Paradiso - Riassunto e critica dal I al VI canto

Materie:Riassunto
Categoria:Divina Commedia

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Testo

DANTE: Divina commedia - Riassunto e critica

PARADISO CANTO I

Dante afferma che materia del suo canto sarà la visione del paradiso, o almeno ciò che la memoria può ricordare di quella realtà ineffabile. Perciò è necessario invocare l'intervento di Apollo, affinché, di fronte alla difficoltà dell'argomento della terza cantica, aggiunga il suo aiuto a quello delle Muse, che già hanno soccorso il Poeta nella composizione dell'Inferno e del Purgatorio. Solo così Dante sarà sicuro di poter cingere un giorno la corona di poeta, consapevole di aprire, con il suo esempio, una strada sulla quale lo potranno seguire anche miglior voci. E' l'alba quando Dante, imitando Beatrice che teneva gli occhi fissi sul sole, volge il suo sguardo verso la lucerna del mondo, che gli appare di uno splendore luminosissimo. Poi gli occhi del Poeta tornano a guardare la donna amata e in questo momento si opera il suo trasumanar, cioè il suo innalzarsi oltre ogni limite umano, poiché inizia ora per lui l'ascesa verso i cieli attraverso la sfera dell'aria e quella del fuoco. Il ruotare delle sfere celesti provoca un suono armonioso, che riempie di stupore il Poeta, per il quale costituivano già motivo di profonda meraviglia i bagliori, più luminosi del solito, del sole. Beatrice gli rivela allora che egli non si trova più sulla terra, ma che sta salendo verso i cieli. Tuttavia un altro dubbio tormenta Dante: come è possibile che il suo corpo possa passare attraverso le regioni dell'aria e del fuoco? La spiegazione di Beatrice esamina la presenza, in ogni essere creato, di una inclinazione naturale che lo porta a tendere ad una meta specifica: ora il fine ultimo dell'uomo è quello di raggiungere l'Empireo, il cielo creato per essere la sua sede, e verso di esso ogni creatura umana sale dopo che è stato rimosso in lei l'ostacolo del peccato.

Introduzione critica
Una vecchia distinzione della Una vecchia distinzione della critica, sostenuta in modo particolare da V. Rossi, poneva a fondamento della diversa ispirazione delle tre cantiche una diversità di momenti psicologici, originati dalle molteplici vicende della vita di Dante. L’Inferno sarebbe nato nel periodo immediatamente seguente all’esilio, pieno di rancori e di lotte, il Purgatorio nel momento della discesa in Italia di Arrigo VII, allorché l’animo si apriva alla speranza, il Paradiso negli ultimi anni, quando il Poeta, ormai stanco e rassegnato al crollo delle sue aspirazioni terrene, si era chiuso in se stesso, riponendo in Dio ogni speranza. Questa suddivisione della Commedia in termini biografici distrugge il senso più profondo della visione di Dante, la quale si è proposta come oggetto della sua meditazione e della sua rappresentazione l’itinerarium mentis in Deum, per usare l’espressione cara alla letteratura filosofica e religiosa del Medioevo.L’impulso dell’umano verso il divino c-, come afferma il Parodi, "l’intima essenza dello spirito di Dante" e, quindi, "l’essenza dell’intero poema": la lotta con il peccato, poi l’aprirsi dell’anima al divino, infine il divino che trionfa e attira a sé definitivamente l’umano. In questa Prospettiva deve essere collocata la lettura del Paradiso: compito del Poeta è quello di ritrarre il passaggio della propria anima attraverso i successivi gradi di cui si compone l’accostamento alla verità e al bene supremi. E’ evidente perciò l’estrema importanza che rivestono i versi di apertura del primo canto, i quali, con una commozione che sottolinea la solennità di questo momento, dichiarano la trascendenza dell’ispirazione, l’orgoglio di chi è consapevole di trasfondere nella propria opera tutta la sua dottrina e la sua sensibilità, e insieme l’umiltà di chi avverte la propria limitatezza di fronte alla rappresentazione del beato regno. Esatto appare quindi il giudizio di chi vede nella "proposizione " e nell’ "invocazione", della terza cantica la più grande esaltazione della poesia che Dante abbia fatto.La terza cantica, infatti, deve essere letta come " la storia oggettiva di una vita che si eleva attraverso progressi e esperienze al supremo grado della luce", per cui " il Poeta ritrae le scene nella loro obiettiva realtà, descrive il crescere di un’anima col massimo possibile di coerenza narrativa. Il poema rimane l’epica di uno spirito cristiano che va ora percorrendo le vie della Gerusalemme celeste; l’attenzione di chi scrive è interamente concentrata nella considerazione e nella resa di qualcosa di obiettivo, reale..." (Montano). Il primo canto, inoltre, ci prepara a vedere il Paradiso come il mondo della verità, nel quale appressando sé al Suo disire, nostro intelletto si profonda tanto..., perché il Poeta, come gran parte della Scolastica, è sorretto dal convincimento che "la forma del vivere umano più alta e più vicina a Dio è quella legata all’attività dell’intelligenza" (Montano), solo che il vero si identifica ora con l’amore, i due aspetti del divino che Dante chiuderà nella sintesi di un verso: Il viaggio dunque si presenta come l’esperienza del vero e dell’amore: infatti ai versi 7-9, che possono far pensare ancora alle rarefatte speculazioni del Convivio il Poeta contrappone l’ultima parte del canto, dove da Beatrice, cioè dalla verità stessa, ha la rivelazione del l’armonia universale del creato, dell’amore divino che riempie tutte le cose, unendole fra loro e subordinan dole a sé. E’ un gioioso approdo, una esaltante visioni dell’unità del reale, che ben può introdurre il tema del l’amore ricorrente in ogni passo della cantica, un amore privo di qualsiasi calcolo, diventato luce e grazia. Il Poeta deve chiedere alla sua arte di diventare ancora più profonda e delicata di quella che aveva creato il dolce color d’oriental zaffiro dell’atmosfera purgatoriale. perché sia possibile seguire le rapide conquiste e le improvvise accensioni dell’animo nella sua ascesa verso Dio. A chi si aspetta nel Paradiso soltanto il tono descrittivo e disteso, pacato e solenne, proprio di chi vede le cose dall’alto, dalla serenità di una meta ormai raggiunta, si può rispondere che tale tono è sì presente, ma non dovunque, perché il Poeta, che ha ormai attinto la visione suprema e si propone dì ripercorrerne le tappe, rivive ogni singola fase lasciando intatto il sapore della scoperta, dello sforzo, della conquista. Basti pensare, come esempio, al rapido e illuminante succedersi nel primo canto, di momenti diversi dai versi 46-48 ai versi 85-87: qui la tecnica espressiva (verbi e sostantivi in posizione dominante, assenza quasi assoluta dell’aggettivazione, costruzione per coordinate) contrappone al tono elaborato e solenne dell’invocazione iniziale o della spiegazione finale di Beatrice, un procedere sbalzato a grandi linee, una variazione continua di stati di anima e d’azioni, quasi il Poeta fosse sospinto da una ansia interiore e si scoprisse incapace di arginarla, finche il suo animo trova momentaneo riposo nella rivelazione della legge divina che regola e sostiene il creato. L’attenzione a questi mutamenti, interessanti dal punto di vista stilistico, perché concorrono a creare efficaci e suggestivi chiaroscuri, diventa indispensabile allorché si passi a considerare l’unità logica del canto troppo spesso accusato di mancare di continuità: l’esordio, con la celebrazione dell’argomento scelto a materia del canto, e la maestosa rappresentazione del cielo e della terra (versi 37-45) immettono subito il lettore nel mondo del sovrannaturale, lo abituano agli eventi miracolosi di cui il pellegrino sarà testimone, o addirittura oggetto. Ha inizio la prima fase del processo dello spirito nella beatitudine: Beatrice tutta nell’alterne rote fissa con li occhi stava; ed io in lei le luci fissi... Ma perché la creatura sta perfettamente consapevole che il suo ritorno al cielo è un fatto "naturale", che anzi il cielo è il sito decreto dall’eternità come sua sede, ecco la dimostrazione di Beatrice: il gran mar dell’essere si muove tutto secondo la divina volontà e il divino amore: l’uomo non è che una parte di questo gran mar, ma solo a lui è destinato il ciel reso quieto dalla luce di Dio.

