Forme di Stato nel Novecento

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Testo

SITUAZIONE MONDIALE ALL’INIZIO DEL NOVECENTOENTO SUL PIANO ECONOMICO, SOCIALE, MILITARE E DILOMATICO
Verso la fine del XIX secolo l’estensione delle capacità di comunicazione e la comparsa di nuove fonti di energia determinarono una notevole trasformazione dell’industria, accelerandone la modernizzazione e la diversificazione. Tale processo favori l’affermazione del modello capitalistico, l’internazionalizzazione del commercio e l’estensione dei rapporti imperialistici e di dominio verso i paesi detentori delle materie prime. I processi di mutamento delle produzioni agricole e lo sviluppo delle industrie determinarono una costante crescita demografica delle città e la comparsa di fenomeni massicci di emigrazione. Si creò una situazione sociale nuova, piena di contraddizioni e conflitti che ebbe un’importante influenza anche sulle forme di stato.
L’Inghilterra era il paese di più antica industrializzazione: il capitalismo aveva esordito già nel Cinquecento in ambito agricolo per poi manifestarsi a pieno nel XVIII secolo articolandosi in una complessità spettacolare, supportato da un solidissimo sistema finanziario. Convinto sostenitore del liberismo, il Regno Unito durante la crisi degli anni 1873 – 1896 fu l’unico paese che si mantenne fedele a questa impostazione economica, accettando tra l’altro di pagare il prezzo di un ridimensionamento e di una specializzazione della propria agricoltura.
La Germania, facendo leva sull’intenso sfruttamento dei nuovi sistemi produttivi, conobbe un’impetuosa crescita dell’industria, fino a minacciare il primato industriale inglese. La classe dominante, la nobiltà terriera degli Junkers, controllava la rendita dei latifondi, le alte cariche dell’esercito, la vita economica (d’accordo con Bismarck, secondo il quale la borghesia doveva fornire i quadri intermedi dell’industria – gli ingegneri e i tecnici – ) e anche il Parlamento.
La Francia, in seguito alla grande crisi degli anni 1873 – 1896, si era orientata, come gli Stati Uniti, la Germania e l’Italia, al protezionismo, in prevalenza per proteggersi dalla qualità dei manufatti inglesi, con la conseguenza di una guerra doganale piuttosto aspra con l’Italia, superata in epoca giolittiana, che ebbe riflessi pratici sull’accoglienza riservata in quel paese ai nostri emigrati e sui tentativi coloniali italiani.
Nell’ Austria-Ungheria, una delle contraddizioni più evidenti era rappresentata da una struttura statale ancora assolutistica che pero, dal 1876, prevedeva due parlamenti, uno a Vienna, egemonizzato dall’etnia tedesca, e l’altro a Budapest, dominato dall’etnia mangiara, i quali non bastarono a calmare le molteplici e sempre più forti spinte nazionalistiche di coloro che non si sentivano tutelati da quelle due assemblee. In questi paesi, lo sviluppo era ostacolato dalla vecchia aristocrazia che ancora monopolizzava, nei suoi gradi più elevati, non solo l’apparato amministrativo ma anche le attività economiche come banche e industrie; da questa categoria non ci si poteva attendere la mentalità spregiudicata e dinamica della borghesia inglese o francese.
La Russia zarista agli inizi del XX secolo ero lo Stato europeo in cui le contraddizioni apparivano più esplosive. Gli zar, pur avendo abolito nel 1861 la servitù della gleba, introducendo una prima mobilità sociale, continuavano a condurre una politica autocratica e assolutistica, all’interno come ai margini dell’ impero, dove si procedeva alla russificazione forzata dalla popolazione.
In Italia durante il periodo giolittiano ci fu il vero decollo industriale italiano nei settori metalmeccanico , idroelettrico, siderurgico, tessile, chimico e degli zuccherifici. Fu inoltre definito in senso moderno il ruolo della banca d’Italia e si consolidò il sistema bancario, che continuò a vedere, una tradizione risalente a Crispi, una cospicua partecipazione di capitali tedeschi. Il bilancio dello Stato fu non solo in pareggio ma addirittura in attivo e la lira era solida al punto di essere accettata senza problemi nei pagamenti internazionali. Si viveva la cosiddetta “era Giolitti”, durante la quale il capo del governo, per rafforzare le basi dello Stato, tentò mediazioni un po’ con tutte le forze politiche, giungendo nel 1912 a quello che fu il suo “canto del cigno” : la legge sul suffragio universale maschile.
