soprattutto piacere (voluptas).
• Sequenze:
1. [1-13] Invocazione all’inno di Venere: “o dea famosa, pace tranquilla per i Romani”
2. [14-20] Conseguenze del suo arrivo: “fuggono i venti e le nubi dal cielo e la terra produce frutti e fiori soavi”
3. [20-26] Appello a venere per la stesura dell’opera: “io ti prego che tu mi sia alleata / ispiratrice in questi versi”
4. [21-25] Materia del suo libro: “…che mi accingo a scrivere sulla natura…”
5. [26-30] Esaltazione di Memmio: “per il nostro Memmio, che tu, o dea, hai voluto sempre eccellere dotato di tutte le virtù.”
6. [30-41] Nuovamente invocazione a Venere: “Infatti tu sola puoi giovare ai mortali con una pace tranquilla…”.
7. [44-49] Conclusione con l’esposizione del contenuto del suo libro.
LA RELIGIO TRADIZIONALE E IL SACRIFICIO DI IFIGENIA
• Ora si allontana dalla religione e inizia a spiegare come la vede personalmente.
• Infatti Lucrezio dal verso 62 inizia a descrivere la condizione infelice degli uomini che vivevano prigionieri delle superstizioni religiose.
• Epicuro, che non viene qui nominato esplicitamente, fu il primo essere mortale a sfidare tali superstizioni e a indagare con la forza del pensiero scientifico la natura delle cose.
• Le critiche alla religio fatte da Epicuro (Lucrezio spiega a Memmio) non sono empie, ma empi sono i riti tradizionali che una concezione sbagliata degli dei e della loro attività ha imposto agli uomini.
• In particolare è empia l’uccisione di Ifigenia, ordinata da Calcante come unico rimedio alla bonaccia che teneva ferma la flotta greca destinata a Troia.
• Gli dei esistono ma non aiutano, ne ostacolano, ne puniscono gli uomini (quello succedeva presso i Romani).
• Esalta alle stelle la filosofia di Epicuro.
• Sequenze:
1. [50-53] Richiesta di attenzione da parte del lettore (Memmio): “rivolgi le orecchie libere e l’animo seguace lontano dalle preoccupazioni verso il vero ragionamento filosofico”
2. [54-61] Materia filosofica trattata (gli atomi): “incomincerò ad esporti la suprema norma del cielo e degli dei, e disvelerò i primordi delle cose, da dove la natura crea ogni cosa… e dove all’opposto risolve quelle cose dopo che sono distrutte… noi siamo soliti chiamare queste cose materia e corpi genitali, e definirli anche semi delle cose o corpi primi, perché proprio da quegli elementi originari tutto deriva”
3. [62-65] Immagine della religione;
4. [66-79] Immagine di Epicuro (vincitore) ed esposizione dell’opera di Epicuro: “Epicuro dapprima osò sollevare gli occhi mortali contro la religione e per primo osò resisterle… volle rompere per primo le porte chiuse della natura”
5. [80-84] Vittoria della filosofia di Epicuro sulla religione: “e percosse con la mente e l’animo tutto l’universo da cui vincitore ci riportò”
6. [84-99] Scena drammatica della morte di Ifigenia: “quella religione di cui ho parlato prima portò ad azioni empie e sciagurate”
7. [100-101] Giudizio sulla religione: “indurre a si gran misfatto poté la religione”

I DONI DELLA FILOSOFIA
Lucrezio riprende i temi fondamentali dell’etica epicurea: l’atarassia (la capacità di chi è interiormente sicuro, non toccato dalle vicende del mondo esterno); la fondamentale distinzione tra piaceri necessari e non necessari; l’idea chiave di limite cui il piacere può aspirare.
• Il lettore che ha appreso già nel primo libro gli aspetti fondamentali del cosmo epicureo, è ora in grado di recepire questa lezione di morale con la consapevolezza del suo intrinseco valore scientifico.
• Lucrezio offre lo spettacolo della natura in tutti i suoi aspetti.
• E’ il saper vedere [spectare (v.2); tueri (v.5); despicere (v.9); videmus (v.20)] le cose che distingue il saggio dalla massa disorientata, letteralmente cieca dei suoi sfortunati compagni di cammino.
• Sequenze:
1. [1-14] Figura del saggio: è colui che risiede in una condizione isolata (meditazione) rispetto agli altri; contempla dall’alto l’affanno degli uomini ==> ATARASSIA; “E’ dolce… guardare dalla terra la grande frenesia (fatica) degli altri. Non perché sia un piacere giocondo il fatto che qualcuno è tormentato, ma perché è soave distinguere di quali mali tu stesso manchi”
2. [15-19] Cecità degli uomini: tendenza della natura a fuggire il dolore; “O misere menti degli uomini, o cuori cechi!”
3. [20-36] La dottrina epicurea dei desideri e il corpo: la ricchezza, la nobiltà e il potere politico non giovano al corpo; Epicuro aveva ridotto il numero dei bisogni naturali e necessari, quelli indispensabili per sopravvivere, a tre (non aver fame, non aver sete, non aver freddo).

LA DECLINAZIONE DEGLI ATOMI
• Irrisa da Cicerone e da Seneca, la dottrina lucreziana della declinazione atomica costituisce uno dei principi cardinali dell’intero sistema filosofico esposto nel De rerum natura.
• In questo passo Lucrezio sostiene che tutti gli atomi si muovono alla stessa velocità e dall’alto verso il basso.
• Sostiene anche l’esistenza di un moto casuale che è il clinamen: una deviazione minima nel moto perpendicolare degli atomi. Questo introduce il libero arbitrio (la casualità) che i primi materialisti (Democrito) avevano proposto.
• Infatti grazie al clinamen gli atomi, in seguito allo scontro con un altro atomo, variano la loro direzione.
IL RIMPROVERO DELLA NATURA
• Il rimprovero ora giunge dalla natura che chiede all’uomo il perché di tanta disperazione al pensiero della morte.
• Anche Lucrezio rimprovera di questa paura i non convertiti all’epicureismo. Giudica questa paura insensata.
• Sostiene che il voler prolungare la vita non giova all’uomo in quanto la morte significa la terminazione di tutti i piaceri e dunque, sfidare questa, vorrebbe dire continuare a vivere privati dei propri piaceri. E allora perché continuare a vivere?
• Questo schema logico si sviluppa attraverso l’immagine topica della vita come un banchetto da cui l’uomo deve sapersi allontanare una volta sazio.
• Presuppone quindi una forza di tipo interiore, un invito all’autarchia e alla moderazione psicologica che devono essere in grado di liberare il discepolo di Lucrezio da vani terrori e desideri.
LA NOIA E IL NULLA
La terra è impoverita e fiacca ed è stufa di produrre vita e di nutrirla continuamente.
• Il lavoro cresce perché, in qualche modo, bisogna far produrre la terra, ma questa produce sempre meno; anche i buoi si stancano sempre di più.
• Si trova ora la figura di un vecchio aratore che sospira stanco e in parallelo quella di un padrone che, deluso dai campi, accusa dolente le avverse stagioni e sostiene anche che genti più religiose avessero vissuto meglio.
• Se gli uomini riuscissero a scoprire la causa della noia avrebbero una vita migliore. Ma incerti scappano in cerca di altri luoghi.
• Si incontra ora un immagine topica di un uomo che lascia il palazzo ma poi, dopo poco tempo, ci ritorna. fuori la vita non è migliore. Un altro uomo scappa a cavallona dopo breve ritorna alla solita vita preso da una crisi di sonno.
• Questi uomini vorrebbero fuggire ma non possono, allora si attaccano a se stessi e si odiano perché non trovano la causa del male.
• Se l’uomo trovasse la causa del suo male, l’unica sua preoccupazione sarebbe il cercare di rivivere.
IL PROEMIO DEL LIBRO V È ANCORA UN ELOGIO DI EPICURO. SI RIASSUME POI QUANTO È STATO DETTO NEI LIBRI PRECEDENTI, E SI ENUNCIA L’ARGOMENTO DA TRATTARE, PRECISAMENTE LA NATIVITÀ E LA MORTALITÀ DEL MONDO. MA PRIMA SI NEGA LA DIVINITÀ DEL SOLE, DELLA LUNA, DELLE STELLE, DELL’ETERE, IN CONTRASTO A RELIGIONIE FILOSOFIE CHE TALE DIVINITÀ SOSTENGONO. NEL MONDO NON C’È POSTO PER GLI DEI ED ESSI NON HANNO ALCUNA PARTE NELLE VICENDE DEL MONDO
IL MONDO NON È STATO FATTO IN FUNZIONE DELL’UOMO
• In questo passo Lucrezio sottolinea nuovamente, e forse con più vigore, la completa assenza di ogni forma di provvidenza divina dal mondo naturale.
• Con questo Lucrezio non vuole affermare che la natura nutre un senso di vendetta o odio per l’uomo ma soltanto che gli dei risultano del tutto assenti dalle vicende dell’universo.
• Le vicende dell’universo, infatti, sono esclusivamente regolate dalle leggi naturali basate sull’interazione di materia atomica indistruttibile e vuoto.
GLI EFFETTI DELL’EPIDEMIA DI ATENE
• E’ questo la parte più discussa ma anche più grandiosa dell’intero poema.
• Come nel libro quarto, anche qui inizia da considerazioni scientifiche di carattere generale, di cui l’affresco sublime della peste di Atene costituisce un esempio concreto.
• Dapprima infatti analizza le cause che provocano squilibri nell’atmosfera tali da rendere l’aria nociva.
• La morte raffigurata alla fine dell’opera potrebbe essere un segno dell’amletismo lucreziana.
• La tragica sorte degli ateniesi sta, più che nella virulenza effettiva del morbo, nell’incapacità di afferrare le cause, e di mantenere un comportamento eticamente accettabile anche di fronte ad una disgrazia apparentemente senza cause e senza scampo.
