Motricità e musicalità

Materie:Tesina
Categoria:Educazione Fisica

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Testo

Motricità e musicalità
La “motricità” è quel complesso di condizioni neurofisiologiche che consentono all’individuo di compiere tutti i movimenti corporei richiesti dalla vita di relazione, mentre la “musicalità” si riferisce all’essere musicale, a tutte quelle attitudini che rendono sensibili o disposti alla musica.
Se mettiamo in correlazione i due termini e scaviamo nel profondo significato del loro essere, vi troviamo un intimo e sempiterno legame, che affonda le sue radici nella notte dei tempi.
Il suono ed il movimento hanno, da sempre, assunto un valore quasi magico, poiché, coinvolgendo tutti gli organi sensoriali, hanno toccano l’impercettibile confine tra reale ed irreale, materiale ed immateriale, terreno e divino, definito ed informe, caos e cosmo.
Apollonio Rodio, in età ellenistica, testimonia l’importanza della musica, scrivendo che Orfeo, la sera prima di una partenza per la conquista del vello d’oro, canta la nascita del cosmo accompagnandosi con la cetra, e ammaliando tutti gli eroi:
“Ma Orfeo sollevò nella sinistra la cetra e diede inizio al suo canto.
Cantava come la terra ed il mare, che un tempo
erano fusi in un un’unica forma,
furono gli uni divisi dagli altri […] .
Disse, e poi fermò insieme la cetra e la voce divina,
ma quand’ebbe finito ancora gli eroi allungavano il collo,
e restavano immobili, tendendo le orecchie al’incanto,
tale malia il poeta aveva lasciato dentro di loro”.
Lo stesso tono incantevole, presente nel testo delle Argonautiche, si riscontra nel dialogo di Luciano di Samosata, “Sulla danza”: “La danza non è nuova, non è cominciata ieri o l’altro ieri […] . Contemporaneamente alla prima formazione dell’universo nacque anche la danza, comparsa insieme con l’Eros antico. E in realtà il movimento circolare degli astri, l’intrico dei pianeti e delle stelle fisse, i ben ritmati rapporti che li legano, la loro ben regolata armonia dimostrano l’esistenza primordiale della danza”.
Gesto e suono, suono e gesto, musica e danza, danza e musica, ritmo e movimento, movimento e ritmo: filo conduttore della storia dell’uomo.
Come possiamo riscontrare nelle pitture rupestri o nelle tribù che ancora oggi vivono in condizioni quasi primitive, nelle popolazioni più antiche, la danza e la musica ebbero un carattere imitativo e istintivo, e vennero praticati quasi come un rito di magia, per allontanare lo spirito del male o assicurare una caccia fruttuosa. I movimenti erano scanditi dal battito delle mani e/o dal suono di strumenti molto poveri, a percussione, come per esempio, bacchette di legno, zucche essiccate dentro cui erano messi sassolini o semi, membrafoni, aerofoni (come il flauto), cordofoni, tra i quali in particolare l’arco terrestre, che il suonatore faceva vibrare battendo e pizzicando la corda e tenendone un’estremità in bocca e una infissa nel terreno.
Presso gli egizi e gli ebrei, la danza era una forma di omaggio e/o ringrazimento alla divinità, come raffigurato in alcune pitture e citato nella Bibbia. L’attività musicale, dapprima privilegio esclusivo della casta sacerdotale, venne poi praticata anche dalle donne. Gli strumenti maggiormente diffusi erano i flauti, le trombe, l’arpa e la cetra.
I
n Grecia, musica e danza, erano considerate forme artistiche notevolmente importanti.
Musica è un sostantivo che, per i greci, indicava l’ “arte delle muse”, intendendo anche la poesia e la danza. Quest’ultima aveva come protettrice una delle nove muse, Tersicore, ed era accompagnata dalla musica auletica o da strumenti a percussione, a corda o dal canto. Essa assolveva funzioni differenti: rappresentava un omaggio alla divinità, aveva un carattere guerriero o veniva impiegata in composizioni liriche, come gli inni sacri, e drammatiche, nelle commedie e nelle tragedie o in forme definite “labirintiche”. Alla base del sistema musicale greco stava il tetracordo, una successione discendente di quattro suoni, due fissi e due mobili. Gli strumenti principali erano la cetra e l’aulos; il ritmo della musica veniva scandito dalla metrica accentuativa e quantitativa.
