Il tema politico nella Divina Commedia

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Testo

Paradiso VI
Lo spirito di Giustiniano dichiara la propria identità dicendo che, dopo il trasferimento dell’aquila imperiale da Roma a Bisanzio, essa finì nelle sue mani. La storia mostra infatti come l’aquila imperiale, dopo essere stata inizialmente in Alba Longa, passò ai re e successivamente alla repubblica romana; quindi fu presa da Cesare e di quello che fece durante l’impero di Ottaviano sono testimoni Bruto e Cassio, le città di Modena e Perugia e Cleopatra. Ma tutte le imprese dell’aquila sino a quel momento sono poca cosa, se confrontate con il suo operato sotto l’imperatore Tiberio, quando Dio poté fare giustizia del peccato originale; mentre con Tito vendicò la crocefissione di Cristo distruggendo Gerusalemme. Quando infine i Longobardi, con Desiderio, aggredirono la Chiesa, Carlo Magno la soccorse e risultò vincitore. Ora Dante può giudicare l’operato politico dei guelfi e dei ghibellini: gli uni oppongono all’aquila i gigli di Francia, gli altri si appropriano del "santo segno" facendone l’emblema del proprio partito. A questo punto Giustiniano risponde alla seconda domanda di Dante dicendo che il cielo di Mercurio è sede di coloro che in terra operarono il bene per conseguire la gloria. Tra questi beati si trova Romeo di Villanova: egli, umile straniero, fece sposare nobilmente le quattro figlie del suo signore Raimondo Beringhieri, da cui subì una ingiusta umiliazione; dopo tale affronto Romeo si allontanò dalla corte, mendicando per il resto della propria vita.

Guelfi e ghibellini
A Firenze, come altrove, nel terzo decennio del secolo XIII si avverte la presenza di un clima diverso e la crisi dei rapporti sociali al vertice del Comune: si verificano nomine e rapide deposizioni di podestà, paci fatte e disfatte, i primi episodi di esilio. In questo clima, culminato nel 1216 nell'uccisione di Buondelmonte dei Buondelmonti, si hanno le prime testimonianze dell’esistenza di due partiti, "guelfi" e "ghibellini". Merita ricordare la definizione datane da Salvemini (1960, p. 6): "Si dicono guelfi o ghibellini secondo che sperano di essere aiutati nella loro politica dal Papa o dall’Imperatore; e quindi invocano il loro intervento nelle questioni interne e approfittano fin che possono del loro appoggio". All’inizio l’appoggio esterno delle forze imperiali determinò, a Firenze, il prevalere dei ghibellini. Nel 1249 Federico principe di Antiochia, figlio naturale di Federico II, entra in città con i suoi cavalieri tedeschi, e i guelfi danno luogo al primo esodo massiccio. La morte improvvisa di Federico II nel 1250 modifica però la situazione (anche se in quel momento il partito ghibellino era già stato estromesso, dal popolo, dal governo di Firenze). Fino al 1258 l’azione politica del Comune mira quindi ad affermare la pace interna e a far convivere i due partiti; ma in quell’anno il panorama italiano vede una rinnovata forza del partito ghibellino, appoggiato da Manfredi, altro figlio di Federico II. Abbandonata Firenze nel luglio 1258 i ghibellini si recano quindi a Siena e qui iniziano a manovrare per ottenere l’intervento di Manfredi: in questa occasione Farinata degli Uberti mostra la propria abilità politica. La battaglia di Montaperti (4 settembre 1260) determina la sconfitta del popolo e dei guelfi fiorentini, e ha come conseguenza la caduta del governo del Primo Popolo (12 settembre 1260) e l’instaurazione del predominio ghibellino. Nel febbraio 1266, però, si determina un ulteriore rovesciamento delle sorti: la battaglia di Benevento segna il trionfo delle forze guelfo-papali. Nell’aprile 1267 i ghibellini sono così definitivamente cacciati da Firenze, mentre Carlo d’Angiò - principale alleato del papa - entra nella città con i suoi cavalieri. Nasce così il governo guelfo (1267-1280); la situazione rimane statica fino al 1280, anno in cui Niccolò III, timoroso del predominio francese, invia a Firenze il cardinale Latino, che tentò di introdurre una costituzione equamente divisa fra guelfi e ghibellini. Si arriva così al priorato delle arti, ossia a un governo basato, dal 1282, esclusivamente sulle organizzazioni artigiane. Tale base si allarga poi a partire dal 1293, dopo l’emanazione degli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella. Alla fine del secolo XIII non ha più senso, perlomeno a Firenze, parlare ancora di guelfi e ghibellini, mentre si confrontano guelfi bianchi e neri.

