La luce nel Paradiso di Dante

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Testo

GREGORIO VITTUARI - V N -
LA LUCE NEL PARADISO DI DANTE
Nella Divina Commedia la terra è immobile al centro dell’universo e attorno ad essa ruotano nove cieli concepiti secondo la cosmografia tolemaica, sfere trasparenti e concentriche, composte di etere e mosse da nove schiere di angeli, sotto l’impulso di Dio; oltre il nono cielo si estende immobile, infinito e purissimo l’Empireo sede di Dio e dei Beati, meta dell’ascesa di Dante. Empireo, cioè infuocato: non luce adatta ad impressionare l’occhio, ma luce purissima, luce d’intelligenza degli esseri spirituali che vi albergano. I cieli del Paradiso hanno una organizzazione diversificata, basata sulla specifica virtù che appartiene a ciascuno di essi e sulla diversa velocità della loro rotazione, proporzionale alla vicinanza a Dio, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Trasportato dalla forza stessa che fa ruotare i cieli e dalla luce sempre crescente degli occhi di Beatrice che lo accompagna, Dante sale attraverso i nove cieli e man mano che sale ogni parvenza umana e terrena scompare e le anime dei beati appaiono come fiamme, splendori, luci, in un clima sempre più rarefatto e luminoso, fino all’Empireo dove, assistito da S.Bernardo e non più da Beatrice, può contemplare la Vergine ed i beati e infine, in un’illuminazione improvvisa e sconvolgente, immergersi nella visione di Dio. Negli ultimi canti del Paradiso non vi sono più paesaggi materiali e Dante tenta di esprimere con parole una esperienza indicibile: le visioni e i rapimenti mistici sono descritti da musiche, luci, colori, forme astratte, figure geometriche di straordinaria nitidezza ed efficacia figurativa. Lo stile della Commedia, a volte comico e plebeo nell’Inferno o dolce ed elegiaco nel Purgatorio, ora si fa sublime mentre Dante cerca un linguaggio nuovo per tradurre in parole la sconvolgente esperienza della visione luminosa di Dio, nello sforzo di dare una forma verbale a concetti e sentimenti umanamente inesprimibili.
Perché tanta luminosità? Perché la scelta della luce come materia preminente della terza cantica? Forse perché nell’idea di Dante due soli elementi umani sono confacenti alla rappresentazione del regno di Dio, due elementi che sono in Dio stesso: l’armonia e la luce, e con essi Dante inizia il suo cammino verso Dio. O forse, come dice Momigliano, “nel Paradiso, mancata in gran parte la figurazione umana, la luce è il solo tema conduttore concreto che rimanga a Dante, il solo che impedisca alla cantica di dissolversi in un inno perpetuo o in una perpetua discussione teologica”.
Credo che la risposta più efficace venga da Singleton secondo cui, concetto chiave di tutto il viaggio allegorico che Dante compie nella Commedia, è la conversione dell’uomo di fede da uno stato di peccato ad uno stato di grazia, da una selva oscura ad una luminosa beatitudine. L’evento della conversione all’epoca di Dante seguiva uno schema dottrinale noto ad ogni uomo: Dante infatti realizza poeticamente un percorso dell’anima già tracciato dalla dottrina cristiana, “itinerarium mentis ad Deum”, viaggio del cuore e della mente verso Dio, e richiama alla mente dell’uomo medievale concetti che gli sono già familiari. Sono i concetti della teologia scolastica di S. Tommaso, senza la conoscenza dei quali diventa difficile leggere consapevolmente e comprendere il viaggio di Dante.
S. Tommaso afferma che l’anima immortale ha due facoltà, intelletto e volontà: l’intelletto vede e conosce la verità e la presenta alla volontà che la ama. Entrambe le facoltà sono coordinate e complementari e portano l’uomo alla meta del suo percorso morale, alla sua conversione, al viaggio verso Dio descritto allegoricamente da Dante. Nel poema appaiono tre guide: Virgilio, Beatrice, S. Bernardo; tre luci, appartenenti ad uno schema ben definito, che illuminano l’intelletto del viandante nel suo moto verso l’alto, verso la visione di Dio: “lumen naturale, lumen gratiae, lumen gloriae”. Virgilio quindi rappresenta la luce naturale dell’intelletto, la luce concessa ai filosofi a cui mancava la più elevata illuminazione della fede: Virgilio stesso confessa i suoi limiti di guida di fronte a verità rivelate e non comprese dal “lumen naturale”; ciò nonostante Dante lo definisce, al pari di Beatrice, sole, luce, lume, riconoscendogli l’importanza di rappresentare la prima spinta al moto dell’anima verso Dio.