DANTE: Divina commedia - Riassunto e critica

PARADISO CANTO II

Il canto si apre con un ammonimento del Poeta ai suoi lettori: solo coloro che sono dotati di intelligenza e di cultura adeguate lo potranno seguire nell'arduo cammino che sta iniziando. Infatti, con la guida di Beatrice, egli sale dal paradiso terrestre, posto sulla vetta del monte del purgatorio, al cielo della Luna, il primo dei nove cieli fisici che dovrà attraversare prìma di giungere all'Empireo, dove ha la sua sede Dio.
La superficie lunare appare luminosa come un diamante, ma Dante sa che essa è COsparsa di macchie scure, intorno alle quali chiede spiegazioni . a Beatrice. Questa dapprima nega ogni valore alla credenza popolare che vedeva, in quelle macchie, la figura di Caìno gravato da un fascio di spine. In seguito dimostra la non validità della teoria scientificache trovava la causa, di quelle zone oscure nella maggiore o minore densità della materiacostituente la luna.
Dopo aver convinto Dante:che la ragione umana, qualora non sia sorretta dalla fede. e dall'insegnamento teologico, mostra tutti i suoi limiti, Beatrice espone la dottrina esatta, estendendo la sua spiegazione dalla luna. a tutti gli altri corpi celesti. Le zone più o meno scure che sì notano sulla loro superficie dipendono da/l'influenza dei cori angelici, le intelligenze motrici dei singoli cieli. Infatti ad una maggiore o minore letizia della intelligenza angelica corrisponde, nel cielo che da essa riceve le sue qualità specifiche, una maggiore o minore luminosità.