• Nel progetto lucreziano rimane comunque uno sfondo educativo espresso con le verba di Epicuro.
• E’ doveroso ricordare che tutto il libro aveva cercato di spiegare una serie di fenomeni spesso terrificanti, quali il fulmine, i terremoti, i vulcani, e aveva cercato di eliminare le residue tracce di ignoranza causarum che fosse rimasta residua nel discepolo meno influenzato come l’erronea visione religiosa e superstiziosa dell’universo.
Sigmund Freud
SEGNA LA RIVOLUZIONE DEL 900 E COMPLETA LA DECLAMAZIONE DELL’UOMO FACENDO EMERGERE IN ESSO UNA NATURA LIMITATA. LA VERA NATURA DELL’UOMO È L’IRRAZIONALITÀ, L’INCONSCIO..
Ebreo di Vienna, dopo l’annessione alla Germania, fugge in Inghilterra. E’ medico un medico specializzato in neuropsichiatria e dà origine alla psicoanalisi, che però, nonostante il suo impegno, non venne accetta come scienza. Inizia come neuropsichiatra, accanto al prof. Breuer studiando l’isteria. Il primo studio fu il “Caso di Anna O.”.
Prima delle innovazioni apportate da Freud, l’isteria veniva studiata somministrando al paziente dei psicofarmaci che inducevano il sonno; nel sonno si facevano della domande e il paziente inconsciamente rispondeva. Quando però finiva l’effetto del farmaco, il malato i ritrovava nelle stese condizioni di partenza.
Freud capì che i farmaci non erano una cura adeguata, infatti per curare il problema psichico dell’ammalato bisognava scavare alla radice, attraverso i sogni o l’ipnosi. All’ammalato da sveglio venivano poste delle domande a cui lui rispondeva facendo delle associazioni libere.
Da ciò Freud capì che la psiche umana ha delle zone nascoste che devono essere scoperte e fatte venire alla luce per poter capire il comportamento di ogni individuo.
Secondo lui la struttura della psiche è triatica:
· La zona es oppure id in cui risiede l’inconscio;
· La zona super ego o (super ich) in cui risiedono gli insegnamenti sociali e culturali
· La zona Ego in cui risiede la coscienza.
La zona Es
Nell’es, l’inconscio, è la parte più ricca di noi. Esso si divide in tre parti:
1) pre oppure sub conscio
2) inconscio
3) inconscio biologico ereditario
Nell’inconscio biologico ci sono le pulsioni che appartengono alla stirpe ereditaria. Le pulsioni ereditarie:
· Pulsioni sessuali (cerchiamo di riprodurci)
· Pulsioni di conservazione (cerchiamo di salvarci)
· Pulsioni Gregario (cerchiamo di stare con gli altri)
Nell’inconscio ci sono le nostre esperienze personali rimosse e represse. Rimosse significa messe da parte volontariamente, mentre represse quando ce ne dimentichiamo casualmente. Noi non dimentichiamo niente, specialmente dai 0 ai 5 anni.
Il preconscio è il guardiano che controlla tutte le nostre esperienze, le pulsioni; quando dormiamo si apre la porta e vengono fuori dai nostri pensieri i sogni.
Tutta la nostra vita cosciente è solo un campo di battaglia tra la spinta dell’eroe (che rappresenta gli impulsi: il piacere , l’affermazione) e Thanatos (distruzione, superego) Questa è la spinta di Eros (subconscio).
Nella vita quotidiana “Patologia della vita quotidiana”, abbiamo tanti piccoli gesti che non facciamo, ma non per dimenticanza, ma perché non la volevamo fare. Anche i lapsus (penso una cosa ne dico un’altra), in realtà volevamo dire la cosa “sbagliata”. Quello che ricordiamo è solo quello che vogliamo ricordare.
Scriverà pure “Totem e tabù” sul significato della religione e sul desiderio della morte del padre.
Freud istituisce quello che ormai e “il rito” della psicoanalisi: il lettino, il dottore seduto dietro il paziente e gli formula delle domande o indaga i suoi sogni interpretando ciò che il paziente ricorda (che è ciò che vuole ricordare). Fu una novità la sua impostazione sessuale, interpretare la vita solo dall’ottica dell’affettività (piacere – dispiacere) (affettività non è interesse, esso c’è se è motivato).
La vita di ciascuno di noi è segnata dalle nostre motivazioni affettive. Adesso si parla di psicologia dinamica (cioè azione e reazione, stimolo e risposta che avvengono nella psiche). Noi ci andiamo via via strutturando.
• Stadi di vita dell’uomo
Per Freud la vita comincia nel grembo materno. Già nel ventre materno, il bambino avverte se è voluto o meno e se è amato. Quindi il primo è un rapporto di accettazione, tra madre e figlio si realizza uno scambio di emozioni oltre che fisiologico.
Durante il parto c’è il momento dell’angoscia, perché siamo abbandonati nel mondo. Il pianto del bambino è il pianto dell’angoscia, perché prima ha vissuto un contatto psicologico con la madre, e adesso è solo nel mondo e si sente abbandonato. Oggi sappiamo che il bimbo, non piange per angoscia, ma per il dolore dovuto al fatto che respira per la prima volta con i suoi polmoni. Il pianto è vita. Questo primo momento è quello del vagito.
Durante tutto il primo anno di vita si deve ristabilire l’unione psicologica che c’era tra madre e figlio, e bisogna ristabilirlo all’inizio per avere quella fiducia basica che serve al bambino per non sentirsi più angosciato. Questa fiducia si realizza on le sensazioni termiche; il bambino riconosce il battito del cuore della madre, ma soprattutto con l’allattamento che ricostituisce l’unione che c’era con la madre prima del parto. La prima soddisfazione che prova il bambino appartiene alla “fase orale”, ossia portando tutto in bocca, succhiando e mordendo.
Verso i 3 mesi (Spitz) il bambino ha un modo suo i comunicare: il sorriso, come se sorridesse al viso materno (visto solo frontalmente e non di profilo) e contemporaneamente ha l’angoscia per i visi estranei (piange se non conosce qualcuno).
Al 1° anno inizia la fase “autonoma”, il bambino inizia a camminare, scopre gli oggetti e li esamina. Importante per lui sarà sempre la figura che gli parlerà e gli lancerà messaggi.
Ai 2 anni si ha la fase “Anale”: se prima il bimbo teneva il pannolino ora impara ad andare in bagno, riconosce lo stimolo: la gratificazione è quella di saper controllare i propri sfinteri. La fase anale prepara il bambino alla fase “fallica”(periodo omosessuale: il bambino scopre se stesso). Dopo essere riuscito a controllare i propri sfinteri scopre i propri organi sessuali.
Fase omosessuale (zero – cinque anni) Fase eterosessualeFase orale Fase anale Fase fallicaDopodiché inizia la fase eterosessuale. Scoprendo i genitali, sposta l’oggetto del desiderio da sé al sesso opposto. La prima donna della sua vita è la madre, il primo amore. (Per la bambina sarà il padre). Qui si innesca quel processo che prende il nome di “complesso di Edipo” o, per la bambina “complesso di Elettra”.
Il bambino ha sentimenti sessuali verso la madre, ma comprende che appartiene al padre. Il bambino introietta (fa sua) la figura paterna, perché ritiene che somigliando al padre potrà avere la madre. Se invece intrometta la figura materna, diventerà omosessuale.
Dai 5 ai 10 anni c’è la fase “produttiva”, il bambino va a scuola, è indaffarato e non pensa più alla tempesta sessuale che ha avuto dai 0 ai 5 anni. E’ una fase di “Plateau” o latenza.
Dopo i 10 anni si ha la “fase puberale” e “prepuberale”: tutto ciò che era in latenza riaffiora di nuovo. E’ una fase di ricerca della propria identità, si avverte che si cresce e ci si sente dibattuti e incerti, non ci si riconosce neanche esteriormente, fisicamente.
Dai 15 ai 18 anni si cerca di riordinare le proprie idee: è la fase della “Maturità”. Può durare fino ai 24, ma anche fino ai 90. Per Freud essere maturi vuol dire dare una risposta a tutti i problemi della vita. Se riusciamo a rispondere a queste domande, noi siamo maturi e siamo pronti a formare una famiglia.
Verso i 50 anni si attraversa una fase di II immaturità, diffusa nella società.
Freud era laico, ma rigoroso contro tutto ciò che era contro un ordine naturale.
Il vivere in società ci procura disagio: l’uomo non può esprimere se stesso (“il disagio della civiltà”). Il motto del cristianesimo: “ama il prossimo tuo come te stesso” è contro natura, anzi dovrebbe essere “odia il prossimo tuo con tutto te stesso”. Tutto il romanzo del 900 sarà di tipo psicologico.
Friedrich Wilhelm Nietzsche
Friedrich Wilhelm Nietzsche nacque nel 1844 a Röcken in Germania, figlio del pastore Karl Ludwig e di Franziska Oehler, anch'essa figlia di un pastore. Rimasto orfano del padre in tenera età, crebbe affidato alle cure della madre, donna di solide qualità morali ma di cultura limitata.
A Naumburg, dove la famiglia si era trasferita, ricevette i suoi primi insegnamenti di religione, latino e greco e imparò a suonare il pianoforte. Dopo avere abbandonato la celebre scuola teologica di Pforta, con disappunto della madre, la quale sperava di vedere il figlio diventare ecclesiastico, Nietzsche studiò filologia classica alle università di Bonn e Lipsia, diventando professore della disciplina all'università di Basilea a soli 24 anni; in quell'epoca si delinearono sempre più chiaramente le sue inclinazioni filosofiche. In questo periodo entrò in relazione con Richard Wagner, del quale divenne amico ed estimatore. Il loro rapporto in seguito degenerò progressivamente fino a rompersi nel 1878. Ma a quel tempo, Nietzsche era già malato da alcuni anni e soffriva di crisi nervose.