L’interlocutore principale fu individuato nell’ala riformista del Partito socialista italiano, guidata da Filippo Turati, alla quale fu proposto di entrare nell’area di Governo. L’intento di Giolitti era anche quello di spaccare il Partito socialista nelle sue due componenti, riformisti e massimalisti o rivoluzionari. Effettivamente, la contropartita che egli offriva e le riforme che portarono in Parlamento non potevano non stare a cuore alle masse socialiste, come pure a quelle cattoliche: il riconoscimento del ruolo dei sindacati e la fine dell’intervento repressivo dello Stato nei conflitti di lavoro, che portarono alla nascita della confederazione generale del lavoro (Cgl, 1906); la costituzione del Consiglio nazionale del lavoro (Cnl) con rappresentanti dei lavoratori, dei datori di lavoro e del Governo, per tentare di sciogliere le controversie prima che sfociassero nello sciopero, l’età minima per accedere al lavoro portata da nove a dodici anni; l’orario massimo di lavoro per le donne fissato a dodici ore; il riposo festivo reso obbligatorio per legge; l’ammissione delle cooperative alle aste per l’assegnazione dei lavori pubblici, l’aumento dei finanziamenti alle scuole, passate dai Comuni a carico dello Stato. Si procedette inoltre alla nazionalizzazione del servizio ferroviario e telefonico, nonché delle assicurazioni sulla vita con la creazione dell’ Ina, giustificata con l’assenza , in quei settori, della concorrenza; gli utili dell’Ina andarono a finanziare l’assistenza statale all’invalidità e alla vecchiaia. I socialisti riformisti, proprio per evitare la scissione, non aderirono ad una alleanza di Governo, ma il loro Partito per diversi anni garantì un opposizione costruttiva.
L’obiettivo dichiarato di Giolitti era quello di rendere il nostro paese un po’ più moderno e un po’ più simile alle altre nazioni occidentali industrializzate, intento in gran parte conseguito a seguito del notevole sviluppo industriale e commerciale raggiunto soprattutto nelle zone settentrionali, dove nacquero e si consolidarono alcune tra le maggiori industrie del paese. Giolitti non ha mai goduto di buona fama tra gli autori meridionali perché in effetti i suoi interventi cambiarono il volto dell’Italia settentrionale e in parte di quella centrale, ma, salvo l’inizio dei lavori dell’acquedotto pugliese, il sud non vide alcun beneficio.
EQUILIBRI DURANTE LE SPINTE NAZIONALISTICHE CHE PORTARONO ALLA GRANDE GUERRA
Le potenze che seppero sfruttare i vantaggi portati dalla seconda rivoluzione industriale avviarono conseguentemente politiche di espansione coloniale, che si rivelarono determinanti per la oro evoluzione economica e diplomatica. Le colonie divennero mercati non ancora sfruttati, dai quali ricavare materie prime e nei quali vendere manufatti. L’intreccio fra espansione produttiva e politica di approvvigionamento delle materie prime ha segnato le relazioni internazionali di tutto il XX secolo.
L’Europa di inizio secolo presentava un quadro variegato, con l’Inghilterra fortificata a difesa dei suoi primati coloniali, industriali e navali, e il II Reich tedesco in piena offensiva per metterli in discussione con la propria potenza industriale e militare. Le altre nazioni, sulla base dei propri interessi, si agitarono molto a livello diplomatico, senza svolgere però un ruolo altrettanto importante a livello internazionale.
Alla fine dell’ era vittoriana (1837-1901), il Regno Unito era ancora la superpotenza del globo, possedendo l’impero coloniale più vasto della storia, pari quasi a un terzo delle terre emerse. Tuttavia, gli equilibri internazionali stavano cambiando, per le difficoltà inglesi di governare le frizioni con la Francia nelle aree coloniali di interesse comune e di contrastare l’espansione della Germania, partita ultima nella spartizione del mondo extraeuropeo ma nient’ affatto disposta a un ruolo marginale.
La Germania di Bismarck aveva infatti portato a termine la propria unificazione in forma federale istituendo un sistema bicamerale rimasto in vigore fino al 1918: il Reichstag, eletto a suffragio universale maschile, aveva potere legislativo e di controllo sul bilancio; il Consiglio Imperiale esercitava le funzioni di controllo e di veto. Il potere esecutivo era nelle mani del cancelliere imperiale. La Germania disponeva di un forte potenziale militare, che scaturiva soprattutto da una presenza industriale di primo ordine, sviluppata dopo l’unificazione, diretta dall’alto con le commesse statali e facilitata dalla ricchezza dei vari bacini minerari e di una rete di infrastrutture all’avanguardia costruita dopo l’accordo dello Zollverein del 1834.
All’inizio del XX secolo la Francia poteva contare sullo sfruttamento di un impero coloniale che era secondo soltanto a quello inglese; lo Stato francese faceva parte del ristrettissimo gruppo delle repubbliche parlamentari e adottava già dal lontano 1848 il suffragio universale maschile.