Introduzione critica
Una vecchia distinzione della Anche per il secondo canto, come per il primo, si pone il del rapporto fra dottrinalismo e trasposizione fantastica, problema, del resto, che è alla base di tutto il Paradiso. Per risolverlo la critica romantica ha abolito il primo dei due termini, negando al sapere filosofico teologico ogni interesse in campo poetico. Tale posizione dimentica di prendere in considerazione alcune Importanti realtà:
1) nel Medioevo la distinzione fra poesia e scienza non era posta in termini netti e precisi come per noi oggi;
2) certe questioni scientifiche (il termine "scientifico" è usato nella sua accezione più vasta e comprensiva), che sono ora lontane dalla nostra mentalità o almeno di scarso interesse, rivestivano, per Dante e il suo tempo, un valore essenziale;
3) il Paradiso è la conclusione di tutto un processo interiore, per cui ogni problema, trattato un tempo alla luce della sola ragione e del solo sapere filosofico (è il momento del Convivio), viene riesaminato, corretto e completato alla luce della fede, la quale proprio nella terza cantica si esplicherà in tutta la sua forza e la sua profondità. Questa ripresa di motivi e di problemi passati testimonia che la visione del Paradiso è intimamente legata all’esperienza di vita del Poeta, è frutto, come l’Inferno e il Purgatorio, dI questa esperienza. Non è perciò, né potrebbe esserlo, un’astratta esposizione in versi della Scolastica, bensì la descrizione dell’ascesi intellettuale e spirituale di Dante, fatta non come una confessione o un diario di tipo romantico e neppure nel genere di un dialogo ridotto ai due personaggi principali come il Secretum del Petrarca, ma nei modi di una ricostruzione rigorosa e obiettiva, perché solo questa rigorosità e obiettività le avrebbero permesso di proporsi come insegnamento agii uomini;
4) la visione di Dio, quale appare nel Paradiso, non può non proiettare in una dimensione religiosa tutto il creato. Come si possono, dunque, respingere, con l’accusa che sono di troppo, quelle pagine nelle quali il Poeta prende coscienza, e invita il lettore a fare altrettanto, che tutto l’universo si appoggia su basi metafisiche, che una sola legge, quella di Dio, governa le cose e che esiste nella molteplicità degli esseri un’unica fonte di attività?
L’invito di Dante, proprio all’inizio di questo canto (e non senza ragione) è estremamente esplicito: mi seguano solo coloro che sono stati nutriti con il Pan delli angeli. Una volta dimostrata la necessità del dottrinalismo nella poesia del Paradiso, resta da considerare quando e con quali mezzi esso diventa vera poesia. Alcuni l’hanno trovata nel linguaggio metaforico, prodotto da una fantasia sempre viva e fervida, altri nella solennità del Busnelli) volle vedere, nella dottrina delle macchie lunari e del movimento dei cieli regolato dalle intelligenze angeliche, una ennesima affermazione di ortodossia tomista da parte di Dante, mentre, secondo il Nardi, il Poeta, pur senza opporsi decisamente al pensiero di San Tommaso, propende per la dottrina di Avicenna, che pose nel cielo una gerarchia di sfere, animate da un principio vitale e mosse da altrettante intelligenze separate. Tuttavia il secondo canto non è un’accademica discussione sulle macchie lunari, ma un momento, fra i più poetici, della crescita spirituale di Dante, simile a quello del canto primo: il momento in cui il pellegrino scopre che l’universo e un immenso, armonico organismo. Il Parodi ha, a questo proposito, un’osservazione molto penetrante: Dante "volle subito esporre il grande e, si voglia o no, grandioso e mirabile sistema cosmologico delle influenze e, come nel primo canto aveva cantato l’ordine reciproco di tutte le cose e l’ascensione dell’essere verso l’alto, in questo descriveva la perpetua irradiazione luminosa delle idee divine dall’alto verso il basso, compiendo con questi due momenti, che ne formano uno solo la prima e più generale sintesi dell’universo ". Il secondo non è dunque il "canto delle macchie lunari", come viene genericamente definito, ma è il canto nel quale Dante, prendendo a pretesto il limitato problema delle zone più o meno scure della luna, è impegnato a dimostrare come il molteplice derivi dall’uno e come, attraverso l’influsso dei cieli, animati dalle intelligenze angeliche, il mondo sia sempre guidato dalla superiore giustizia e dall’infinito amore di Dio. L’interesse e la passione con cui il poeta impegna il suo intelletto in questa sintesi suprema dell’universo impediscono alla poesia di trasformarsi in un’arida confutazione delle opinioni errate e in una semplice rivelazione delle verità trovate. Così nella prima parte del discorso di Beatrice "si sente il piacere intimo che nasce dalla confutazione dell’errore", mentre nella seconda si ha "un tono diverso, più alto e solenne, di una solennità quasi religiosa", che cerca "immensità luminose e una figurazione angelica e ridente dell’universo". (Fallani).

DANTE: Divina commedia - Riassunto e critica

PARADISO CANTO III

Nel cielo della Luna appaiono i primi beati: i lineamenti dei loro volti sono così tenui e indistinti che Dante ritiene di trovarsi di fronte a immagini ridesse. Queste anime godono del grado di beatitudine più Lasso e occupano l’ultimo cielo, quello più vicino alla terra, perché non hanno adempiuto completamente i voti offerti a Dio. Il Poeta si rivolge a uno spirito beato che sembra particolarmente desideroso di parlare con lui e chiede di conoscere il suo nome e la condizione in cui si trovano le anime del cielo della Luna. Risponde l’ombra di Piccarda, sorella di Corso e di Forese Donati, appartenente ad una delle famiglie pii) note di Firenze. Attraverso le sue parole Dante spiega che nel paradiso, per essendoci diversi gradi di beatitudine, ogni spirito beato è perfettamente felice, poiché la letizia che Dio infonde è proporzionata alla capacità di godere di ciascuna anima. Infatti se i beati del cielo della Luna desiderassero trovarsi in una sfera superiore, questo loro desiderio contrasterebbe con la volontà di Dio, che, a seconda dei meriti di ciascuno, ha assegnato un posto particolare nel regno dei cieli. Viene così rivelato il principio fondamentale del paradiso: la beatitudine non è altro che volere ciò che Dio stesso vuole, perché ‘n la sua volontade è nostra pace. Poi Piccarda accenna brevemente alla propria vita e indica un’altra anima locata, anche ella costretta, come lei, ad abbandonare il chiostro: è Costanza d’Altavilla, moglie di Enrico VI e madre di Federico II. Dopo che Piccarda, cantando "Ave, Maria" scompare alla sua vista, Dante si volge verso la luce folgorante di Beatrice.