Nel 1876 abbandonò l'insegnamento per motivi di salute e iniziò la sua vita solitaria e errabonda, che lo condusse a soggiornare a lungo anche in Italia. Guastati i rapporti anche con la famiglia, egli vide peggiorare sempre più il suo stato di salute.
Nel 1889 a Torino cade in preda a un accesso di follia che non lo avrebbe abbandonato fino alla morte, avvenuta a Weimar nel 1900. Negli ultimi anni visse errando per l'Europa, spesso ospite di amici e protagonista di complicate vicende umane e sentimentali.
IL PENSIERO
Studioso della cultura greca, in particolar modo di Platone e di Aristotele, Nietzsche attinse ispirazione anche dalle opere di Arthur Schopenhauer e dalla musica di Richard Wagner.
Nietzsche non espose il suo pensiero in forma sistematica ma in frammenti, quai in poesia; anche per questo le sue opere si sono prestate ad interpretazioni differenti esercitando un grande fascino. Lo stesso autore, consapevole dell'«inattualità» delle sue parole aveva detto: "Mi si comprenderà dopo la prossima guerra europea".
Egli cercò di ricostruire la genesi del pensiero e della civiltà moderna, individuando nell'antichità classica le radici di due fondamentali atteggiamenti culturali: quello, simboleggiato da Apollo, che si esprime nella ricerca dell'armonia, dell'equilibrio, della bellezza formale, della serenità dello spirito, della razionalità; e quello, che trova il suo simbolo in Dioniso ed è quello originario nell'uomo, che invece è espressione dell'istinto, della volontà, dell'irrazionalità, del desiderio di trasgredire a ogni ordine e a ogni legge.
Fino a questo momento della storia, sostenne Nietzsche, è stato seguito principalmente il principio apollineo, nel quale il filosofo tedesco scorge i segni di una decadenza dell'umanità, testimoniata dalle menzogne e dal dogmatismo delle scienze sul piano culturale e dal conformismo, dalla passività, dall'ipocrisia delle leggi e della politica sul piano sociale. Perciò, egli concludeva, è necessario tornare al dionisiaco, restituire all'uomo la libertà di gioire dei suoi istinti e delle sue passioni; di qui l'esigenza di abbandonare la "morale degli schiavi", l'etica della rinuncia, dell'obbedienza passiva alle leggi professata dal Cristianesimo per esaltare l'indomabile volontà di potenza dell'individuo.
L'espressione più elevata di questa liberazione è il superuomo, un essere totalmente libero, incarnazione della volontà di potenza, che sta "al di là del bene e del male", che non sottostà alle regole e che è libero dalla morale cristiana. Su un piano filosofico egli si caratterizza per la sua fedeltà alla terra: poiché Dio è morto, l'unica realtà è ora la vita terrena, non essendoci più Dio non esiste più un "mondo dietro il mondo" in cui trovare consolazione al pensiero della morte.
Tra le sue opere, le più significative sono:
La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872) Considerazioni inattuali (1872-74) Così parlò Zarathustra (1883-85) Al di là del bene e del male (1886) Genealogia della Morale (1887) L'Anticristo (1988) La gaia scienza (1882) Ecce Homo (1889).

IL SUPERUOMO
Il superomismo è la dottrina di Nietzsche (1844-1900) per la quale il «superuomo» diventa protagonista della storia. Tutti i valori della civiltà occidentale - religione, scienza, morale - per Nietzsche sono mistificazioni volute dal gregge degli «schiavi», dalla massa per ostacolare il cammino degli uomini superiori; e sono il risultato dello spegnersi nel corso dei millenni dell'originaria «volontà di potenza», ossia dell’energia creatrice dell’uomo e dei suoi valori vitali. Incarnazione della volontà di potenza è il superuomo (Übermensch): «L’uomo deve essere superato. Il superuomo è il senso della terra. L’uomo è una corda tesa fra la bestia e il superuomo, ma corda sull’abisso».
Nietzsche fu un critico spietato degli ideali e dei valori tradizionali dell'Europa dell'Ottocento. Nelle sue opere filosofiche si scagliò contro il Positivismo e la sua fiducia nel fatto scientifico e oggettivo, demolendo il concetto di progresso da lui definito come un'idea "moderna" e "falsa", e contro ogni tipo di spiritualismo proclamando la morte di Dio. In particolare egli criticò il cristianesimo che riteneva un "vizio". La morale cristiana è per Nietzsche la «morale degli schiavi» che deriva dal «dire di sì ad un altro»: ad essa egli contrappose la «morale aristocratica» che ha inizio nel momento in cui «si dice di sì a se stessi».
In Così parlò Zarathustra (1883), una delle sue opere più importanti, il filosofo tedesco propone tre temi fondamentali: la morte di Dio, il superuomo e l'eterno ritorno. Soprattutto il concetto di superuomo è stato spesso male interpretato. Il superuomo nietzschiano, infatti, non è l'archetipo nazista ma piuttosto colui che, avendo preso coscienza del fatto che tutti i valori tradizionali sono crollati, è in grado di ritornare ad essere "fedele alla terra", liberandosi dalle cristallizzazioni della cultura. Il superuomo ha in sé una forza creatrice che gli permette di operare la traslazione dei valori e di sostituire ai vecchi doveri la propria volontà.
LA MORTE DI DIO
Il superuorno nietzschiano vive la tragedia della sua solitudine con ben altra profondità e con ben più lancinante disperazione rispetto a tutti gli esteti decadenti. Alla base della concezione nietzschiana della vita c'è il tentativo di considerare l'esistenza nella sua sana ebbrezza primitiva e di restituirla alle sue sorgenti originarie dopo aver estirpato "il posto Dio". L'atto di liberazione dalla schiavitù della religione è un atto tragico che viene vissuto attraverso il delirio del pazzo, il quale accusa se stesso e gli altri di aver ucciso Dio. Il vuoto lasciato dalla "morte di Dio" potrà essere colmato solo dall'Uomo e da nessun'altra ideologia tirannica. Ma il travaglio della cultura che tenta di costruire un ateismo umanistico è tutt'altro che semplice da definirsi: Nietzsche vive, in questo come in altri brani (vi sono nelle sue opere diverse "morti di Dio"; questa è forse la più suggestiva), il dramma del pensiero che cerca in se stesso un assoluto criterio di giudizio e di libertà. La cultura contemporanea si sta ancora misurando con questo problema; ma il fatto che da parte di Nietzsche esso sia posto in maniera così drammatica e diremmo "teatrale" è indice dello spostarsi della filosofia verso il racconto o l'aforisma, verso la divulgazione letteraria. Indubbiamente si tratta di una bella pagina, di convincente presa emotiva: anche in questo si può ritrovare un aspetto tipico della sensibilità decadente.
L`«uomo pazzo» e il suo delirio
Non avete mai sentito parlare di quell'uomo pazzo che, in pieno mattino, accesa una lanterna, si recò al mercato e incominciò a gridare senza posa: "Cerco Dio! Cerco Dio!". Trovandosi sulla piazza molti uomini non credenti in Dio, egli suscitò in loro grande ilarità. Uno disse: "L'hai forse perduto?", e altri: "S'è smarrito come un fanciullo? Si è nascosto in qualche luogo? Ha forse paura di noi? Si è imbarcato? Ha emigrato?". Così gridavano, ridendo fra di loro... L'uomo pazzo corse in mezzo a loro e fulminandoli con lo sguardo gridò: "Che ne è di Dio? Io ve lo dirò. Noi l'abbiamo ucciso – io e voi! Noi siamo i suoi assassini! Ma come potemmo farlo? Come potemmo bere il mare? Chi ci diede la spugna per cancellare l'intero orizzonte? Che facemmo sciogliendo la terra dal suo sole? Dove va essa, ora? Dove andiamo noi, lontani da ogni sole? Non continuiamo a precipitare: e indietro e dai lati e in avanti? C'è ancora un alto e un basso? Non andiamo forse errando in un infinito nulla? Non ci culla forse lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non è sempre notte, e sempre più notte? Non occorrono lanterne in pieno giorno? Non sentiamo nulla del rumore dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo l'odore della putrefazione di Dio? Eppure gli Dei stanno decomponendosi! Dio è morto! Dio resta morto! E noi l'abbiamo ucciso! Come troveremo pace, noi più assassini di ogni assassino? Ciò che vi era di più sacro e di più potente, il padrone del mondo, ha perso tutto il suo sangue sotto i nostri coltelli. Chi ci monderà di questo sangue? Con quale acqua potremo rendercene puri? Quale festa sacrificale, quale rito purificatore dovremo istituire? La grandezza di questa cosa non è forse troppo grande per noi? Non dovremmo divenire Dei noi stessi per esserne all'altezza? Mai ci fu fatto più grande, e chiunque nascerà dopo di noi apparterrà per ciò stesso a una storia più alta di ogni altra trascorsa". A questo punto l'uomo pazzo tacque e fissò nuovamente i suoi ascoltatori; anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Quindi gettò a terra la sua lanterna che andò in pezzi spegnendosi. "Vengo troppo presto", disse, "non è ancora il mio tempo. Questo evento mostruoso è tuttora in corso e non è ancor giunto alle orecchie degli uomini. Per esser visti e riconosciuti lampo e tuono hanno bisogno di tempo, la luce delle stelle ha bisogno di tempo, i fatti hanno bisogno di tempo anche dopo esser stati compiuti. Questo fatto è per loro ancor più lontano della più lontana delle stelle e tuttavia sono loro stessi ad averlo compiuto!". Si racconta anche che l'uomo pazzo, in quel medesimo giorno, entrò in molte chiese per recitarvi il suo Requiem aeternam Deo. Condotto fuori e interrogato non fece che rispondere: "Che sono ormai più le chiese se non le tombe e i sepolcri di Dio?".