Paradiso XV
Dal braccio destro della croce si muove uno degli spiriti luminosi, scorrendo lungo la lista, ad angolo retto, come un fuoco dietro un alabastro trasparente. Lo spirito si rivela quello di Cacciaguida, trisavolo di Dante, e si rivolge a lui con lo stesso affetto con cui Anchise si rivolse a Enea nei Campi Elisi. Il poeta lo guarda, quindi si rivolge alla propria guida e rimane stupito perché gli occhi di lei sono così belli da fargli credere di aver raggiunto il grado più alto della sua beatitudine. Cacciaguida - sfogato l’ardore del proprio amore - abbassa il tono del suo linguaggio e ringrazia Dio per l’eccezionale privilegio concesso a un suo discendente. Egli è stato infatti progenitore di Dante, e colui che diede il nome alla casata degli Alighieri fu suo figlio. Cacciaguida parla della Firenze antica, quando entro la cerchia delle mura la cittadinanza viveva in pace e in sobrietà; narra poi di essere stato battezzato in San Giovanni e di aver avuto come fratelli Moronto ed Eliseo e come moglie una donna della valle del Po. Fu ucciso mentre partecipava alla crociata contro i Musulmani sotto l’imperatore Corrado III di Svevia, e meritò la beatitudine eterna.

Cacciaguida
Trisavolo di Dante (in quanto padre di quell’Alighiero da cui, tramite Bellincione e poi Alighiero II, sarebbe disceso il poeta), è il protagonista di un importante episodio del Paradiso, che si estende per ben tre canti (XV, XVI e XVII). Al di fuori della Commedia, la sua esistenza storica è provata da due documenti, risalenti, rispettivamente, al 1189 e al 1201 (ai quali alcuni studiosi aggiungono un terzo del 1131). L’anno della sua nascita, indicato da Dante con una perifrasi dall’interpretazione piuttosto controversa (Par. XVI 36-39), è stato fissato dalla maggior parte degli esegeti al 1091. Nominato cavaliere da Corrado III di Svevia, Cacciaguida seguì quell’imperatore nella seconda crociata in Terrasanta (1147-49), dove trovò la morte per mano degli infedeli prima del 1148. La narrazione del suo incontro con Dante nel Cielo di Marte (che ospita gli spiriti che combatterono in difesa della Fede), costituisce uno degli episodi cruciali della Commedia. Palesemente modellato sul racconto virgiliano dell’incontro di Enea con Anchise nei Campi Elisi (Eneide, VI 703 sgg.), l’episodio svolge la funzione di una sorta di investitura morale e religiosa del poeta. A Cacciaguida, infatti, dopo aver chiesto notizie su 1) chi fossero i suoi antenati, 2) in che anno fosse nato, 3) quanti fossero gli abitanti di Firenze al suo tempo e 4) chi ricoprisse allora le più alte cariche cittadine (Par. XVI 22-27), Dante domanda il significato delle molte profezie, relative al proprio futuro, che egli ha raccolto durante il suo viaggio (Par. XVI 13-27). La spiegazione della "cara piota" (Par. XVII 13), che descrive al poeta le tappe salienti del suo prossimo esilio esortandolo a rivelare per intero il contenuto della sua visione una volta che sarà tornato tra gli uomini (Par. XVII 127-29), permette di leggere il "poema sacro" (Par. XXV 1) come l’adempimento di una sorta di missione profetica e civile, assegnata a Dante dalla divina provvidenza.

Paradiso XVII
Dante chiede all’avo di rivelargli le future vicende della sua vita, e Cacciaguida risponde dicendo che la conoscenza dell’avvenire gli deriva da Dio: il poeta dovrà partire da Firenze e la colpa dell’esilio sarà attribuita inevitabilmente all’offeso, anche se la vendetta divina offrirà testimonianza della verità. Dante sarà quindi ospitato da Bartolomeo della Scala, e a Verona incontrerà Cangrande; il mondo non si è ancora accorto di quest’ultimo, che è ancora fanciullo, ma prima che papa Clemente V inganni l’imperatore Arrigo di Lussemburgo si paleseranno i segni della sua grandezza. Il discorso si conclude con l’ammonimento a non odiare i concittadini, perché la gloria di Dante durerà oltre il tempo nel quale essi saranno puniti delle loro malvagità. Il poeta si rivolge allora al proprio avo per esporgli un dubbio: se divulgherà le cose apprese durante il viaggio teme di incorrere nell’odio di molti ma, se le tacerà, teme di non conseguire fama presso i posteri. Lo spirito gli risponde che solo le coscienze offuscate dal peccato sentiranno l’asprezza delle sue parole: che egli narri tutto ciò che ha veduto perché la sua voce costituirà "vitale nutrimento" per l’umanità.

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