Introduzione critica
Non sublime intermezzo di poesia lirica fra rigorose argomentazioni teologiche, ma ordinato svolgimento di quegli stessi temi (l’aspirazione a Dio e la sete di conoscenza) che ispirano e sorreggono i canti primo, secondo e quarto del Paradiso: ecco la caratteristica del cosiddetto canto di Piccarda. A proposito delle formule abituali per indicare un canto attraverso il nome del personaggio che ne è protagonista, occorre subito una precisazione: se era possibile parlare per l’Inferno di canto di Francesca o di Ugolino, e per il Purgatorio di canto di Casella o di Manfredi, perché essi sembravano godere di una loro vita autonoma ed episodica nella trama della cantica, per il Paradiso si mantiene questo uso solo per comodità di studio e di riferimento. Infatti i canti che hanno per protagonisti Piccarda, Giustiniano, Carlo Martello, San Francesco, San Domenico, Cacciaguida, San Pietro, pur possedendo un loro particolare aspetto poetico, una loro specifica tonalità, esigono un costante riferimento alla problematica teologica dalla quale viene germogliando la poesia del Paradiso. In altre parole: Piccarda, nonostante richiami alla memoria di Dante ricordi e affetti terreni, nonostante parli di sé (ma, si noti bene, dedica al racconto della propria vita solo tre delle diciannove terzine di cui si compongono i suoi due successivi interventi di fronte a Dante), rappresenta la condizione delle anime beate meglio di quanto, chiusi nelle loro vicende terrene, Francesca e Ugolino interpretino il mondo infernale o, ancora volti al loro passato, Casella e Manfredi quello purgatoriale. In Piccarda, infatti, trovano voce il sentimento dell’anima che inizia la sua vita di partecipazione al divino, l’interiore trasalire dello spirito davanti all’infinito, la sua ansia e il suo smarrimento di fronte ai divini misteri: proprio questa esperienza spirituale Dante ha affrontato nei primi due canti e ad essa si ispirerà anche nel quarto. Cercare la poesia del Paradiso non significa cercare quanto rimane della vita passata nelle anime che Dante incontra, come vogliono il De Sanctis e il Croce, bensì seguire il progressivo staccarsi di queste anime dalla loro realtà di un tempo per immergersi in Dio, il passaggio dalle esperienze della vita passata alla vita con Dio. La poesia del terzo canto ha il suo nucleo centrale proprio in questo complesso rapporto terra-cielo, umano-divino: da una parte l’elegia, il ricordo velato della terra, dall’altro il moto di ascesa verso Dio, il mistico abbandono nella sua volontà. Così al ricordo di una Beatrice terrena (verso I ) si sovrappone subito la presenza di una Beatrice diversa, che provando e riprovando scopre al suo discepolo il dolce aspetto della bella verità. Nel momento in cui il Poeta sta per dichiarare un suo ulteriore passo nella conquista della verità (versi 4-6), una visione che, pur trascolorata, mantiene sempre contorni umani, lo attrae a sé. Dopo che gli occhi santi di Beatrice lo hanno riscosso dallo smarrimento che lo aveva colto di fronte alle prime anime beate, Dante si accorge che una delle ombre è vaga di ragionar, ma, allorché essa comincia a parlare, le sue parole sono un inno di esaltazione della volontà divina, mentre la sua vicenda terrena è adombrata in un solo verso (i’ fui nei mondo vergine sorella); poi, quasi pentendosi di aver pronunciato il proprio nome, Piccarda torna a celarsi fra gli altri beati (verso 50), ad immergersi nel piacer dello Spirito Santo. Il nome di Piccarda può risvegliare nel Poetò la tanti ricordi, ma basta un fugace accenno (versi 62-63), perché l’ansia di conoscere il regno celeste lo spinge a nuove domande. Solo dopo che Piccarda ha cantato il godimento infinito degli esseri nel mare al qual tutto si more, ritorna in lui il desiderio di sapere qualcosa della vicenda terrena di quest’anima. Ma Piccarda non risponde subito: prima presenta colei che perfetta vita e alto m erto in cielo... più su; poi, in sei versi, rivela la propria vita, ma è la visione di Dio che chiude il suo racconto (verso 108) ed è il canto dell’"Ave, Maria" che conclude la presentazione, ricca di elementi terreni, della figura di Costanza. La figura di Piccarda illumina dunque un grande tema teologico (quello dell’anima che incomincia a vivere per l’eternità la vita della Grazia), ma è ben lungi dall’irrigidirsi in un simbolo: le risorse di fantasia e di sentimento di Dante sono tali che gli permettono quasi sempre di conferire una salda é precisa fisionomia ai personaggi del Paradiso pur chiamandoli a compiti così impegnativi, quali quelli di tradurre in parole e immagini le sue idealità religiose, morali e intellettive. Diventata più bella, Piccarda resta la dolce figura di donna che Dante ha conosciuto e di cui tanto ha sentito parlare nella sua giovinezza. Senza essere richiesta, si offre per prima (versi 34-35); nella sua umiltà francescana si gloria di una cosa sola, di essere stata una vergine sorella; ricorda al Poeta la conoscenza di un tempo (verso 49), ma senza precisare: quella Firenze è ormai lontana per entrambi; attraverso la figura di Santa Chiara indugia con commossa delicatezza sulle sue mistiche nozze con Cristo (versi 100-102); fuggita dal mondo non per disprezzo verso gli uomini, ma per vivere più intensamente il suo amore con Dio, la violenza subita non la inasprisce, ma le permette di meglio capire e perdonare gli uomini, soprattutto quando sono a mal più ch’è bene usi. Nel silenzio di Dio (verso 108) il suo amore diventa più profondo, più sofferto, più inebriante: la giovane clarissa che, suo malgrado, ha ceduto alla violenza altrui, diventa così degna di esaltare, prima fra tutte le anime del Paradiso, l’accordo dei beati con la volontà divina, il precipitare dell’anima in grazia nel mare dell’infinito amore.