SCHOPENHAUER
La forma del trattato Schopenhaueriano: filosofia e sistema
L’OPERA PIÙ IMPORTANTE DI SCHOPENHAUER È IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE (CHE EBBE VARIE EDIZIONI MA NON PRIMA D’OGGI NON FU MAI RICONOSCIUTA COME UN’OPERA DI VALORE), SCRITTO SOTTO FORMA DI SISTEMA. ATTRAVERSO LA FORMA DI SISTEMA SCHOPENHAUER MOSTRA DI CONDIVIDERE:
1) che il sistema è la forma scientifica della filosofia;
2) il collegamento con Kant;
3) la tendenza a trasformare la filosofia negativa di Kant in una filosofia positiva.
IL SISTEMA FILOSOFICO PUÒ ESSERE, DICE, DI DUE TIPI:
1) sistema organico: tutte le parti si sostengono a vicenda e hanno valore come “tutto”. Questo sistema è proprio dei veri filosofi, quelli che si interessano al mondo per lo stupore che provano nell’osservarlo;
2) sistema architettonico: le parti si ordinanao su una astratta gerarchia. E’ un sitema proprio dei filosofi che si interessano al mondo in modo indiretto ( cioè dopo aver letto un libro).
Il sitema di Schopenhauerpenhaue è organico. Questa scelta deriva dal bisogno metafisico dell’uomo. La metafisica, che ha il suo padre in Aristotele, dichiara che la filosofia nasce dalla meraviglia, ossia un atteggiamento contemplativo di fronte al mondo. Per Schopenhauer invece la filosofia nasce dallo stupore di fronte al dolore e al male del mondo.
L’opera del filosofo risponde alla domanda per cui ogni vivere è un soffrire (tema fondamentale del mondo). E’ divisa in quattro libri, che cercano di tradurre il movimento del pensiero (a spirale) in un unico nucleo. I punti di vista della rappresentazione e della volontà sono le due prospettive che il pensiero può assumere di fronte al mondo.
• Primo libro: prima considerazione del mondo come rappresentazione. Mostra come la scienza possa pensare che il mondo è un fenomeno globale sensato;
• Secondo libro: prima considerazione del mondo come volontà. Mostra come dietro la forma sensata del mondo se ne trovi una oscura e irrazionale;
• Terzo libro: seconda considerazione del mondo come rappresentazione. Mostra che attraverso l’arte si svela la presenza del fenomeno nella cosa in sé, ossia nella volontà.
• Quarto libro: seconda considerazione del mondo come volontà. Espone la dialettica della volontà, attraverso cui la conoscenza si libera dalla servitù alla volontà e può superare il dolore.
Lo stile di Schopenhauer è chiaro e trasparente, in armonia con il suo pensiero per cui la filosofia debba essere espressione precisa dell’intuizione metafisica. Per questo critica molto lo stile torbido di Hegel e dei romantici.
Schopenhauer e l’eredità kantiana
A Kant Schopenhauer riconosce il merito di aver individuato il valore del cosiddetto principio di ragione sufficiente (cioè di aver scoperto le leggi di causalità che reggono il mondo fenomenico). Dopo Kant, egli crede, non si può più pensare che tutto esiste con una ragione, ma bisogna credere che questo è solo ciò che a noi appare osservando i fenomeni. Dunque non è possibile studiare la “cosa in sé”, ma soltanto i modi in cui il soggetto si mette in rapporto con l’oggetto, ossia i modi attraverso cui il soggetto si crea un mondo.
Si formano così quattro classi di oggetti per il soggetto, che danno una spiegazione razionale del mondo come rappresentazione:
1) rappresentazioni intuitive, attraverso cui si forma la nozione di esperienza (insieme di fenomeni retti da leggi). L’esperienza si forma dalla relazione tra sensibilità, mediante cui conosciamo il nostro corpo, e intelletto, mediante il quale riferiamo ad un’azione una causa oggettiva: è così che si applica il principio di ragione sufficiente, che qui è una legge di causalità. Le rappresentazioni intuitive sono spazio, tempo e causa.
2) rappresentazioni astratte o concetti: formano il contenuto totale della ragione. In questo caso il principio di ragione sufficiente è principio del conoscere. La conoscenza astratta è subordinata a quella intuitiva perché solo questa le può dare un contenuto.
3) rappresentazioni di spazio e tempo, non applicate alla realtà ma intese in forma astratta. Per questo il principio di ragione sufficiente è principio dell’essere. Spazio e tempo sono applicate alla matematica, la cui pensabilità degli enti è condizionata da un’estensione nello spazio e da una successione temporale.
4) rappresentazioni delle azioni: il principio di ragione sufficiente diventa legge di motivazione. Come nella prima classe vigeva il principio di causa-effetto, qui eiste quello motivo-azione, che esplica un atto volontario del soggetto. A prima vista l’azione può sembrare determinata da circostanze esterne e non dalla volontà (libertà) del soggetto. Ma poiché la volontà non si esplica mai completamente nell’azione, non si può negare che esista una libertà relativa al carattere intellegibile dell’azione: l’uomo è libero nella scelta dell’azione, ma vincolato rispetto al modo di esplicarla.
Mentre con le quattro classi si spiega il mondo come rappresentazione, non si accede alla cosa in sé (risultato negativo, come Kant). Ma il bisogno dell’uomo di trovare una spiegazione totale della realtà spinge a cercare una soluzione positiva. Come?
La metafisica dell’esperienza di Schopenhauer
Con la sua opera Schopenhauer vuole costruire una metafisica dell’immanenza, che non vada al di là dell’esperienza. Dunque si tratta non di un sapere a priori, fatto di concetti, ma di un sapere concreto.
Il merito principale di Kant sta nella distinzione tra fenomeno e cosa in sé, che ha posto un muro invalicabile tra il conoscere obiettivo e il pensare soggettivo. Il suo errore principale, viceversa, è stato quello di precludere in questo modo la conoscenza della cosa in sé. Ciò ha portato alla fondazione di filosofie che, più che analizzare la conoscenza effettiva, si sono operare a studiare le possibilità del conoscere.
Schopenhauer crede di aver trovato una via d’accesso alla cosa in sé, identificata con la volontà: così crea una nuova metafisica, su basi kantiane.
Il mondo come rappresentazione e come volontà
Schopenhauer distingue fra mondo come rappresentazione e mondo come volontà. Se il soggetto si rivolge all’esterno vede il mondo solo come sua rappresentazione e gli conferisce validità applicandogli le forme a priori della sensibilità: spazio, tempo, causa. In tal modo viene conosciuto il fenomeno.
Egli accetta l’idea idealista che il mondo percepito dai sensi sia solo un’illusione. Tale idea è condivisa dai saggi indiani, che considerano i sensi come il velo di maya, il velo dell’illusione. Questo principio era stato posto alla base della filosofia kantiana.
Kant aveva però ignorato che per ridurre il mondo ad un semplice fenomeno conoscitivo c’era bisogno di astrazione, atto attraverso il quale si arriva all’esclusione della volontà.
Ma se il soggetto si rivolge all’interno, all’autocoscienza, scopre che il mondo è la sua volontà. Viene qui sostituito l’Io penso con l’Io voglio. Il soggetto è esso stesso una cosa in sé, perché può accedere al proprio essere (autocoscienza).
L’unione tra il mondo della volontà e il mondo come rappresentazione è rappresentata dal corpo, che può essere considerato in due modi: fenomeno, che ha il privilegio di costituire per il soggetto l’oggetto primo e immediato; movimento, all’interno dell’autocoscienza: basta un “io voglio” per tradurre un atto in movimento del corpo. Ma la volontà non è movimento: questo è un atto completamente distinto: noi non possiamo sapere cosa sia la volontà, ma solo come si manifesta.
I gradi di oggettivazione della volontà
Il mondo è studiato dalla natura in maniera eziologica, ricercandso cioè le cause del mutamento dei fenomeni. Tuttavia la spiegazione scientifica deve ammettere la presenza di forze che restano non spiegabili scientificamente: per non cadere nell’irrazionale deve ricorrere alla filosofia.
Questa metafisica empirica, della natura, parte dall’ipotesi che tali forze siano identiche alla volontà, che è conoscibile soltanto dal soggetto stesso nell'autocoscienza. Schopenhauer non dona la pietra di volontà, ma dà al suo movimento verso il basso causato dalla forza di gravità una spiegazione analoga a quella della volontà degli esseri organici.
La natura, in senso metafisico, sarà allora un’unica manifestazione di volontà, che è identica per tutti gli esseri viventi. Chi media fra le innumerervoli manifestazioni della volontà (i corpi) e la volontà stessa sono le idee.
Le idee sono gli archetipi a cui la volontà si riferisce per manifestarsi nella realtà. La legge naturale media tra l’idea e il fenomeno: essa determina l’esplicazione della forza.
I gradi dei oggettivazione della volontà sono rappresentati dalla natura inorganica, organica, il mondo vegetale, animale e l’uomo. Presetnata in questo modo, la volontà sembra caratterizzata dalla conflittualità: ogni livello della natura è mostra lotta e dolore. Le forze naturali lottano per quandagnarsi uno spazio di materia, le forme viventi sembrano poter vivere solo con l’eliminzaione di altre forme simili.
Sollevato il velo di maya, ecco mostrarsi una volontà irrazionale, che vuole solo sé stessa, vuole solo vivere e cerca ogni mezzo per riuscirci.
Dalla metafisica alla morale: servitù dell’intel-letto e liberazione estetica
Ultimo gradino a cui vuole arrivare Schopenhauer è l’identificazione di metafisica ed etica. Non vuole cadere nella solita divisione fra filosofia teoretica e pratica.
Come nella metafisica, anche nella morale si attiene al metodo dell’immanenza, che consiste nell’ibdicare come si svolge realmente la condotta umana, non come dovrebbe svolgersi.