Gli inni sacri, cantati da un coro danzante con accompagnamento musicale, ebbero origine intorno al VII secolo a.C, e sembra che fossero ripartiti, secondo uno schema reso letterariamente noto da Stesicoro: lo schema triadico, diviso in strofe, antistrofe ed epodo, sezioni che corrispondono ad un determinato movimento di un corpo celeste.
La strofe, dal greco strophé, evoluzione, era uno spostamento del coro, attorno all’altare del dio, in senso orario, a imitazione del movimento del Cielo delle stelle fisse.
L’antistrofe, dal greco antistrophé, controevoluzione, consisteva nel movimento opposto (spostamento del coro, attorno all’altare del dio, in senso antiorario), a imitazione del movimento del sole e degli altri pianeti.
L’epodo, dal greco epodos, canto aggiunto, vedeva i coreuti cantare da fermi dinnanzi all’altare, ad imitazione del non movimento, cioè dell’immobilità della Terra al centro dell’universo.
La cerimonia pubblica, in cui era inserita la performance lirica, aveva come scopo: ristabilire un rapporto positivo e di equilibrio tra gli dei e la comunità e tra i cittadini stessi.
Una forma più complessa di imitazione umana della danza degli atri e dei movimenti celesti era la danza del labirinto, ovvero quella forma di imitazione umana del movimento degli astri e dei movimenti celesti. Un’antica tradizione ne attribuiva l’istituzione a Teseo, reduce dall’impresa cretese. Dopo aver ucciso il Minotauro all’interno del celebre labirinto di Cnosso, sulla via del ritorno Teseo, nello sciogliere i voti nell’isola di Delo, si dice che cantasse, seguito dai fanciulli e dalle fanciulle che aveva tratto in salvo, imitando nella danza, l’intricato e tortuoso percorso del labirinto. Teseo rappresentava la Terra, attorno a cui girano gli astri ed il doppio coro (7+7) di giovani e giovinette riproduce il seguito degli astri, ora visibili, ora invisibili, ora maschili, ora femminili, ora propizi, ora avversi, ora lontani ora vicini. Il numero quindici indicava tutto il cosmo in movimento. Più tardi, il coro della tragedia attica venne portato da Sofocle da tredici a quindici elementi, per richiamare la stessa danza labirintica e, quindi, quella degli astri.
Celebri descrizioni di danze labirintiche si hanno nell’Iliade (XVIII, 590-602) e nell’Eneide (V, 580-595). In queste opere, il coro dei giovinetti alternava due coppie di movimenti: a volte i movimenti erano orari o antiorari, a imitazione di quello della Terra e del Cielo, altre i due semicori distinti si fronteggiavano, ora correndosi incontro ora retrocedendo. Poiché questi movimenti stanno alla base dello schema simbolico del Labirinto cretese, questa danza venne definita labirintica.
Alla nascita di Roma e fino al II secolo a.C., i Romani, popolo guerriero, non svilupparono parimenti ai greci la musica e la danza. Debitori di altri popoli, come quello etrusco, ne ereditarono alcuni strumenti musicali, come la salpinx, il lituus, il cornu, la buccina, la tibia, e impiegarono la musica soprattutto nel culto religioso e in manifestazioni di vita sociale e pubblica. Le danze erano soprattutto legate ad attività belliche: tipica quella dei Salii, detta anche Tripudium, che aveva un momento molto ritmico e veniva seguita battendo tre volte il piede per terra e le aste sugli scudi. Il suo scopo era propiziatorio. Con l’espansione della Roma imperiale, anche la danza e la musica risentirono dell’influenza greca: in particolare si sviluppò la pantomima, rappresentazione in cui il gesto e gli atteggiamenti corporei, accompagnati dalla musica, devono suggerire l’idea dell’azione e il mimo, rappresentazione comica e satirica, incentrata su recitazione, danza canto e gesto. In età augustea, nei circhi e nelle arene, ci si poteva imbattere spesso in performances di un ballerino e di un coro numeroso, accompagnati da un’orchestra molto ricca, composta da flauti, siringa, cembalo, cetra, lira e tromba.