DANTE: Divina commedia - Riassunto e critica

PARADISO CANTO IV

Nel canto quarto Beatrice chiarisce due dubbi di Dante, che ella ha intuito senza che il suo discepolo glieli rivelasse. Il primo dubbio riguarda le anime che non hanno adempiuto completamente i voti: se esse hanno dovuto cedere alla violenza altrui, come possono essere considerate responsabili? Il secondo dubbio nasce dalla presenza dei beati nei singoli cieli: allora - si chiede Dante - le anime ritornano nel cielo da cui sono venute, così come afferma Platone? Beatrice affronta per primo questo dubbio, perché lo ritiene più dannoso per la fede. La vera sede dei beati è l’Empireo: essi appaiono nei diversi cieli affinché Dante possa avere una prova sensibile dei loro digerenti gradi di beatitudine, perché l’intelletto umano può apprendere solo ciò che proviene dal dato sensibile. Perciò si deve respingere la dottrina platonica del ritorno di ogni anima nel cielo dal quale si era staccata per entrare nel corpo. Per spiegare la responsabilità delle anime della prima sfera che hanno mancato ai loro voti, Beatrice distingue una volontà assoluta e una volontà relativa. La prima non vuole in alcun modo il male, la seconda si piega ad un male per evitarne uno peggiore: così fecero appunto gli spiriti del primo cielo, laddove invece avrebbero dovuto opporsi con tutte le loro forze alla violenza (ritornando, per esempio nel caso di Piccarda e di Costanza, al convento dal quale erano state fatte uscire). Dopo aver innalzato un inno di lode e di ringraziamento a Beatrice, Dante rivolge alla donna amata una nuova domanda, alla quale ella risponderà nei canto seguente.

Introduzione critica
Il quarto è certamente uno dei canti più dottrinali de] Paradiso, una di quelle pagine ragionative che più resistono alla forza trasfigurante della fantasia per la natura stessa dell’argomento. Per questo motivo l’attenzione dei critici si è rivolta soprattutto all’ultima parte del canto, nella quale si propone un tema decisamente lirico, tanto più suggestivo quanto più esso appare sorretto da immagini ampie e ricche di movimento dopo le serrate e rigorose articolazioni dialettiche del discorso di Beatrice. Tuttavia nella prima parte del canto il lettore non può non avvertire, come nota il Di Pino, la tensione sempre fervida e incalzante dell’intelletto: "E’ questa una energia di fondo di tutta la Commedia e specialmente del Paradiso. Il suo costante spirare deriva, ovviamente, dalla personalità morale e dottrinale di Dante. Ed è proprio questa energia mentale che... coordina senza rottura le regioni poetiche e quelle impoetiche del poema. E pur di tanto in tanto, dalle giunture più affaticate, emana quel calore implicito della mente, il caldo amore per la verità posseduta". Messo in rilievo questo elemento indispensabile a una giusta valutazione del canto quarto, appare interessante soffermarsi su due argomenti che esso propone alla nostra attenzione: i riferimenti al mondo poetico e filosofico classico e la esaltazione della volontà eroica nell’uomo. L’esordio, nel quale le tre similitudini richiamano un analogo passo di Ovidio (Metamorfosi V, 164-167), conferma, secondo una giusta osservazione del Di Pino, la persistenza delle fonti ovidiane che, a partire dai canti del paradiso terrestre, sostituiscono quasi completamente quelle virgiliane. Questo fatto ha una sua spiegazione: sollecitato dalla evidente analogia tra l’Eden cristiano e l’età dell’oro vagheggiata dai pagani, Dante richiama spesso passi delle Metamorfosi (che avevano cantato l’incanto di quel tempo felice) nella parte finale del Purgatorio e continua a chiedere ispirazione alla poesia ovidiana anche nei primi canti del Paradiso (si veda, ad esempio, la protasi della cantica). Non è un richiamo di valore secondario e di carattere erudito, ma rivela in Dante la volontà di conservare quanto è accettabile del patrimonio classico anche all’inizio del Paradiso, all’inizio, cioè, di quella parte del suo poema che è esaltazione pura del verbo cristiano. Il fatto, anzi, di entrare nel tessuto vivo della terza cantica, conferisce quasi un crisma di santità a quanto il Poeta ha salvato del mondo degli dei falsi e bugiardi. Tuttavia questo fervido classicismo di Dante è più chiaramente affermato a partire dal verso 24, dove il nome di Platone è ricordato proprio nel momento in cui il Poeta imposta l’ordinamento morale del suo paradiso. Dante non poteva ignorare che la teoria platonica riguardante i cieli e le anime che ad essi ritornano era stata condannata nel Concilio di Costantinopoli nel 540; egli stesso, del resto, la definisce piena di felle. Tuttavia non interrompe il suo ragionamento su questa decisa affermazione, perché più oltre dichiara: forse sua sentenza è d’altra guisa... forse in alcun vero suo arco percuote.E’ certo che Dante in questo momento si sente vicino Platone; ma ciò avviene non perché il poeta cristiano non accetti le teorie, ma perché si sente accomunato al grande filosofo greco da un’intuizione, da un repentino colpo d’ala della mente, la quale, nel suo moto ascensionali verso l’alto, avverte nei cieli un’anima, un fremito spirituale che attraversa con forza inarrestabile un universo geometricamente conchiuso. Ancora una volta Dante è attratto da un pensiero che è al di fuori di quello cristiano. Anche se egli condanna la teoria di Platone come piena di felle, alle stesso modo in cui ha già condannato il folle volo di Ulisse, sembra di leggere in questi suoi versi "la sostanza intrepida di un ardimento intellettuale che cerca altre frontiere" (Di Pino). Ad un certo momento in Dante, che aveva già conosciuto le dottrine di Platone attraverso Avicenna, Averroè, Alberto Magno, Sant’Agostino (se non addirittura nella traduzione che Calcidio fece del Timeo), si nota una più larga ammissione del pensiero platonico, e, in particolare, di quello relativo alle intelligenze celesti. "Verosimilmente, questo momento coincide con quello della maggiore maturità del Poeta; il momento, cioè in cui egli, collocando la materia del Paradiso entro la intelaiatura aristotelica, intravede nei cieli una carica di pensosità umana che non solo Aristotile ma neppure San Tommaso poteva suggerirgli. Forse, a questo punto, egli scopre - come dirà nell’ultima epistola (XIII, 84) - che Platone si esprime per metafore e che per "luce intellettuale" vede ciò che non può rendere col senso letterale." (Di Pino)Non è tanto il pensiero di Dante che riceve alimento da Platone, quanto la sua poesia, le sue intuizioni spirituali e psicologiche, grazie alle quali il terzo regno non è più un organismo rigidamente mosso dal Primo Motore, ma è vivificato dal palpito delle intelligenze angeliche, dai sorrisi, dalle danze, dai canti, dalla presenza, in una parola, delle anime beate (anche se, a proposito di quest’ultimo fatto, Dante si preoccupa di sottolineare che è solo una finzione poetica). Il secondo elemento peculiare del canto quarto è l’esaltazione delle virtù eroiche dell’uomo, la quale testimonia che la scoperta dei valori umani non è stata propria soltanto della cultura del ‘400 e del ‘500. I versi 73-132, dominati dal motivo della volontà che mai s’amorza e del desiderio di conoscenza che mai s’appaga, volontà e desiderio che hanno come loro ultimo termine la visione di Dio, accertano la validità di questa affermazione: la caratteristica del grande umanesimo dantesco è la scoperta dell’accordo profondo dei valori umani (quali la fortezza, l’amore, la gloria, la sapienza, la giustizia) con le esigenze della religione e della fede. Questo è il presupposto di tutta la poesia del Paradiso.