E’ assurdo prescrivere un comportamento tipo per l’uomo: si predica la libertà della volontà e poi gli si impone per legge di volere certe cose!
Dunque tutto il problema si risolve nella libertà di volere: se ci fosse, sarebbe possibile unire filosofia etica e metafisica. Ma esiste davvero?
Nel Mondo si sviluppa la teoria della servitù dell’intelletto alla volontà, la quale ci è incomprensibile ed è senza scopo, dunque irrazionale. Si oggettiva in singoli corpi e organismi, per cui anche nel cervello, al cui funzionamento è legata la coscienza. Dunque anche la coscienza è un fenomeno della volontà e comprende l’intelletto, ossia la capacità di trovare il nesso causale fra i fenomeni (dell’uomo e degli animali) e la ragione, ossia la capacità del pensiero astratto (dell’uomo).
L’intelletto offre alla volontà la possibilità di attuare razionalmente ciò che essa vuole a tutti i costi. La volontà è infatti irrazionale e non riuscirebbe da sola a farlo.
A questo punto Schopenhauer introduce il concetto di arte. Lìarte è una froma di conoscenza che si riassume nella nozione di genio. La conoscenza dell’uomo comune si rivolge ai sensi ed è al servizio della volontà; quella dell’artista è rivolta all’idea: l’artista dunque, ponendosi al di là del fenomeno, trova l’oggettività della volontà.
Scopo dell’arte è di esprimere la realtà come volontà trascurando il fenomeno. La conoscenza dell’arte è puramente contemplativa, e con questa affermazione Schopenhauer riprende da Kant la definizione di bello come oggetto di piacere disinteressato. Viene eliminato ogni rapporto con l’io e il resto del mondo, e per questo l’arte è considerata superiore della scienza. Di fronte all’arte, il corpo perde il suo senso, cosicchè il soggetto diventa un soggetto puro e universale, non più sottomesso alla volontà, allo spazio e al tempo, ma coincide con la volontà stessa.
In poche parole, l’arte è l’unico momento in cui l’intelletto può elevarsi sulla volontà.
Il problema della libertà e della liberazione dalla volontà
Il conceto di libertà è negativo, in quanto indica l’assenza di necessità.
L’uomo non è libero, ma si libera superando il mondo fenomenico e scoprendosi sempre più parte del mondo noumenico. Abbiamo già visto l’applicazione di questo concetto con l’identificazione, nell’estetica, del soggetto con la volontà. Solo la moralità può rendere perenne questa conquista enon limitarla all’ambito dell’arte.
L’azione morale consiste nella scelta etica fondamentale, quella che deciderà le nostre azioni future. L’uomo è libero solo se si identifica con la volontà, ma questa è sinonimo di vita. La scelta etica fondamentale sarà allora il vivere o non vovere.
Due sono allora gli atteggiamenti: quello di chi afferma la vita perché ha capito che il mondo è solo fenomeno e che la volontà è l’unica realtà e dunque decide di identificarsi con essa; l’atteggiamento di chi rinuncia alla vita, l’asceta, che ha compreso che l’essenza del mondo è la volontà, ha paura della realtà di dolore che tale affermazione porta e dunque non vuole identificarsi con la volontà.
Qual è l’atteggiamento da prendere?
La volontà si trova subito, fin dalla nascita, in lotta con sé stessa: essa è volontà di vivere, ma il vivere implica anche il morire e spesso provoca la morte di altri esseri viventi: la vita è sofferenza. L’uomo invece tende al piacere, ma per questo deve sentire un bisogno e dunque soffrire. Il bisogno può essere soddisfatto solo momentaneamente e subito dopo subentra la noia. Dunque bisogna affermare la vita, con il suo dolore e la sua noia, o negarla? La conoscenza deve essere un motivo di vita o un motivo per negarla?
La risposta a questa domanda si trova solo nell’ascetismo, che abolisce ogni distinzione tra l’io e l’altro e viene definito morale della compassione, perché soffre con l’altro (com-passione). L’ascetismo abolisce anche l’egoismo, in quanto forma tipica di cui si serve la volontà di vivere, e assolutamente non mira all’annullamento dell’uomo quanto alla sua trasformazione.
I gradi dell’ascesi sono diversi: castità, povertà volontaria, autoabnegazione, sacrificio eroico di sé.
La castità libera l’individuo dalla subordinazione alla volontà di vivere che usa le armi dell’amore per garantirsi vita attraverso la riproduzione.
I GUERRA MONDIALE
GLI SCHIERAMENTI
Chi
• Germania
• Austria–Ungheria
• Impero ottomano (dal 31 0ttobre 1914)
• Bulgaria (dal 6 settembre 1915)
Contro chi
• Francia
• Russia (fino al 1917)
• Inghilterra
• Belgio
• Serbia
• Montenegro
• Giappone (dal 23 agosto 1914)
• Italia (dal 24 maggio 1915)
• Portogallo (dal 9 marzo 1916)
• Romania (dal 27 agosto 1916)
• Stati Uniti (dal 6 aprile 1917)
• Grecia (dal 27 giugno 1917)
• Cina (14 agosto 1917)
QUANDO E DOVE
La scintilla che fece accendere il fuoco fu l’assassinio dell’arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando e della consorte, avvenuto il 28 giugno 1914 a Sarajevo per opera di due terroristi, sudditi austriaci ma di nazionalità serba. La guerra cominciò come conflitto solamente europeo ma si diffuse presto alle colonie possedute dagli stati coloniali e all’Asia.
OBIETTIVI DEI
BELLIGERANTI
Austria
La reazione austro-ungarica all’assassinio dell’arciduca fu sproporzionata al fatto in sé. E' più verosimile pensare che l'Austria-Ungheria mirasse a servirsi dell’incidente per risolvere una buona volta a suo favore la questione balcanica e liberarsi per sempre dell’ingombrante Serbia, ritenuta responsabile dell'instabilità della regione in quanto forza emergente nei Balcani. Il piano austro-ungarico, elaborato dal Conrad, prevedeva l'eliminazione rapida della Serbia e un attacco alla Russia dalla Galizia.
Germania
La Germania mirava a ridisegnare la mappa della supremazia politica, dal momento che il suo peso politico era inferiore al peso industriale, commerciale e finanziario che aveva acquistato negli ultimi decenni. Il governo di Berlino non credeva nella solidità dell’Intesa (Inghilterra, Francia e Russia) e dava per scontata la neutralità dell’Inghilterra, troppo impegnata nel difficile problema irlandese. Riteneva pertanto che l’occasione fosse propizia per battere la Duplice franco–russa e porre su salde basi la propria potenza mondiale. Il piano, che il generale von Moltke aveva ereditato dal suo predecessore von Schlieffen, affidava alle deboli forze di von Prittwitz nella Prussia Orientale e agli Austro-Ungarici l'incarico di contenere i Russi, mentre lo sforzo principale sarebbe stato operato immediatamente verso la Francia.
Inghilterra
Da secoli padrona indiscussa dei mari e dei commerci intercontinentali, l’Inghilterra era decisa a stroncare la crescente potenza imperiale tedesca.
Francia
La Francia sognava la rivincita contro la Prussia che la aveva umiliata nel 1870 e ancora di più rivoleva i territori dell'Alsazia e Lorena persi nel 1871. Il piano francese prevedeva un'offensiva generale in Lorena, partendo dai due lati delle fortificazioni di Metz.
Italia
L'Italia rimase neutrale (dichiarazionedurante il primo anno di guerra (si giustificò affermando che l’Austria e la Germania non erano state aggredite: le condizioni della Triplice Alleanza erano difensive e quindi non potevano essere applicate). Ma all'interno del paese si formarono vasti schieramenti favorevoli alla guerra e il governo si convinse che quella fosse l'occasione per ottenere importanti vantaggi territoriali. Prima di effettuare la scelta di campo, il capo del governo Antonio Salandra aprì trattative e cercò di acquisire elementi di valutazione sulla consistenza dei due schieramenti. Rifiutata l'offerta, austriaca, del Trentino in cambio della neutralità, l'Italia aprì trattative con Londra che si conclusero con la ratifica di un accordo segreto (25 aprile 1915). L’Intesa avrebbe finanziato con prestiti ingenti lo sforzo militare dell’Italia, dichiarandosi disponibile riconoscerle in caso di vittoria il Trentino, la Venezia Giulia, ma anche l’Alto Adige e la Dalmazia, l’egemonia sull’Adriatico e dunque una specifica influenza sull’Albania e sul Montenegro, oltre a eventuali concessioni coloniali in Turchia e in Africa a spese dell’Impero ottomano e della Germania.
Stati Uniti
Woodrow Wilson giustificò l’intervento degli USA con il motivo che la democrazia era ormai in pericolo ovunque e che la Germania aveva annunciato un attacco sottomarino indiscriminato contro tutte le navi dirette ai porti nemici, violando i diritti dei paesi neutrali.
LO SCOPPIO (1914)
Il 28 giugno 1914 l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco, venne ucciso con un colpo di pistola dallo studente slavo Gavrilo Princip, durante un corteo nelle strade di Sarajevo. Questo attentato arrivò in un clima già carico di minacce e fece scoppiare apertamente il conflitto tra l’Austria e la Serbia. L’Austria ritenne, infatti, che gli attentatori, in lotta per l’indipendenza del loro popolo, fossero stati aiutati dalla Serbia, favorevole all’emancipazione slava.
La reazione austriaca all'attentato di Sarajevo del 28 giugno, mentre gli eserciti si mobilitavano e si incrociavano le iniziative diplomatiche, si concretizzò in un ultimatum presentato alla Serbia il 23 luglio successivo e incentrato sostanzialmente su tre richieste:
 immediata soppressione delle organizzazioni irredentistiche;
 divieto di ogni forma di propaganda antiaustriaca;
 apertura di un'inchiesta, relativa all'attentato, condotta da una commissioe mista serbo-austriaca.