Il cristianesimo continuò, almeno in un primo periodo, la tradizione della danza e del canto dei salmi ebraici, ma per il forte legame tra la danza e il paganesimo, la Chiesa ne proibì ogni forma. In realtà, nonostante i divieti, la danza conservò, fino al Medioevo, la sua funzione magico-religiosa: si eseguiva in feste e riti, di carattere anche pagano, sotto forma collettiva, collegata alle manifestazioni tradizionali. Danze vivaci con passi veloci erano spesso accompagnati da “canti a ballo”, ballate. Il canto, senza l’uso di strumenti di accompagnamento, era considerato il mezzo più congeniale per lodare dio, tanto che venne inserito anche all’interno delle liturgie, alle fine del VI secolo. Nacquero e si svilupparono, durante il Medioevo, il canto gregoriano, l’organo, i tre stili di canto accentus, melismi e concentus.
La danza, eliminata totalmente dalla struttura del cristianesimo trovò spazio nella nobiltà, tra i cavalieri cortesi dell’Alto e del Basso Medioevo, ed acquistò un andamento più tranquillo: non salti e passi veloci, ma movimenti più cadenzati, strisciati che volevano indicare grazia e compostezza. Come spettacolo, il ballo era affidato ai giullari e aveva la funzione coreografica di accompagnare azioni drammatiche. La danza si distinse inevitabilmente in “alta” (ballo), cioè quella che si effettuava col sollevamento dei piedi da terra, e “bassa”, strisciata o cadenzata.
Tra il Trecento ed il Quattrocento, accanto alla musica sacra, si collocò quella profana, che si sviluppò maggiormente in tre forme: il madrigale, la ballata e la caccia. La ballata ebbe origine nella musica da ballo, e la struttura era strofica, sempre legata da un ritornello e fu influenzata anche dalla musica fiamminga, il cui centro fu la Francia settentrionale. La danza continuò ad occupare sempre un posto marginale, o perlomeno di semplice intrattenimento.
Nel Rinascimento, con la fioritura delle arti e l’attenzione sempre crescente verso l’Uomo, si accentuò l’interesse per l’aspetto estetico della danza e venne impiegata in feste mascherate, trionfi, feste tradizionali legate alla fertilità e all’alternanza delle stagioni. Le due forme musicali più apprezzate erano invece il madrigale e la frottola. La musica sacra vide, nella liturgia luterana, l’introduzione dei corali, brani vocali semplici, in lingua tedesca. La musica strumentale migliorò la tecnica di costruzione dei suoi strumenti. Un’importantissima innovazione fu la prima comparsa di scene di ballo-spettacolo, come intermezzi tra un atto ed un altro delle opere drammatiche: questo fu l’atto di nascita del balletto come forma di spettacolo teatrale. Nacque la prima storia di coreografia, a Milano, fondata da Pompeo Diobono. L’Italia divenne la patria del ballo di corte. La danza di scuola italiana si diffuse in tutte le corti europee, e in Francia ad opera di Baltazarini Belgioioso. Presso le corti italiane e francesi vennero presentate anche pantomime di carattere mitologico e cavalleresco. Una delle più splendide fu rappresentata alla corte di Versailles nel 1581: si intitolava “Le ballet comique de la reyne” ed era stata ideata da Belgioioso.
In Germania si sviluppò l’Allemanda, danza di carattere professionale di movimento moderato, carattere serio, ritmo binario, tempo 4/4.
Nel Seicento, gli elementi innovativi più rilevanti, in campo musicale, furono il passaggio dallo stile polifonico al melodico, la nascita del melodramma, rappresentato nei teatri e il raggiungimento dell’autonomia della musica strumentale, al punto che cinque o sei forme di danza vennero accostate a formare la suite, primo organismo complesso di questo genere di musica. Le danze impiegate furono: l’allemanda, la corrente, la sarabanda, la giga, la bourrée, la gavotta, il minuetto ed il passepied. Nella struttura tipica della suite c’erano quattro danze di base e un numero di brani che poteva variare da 3 a 9. Il ritmo solitamente era binario o ternario. L’andamento era vario anch’esso. In Francia furoreggiò la pavana, il minuetto ebbe il suo periodo di massimo splendore e la danza divenne artificiosa, e smise di seguire fini artistici di antica ispirazione. Luigi XIV, che amò particolarmente il ballet de cour, di Baltazarini, fondò l’Académie Royale de Danse (1661), seguita dalla Académie Royale de Musique (1669), per lo sviluppo del balletto e della musica per il teatro. Nacque ufficialmente il balletto: non più danza di dilettanti, relativamente libera, ma danza regolata, organizzata, legata ad un progetto complessivo, la coreografia, con intenti espressivi. Nel Seicento maturò anche il passaggio dall’ambiente di corte a quello del teatro e alla performance, rappresentata sul palcoscenico (la prima rappresentazione di un balletto fu a Venezia, nel 1637, ma l’originale contributo italiano fu superato per fama dal teatro francese). L’Académie Royal de Danse, con Charles Beauchamps, codificò e classificò i passi del balletto, stabilendo le regole che stanno alla base della danza accademica. Da quel momento la complessità dei movimenti, richiese ballerini di professione, istruiti da una scuola apposita. Altro merito di Luigi XIV fu quello di aver sollecitato l’interesse di un musicista eccellente come Lulli, che coinvolse nei suoi progetti letterari Moliere: dal loro lavoro nacquero la comédie-ballet, la tragédie-ballet e, infine, l’opéra-ballet, unione di balletto e canto, che dominò a lungo le scene francesi in opposizione al melodramma di tipo italiano.
