l'architettura palladiana in ville e palazzi

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Testo

VILLA CHIERICATI - Vancimuglio di Grumolo delle Abbadesse - (1550)

A dispetto della scarsa attenzione dedicatale dalla critica, villa Chiericati a Vancimuglio segna una tappa fondamentale nell'evoluzione del linguaggio palladiano perché per la prima volta un vero e proprio pronao di tempio antico viene applicato al corpo di una villa, dando origine a un motivo che diventerà una soluzione classica nei progetti successivi (per esempio nel caso della Rotonda e della Malcontenta). Il committente della villa è Giovanni Chiericati, fratello di Girolamo, per il quale negli stessi anni Palladio sta realizzando il palazzo all’Isola di Vicenza. Con buona probabilità il progetto per la villa è pressoché contestuale a quello per palazzo Chiericati, e quindi da far risalire ai primi anni '50, anche se nel 1554 il cantiere non risulta ancora aperto. Nel 1557, un anno prima della morte del committente, la villa è largamente incompiuta, tanto che nel 1564 risulta coperta ma ancora priva di solai e finestre, e non abitata. Acquistata da Ludovico Porto nel 1574, la villa è ultimata nel 1584 ad opera di Domenico Groppino, abituale collaboratore palladiano. Alcuni disegni e schizzi autografi conservati a Londra documentano il progetto originale palladiano per la villa, sensibilmente modificato in fase esecutiva: è sparito infatti il salone centrale biabsidato a favore di un semplice vano cubico. Il cambiamento di programma ha portato alla chiusura di una finestra termale ancora visibile nel progetto posteriore. In uno schizzo di studio si coglie anche una prima soluzione per un pronao con colonne anche sui fianchi, poi sostituita dall’attuale muro forato da un arco, garanzia di irrigidimento della struttura, secondo l’esempio antico del portico di Ottavia. L'esecuzione appare comunque molto poco controllata da Palladio, che sicuramente non avrebbe mai realizzato colonne prive di entasi, come invece appaiono. Inoltre la distribuzione interna a due sale frontali obbliga a porre la finestra in prossimità degli angoli della fabbrica: una disposizione sconsigliata anche nei Quattro Libri perché indebolisce eccessivamente l'angolo dell'edificio che, infatti, mostra visibili segni di cedimento.

VILLA BADOER - Fratta Polesine - (1554)

Ai confini meridionali dei territori della Serenissima, nelle piatte e nebbiose lande del Polesine, Palladio progetta nel 1554 una villa per il nobile veneziano Francesco Badoer, destinata a diventare il baricentro della vasta tenuta agricola di quasi cinquecento campi da questi ricevuta in eredità sei anni prima. Costruita e abitata nel 1556, la villa doveva quindi essere funzionale alla conduzione dei campi e insieme segno visibile della presenza, per così dire feudale, dei Badoer sul territorio: non a caso l’edificio sorge sul sito di un antico castello medievale. Palladio riesce a unire in una sintesi efficace entrambi i significati, collegando il maestoso corpo dominicale alle due barchesse piegate a semicerchio che schermano le stalle e altri annessi agricoli. Probabilmente sfruttando le sottostrutture del castello medievale, il corpo dominicale della villa sorge su un alto basamento, richiamando precedenti illustri come villa Medici a Poggio a Caiano di Giuliano da Sangallo, o la poco lontana villa dei Vescovi a Luvigliano di Falconetto. Ciò rende necessaria una scenografica scalinata a più rampe, la principale a scendere nella corte, e le due laterali a connettersi con le testate delle barchesse, ricordando così la struttura di un tempio antico su terrazze. Le elegantissime barchesse curvilinee sono le uniche concretamente realizzate da Palladio fra le molte progettate (per esempio per le ville Mocenigo alla Brenta, Thiene a Cicogna o villa Trissino a Meledo) e la loro forma — scrive lo stesso Palladio — richiama braccia aperte ad accogliere i visitatori: fonte antica di riferimento sono molto probabilmente le esedre del tempio di Augusto a Roma. Nelle barchesse Palladio usa l’ordine tuscanico, adeguato alla loro funzione e alla possibilità di realizzare intercolumni molto ampi che non intralcino l’accesso dei carri. La loggia della villa mostra invece un elegante ordine ionico a enfatizzare il ruolo di residenza dominicale. Il fuoco visivo dell’intero complesso è calibrato proprio sull’asse dominato dal grande frontone triangolare retto dalle colonne ioniche, su cui campeggia lo stemma familiare, tanto che i fianchi e il retro della villa non sono assolutamente caratterizzati e presentano un disegno semplicemente utilitario. Per il resto la struttura distributiva del corpo dominicale presenta la consueta organizzazione palladiana lungo un asse verticale, con il piano interrato per gli ambienti di servizio, il piano nobile per l’abitazione del padrone e infine il granaio. Tutte le sale sono coperte da soffitti piani e sulle pareti Giallo Fiorentino ha disegnato complessi intrecci di figure allegoriche dai significati in parte ancora oscuri.

