Canto III dell'Inferno dantesco

Materie:Appunti
Categoria:Dante

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Testo

La lettura del canto III dell’Inferno porta ad importanti considerazioni sul giudizio dantesco riguardo agli ignavi: come si collega questa opinione alla situazione reale vissuta da Dante?
La lettura del canto III dell’Inferno ci porta a capire meglio la personalità di Dante, poiché viene messo in evidenza, attraverso un racconto chiaro e semplice, uno fra i più grandi ideali del poeta.
Arrivati alle porte dell’Inferno Dante e la sua guida Virgilio si apprestano ad incontrare i primi peccatori, gli ignavi, neppure degni di varcare le porte dell’Inferno.
Capiamo subito la gravità del loro peccato, e la spiegazione della pena che essi subiscono non fa che accentuare ancora più drammaticamente la loro situazione: con una descrizione piuttosto cruda Dante ci spiega che essi sono costretti ad inseguire un vessillo bianco, punti in continuazione da insetti ripugnanti.
Se in altri passi della Cantica il contrappasso non è molto evidente, qui non c’è dubbio: alla sofferenza psicologica di non poter incontrare Dio, si aggiunge il forte dolore fisico, simbolo della viltà di questi individui. Così, come in vita essi rimasero indifferenti a tutto e non si schierarono mai, ora in morte sono destinati ad inseguire un vessillo bianco, simbolo della loro viltà, e vengono punzecchiati da insetti, loro che furono insensibili ad ogni stimolo.
E’ evidente il disprezzo che Dante sente per questi individui: non li ritiene neppure degni di entrare nell’Inferno, ed essi non sono voluti dai diavoli né tanto meno dagli angeli, poiché non sono motivo di alcun vanto.
Dante non ha sicuramente nulla da spartire con essi, ed affida a Virgilio la dura sentenza che porta i due protagonisti ad ignorare completamente la schiera: “Non ti curar di loro ma guarda e passa”. E’ chiaro che dante non li ritiene neppure degni di proferir parola, e non può nemmeno pensare di intrattenersi a discutere con loro.
Nella sua vita Dante si era sempre battuto per i suoi ideali, anche se questo lo aveva portato a rinunciare a ciò che più amava: non dimentichiamo infatti che per il suo impegno politico fu costretto all’esilio da Firenze, quando i guelfi neri presero il controllo della città.
Ci troviamo quindi davanti a due situazioni opposte: da una parte, la nobiltà d’animo del nostro poeta, dall’altra il disinteresse e la viltà degli ignavi.
Per capire ancora meglio il giudizio negativo di Dante possiamo ricorrere al momento dell’incontro con “colui che per viltade fece il gran rifiuto”; probabilmente Dante si riferisce a Celestino V, l’asceta che diventò Papa, ma fu costretto ad abdicare dopo soli cinque mesi.
Sicuramente Dante può apprezzare la sua fede, ma lo colloca comunque in questo Regno, perché per viltà non ha saputo mantenere l’impegno che Dio gli aveva affidato (non dimentichiamo inoltre che il nuovo papa fu l’odiato Bonifacio VIII).
Arrivati alla fine dell’incontro con questi dannati, Dante ci lascia quasi l’impressione di non aver conosciuto a fondo la storia di queste anime, così come esse probabilmente non la conoscono del tutto, poiché non hanno vissuto la pienezza della loro vita.

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