DANTE: Divina commedia - Riassunto e critica

PARADISO CANTO V

La prima parte del canto quinto è occupata dalla spiegazione con la quale Beatrice risponde alla domanda di Dante riguardante la possibilità di compensare i voti non adempiuti con altre opere buone. Ella dapprima dimostra la santità del voto: con esso, infatti, l’uomo fa sacrificio a Dio del dono più grande ricevuto dal suo Creatore, quello del libero arbitrio. Non può, dunque, usare nuovamente della libertà che egli ha offerto a Dio con un atto della propria volontà. Per prevenire una nuova domanda di Dante (perché, allora, la Chiesa può dispensare dal voto?), Beatrice distingue nel voto i due elementi essenziali: la materia e il patto. La prima può essere mutata, ma solo con il permesso della Chiesa e solo se la nuova offerta è superiore, in valore, alla prima. Il secondo non può essere cancellato se non quando il voto è stato adempiuto completamente. Da qui deriva la necessità, per i cristiania di riflettere attentamente prima di offrire voti che non possono mantenere. Beatrice e Dante ascendono poi al secondo cielo, quello di Mercurio, nel quale si trovano le anime di coloro che in vita operarono il bene per conseguire onore e gloria. Uno spirito si rivolge al Poeta dichiarandosi pronto a soddisfare, in nome della carità, ogni sua domanda. Dante chiede di poter conoscere il nome di quest’anima e il motivo per cui essa gode del grado di beatitudine proprio del cielo di Mercurio.