Il tono particolarmente duro, la natura stessa delle richieste che chiaramente si configuravano quale ingerenza negli affari interni della Serbia e apparivano tese a ridurre quello stato in una posizione di umiliante subordinazione nei confronti delle autorità di Vienna, nonché i tempi ristretti della scadenza per una risposta da parte del governo di Belgrado, 48 ore, non lasciavano dubbi circa la volontà di aggressione dell'Austria.
Il governo di Vienna non intendeva certo scatenare un conflitto "mondiale", il suo obiettivo era piuttosto di eliminare la minaccia che veniva alla sua politica espansionista nei Balcani occupando la Serbia. Le cose andarono diversamente. Gli avvenimenti non colsero di sorpresa i governi delle grandi potenze, tant’è che gli alti comandi militari già da tempo avevano predisposto i loro piani strategici. In fondo tutti gli stati coinvolti nel conflitto avevano un buon motivo per volerlo, se mai si trattava di convincere l’opinione pubblica della sua ineluttabilità, e documenti recenti sollevano inquietanti interrogativi sulle stesse dinamiche dell’azione terroristica.
La Serbia, quasi certamente incoraggiata dalla Russia, respinse l'ultimatum e la situazione precipitò rapidamente:
28 luglio
L'Austria, sostenuta dalla Germania, rifiuta la proposta di mediazione avanzata dall'Inghilterra, così come la convocazione di una conferenza a quattro (Germania, Gran Bretagna, Francia e Russia) e dichiara guerra alla Serbia.
30 luglio
La Russia proclama la mobilitazione generale (probabilmente nell'esclusivo intento di offrire il proprio sostegno alla Serbia ma senza arrivare alla guerra) che provocò l'immediata reazione della Germania che a sua volta dichiara la mobilitazione generale (secondo la maggioranza degli storici fu questo, in ultimo, l'avvenimento decisivo dello scatenamento del conflitto) e invia al governo di Mosca un ultimatum contenente la richiesta dell'immediata revoca della mobilitazione. russa
1 agosto
Non avendo ricevuto risposta all'ultimatum, la Germania dichiara guerra alla Russia.
3 agosto
La Germania dichiara guerra alla Francia, dopo aver lanciato al neutrale Belgio un ultimatum quanto mai provocatorio, anch'esso peraltro respinto, contenente la minaccia di guerra nel caso non avesse acconsentito al passaggio dell'esercito tedesco.
4 agosto
La violazione della neutralità del Belgio e del Lussemburgo da parte delle truppe tedesche vince le ultime esitazioni del governo inglese che dichiara guerra alla Germania.
31 ottobre
Mentre si consolidava il fronte occidentale e ad oriente la situazione si mostrava ancora fluida, la Turchia entra in guerra in appoggio degli imperi centrali. In questo modo veniva inferto un colpo non indifferente all'Intesa che vedeva compromessi i propri interessi in quella regione con la perdita del controllo degli stretti e l'apertura di nuovi fronti: quello russo-turco in Armenia e quelli anglo-turchi in Mesopotamia e in Egitto.
La prima guerra mondiale e l'intervento degli Stati Uniti d'America
La guerra che si svolse dal 1914 al 1918 fu il primo conflitto totale che non impegnò solo gli eserciti, ma sconvolse la vita intera degli stati nei suoi vari aspetti, politici, sociali, economici e persino culturali. Fu la prima guerra di massa; condotta per terra, per mare e in cielo, con l’impiego di armi mai prima usate (aerei, carri armati, sottomarini e gas asfissianti).
Le cause che avevano spinto l’Europa a precipitarsi in un conflitto così sanguinoso furono numerose. Si possono brevemente dividere in cause economiche e territoriali: le prime riguardavano l’espansionismo e la politica di potenza della Germania, decisa a mettere in discussione la supremazia inglese soprattutto in campo coloniale e nel commercio marittimo. Le seconde rispecchiavano la pericolosa tensione nei Balcani dove Russia ed Austria avevano mire contrastanti di espansione e movimenti rivoluzionari patriottici puntavano alla riunificazione di tutti i popoli slavi.
Allo stesso tempo anche il revanchismo francese imponeva la riconquista dell’Alsazia e della Lorena perse nella guerra franco-prussiana del 1870. Infine c’era la questione del Trentino e della Venezia Giulia, terre che l’Italia considerava parte integrante della nazione, sotto il dominio austriaco.
Ogni nazione per raggiungere i propri obiettivi, sin dai primi anni del 1900, aveva iniziato la corsa agli armamenti.
La scintilla che fece scoppiare la guerra fu l’assassinio dell’arciduca d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914 ad opera di un nazionalista serbo.
L’Austria dichiarò subito guerra alla Serbia, alleata della Russia, e come un fenomeno a catena tutte le nazioni europee si trovarono coinvolte nel conflitto generale.
In base ai patti precedentemente sottoscritti gli schieramenti in campo erano così definiti: da una parte gli Stati dell’Intesa, che comprendevano Francia, Inghilterra, Russia (Intesa, 1907), affiancata da Serbia, Belgio, Grecia e Romania, dall’altra Germania, Austria-Ungheria (Triplice Alleanza, 1882, cui partecipava anche l’Italia, che all’inizio non intervenne), insieme a Turchia e Bulgaria.
All’inizio gli eserciti austriaci e tedeschi ebbero la supremazia su quelli dell’Intesa tanto che le armate tedesche, per evitare le fortificazioni francesi (linea Maginot), passarono per il Belgio che era neutrale, fino ad arrivare a pochi chilometri da Parigi in brevissimo tempo. L’esercito francese, che era stato precedentemente sbaragliato a Verdun, riuscì però a fermare l’avanzata avversaria sulle rive della Marna. Da quel momento in poi la guerra sul fronte francese fu definita di posizione e di logoramento.
Sull’altro fronte, quello orientale, anche la Russia veniva respinta dall’esercito austriaco nelle battaglie dei laghi Masuri e di Tennenberg.
Nel 1915, dopo lunghe controversie tra neutralisti e interventisti, entrò in guerra a fianco dell’Intesa, l’Italia che aprì un nuovo fronte nelle Alpi Orientali costringendo gli imperi centrali a spostare soldati da altri fronti. Questa strategia fu ideata dagli alleati e sottoscritta nel Patto di Londra (26-4-’15).
L’Austria allora progettò una contro offensiva nei riguardi dell’Italia, che non aveva rispettato gli accordi della Triplice Alleanza: la così detta Strafexpedition. Nello stesso anno l’Inghilterra organizzò un blocco continentale per impedire i rifornimenti alla Germania.
Nel 1916, in Francia, continuava sempre la guerra nelle trincee che provocò moltissime perdite in tutti e due i fronti. La Germania, ormai a corto di rifornimenti a causa del blocco continentale, rispose all’Inghilterra con una battaglia navale presso le Jutland, che però perse, e con la guerra sottomarina nell’Atlantico. Questa aveva il compito di affondare ogni tipo di nave che poteva trasportare rifornimenti agli stati della Triplice Intesa.
Un momento importante della Prima Guerra Mondiale fu quando con la pace di Brest-Litovsk (3-3-’18), la Russia uscì dal conflitto in seguito alla rivoluzione bolscevica che portò Lenin alla guida della Russia.
A questo punto del conflitto le sorti della guerra sembravano volgere a favore degli Imperi Centrali, ma l’intervento degli Stati Uniti d’America (6-4-’17) capovolse definitivamente la situazione.
In pochi decenni essi erano diventati la prima potenza economica mondiale. Le immense ricchezze del sottosuolo, ferro, carbone, petrolio, unite alla grande produzione di carni e cereali dovevano trovare sbocco su altri mercati.
I motivi che indussero il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson a dichiarare guerra alla Germania furono molteplici; tra i principali una vittoria tedesca avrebbe rappresentato un serio pericolo per gli interessi americani nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Contemporaneamente gli U.S.A. dovevano garantirsi gli ingenti prestiti e le notevoli forniture di materiale bellico e civile concesso a Inghilterra e Francia che in caso di sconfitta non sarebbero stati mai restituiti.
Ma l’avvenimento più sensazionale che convinse l’opinione pubblica americana, peraltro divisa se partecipare direttamente alla guerra o meno, fu l’affondamento, da parte della Germania, del transatlantico statunitense Lusitania carico di civili.
Il presidente Wilson presentò l’intervento degli Stati Uniti come una lotta per la democrazia, per la libertà e per i diritti delle nazioni. Questo fu il principio con cui gli americani accettarono la guerra. Il tributo di vittime pagato dagli U.S.A., anche se non confrontabile con quello degli altri paesi, fu di 115.000 soldati morti e 200.000 feriti.
Nel 1918 si ebbero le battaglie conclusive del conflitto: I francesi, aiutati da inglesi e americani, respinsero i tedeschi e l’esercito italiano cacciò quello austriaco sulle montagne del Carso.
Il 19 gennaio del 1919 a Parigi iniziò la Conferenza di pace a cui parteciparono solo le nazioni vincitrici. Il giorno prima il presidente W. Wilson aveva presentato i quattordici punti, che miravano a ridurre le future cause di conflitto. Tra i principi più importanti: i confini degli stati avrebbero tenuto conto delle nazionalità diverse; le popolazioni avrebbero avuto la possibilità di scegliere il proprio governo (autodeterminazione); sarebbe stata garantita la libertà di navigazione dei mari.
L'ultimo punto di Wilson enunciava il bisogno di creare un’associazione con lo scopo di regolare i rapporti internazionali e di impedire le guerre future. Nacque così nel 1919, con sede a Ginevra, la Società delle Nazioni.
La società nacque però già debole, infatti non ne facevano parte né gli Stati Uniti né Germania e la Russia.