PALAZZO VALMARANA - Vicenza - (1565)

La medaglia di fondazione dell’edificio porta incisi la data 1566 e il profilo di Isabella Nogarola Valmarana, ed è quest’ultima a firmare i contratti per la costruzione coi muratori nel dicembre del 1565. Tuttavia non vi è dubbio sul ruolo avuto dal suo defunto marito Giovanni Alvise (morto nel 1558) nella scelta di Palladio come progettista del palazzo di famiglia. Con Girolamo Chiericati, e naturalmente il Trissino, nel 1549 il Valmarana aveva sostenuto pubblicamente il progetto di Palladio per le Logge della Basilica, evidentemente sulla base di una stima nata sei anni prima, quando Giovanni Alvise sovrintese alla realizzazione degli apparati effimeri in onore dell’ingresso a Vicenza del vescovo Ridolfi (1543), ideati da Palladio con la regia del Trissino. E uno spazio palladiano — la cappella Valmarana in Santa Corona — ospiterà le spoglie mortali di Giovanni Alvise e di Isabella, su commissione del figlio Leonardo. Sul sito poi occupato dal nuovo palazzo cinquecentesco, la famiglia Valmarana deteneva proprietà edilizie sin dalla fine del Quattrocento, che progressivamente furono accorpate sino a costituire l’oggetto della ristrutturazione palladiana. L’irregolarità planimetrica degli ambienti discende senza dubbio dall’andamento sghembo della facciata e dei muri preesistenti. In questo senso appare evidente quanto l’olimpica regolarità della planimetria del palazzo presentato nei Quattro Libri sia frutto della consueta teorica astrazione palladiana, tanto più che l’estensione del palazzo oltre il cortile quadrato non solo non fu mai realizzata, ma a quanto pare neppure ricercata da Leonardo Valmarana, che risulta acquisire immobili confinanti piuttosto che proseguire nella costruzione del palazzo di famiglia. La facciata di palazzo Valmarana è una delle realizzazioni palladiane più straordinarie e insieme singolari. Per la prima volta in un palazzo, un ordine gigante abbraccia l’intero sviluppo verticale dell’edificio: si tratta evidentemente di una soluzione che prende origine dalle sperimentazioni palladiane sui prospetti di edifici religiosi, come la pressoché contemporanea facciata di San Francesco della Vigna. Come nella chiesa veneziana le navate maggiore e minore si proiettano su uno stesso piano, così sulla facciata di palazzo Valmarana appare evidente la stratificazione di due sistemi: l’ordine gigante delle sei paraste composite sembra sovrapporsi all’ordine minore di paraste corinzie, in modo tanto più evidente ai margini dove la mancanza della parasta finale rivela il sistema sottostante, che sostiene il bassorilievo di un soldato con le insegne Valmarana. Piuttosto che da astratte costruzioni geometriche, la logica compositiva di queste facciate civili e religiose deriva dalla familiarità di Palladio con le tecniche di disegno, in particolare le rappresentazioni ortogonali con cui visualizza i progetti e restituisce i rilievi degli edifici antichi, e che per altro gli consentono un controllo puntuale dei rapporti fra interno ed esterno dell’edificio.