Il Settecento inizialmente rappresentò una continuazione ed un perfezionamento dell’Età Barocca: in campo musicale, proseguì lo sviluppo dell’opera, che si suddivise in buffa e seria, il concerto acquistò caratteristiche specifiche, e si diffuse la cultura musicale. Per quanto riguarda la danza, agli inizi del XVIII secolo iniziarono ad affermarsi le ballerine (donne), grazie a due interpreti eccezionali: Anne De Cupis Camargo (1710-1770), e Marie Sallé (1707-1756), più orientata alla perfezione tecnica la prima, ed all’espressività la seconda.
Nel secondo Settecento, con l’esaltazione della razionalità, la musica strumentale ebbe un’importanza fondamentale, col sorgere e il perfezionarsi di nuovi strumenti e di orchestre con una struttura più organica; il melodramma proseguì e si affermò la forma sonata. La parola si distaccò definitivamente dal canto, grazie al lavoro di maestri come l’italiano Angiolini, arrivo soprattutto a Vienna, Hilferding van Wewen, attivo a Pietroburgo, Jean Georges Noverre, attivo a Stoccarda. Angiolini collaborò con Gluck, del quale mise in scena il Don Juan. Noverre nel 1760, espose per la prima volta i principi del ballet d’action in un’opera stampa, intitolata “Lettres sur la Danse et Les Ballets”: vi sosteneva che la danza doveva essere espressiva e servire a raccontare l’azione, che doveva avere musica appositamente composta, e che doveva integrarsi con l’arte mimica, cioè con il recitare senza parole.
Nell’Ottocento, con lo sviluppo del Romanticismo, si rivalutò il sentimento, l’individualità dell’uomo, il superamento da schemi e strutture prestabilite e si impose un valore di musica universale: proprio questa sua validità portò a privilegiare la musica strumentale a scapito di quella vocale e a far aumentare l’interesse per il melodramma. Si affermò il pianoforte e, a causa della nascita del nazionalismo, si tese a rivalutare quelle forme di interesse per le manifestazioni dell’arte, delle danze e delle musiche di origine paesana e geograficamente localizzate: in Austria, attraverso Hayden, Mozart, Beethoven e Schubert, si operò la trasformazione del rustico “lander” nel brillante valzer; dalla Boemia venne la “polska”, dalla Polonia la mazurka. Il “lassu” ed il “friss”, tipica forma zigana dell’accoppiamento di una danza lenta e una vivace, furono resi popolare da Liszt. Tale nuove danze passarono dall’uso popolare all’arte musicale, per poi entrare nell’uso mondano della società aristocratica e borghese. Al valzer presentato all’Opéra di Parigi, seguirono la contro danza e il turbinoso cotillon. A Milano, le idee di Noverre trovarono piena applicazione con Salvatore Viganò, coadiuvato da un grande scenografo, Alessandro Sanquirico. Viganò, maestro di ballo al teatro della Scala, creò quello che chiamava un coreo-dramma: non più scene di danza alternate a scene mimate, ma un unico movimento drammatico accompagnato dalla musica. Emerse la figura di Marius Petipa, coi suoi allestimenti per le musiche di Ciaikovski (“Il lago dei cigni, Schiaccianoci”). Il desiderio di esplorare terreni nuovi spinsero Fokine ad unirsi a Serej Diaghilev, nell’impresa dei “Ballets russes”, che cominciarono ad esibirsi fuori dalla Russia dopo il 1909. Diaghilev fu il vero animatore dell’iniziativa: con lui iniziò la carriera un compositore d’avanguardia Igor Stravinskij, con “L’uccello di fuoco, Petruska, La sagra della primavera”, cui collaborarono ballerini come Bronislava Nijinska, Massine, George Balanchine. I balletti russi univano in un equilibrio armonico I massimi allievi di Viganò furono: Carlo Blasis, il cui testo, “Code of Tepsichore”, fu il primo del balletto moderno, Filippo Taglioni, che nel 1832 rappresentò “La Sylphide”, punto