L’11 novembre del 1918 gli Imperi Centrali firmarono la pace con una serie di trattati. Con il trattato di Versailles la Germania rinunciava all’Alsazia, alla Lorena ed ai propri possedimenti coloniali. Inoltre, veniva istituito il corridoio di Danzica che la divideva in due ed era obbligata alla restituzione dei danni di guerra.
Il trattato di Saint Germain imponeva lo smembramento dell’impero Austro-Ungarico in nuovi stati e territori: Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Trentino-Alto Adige, Venezia Giulia e Istria.
Quindi gli stati vincitori, al fine di ricavare dalla loro vittoria i maggiori vantaggi possibili in termini economici e territoriali, imposero condizioni pesantissime agli sconfitti e in particolare alla Germania: la creazione della Polonia che sottrasse gran parte di territorio tedesco, la cessione di alcuni distretti ricchi di carbone a Belgio, Danimarca e Cecoslovacchia.
La scarsa visione politica francese ed inglese pose le basi dell’insofferenza tedesca che sarebbe sfociata poi nella seconda Guerra Mondiale.
CONSEGUENZE ECONOMICHE
Dappertutto, tranne che negli Stati Uniti, l’economia era sconvolta:
 gli impianti produttivi erano completamente distrutti
 l’agricoltura era stata privata delle sue migliori forze lavorative
 i beni di necessità scarseggiavano soprattutto nelle grandi città
 i prezzi aumentavano mentre i salari erano bloccati per legge
 c’era il problema della riconversione industriale dalla produzione bellica a quella civile.
Dalla guerra l’Europa uscì in condizioni di grande instabilità politica ed economica. Le trasformazioni provocate dalla guerra , le gravi perdite di vite umane e di beni materiali avevano sconvolto non solo le potenze vinte ma anche quelle vincitrici. La Germania era prostrata: le dure condizioni di pace che le erano state imposte avevano favorito una grave crisi economica, alimentando anche un forte desiderio di rivincita. Anche la Francia, l’Inghilterra e l’Italia erano in una situazione di grande debolezza economica e pesantemente indebitate con gli Stati Uniti, i quali erano ormai la principale potenza economica del mondo. Per alcuni anni l’economia dei paesi europei fu in seria difficoltà; la produzione era inferiore alla domanda, i prezzi aumentavano, il potere d’acquisto dei salari diminuiva, mentre cresceva il numero dei disoccupati: le industrie infatti, come anche le campagne, non erano in grado di assorbire tutta la manodopera costituita da coloro che erano tornati dal fronte.
Le gravi difficoltà economiche erano accentuate dal fatto che le industrie erano state trasformate in impianti in grado di produrre quasi esclusivamente materiale bellico; dopo la guerra fu perciò necessario riconvertire gli impianti per la produzione civile. Ciò tuttavia richiedeva tempo ed investimenti: per questo, alla fine della guerra, parecchie industrie fallirono, mentre altre riuscirono gradualmente a riconvertire la loro produzione. La difficile situazione portò a un aumento delle tensioni sociali: scioperi e agitazioni si verificarono un po’ dappertutto in Europa. Aumentarono i partiti dei lavoratori e le organizzazioni sindacali che a volte provocarono dei veri e propri tentativi di rivoluzione contro i governi.
Gli Stati Uniti erano i veri vincitori della guerra e in poco tempo diventarono la maggior potenza mondiale. Grazie al calo produttivo dell’Europa, i commerci statunitensi prosperarono in tutti i mercati mondiali; le esportazioni di prodotti industriali ed agricoli aumentarono notevolmente e ciò favorì un clima di fiducioso ottimismo in tutto il paese.
CONSEGUENZE SOCIALI
Al termine della guerra, ai quasi 10 milioni di vittime cadute sui campi di battaglia, ai militari, ai prigionieri, si aggiunsero i devastanti effetti delle malattie epidemiche, conseguenza delle privazioni alimentari e igieniche imposte dal conflitto tanto ai combattenti, quanto alla popolazione civile. Tra il 1918 e il 1920 si diffuse anche oltre i confini europei l’epidemia di "spagnola".
Durante la guerra la grande borghesia e gli affaristi avevano accumulato grandi ricchezze e ora si inaspriva l’avversione delle masse popolari nei confronti di queste classi e delle forze politiche, le cui riforme non avevano portato buon frutto.
La guerra aveva determinato profondi mutamenti nella società. Innanzitutto aveva sottolineato il decisivo contributo femminile alla vita del paese nei settori più diversi: dalla produzione industriale all’assistenza sanitaria, dall’insegnamento all’impiego nella pubblica amministrazione e nella guida di migliaia di ditte agricole e artigianali. Dal fronte poi i soldati tornavano con una mentalità diversa, modificata dall’esperienza vissuta nella "città militare", dal confronto tra tradizioni e costumi diversi, dalla consuetudine alla discussione e alla solidarietà con gli altri compagni, dalla speranza ad una maggiore giustizia sociale. Del tutto al di fuori delle previsioni dei governi e dei diplomatici dell’anteguerra, queste grandi masse di cittadini irruppero sulla scena politica. Dopo essere stati inquadrati per tre, quattro anni nei reparti e nelle trincee, essi erano ora ben decisi a far sentire la loro voce nelle scelte politiche fondamentali.
CLASSE SOCIALE
TENDENZA POLITICA
Operai dell’industria, braccianti agricoli e salariati.
Partiti socialisti e formazioni anarchiche.
Ceti intermedi: piccoli proprietari o piccoli borghesi.
Associazioni che rivendicavano il superamento dei tradizionali ordinamenti istituzionali.
Grandi proprietari industriali e agrari, antica aristocrazia, gerarchie militari, quadri superiori delle burocrazie statali.
Area della conservazione.
CONSEGUENZE CULTURALI
Lo stile di vita americano si impose come un modello trionfante di benessere e di progresso e influenzò notevolmente anche la società europea, che ne adottò molte mode ed abitudini: il ballo del charleston, la musica jazz, il whisky diventarono per la gioventù europea i simboli della modernità.
Il Post-Impressionismo e Van Gogh
A partire dal 1880 ci si pone il problema di come dare consistenza alla fugacità dell’impressione: Renoir la ricerca nel disegno raffaellesco, Degas nella sintesi della memoria, Cézanne nella forza strutturale. E’ nell’ambito di questa crisi dell’impressionismo che si colloca la nascita del cosiddetto “puntillismo”, o “neoimpressionismo”, i cui maggiori esponenti sono Seurat, Gaugin, Signac e Van Gogh.
Ognuno propone un suo metodo per la rappresentazione dell’impressione: Seurat ad esempio usa il punto per rappresentarla. Seurat infatti crede, come gli impressionisti, che i colori non esistano da soli, ma solo se accostati ad altri: egli accosta quindi dei colori, facendo in modo che la fusione tra essi sia fatta nella retina. Alle linee, ai tratti egli sostituisce il puntino, da cui il termine “pointillisme”.Caratteristica importante è quindi l’accostamento dei colori, e gli artisti che meglio rappresentarono questa esigenza furono Gaugin (con il suo “Cristo Giallo”), ma soprattutto Van Gogh.
Vincent Van Gogh apre un capitolo nuovo nell’arte europea dopo la crisi dell’impressionismo.
Figlio di un pastore protestante, diventa anche luiun predicatore e fino all’età di 27 anni condivide con i minatori del Borinage le loro sofferenze e le loro fatiche. Accusato dalle autorità religiose di “follia mistica”, egli abbandona tutto per dedicarsi, grazie anche alla spinta del fratello Theo che lavorava in una galleria d’arte di Parigi, alla pittura.
Da questo momento (1880) alla sua morte passeranno solo 10 anni, ma in questo tempo Van Gogh dipinse un numero enorme di quadri, ben oltre 850: questa è una delle sue principali caratteristiche. Anche gli impressionisti dipingevano velocemente per evitare che si perdessero i giochi di colore che li avevano colpiti; in Van Gogh invece questa è l’urgenza interiore di esprimersi, in assoluta libertà, obbedendo più al sentimento che alla ragione.
Van Gogh rispetto agli impressionisti, tende a proiettare nella realtà se stesso, e quindi tende a trasformarla, a trasfigurarla secondo i suoi sentimenti.
Anche Van Gogh, come Gaugin, usa la linea non come mezzo descrittivo, ma con funzione espressiva, trasformando il colore reale per renderlo suggestivo: il colore non è dunque quello reale, ma un colore che suggerisce l’emozione, un colore attraverso cui Van Gogh si esprime con più forza.
L’importante quindi non è descrivere dei fatti narrati in modo oggettivo, ma il significato umano di ciò che si rappresenta, così come lo si sente.
Nel 1886, (anno in cui si trasferisce a Parigi), vi è una svolta nella pittura di Van Gogh: egli infatti capisce appieno l’Impressionismo, schiarendo la sua tavolozza (fino ad allora scura e monotona), e viene a contatto con le teorie di Seurat, adottandole con grande entusiasmo. Qui però non si può parlare di puntillismo, ma di divisionismo, in quanto i puntini si trasformano in linguette di colore accostate, disposte coerentemente alla forma del soggetto (come si nota nel suo Autoritratto).
Nel 1888 si trasferisce ad Arles, nel sud della Provenza, regione ricca di colori e luminosità. Egli ha il progetto di aprire un “Atelier del Sud”, un luogo in cui tutti gli artisti che avrebbero voluto cercare pace e tranquillità avrebbero potuto rifugiarsi: invece qui la sua situazione mentale peggiora, ed è costretto a ricoverarsi diverse volte in case di cura. Nonostante tutto in questo periodo dipinge circa 200 opere di altissimo livello.