Introduzione critica
Abbiamo parlato, a proposito del canto quarto, dell’esaltazione dei valori umani che caratterizza la poesia della terza cantica e del mirabile congiungersi di questi valori al mondo della fede. Tale motivo riceve nel canto quinto una trattazione particolare, configurandosi come celebrazione della volontà e della libertà individuali. Il Paradiso non è solo mistica contemplazione di immagini di luce e di realtà sovrannaturali, in contrapposizione all’Inferno - dove il Poeta avrebbe cantato, nelle figure di Francesca, Farinata, Brunetto Latini, Ulisse, i valori più degni di ammirazione, anche se realizzati fuori della Grazia - bensì appare animato, soprattutto nella prima parte, dalla consapevolezza della nobiltà e dell’altezza delle doti umane, morali e intellettuali. Queste virtù non hanno più il proprio fine e il proprio compenso in se stesse, come aveva sostenuto lo stesso Dante nel Convivio, seguendo le orme di Aristotile, ma avvertono l’esigenza di una direzione extranaturale che conferisca loro un significato perennemente valido. Per questo motivo il Poeta esamina e risolve il problema del voto alla luce dell’autorità della Chiesa, rappresentante del Dio in terra. Viene Cosi rilevata un’altra caratteristica del canto: l’interesse pratico che rivestono i temi trattati, i quali, lungi dall’essere di natura filosofica, riguardano la condotta dei fedeli, la vita della Chiesa. In questa visione prende il necessario rilievo la apostrofe di Beatrice, accorata protesta contro coloro che non accettano i doveri che il cammino nell’ambito della Chiesa impone. Nella disquisizione del canto quarto riguardante l’ordinamento morale del paradiso e la distinzione della volontà in relativa ed assoluta la fantasia appariva subordinata al procedimento didascalico-teologico; il Poeta usava modi precisi, chiari, sforzandosi di riprodurre esattamente la cosa contemplata o sentita, senza divagare nel lirico o abusare di mezzi espressivi retorici. Nel quinto, invece, il discorso, anche se appare tutto teso a rendere manifesta la forza della verità che fuga ogni ombra e disperde ogni incertezza, non diventa un’arida trasposizione in versi di una pagina di teologia, come vorrebbe il Vossler, bensì assume uno svolgimento animato, ricco di richiami alla realtà di tutti i giorni e di immagini concrete (versi 29-30; 32-33; 37-39; 55-57; 5960; 61-63;74-75; 82-84), di acute sentenze (versi 40-42) e di momenti venati di commozione (versi 70-72), di solenni avvertimenti (versi 64-65; 73-80) e di punte polemiche (versi 66-69; 81).Il Chiari divide questo canto in cinque momenti, chiamando il primo (versi 1-12) "stupefatto silenzio", il secondo (versi 13-85) "dottrinale", il terzo (versi 86-99) "incantante letizia ", il quarto (versi i 00- 114) "celebrazione della carità", il quinto (versi 115-139) "celebrazione esaltante della grandezza ". Questa divisione, che ha valore puramente esterno, è utile come elemento riassuntivo dei motivi del canto, la cui trama, dunque, si presenta ricca e complessa. Tuttavia il Chiari non ha rilevato che un motivo prevale su tutti gli altri: quello del rapimento della mente umana nella graduale contemplazione delle verità sovrannaturali. Il Montanari osserva a questo proposito: "tale rapimento, appunto perché rapimento, non è di pura conoscenza teoretica, bensì di contemplazione amorosa: la teologia nulla toglie all’amore, ma anzi lo perfeziona elevandolo a reale amore soprannaturale, a carità gratuita ed incondizionata che si identifica con la vita stessa divina operante nell’uomo, sì da condurlo a vedere tutta la realtà, di grado in grado, nella superiore luce divina". Questo significa che lo svolgimento del canto procede non su due vie destinate a non incontrarsi, ma su un piano di carattere dottrinale che si trasforma man mano in affettivo: così la perfetta visione di Beatrice, che ormai contempla il beatifico volto di Dio, genera perfetto amore, il quale spinge Dante ad ascendere di cielo in cielo, di verità in verità, generando sempre nuovo splendore: intelligenza-amore-luce, benché possa essere considerata la triade su cui si regge tutta la poesia del Paradiso, trova una suggestiva manifestazione proprio in questo canto. Alla fine del canto quinto viene presentato il secondo gruppo di anime beate, dopo quelle del cielo della Luna. Anche qui una similitudine (come ‘n peschiera...), fra le più limpide e immediate, traduce in immagine una condizione di beatitudine incantata e appagata. Tuttavia mentre nelle anime del primo cielo è "un apparire senza parere, un illuminare senza abbagliare, un sorridere senza confondere" (Chiari), ora gli spiriti appaiono come splendori distinguibili, pur nella luce che li avvolge quasi fosse il loro elemento, come l’acqua per i pesci della peschiera... tranquilla e pura. Non sono più immobili come perla in bianca fronte, ma avanzano trascinati da un ardente moto di desiderio verso Dante, e non sono più solo "pronti" a parlare, ma incominciano per primi, con parole esultanti: ecco chi crescerà li nostri amori. Ond’ella, pronta e con occhi ridenti... con quelle altr’ombre pria sorrise un poco: così Dante ha visto sorridere Piccarda e le altre anime del primo cielo, mentre ora il sorriso diventa un motivo poetico altamente suggestivo che caratterizza gli ultimi versi del canto quinto. L’anima beata emerge da questo sorriso come da un’indistinta lontananza, prima accennata col paragone del pesce che si avvicina attraverso la trasparenza crescente dell’acqua, ed ora culminante in questa immagine sfolgorante (versi 124-126). Più l’anima arde di carità e più sorride attraverso gli occhi; più gli occhi sorridono, più splendore diffondono all’intorno, fasciando di luce quell’anima: "Anche questa volta il Poeta, a significare questa inesprimibile effusione celeste, coglie dalla nostra vita quotidiana l’espressione massima della gioia, ma della gioia piena che si tramuta nel brillio del riso; e la sublima, e la fa tutta celeste, inondandola appunto di paradisiaca luce" (Chiari).
Paradiso: canto VI