ANDREA PALLADIO (1508-1580)

LA CREAZIONE DI UN'ARCHITETTURA SISTEMATICA E TRASMISSIBILE

Palladio è probabilmente il più influente ed il più conosciuto tra gli architetti che siano vissuti prima del secolo che sta per finire. La sua fama e la sua reputazione sopravvissero al Barocco, al gusto neo-gotico, alle invettive che Ruskin gli rivolse, e al movimento moderno, che nella sua fase ultima si riconciliò pienamente, grazie agli scritti di Rudolf Wittkower e Colin Rowe, con l'architetto delle ville razionali ed armoniosamente proporzionate. La citazione eclettica e spesso pedestre degli elementi del linguaggio di Palladio, come la loggia di villa Poiana, ha mantenuto il suo nome familiare e viva la fama del suo libro. Ma allo stesso tempo ha aiutato gli osservatori più attenti a capire la differenza del sistema architettonico di Palladio, in cui struttura ed ornamento, forma e funzione sono perfettamente integrati, dal gesto del pasticcere che aggiunge un'altra decorazione alla sua torta.
La reputazione di Palladio, bersaglio della critica od oggetto di elogio, ha subito varie trasformazioni e distorsioni: è stato visto come fonte di regole infallibili e buon gusto, oppure considerato nemico dell'architettura moralmente virtuosa (moderna o neo-gotica che fosse). Nella presente mostra viene illustrato e analizzato un ampio periodo dell'attenzione dedicata all'architetto ed al suo libro. La sezione strettamente dedicata a Palladio cerca invece di avvicinarci alla sua figura in modo da indicare anche le divergenze da coloro che, in date più tarde e in altri luoghi, si sono serviti delle sue idee e composizioni come punto di partenza per disegni che spesso dovevano incontrare esigenze diverse o impiegare materiali differenti da quelli con cui Palladio aveva familiarità.
Chi era Palladio? Quali erano le sue idee sull'architettura, e come vi giunse? Quale il carattere del suo contributo allo sviluppo della cultura e delle forme architettoniche? Egli si differenzia dagli altri grandi architetti italiani ed europei del suo tempo? li supera? Sono queste le domande che spesso ritornano nella sterminata letteratura sull'architetto vicentino; ed io qui voglio soltanto abbozzare delle risposte possibili, come prefazione ad una mostra che concerne principalmente ciò che fecero, con i disegni e le idee di Palladio, gli architetti ed i mecenati del Nord Europa.
PALLADIO E I SUOI CONTEMPORANEI