Nella “Camera da Letto” egli vuole rappresentare il senso di riposo assoluto, ma invece rende l’angoscia della camera, rappresentando tutto in modo traballante. Ilquadro esprime tensione angoscia soprattutto per mezzo delle linee prospettiche del pavimento spezzate da oggetti disposti trasversalmente e in modo deciso come il letto, le sedie, il tavolino, dai quadri sopra il letto messi obliquamente, e dai colori, senza ombre e accostati l’uno all’altro.
Tornato a Parigi, dopo 3 giorni si trasferisce nel paese di Auvers-sur-Oise, dove il 27 Luglio 1890 si toglie la vita con un colpo di rivoltella al cuore. In questi due ultimi mesi di Auvres nascono capolavori che rappresentanto la carica interiore con il quale il pittore trasfigura la realtà.
Nella Chiesa di Auvres ad esempio, la chiesa si flette, la linea non è retta (tranne quella verticale). L’artista vuole esprimere nel quadro la propria ansia, il proprio stato d’animo, facendo vivere drammaticamente alla chiesetta la sua stessa vita. La costruzione barcolla angosciosamente, mentre il movimento è accentuato dalla divergenza delle due stradine e dalle molteplici pennellate che le striano continuamente. Il colore ha un ruolo primario denso di significato.
L’angoscia, la tristezza e la solitudine estrema sono ancora più evidenti nel “Campo di grano con volo di corvi”.
Questa tela è composta con autentico furore creativo, a colpi di pennello, le cui direzioni seguono i piani prospettici, o si scontrano e si accavallano come ondate in tempesta. I colori sono senza mezze tinte, essenziali (3 primari e uno secondario). Qua e là svolazzano i corvi, linee nere zigzaganti, come presenze minacciose. Il movimento anche qui è espresso dal divergere dalle stradine, dalle pennellate intense che formano il campo di grano e il cielo vorticoso, creando quasi uno stato di angoscia. La natura si deforma secondo lo stato d’animo dell’artista, quell’angoscia e quella tristezza che 20 giorni dopo lo porteranno al suicidio.
Per molto tempo Van Gogh è stato studiato in chiave psicanalitica, cercando di capire quanto le sue turbe psichiche abbiano potuto influire sul suo modo di esprimersi. Quello che è importante non è questo, ma che le opere di Van Gogh appaiono come l’espressione dell’angoscia esistenziale dell’uomo moderno in un momento di crisi dei grandi valori tradizionali che lo avevano rassicurato nel corso dell’ottocento.
I Terremoti
Possiamo distinguere due tipi di terremoti: i terremoti vulcanici e quelli tettonici. I primi sono vibrazioni del suolo provocate dal magma in risalita e vengono generalmente indicati col termine di “tremori”. Sono superficiali e riguardano aree di modesta superficie. I secondi, veri e propri terremoti, sono quelli determinati dai movimenti delle placche crostali.
Ecco perché le zone dove si hanno più di frequente terremoti sono quelle dove ci sono fratture della crosta terrestre, le stesse che consentono alla materia del mantello di risalire in superficie e di originare i fenomeni vulcanici.
Il primo ad associare i terremoti allo scorrimento di strati di roccia fu Harry Red.
Studiando il terremoto che nel 1906 distrusse la città di San Francisco lo scienziato collegò il sisma allo scorrimento di due lembi della faglia di Sant’Andrea, la lunga frattura che segna il confine fra la penisola californiana e il continente americano.
In corrispondenza della frattura erano evidenti le prove che i due blocchi scorrevano l’uno contro l’altro in versi opposti.
Bastava osservare l’allineamento di elementi del paesaggio collocati da parti opposte della faglia per rendersi conto che il territorio si era modificato nel tempo e continuava a farlo.
L’origine dei terremoti
Se afferriamo le due estremità di un bastone flessibile e proviamo a piegarlo usando una certa forza, esso si deforma e accumula una certa quantità di energia (chiamata energia elastica).
Il lento movimento delle placche genera, lungo i loro margini, delle forze tali da comprimere o tendere le rocce. Queste si deformano accumulando un’enorme quantità di energia elastica, finché, superato un certo limite, si spezzano. A questo punto i bordi della frattura entrano in oscillazione liberando energia sotto forma di onde sismiche, vibrazioni che si propagano nel terreno provocando un improvviso e rapido scuotimento del suolo: il terremoto. Il punto o la zona interna della Terra in cui si ha la rottura si chiama ipocentro, mentre il punto della superficie posto sulla sua verticale si chiama epicentro.
Le onde sismiche
Non hanno sempre le stesse caratteristiche e da ciò dipende il differenziarsi delle scosse che possiamo avvertire durante un terremoto.
Le onde sismiche possono essere registrate attraverso particolari strumenti chiamati sismografi e sono di tre tipi fondamentali: onde primarie, onde secondarie e onde lunghe.
Le onde primarie (le prime a essere registrate durante un terremoto) danno origine alle scosse sussultorie. Si tratta di onde longitudinali che investono le particelle dei vari strati di roccia e le fanno oscillare avanti e indietro. Le onde secondarie (registrate dopo le primarie) danno origine a scosse ondulatorie e sono più lente. Sono onde trasversali simili a quelle che si ottengono facendo oscillare una corda fissata a un estremo. Le particelle in questo caso oscillano in su e in giù.
Infine le onde lunghe o di superficie, che sono di ampiezza maggiore: più lente, durano più a lungo e causano i danni peggiori.
Il sovrapporsi di questi tre tipi di onde durante un terremoto può causare danni più o meno gravi a seconda dell’intensità di propagazione.
La valutazione di un terremoto
La zona dove gli effetti del terremoto sono maggiori è quella che si trova in prossimità dell’epicentro.
Intensità e magnitudo sono le due grandezze che descrivono i terremoti. La prima li valuta in base ai danni che essi provocano. Il grado di intensità aumenta con l’aumentare dei danni causati. Naturalmente più si è vicini all’epicentro, maggiore è l’intensità di un terremoto.
La magnitudo indica invece la quantità totale di energia che si libera durante il sisma.
I valori delle due grandezze sono detti gradi e vengono definiti rispettivamente dalla scala Mercalli e dalla scala Richter. La prima è divisa in 12 gradi, la seconda in 10.
Propagazione delle onde sismiche
Come distinguerle
Una parte dell’energia che si libera all’ipocentro si propaga come onde sismiche attraverso le rocce circostanti, che si comportano come corpi elastici.
I movimenti all’ipocentro provocano però diversi tipi di onde ; inoltre la composizione eterogenea della terra fa sì che le onde si propaghino attraverso materiale diversi, e vadano quindi incontro a fenomeni di riflessione o rifrazione. Onde che si dirigono inizialmente in profondità possono essere rimbalzate verso la superficie, interferire con altre onde a seconda delle loro caratteristiche e del loro periodo. Nell’epicentro, il punto sulla superficie terrestre posto sulla verticale all’ipocentro, giungono una tale quantità di onde sismiche confuse e sovrapposte che le strumentazioni vicine vanno fuori scala o forniscono dati inutilizzabili.
Molto più significativi sono i dati rilevati dagli strumenti posti a una certa distanza dall’epicentro, perché le onde sismiche si propagano a velocità differenti e quindi possono venir registrate in sequenza d’arrivo.
Caratteristiche dei vari tipi di onde
Si distinguono così :
1) onde di compressione, anche dette onde primarie o onde P ;
Al loro passaggio la roccia subisce variazioni di volume nella direzione di propagazione dell’onda stessa.
Queste hanno velocità compresa tra i 4 e gli 8 km/s e possono propagarsi in qualsiasi mezzo materiale (aria, acqua, magma, rocce solide) e quelle che arrivano in superficie provocano spostamenti d’aria a frequenze in parte udibili dall’orecchio umano (il rombo sordo che accompagna l’inizio di un terremoto).
2) onde di taglio, dette anche onde secondarie o onde S.
Al loro passaggio le particelle compiono delle oscillazioni perpendicolari alla direzione di propagazione. Hanno velocità più bassa rispetto alle onde P, compresa tra i 2,3 e i 4,6 km/s. Hanno l’importante caratteristica di non potersi propagare attraverso i fluidi. Infatti nei fluidi le particelle che si muovono non trascinano con sé le altre particelle, perché le forze d’attrazione tra di esse sono più deboli che nei solidi. Quindi le onde S si smorzano rapidamente nel magma. Al loro passaggio le rocce cambiano di forma, ma non di volume.
E queste fanno parte delle onde di volume o onde interne che si generano all’ipocentro ma non raggiungono la superficie.
Quando le onde interne raggiungono la superficie danno origine alle onde di superficie che si propagano dall’epicentro lungo il suolo e sono di due tipi :
3) onde di Rayleigh o onde R ;
Prendono il loro nome dal matematico John W. Strutt, meglio noto come Lord Rayleigh, dal quale furono previste nel corso dei suoi studi sulla propagazione di onde nei mezzi elastici. Al loro passaggio le particelle compiono un’orbita ellittica su di un piano perpendicolare alla direzione di propagazione, come avviene su uno specchio d’acqua increspato.
4) onde di Love o onde L.
Furono previste e descritte teoricamente dal matematico A. Love. Al loro passaggio le particelle oscillano trasversalmente alla direzione di propagazione, ma solo sul piano orizzontale. Sono più lente delle onde S da cui derivano, hanno velocità tra 2,7 e 3 km/s. Compiono tragitti lunghissimi, fino a compiere più volte il giro della Terra e poi tornare indietro.
Oscillazioni Libere
Si producono quando si perturba un oggetto in stato di equilibrio e poi lo si lascia libero di muoversi (è il caso di una campana, o della corda di un violino). Un forte terremoto fa vibrare l’intero globo terrestre, producendo movimenti impercettibili che solo in anni recenti è stato possibile individuare. Le vibrazioni di un corpo dipendono solo dalla natura del corpo stesso. Ecco perché le oscillazioni provocate dai sismi sono per noi una preziosa fonte di informazioni nello studio della struttura interna del pianeta.

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