Beatrice è l’illuminazione della fede, “lumen gratiae”, mediante la quale, dice S. Tommaso nella Summa “la divina verità, che sorpassa l’intelletto umano, discende in noi per via di rivelazione”, luce che oltrepassa le facoltà naturali dell’uomo. Dice Singleton: “Tutte le implicazioni e l’essenza stessa del passare dalla guida di Virgilio a quella di Beatrice non potrebbero essere affermate con maggiore vigore di quanto lo sono nel primo canto del Paradiso, con il verbo che il poeta ha inventato per denotare quel trapassare: trasumanar”.
E ancora: “L’esperienza del “lumen gloriae” concessa ad uno che si trova ancora in questa vita, è l’obiettivo finale di tutto il poema: l’ultimo canto del Paradiso si incentra tutto e soltanto nella sublimante esperienza che di tale lumen è concessa a Dante”.
S. Bernardo sostituisce Beatrice, e il cambiamento di guida è un chiaro segno di un cambiamento di luce: Dante sperimenta in vita, “in via”, la visione splendente di Dio che è concessa solo alle anime dei beati che dimorano in cielo, “in patria”, pur non potendo partecipare direttamente di tanta luce. “La fine del viaggio, sottolinea Singleton, è raffigurata come tensione, sforzo possente per possedere questa eccezionale esperienza fino a che non si dilegua; poiché tale è sempre il carattere dell’esperienza che può avere di Dio, nella sua essenza, chi si trova ancora in questa vita, “in via”. Di conseguenza, S. Bernardo, che in vita “contemplando, gustò di quella pace”, è la guida prescelta ad assistere gli ultimi sforzi del viaggio di Dante, poiché per innalzarsi alla visione suprema della Divinità non basta più la scienza teologica, ma si richiede ardore contemplativo e soccorso di grazia, da impetrarsi con l’intercessione della Vergine.
“La visione di Dio, come luce di eterno mistero, si compie davvero nel sentimento del poeta: è un attimo, né si esprime se non come una ineffabile luce dell’anima. Subito su quella visione sorge la patetica coscienza dell’uomo: “All’alta fantasia qui mancò possa”: e non è già rimpianto, ma ancora un inchinarsi alla Divinità che ha forme sovrumane, inattingibili all’uomo, intraviste soltanto in un sospetto trepido, ai confini dell’umana mente: un attimo e un brivido”. (Flora). Non è, come dice Papini, che “il capolavoro poetico di uno dei più grandi poeti della terra termina confessando l’impotenza della poesia”; è piuttosto la materia stessa che viene a mancare, che si è esaurita in quel luminoso assoluto, che si è già completamente manifestata in quell’ineffabile, mentre Dante con la sua poesia ha raggiunto i limiti del conoscere e le possibilità estreme della parola.
Come, infatti, affrontare un tema teologico e dottrinale di tale vastità e potenza, come la visione di Dio, usando una materia di per sé evanescente ed incontenibile, come la luce? Ancora Singleton ci dice che “Dante vuol contemplare questo regno da poeta, nel modo in cui nessun teologo tenterebbe mai di vederlo: cioè, sensibilmente. Naturalmente, sotto questo riguardo, si rendono evidenti certe gradazioni man mano che il viaggio si sposta dalla sfera infima alla somma. Immagini in qualche modo somiglianti a quelle del mondo naturale diventeranno sempre più vaghe, svanendo e gradatamente mutandosi in geometriche o non naturali. Si risolverebbero in pura luce e musica se, a parlare concretamente all’occhio, non continuassero anche in questa regione, che è la più alta e la più rarefatta, le metafore e le similitudini.”
E, come dice Sapegno, “nell’atto in cui Dante riconosce d’aver toccato l’estremo limite della mente e dell’arte umana, pur avvertendo l’ineffabilità della visione, non rinuncia al tentativo di suscitarne l’impressione nell’animo del lettore mediante una serie di luminose approssimazioni analogiche, in cui mette a partito le più raffinate risorse della fantasia e del linguaggio”.