Nel cielo di Mercurio l’imperatore Giustiniano, dopo aver narrato a Dante la storia della sua vita, dalla conversione alla grandiosa opera legislativa con la quale riordinò tutto il diritto romano, rievoca, celebrandone le lodi, l’epopea di Roma e del suo impero, simboleggiato nel sacrosanto segno dell’aquila. La narrazione ha inizio dal momento in cui Pallante, figlio di Evandro re del Lazio, morì combattendo in aiuto di Enea, che aveva portato dall’Oriente, da Troia, la gloriosa insegna. Prosegue con le vicende del periodo dei sette re e dell’età repubblicana, allorché Roma estese sempre di più le sue conquiste.Dopo aver accennato alle guerre civili, Giustiniano presenta la gloriosa figura di Cesare, che diede a Roma il dominio del mondo. La terra, unita e pacificata, fu pronta a ricevere, sotto il suo successore, Augusto, la venuta del Messia, che riscattò l’umanità dal peccato con il sacrificio della croce. Fu Roma poi che vendicò la morte dell’Uomo-Dio, distruggendo Gerusalemme ad opera dell’imperatore Tito e punendo, in tal modo, il popolo ebraico. Infine il segno dell’aquila in mano a Carlo Magno, difese la Chiesa di fronte ai Longobardi. Giustiniano terminò la sua rievocazione ammonendo i Guelfi e i Ghibellini a non asservire ai propri interessi faziosi il simbolo dell’aquila, sacro e universale.Dopo aver spiegato che nel cielo di Mercurio si trovano coloro che desiderarono conseguire la fama nel mondo, Giustiniano indica la nobile figura di Romeo di Villanova, ministro di Berengario IV conte di Provenza, costretto ingiustamente all’esilio dalle accuse di cortigiani insidiosi del suo potere.
Introduzione critica
Il canto sesto del Paradiso è la rivendicazione della provvidenzialità, legittimità e insostituibilità dell’Impero, con la rievocazione della sua genesi, della sua funzione e della sua storia di fronte a un mondo che lo misconosce o, addirittura, lo nega. Esso è il canto che interpreta il cammino della storia dell’umanità, perché questa storia ha avuto inizio nel momento in cui all’orizzonte del mondo, nello stremo d’Europa, è apparso il volo possente dell’aquila dell’Impero; del resto la certezza che da Troia fosse cominciata una nuova età per gli uomini era già radicata in Nevio e in Ennio, prima ancora che Virgilio consacrasse tutto il suo poema a questa presa di coscienza, nell’uomo antico, del cammino provvidenziale della storia con il riconoscimento della missione di quella che sarà poi Roma. In altre parole: Dante affronta l’arduo compito del rifacimento di questa antica epopea, "continuando nel suo poema cristiano l’epica della missione provvidenziale di Roma, che già Virgilio aveva cantato in forme pagane ma con un intimo valore religioso" (Brezzi).Un’epopea immensa è presentata in 96 versi, nei quali non dobbiamo cercare un sommario storico, un’esatta ricostruzione di fatti, un’assoluta obiettività di giudizio, ma una serie di legami ideali, per capire i quali occorrerebbe "contemplare" più che leggere: "Dato il tema e il motivo ispiratore di questo canto, troviamo necessariamente un’arte che non si sofferma, con opera di cesello, su tenui vibrazioni dell’animo, e non ricerca motivi interiori dove tempo e spazio si restringono e scompaiono. Ma anzi abbiamo qui un momento opposto, e parimenti legittimo, dell’arte, in cui la contemplazione e l’emozione estetica nascono da contrapposizione di tempi eterni e di spazi senza fine" (Conte).Da un’altezza sovrana, dové le lotte e le passioni contingenti appaiono nella loro realtà di vani tentativi operati da piccoli uomini per mutare secondo i loro interessi il corso storico prefissato da Dio, il Poeta scolpisce figure e fatti grandiosi con una potenza che sembra richiamare quella della pittura o della scultura di Michelangelo. Da una solitudine sempre più grande e sempre più dolorosa, nella quale lo hanno posto le vicende della sua vita d’esilio, il crollo, dopo la morte di Arrigo VII, delle sue speranze politiche e la decisione di "far parte per se stesso", sgorga la solennità epica dell’enumerazione ne di quelle figure, di quei fatti, di quegli squarci di storia che, proprio perché contemplati come motivi ideali e trascesi in una visione superiore degli eventi, perdono ogni valore di cronaca per assumere quello di tappe fondamentali nella creazione di un nuovo ordine morale. Questo può essere così riassunto: alla base di ogni creatura umana è un’esigenza trascendente, una ricerca di valori assoluti ed eterni (il bene, il vero, il bello); lo Stato è l’ordinamento civile-politico che consente all’uomo il raggiungimento di questo fine assoluto, anzi è una proiezione di questa esigenza, la quale può essere soddisfatta solo perseguendo la verità e la giustizia. Queste ultime, però, si conseguono solo su un piano universale, perché ogni uomo non può prescindere dai bisogni degli altri uomini, ogni popolo non può dimenticare i diritti degli altri popoli.Questo Stato, in Dante, prende il nome di Impero, il quale non ha solo un’origine ideale, ma anche una straordinaria origine storica, come risultato di una concatenazione di avvenimenti e di un concorso di uomini che, anche contro la loro volontà, hanno collaborato alla sua fondazione o al suo svolgimento. Il canto sesto è l’apoteosi di questa duplice origine dell’Impero, la quale, a sua volta, spiega la venerazione e la commozione che afferrano in questo momento l’animo del Poeta, come ogni volta che egli scopre, nel mondo e nell’universo, una razionalità autentica, l’armonia e l’unità di immanenza e trascendenza. Per questo nella storia dell’Impero - quale è da Dante ricreata nel sesto canto attraverso il lento battito delle ali possenti dell’aquila, che non fendono l’aria ma segnano tempi e vicende millenarie - palpita quei sentimento del divino che è alla base della poesia del Paradiso e che ispira i canti dottrinali e teologici come le più liriche similitudini. La solennità dell’atmosfera paradisiaca, secondo un’acuta osservazione del Malagoli, fa tutt’uno, in questo momento, con la solennità dell’evocazione dell’Impero, per cui ogni momento della storia è attratto in questa atmosfera divina, perdendo la sua limitatezza di tempo e di spazio, purificandosi del sangue, delle lotte, delle meschinità terrene di cui poteva essere costituito. iL quasi una serie di miracoli quella che Dante ci presenta in queste rapide e incalzanti terzine, costruite in uno stile asciutto e scabro: non c’è, infatti bisogno di amplificare, di usare aggettivi, di arricchire con parole fatti e uomini che sono già di per sé straordinari. I nomi dei popoli, dei personaggi, dei luoghi vibrano della commozione e della coscienza del divino, restituendo l’eco di un mondo sacro e meraviglioso, nel quale il Poeta si muove sicuro, perché consapevole di essere investito di una missione profetica e di dover presentare la celebrazione dell’Impero ad un mondo che all’impero dell’aquila ha opposto l’impero della lupa. Occorre, infatti, tenere sempre presente che Dante non è mai mosso da problemi o interessi particolari, bensì dal desiderio di prospettare la corruzione morale del mondo e la possibilità di una totale rigenerazione. L’ardua sintesi di tutta la storia romano gli è servita per dimostrare la sacralità del segno dell’aquila, che ha preparato la terra intera alla venuta di Cristo, e quindi la funzione che esso deve rivestire al suo tempo: emerge così il fine politico di tutto il discorso di Giustiniano, che si traduce nella vibrata e drammatica protesta e condanna di ogni settarismo (faccian li Ghibellin... e non l’abbatta...).

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