di inizio del balletto romantico, all’Opéra di Parigi. Nel balletto di Taglioni, fu consacrata la figlia, Maria, che aveva perfezionato lo stile di danza sulle punte: il vestito corto, che doveva portare in scena divenne il vestito ufficiale del balletto: il tutù. Ella fu l’incarnazione dell’ideale femminile romantico. Il balletto che meglio rappresentò, invece, lo spirito del Romanticismo, fu la Giselle, messo in scena nel 1841, all’Opéra di Parigi, su musiche di Adolphe Adam, con coreografie di Coralli e Jules Perrot. Le migliori interpreti furono Carlotta Grisi e Lucien Petipa. Altri nomi immemorabili del balletto romantico sono: Fanny Essler, Fanny Cerrito, Lucilem Granh. Allievo di Carlo Blasis fu Enrico Cecchetti, maestro di ballerini e coreografi che segneranno la storia del Novecento: Vaslav Nijinskj, Michel Fokine, Leonide Massine.
Il Novecento, è caratterizzato da un rapido succedersi di stili e correnti che hanno come linea di sviluppo comune la ricerca di un nuovo linguaggio, capace di produrre il dinamismo che caratterizza questo secolo. Sia la musica che la danza subiscono cambiamenti radicali. In campo musicale, si passò da un sistema atonale alla ricerca ossessiva di un rigore e di una regola, dall’introduzione di nuovi strumenti al ripristino delle leggi classiche. Balanchine, nel 1933, fondò in America la School of American Ballet, e poi nacquero le compagnie dell’American Ballet e dell’American Ballet Caravan.
Isadora Duncan affermò in quel periodo uno stile di danza meno ligio alle regole della danza accademica, la danza libera, da cui derivò la danza d’espressione di Mary Wigman, poi la modern dance della coreografa Martha Graham, che si sono aperte alle influenze più varie, dal folk alla danza jazz.
La musica e la danza, pur restando universi distanti sono legati da un legame indissolubile, poiché arte, poiché hanno stesse “cause scatenanti” e obiettivi e ,nel panorama contemporaneo, il balletto è, come del resto per tutte le attività musicali, estremamente vario: scuole di danza accademica continuano a vivere accanto a scuole di impostazione più moderna, a esperimenti delle avanguardie più disparate.
Attualmente la danza e la musica sono così articolate, ed il loro campo artistico è così intrecciato, da non permetterci di catalogare il rapporto musicalità e motricità entro schemi definiti o da critici o da studiosi, tanto che, proverò a rendere il valore simbolico di questo legame inscindibile, soffermandomi sui nodi cruciali dell’illustre opera di Jiri Kyliàn, coreografo di “Petite Mort”. L’evidenza dell’incontro tra suono e movimento crea nello stile dell’autore, che riceve influenze neoclassiche, un linguaggio coreografico che sa sposare perfettamente chiarezza ed ambiguità, austerità e dovizia di abbellimenti. La sua scrittura coreografica, puntigliosamente attenta al disegno formale della musica definisce un risultato unico, elegante, vellutato, profondo e ricco di significati.
Questo è uno dei tanti obiettivi degli artisti contemporanei, che provano a trovare nel caos che governa i nostri giorni, un cosmo, un nesso logico, quasi una ratio.
Le musiche di Mozart si rendono materia visibile sui corpi dei danzatori: il suono, sine materia forma per eccellenza, diventa fluido gesto armonioso: esempio ne possono essere le arabesques, inserite sempre in presenza di note di durata maggiore. Esse infatti di prestano di più ad una tenuta del corpo in posizione statica di equilibrio e durata.
Il balletto si apre con l’Adagio n’23, K 488.
L’overture è dominata da un silenzio, forse più comunicativo di mille parole: è un silenzio di aspettativa. I danzatori si muovono nell’aria, eseguono salti e tours liberi prima di porsi al suolo.