Infatti, ci fa notare Auerbach, le anime del Paradiso hanno subito un mutamento di figura generale e non superabile da occhi umani: lo splendore della loro beatitudine le tiene nascoste, Dante non le può riconoscere; devono dire esse stesse chi sono e i loro sentimenti, non possono servirsi facilmente di un’espressione, di un gesto individuale; ormai è solo lo splendore che manifesta un sentimento personale. C’era il pericolo di una spersonificazione troppo forte e di una ripetizione monotona, per cui molti sostengono che il Paradiso non abbia il vigore poetico delle altre cantiche: ma la grande somiglianza delle apparizioni luminose, che è causata dalla comune beatitudine, non esclude la conservazione della figura personale: essa è nascosta del tutto o quasi alla vista, ma esiste e trova la via di manifestarsi. Benchè il loro corpo rimanga nascosto, le apparizioni luminose del Paradiso possiedono un gesto affettivo con cui accompagnano il ricordo della passata vita terrena; sono i diversi modi della luce e del suo movimento che Dante rende evidenti con una imponente ricchezza di similitudini: le anime femminili della luna, Piccarda e Costanza, appaiono come perle su una bianca fronte, le anime della sfera di Mercurio si raccolgono attorno a Dante come pesci che nuotano nella chiara acqua verso il cibo loro gettato.
Quindi nel Paradiso le anime non sono più delineate con la nitida chiarezza, a volte ripugnante dell’Inferno, a volte nostalgica del Purgatorio: esse sono aeree ed immateriali, fantasmi evanescenti dai contorni sfumati la cui forma si dissolve fino a divenire pura luce man mano che aumenta il grado di virtù e di beatitudine che li avvicina a Dio. Qui, come dice Momigliano, “la poesia più che disegnare i personaggi, li avvolge e li dissolve in un alone di luce e di musica” e come dice De Sanctis “la storia del Paradiso, secondo i diversi gradi di beatitudine, ha la sua forma nei diversi gradi di luce”.
Dante introduce il tema lirico della luce nel terzo canto: siamo appena all’inizio di un crescendo che culminerà nell’Empireo e l’apparenza delle anime ricorda ancora vagamente quella umana. Ma già la luce, per quanto ancora tenue e percettibile ai sensi umani, trabocca prepotentemente da tutti i versi: all’interno del canto stesso è un crescendo di luce. In un primo tempo la luce si sprigiona dai versi, dalle immagini, senza che ad essa si alluda esplicitamente. E’ luce calda e mite, nel ricordo del primo amore di Dante per Beatrice
Quel sol che pria d’amor mi scaldò ‘l petto
e nell’accenno a Beatrice stessa,
…dolce guida,/ che sorridendo ardea negli occhi santi,
quindi a Piccarda
…tanto lieta,/ ch’arder parea d’amor nel primo foco.
Poi appare Costanza che non ha più una fisionomia umana, ma è pura luminosità. Piccarda la presenta dicendo:
E quest’altro splendor che ti si mostra
dalla mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume della spera nostra
ed in seguito precisa:
Quest’è la luce della gran Costanza.
Poi dalla luce intensa ma non ancora abbagliante dell’imperatrice, si arriva in un crescendo alla trasfigurazione di Beatrice che lascerà Dante senza parola:
ma quella folgorò nel mio sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo.
Si passa quindi, come dice Momigliano, “da una versificazione magistrale alla poesia: il lettore sente un tocco improvviso, un improvviso schiarirsi ed illuminarsi della pagina”.
“Le due immagini che ritraggono all’inizio (Quali per vetri trasparenti e tersi,/ o ver per acque nitide e tranquille,) e alla fine del canto (…come per acqua cupa cosa grave.) quell’apparire e scomparire di labili forme traducono entrambe una realtà rarefatta dove i colori e le forme tendono a sfaldarsi: entrambe sottolineano una fase di trapasso dove la figura umana ancora sopravvive, se pur ridotta a tenue fantasma, prima di sciogliersi, nei cieli seguenti, in pure luci e simboliche moralità... E ancora, al termine del quinto canto, attorno a Dante e Beatrice si affollano più di mille splendori, come nell’acqua limpida e quieta di una peschiera affiorano a galla i pesci attirati dal cibo. Ogni ombra traspare nella vivida luce che emana da lei, espressione della sua gioia: uno degli spiriti, interpellato da Dante, si fa ancora più fulgido, perché nella gioia di accondiscendere al suo desiderio di sapere si alimenta la sua fiamma caritatevole: a tal punto che l’immagine fisica si cancella e dilegua entro l’alone luminoso, a somiglianza del sole che “per troppa luce” si rende invisibile all’occhio umano quando con il calore dei suoi raggi ha diradato i vapori che ne velano lo splendore”. (Sapegno).