Il primo quindicennio del XX secolo in Italia venne dominato dalla figura di Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio. In politica estera la Triplice Alleanza non fu sciolta ma rinnovata con il superamento delle incomprensioni e con il riavvicinamento con L’Inghilterra e soprattutto con la Francia.
FORME DI STATO AI PRIMI DEL NOVECENTO
All’inizio del secolo, come pure in quasi tutto il secolo precedente, la forma di Stato prevalente in Europa era quella liberale. Erano ancora presenti residui di assolutismo in Russia, Austria-Ungheria, Germania, ma il compromesso che era andato via via perfezionandosi tra nobiltà e borghesia era stato di sicuro nettamente a vantaggio di quest’ultima.
Lo Stato assoluto (legibus solutus, cioè senza vincoli, al di sopra delle leggi), che si configura come prima forma di Stato in senso moderno, caratterizzato dal fatto di non riconoscere autorità superiori, erano nato dalla disgregazione del mondo feudale e si era affermato a partire dal XV secolo attraverso un processo di centralizzazione che aveva portato il sovrano ad avere un potere quasi illimitato, privo di controlli dal basso. Si trattava, però, di un potere esclusivamente politico in quanto lo Stato in questa forma non era interessato a intromissioni negli affari dei privati cittadini. Il quadro che si delinea è molto chiaro: Stato-apparato, che si identifica con la vecchia nobiltà, da una parte e la società civile, che gestisce attraverso le mani della borghesia il potere economico, dall’altra.
Lo Stato liberale nacque dalla rottura di questo equilibrio, rottura che risultò in tutta la sua ampiezza con la Rivoluzione inglese prima e con quella americana e francese poi.
La mutata realtà economica che si era venuta delineando fece si che il potere della classe borghese si accentuasse, lasciando in secondo piano quello della vecchia aristocrazia terriera. Chi contava di più sul piano economico voleva naturalmente contare di più anche su quello politico. La borghesia non si accontentava più della libertà che lo Stato assoluto, anche laddove aveva lasciato spazio al cosiddetto “dispotismo illuminato” ; riservava alla sfera privata; ormai cominciava a pensare che non dovesse più essere prerogativa del sovrano il diretto di interpretare le esigenze della collettività. Sulla scorta delle dottrine che si erano affermate nel XVIII secolo, essa chiedeva uno Stato basato sulle separazioni dei poteri e sul riconoscimento delle libertà fondamentali.
Nello Stato liberale si trova realizzato il principio della separazione dei poteri, già teorizzato da famosi filosofi ed esposto in maniera sistematica da Montesquieu. È la separazione dei poteri a garantire la libertà, attraverso il bilanciamento degli stessi,realizzato dal controllo reciproco. Il potere del sovrano deriva dalla Costituzione ed è da essa limitato; al Parlamento, emanazione del corpo elettorale, spetta il potere legislativo e ciò porta all’attuazione del principio di legalità: anche lo Stato è soggetto alla legge in quanto la legge è votata dal Parlamento, che a sua volta è espressione del corpo elettorale.
All’individuo vengono riconosciuti non solo diritti privati, ma anche diritti politici, civici, di libertà. Libertà e uguaglianza sono proclamate in modo formale e uno dei principali diritti, collocato addirittura tra i diritti inviolabili della persona, è quello di proprietà.
Lo Stato liberale, dunque, era il risultato ideale della società borghese, creato per consentire la piena realizzazione del sistema di produzione capitalistico; in quest’ottica non può meravigliare che i diritti politici spettassero solo a chi aveva solo un certo censo e che quindi il Parlamento fosse rappresentativo solo di una ristretta base della società.
Quindi, lo Stato liberale si configura come Stato di diritto, Stato Costituzionale e Stato rappresentativo.
Stato di diritto, perché i rapporti tra Stato e cittadini sono regolati da norme giuridiche che anche lo Stato è tenuto ad osservare; inoltre, diritti e libertà sono riconosciuti e tutelati dall’ordinamento giuridico.
Stato Costituzionale, in quanto l’ordinamento statale si basa sulle norme fondamentali contenute nella Costituzione. La Costituzione in questa fase è quasi sempre ottriata, cioè concessa dl sovrano, ma contiene già i principi relativi alla separazione dei poteri, all’uguaglianza dei cittadini, al riconoscimento delle libertà fondamentali.
Stato rappresentativo, in quanto i cittadini, seppure in presenza di un suffragio ristretto, sono chiamati ad eleggere il Parlamento e partecipano in questo modo, attraverso i loro rappresentanti, al funzionamento dello Stato.
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