Con l’attacco del pianoforte si rialzano e corrono verso il fondo del palcoscenico. Con l’incipit dell’orchestra, in corrispondenza con l’incedere degli archi, i danzatori rientrano prepotentemente in scena sollevando un drappo nero, espediente scenografico che rappresenta la maestosità della colonna sonora. Dalla grossa tela scura appaiono delle ballerine che escono di scena, alla fine della parte orchestrale (battuta 19). Ritorna musicalmente il pianoforte e le figure maschili rimangono sole, affiancate solo dalle loro spade. Sul suono dei fiati fino alla ripresa dell’assolo del piano forte, si inscenano dei pas de deux che rappresentano i diversi rapporti che si possono stabilire tra due partner. Ogni presa è musicalmente perfetta, ogni passo di ogni singolo ballerino è pensato sulla melodia di ogni singola variazione dello strumento solista dell’orchestra in quel particolare momento. Alla battuta 43. vi è una sequenza discendente di note suonate dal pianoforte in corrispondenza ad uno sbilanciamento laterale verso terra delle ballerine, così come anche alla battuta successiva la coreografia si muove in modo quasi opposto dato che le protagoniste si rialzano in corrispondenza ancora una volta di una discesa di note. Ancora più suggestiva è una contrazione a livello addominale, un segno di sofferenza, eseguita dalle danzatrici obliquamente, stando stese per terra sulle note dei violini (battuta 45). Sul trillo della battuta 50, tutti i ballerini indietreggiano verso il fondo lasciando la scena. Alla battuta 53, sulla ripresa del pianoforte in scena rimane una sola coppia: tutte le altre sono di schiena.
Dopo un balletto delle sei coppie, col ritorno dei violini protagonisti viene trascinato in scena il drappo nero. Dapprima una ballerina, seguita dal partner, poi un’altra coppia vi entrano sotto (battuta 72-74). Alla fine dell’Adagio, il pianoforte accompagnato dall’orchestra, fa da sottofondo a due pas de deux: tutto è aereo e sospeso, eccetto la figura finale.
La seconda parte di Petite Mort è danzata sul concerto n.21, K467. (usato peraltro anche da Bejart). L’atmosfera è differente: la semplicità di costumi e luci si contrappone al rigore e all’intensita dei movimenti eseguiti precisamente sulle singole note della partitura musicale. Ogni posa, che appartenga alla danza accademica o che sia una figura libera e non decodificata, si sposa perfettamente con la musica. Kykiàn raggiunge la sua massima perfezione nei trilli: sembra che il suono si materializzi nella forma del movimento. Le coppie, per marcare l’evoluzione dell’Adagio stesso, con tutti i suoi cambiamenti, alternano le loro combinazioni. Dopo il preludio, l’inizio del tema è segnato dal pianoforte; c’è un momento in cui una serie di note viene eseguita come a materializzare ed interpretare i battiti del cuore. In scena, c’è una ballerina che giace a terra prona appoggiata su una gamba del partner e sulle note di un trillo alza le braccia in cambré, poi il suo partner la tira a se dalle caviglie; nel secondo trillo c’è un simbolico movimento di mani del partner tra le gambe della fanciulla: tutto è ballato e tende ad una comunicazione così pura da rispettare la singola figura ed il canone accademico, ma, al contempo, da essere fruibile come medium universale. Alla battuta 73, gli slanci aerei della ballerina sono sostenuti e scanditi, inesorabilmente, dal suono dei violini e del pianoforte.
Sulle note dell’ultimo trillo del pezzo, quando ormai sta ballando la terza coppia, la ballerina compie una ruota all’indietro tendendosi con un braccio a quello del partner e con l’altro intorno alla vita del compagno. Sembra la simbiosi tra la musica e il movimento come il momento finale di pathos che conduce l’Uomo all’irreale ed all’informe, in una sorte di follia mistica dei sensi.
Bibliografia
Traduzioni dei brani in lingua straniera:
Apollonio Rodio, Argonautiche, G.Paduano Rizzoli, Milano, 1986.
Luciano, Dialoghi, V.Longo UTET, Torino, 1986.
Sitografia
www.informadanza.com
www.danza.it
www.balletto.net
www.culturaespettacolo.com
www.encarta.it
www.wikipedia.it

Francesca Arcidiacono, classe IIIA,

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