E in questo contesto di lettura mi sembra significativa anche una pagina di De Sanctis: “Siamo all’ultima dissoluzione della forma: corpulenta e materiale nell’Inferno, pittorica e fantastica nel Purgatorio, nel Paradiso è lirica e musicale: immediata parvenza dello spirito, assoluta luce senza contenuto, fascia e cerchio dello spirito. Il Paradiso è la più spirituale manifestazione di Dio: e perciò di tutte le forme non rimane altro che luce, di tutti gli affetti non altro che amore, di tutti i sentimenti non altro che beatitudine, di tutti gli atti non altro che contemplazione. Amore, beatitudine, contemplazione prendono forma di luce: gli spiriti si scaldano ai raggi d’amore; la beatitudine o letizia sfavilla negli occhi e fiammeggia nel riso; e la verità è siccome in uno specchio dipinta nel cospetto eterno. Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano con la luce; l’ira di S.Pietro fa trascolorare tutto il Paradiso. E più si sale verso l’Empireo più la luce occulta le forme come in un santuario. La luce, veste e fascia delle anime, è la sola superstite di tutte le forme terrene, e non è vera forma, ma semplice parvenza e illusione dell’occhio mortale. Essa è la stessa beatitudine, la letizia delle anime, che prende quell’aspetto agli occhi di Dante, e ne esce la natura del Paradiso, luce diversamente atteggiata e configurata, che ha aspetto or di aquila, or di croci, or di cerchio, or di costellazione, ora di scala, con viste nuove e meravigliose.”
Termino quest’analisi del Paradiso con due critiche apparentemente contrastanti nei presupposti, ma che in sostanza si riallacciano all’approccio dello studio di Singleton che ho proposto all’inizio. Dice Momigliano che “La terza cantica è nella prima parte essenzialmente una preparazione dottrinale alla contemplazione del Paradiso; in seguito, fino al canto XXIX, una più libera contemplazione; in fine una diretta e mera contemplazione. E’ questa la cantica su cui più ha pesato l’eredità della scolastica e di S. Tommaso: la quale in essa è diventata più di una volta tirannica. Se sul paradiso avesse potuto influire più che la scolastica la letteratura mistica, esso avrebbe avuto l’aspetto, più che di un’istruzione religiosa, di un’ascensione religiosa.”
Secondo Auerbach, invece, è necessario far cadere ogni critica al Paradiso di Dante, nata dal pregiudizio romantico secondo cui il suo genio si mostra più che altro nei paesaggi e nelle pene dell’Inferno da cui ha preso forma la concezione estetica della sublimità dell’orrido e del grottesco, di un gotico fantastico e di sogno che a detta di alcuni fanno di Dante un creatore del romanticismo. “La Divina Commedia è invece un’opera di alta scolastica, di “humana ragione tutta spiegata” e la sua poesia non è il prodotto arbitrario di una fantasia sfrenata, ma opera di un severo esame dell’intelletto: mai Dante è più medievale.”
BIBLIOGRAFIA
• Dante Alighieri: “La Divina Commedia, Paradiso” a cura di N. Sapegno – La Nuova Italia Editrice
• Charles S. Singleton: “Viaggio a Beatrice” – Il Mulino
• Erich Auerbach: “Studi su Dante” – Feltrinelli
• G. Armellini, A. Colombo: “Guida alla letteratura Italiana” – Zanichelli
• Mario Olivieri: “La letteratura italiana nelle pagine della critica” - Paravia
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Esempio



  


  1. Marco

    sto cercando alcune informazioni per quello che riguarda il livello fonico ,sintattico e retorico del sesto canto del paradiso dantesco