Sarebbe difficile sostenere che Palladio superi per originalità e abilità gli altri architetti che operarono tra il 1420 e il 1580. Questo è infatti un periodo in cui l'architettura viene riconosciuta come forma di espressione culturale eminente, strettamente legata alla rappresentazione del potere, della ricchezza, del prestigio, e viene vista come uno strumento per plasmare, controllare e migliorare il carattere e la qualità della vita sia
pubblica che privata.
Brunelleschi (1377-1446) dimostrò una formidabile inventiva tecnica e strutturale nel disegno della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. Nelle altre sue opere egli riscoprì in parte ed in parte inventò un linguaggio di forme e motivi architettonici che ha segnato la strada percorsa dai suoi successori. Leon Battista Alberti (1404-1472) fece ancora di più: egli intuì l'importanza e la potenzialità dell'architettura come spazio della vita sociale e religiosa; e comprese come essa costituisse per gli antichi un corpo articolato di saperi, che permetteva di trovare una soluzione razionale ad ogni questione connessa alla costruzione e al controllo dell'ambiente abitato. Nel suo libro De Re Aedificatoria (scritto prima del 1452, ma pubblicato per la prima volta nel 1485) egli tentò, basandosi su testi scritti e sui monumenti sopravissuti, di riunire ogni aspetto della scienza e dell'arte architettonica dei romani per mostrare come esse potessero essere applicate alle necessità del presente. Alberti non fu solo uno studioso e un conoscitore dell'antichità: il suo spiccato interesse per i materiali e le tecniche derivava dal contatto con gli artigiani, dall'osservazione diretta, dalla sperimentazione e dalla sua pratica architettonica. Alberti non era unicamente un ricercatore sistematico la cui vigorosa intelligenza riusciva a dare una struttura teorica a ciò che osservava e studiava, ma anche un brillante scrittore, un artista con esperienza nel campo della pittura e della scultura, in contatto con i maggiori artisti fiorentini del suo tempo, Brunelleschi, Ghiberti, Donatello e Masaccio. La sua ampia cultura, la sua chiarezza di pensiero e il suo talento artistico si riflettono nei suoi progetti architettonici, che esemplificano e in un certo senso illustrano le idee presenti nel suo libro - un libro che forse egli lasciò senza illustazioni deliberatamente, per non distogliere l'attenzione dal principale messaggio che voleva trasmettere. Il trattato dell'Alberti, insieme a Vitruvio, fu per Palladio il testo chiave per le questioni architettoniche.
Negli anni che trascorse a Roma(1499-1514), Bramante attinse alle idee albertiane e seguì l'indicazione dell'Alberti di studiare gli edifici degli antichi proprio come i letterati ne studiavano gli scritti. Bramante fu il primo ad usare il sistema degli ordini classici quale linguaggio espressivo che può essere impiegato e variato a seconda della natura e della dimensione dell'edificio: l'ordine dorico viene usato sia per il tempietto di San Pietro in Montorio che per il cortile inferiore del Belvedere al Vaticano, ma il piccolo tempietto avrà una delicata cornice lineare, mentre l'enorme cortile del Belvedere una cornice fortemente aggettante sostenuta da mutuli massicci. La risoluta volontà e le grandi risorse finanziarie che papa Giulio II dedicava all'edificazione permisero a Bramante di sperimentare i disegni a vasta scala. Al Belvedere, al palazzo dei Tribunali e a San Pietro Bramante si mostrò pienamente capace di portare avanti progetti unitari, ispirato dalle terme, dal Pantheon e da altri grandi monumenti romani, nei quali la chiarezza strutturale si combinava con l'articolazione murariara e al disegno dei dettagli. Una concezione tanto grandiosa, basata sullo studio attento dell'antico, si può trovare nel disegno di Raffaello per Villa Madama, un'opera che, come la chiesa di San Biagio e il Tempietto di Bramante, fu studiata e disegnata da Palladio.
Nel panorama dell'architettura del sedicesimo secolo, Palladio è una figura d'eccezione. Egli non viene dall'Italia centrale, dove erano nati o avevano svolto il loro apprendistato i più grandi architetti che lo influenzarono, bensì dal Veneto: era nato a Padova, ma dall'età di sedici anni aveva vissuto e lavorato a Vicenza. Non comune era anche il suo tirocinio, che non fu da pittore (come Bramante, Raffaello, Peruzzi e Giulio Romano), né da scultore (come Sansovino e Michelangelo), ma da tagliapietra. Infatti, se non fosse stato per i suoi contatti, a partire dalla seconda metà degli anni trenta, con il nobile e scrittore vicentino GianGiorgio Trissino (1478-1550), Palladio sarebbe probabilmente rimasto un abile ed intelligente artigiano, capace forse di disegnare portali e monumenti funebri, ma senza la cultura e l'abilità intellettuale che in questo momento erano necessarie ad un vero architetto. Certamente egli non sarebbe stato trasformato dal maestro Andrea di Pietro nel famoso architetto Andrea Palladio, secondo il sofisticato nome romano che Trissino inventò per lui.
La figura di Trissino fu determinante per Palladio in molti sensi: era lui stesso un dilettante d'architettura molto dotato che fece dei disegni per ricostruire il proprio palazzo cittadino; a metà degli anni trenta rimodellò anche, in linea con la contemporanea architettura romana, la sua residenza suburbana a Cricoli, appena fuori Vicenza. Trissino, che era stato un membro del ristretto circolo culturale di papa Leone X Medici, e che aveva conosciuto Raffaello, doveva avere ben presente la villa di Poggio a Caiano, ideata dal committente Lorenzo dei Medici e dal suo architetto Giuliano da Sangallo: a Poggio si trova un'anticipazione dell'unione gerarchica di stanze di dimensioni differenti intorno ad un salone centrale voltato tipica di Palladio, ma anche, per la prima volta, il frontone di un tempio applicato alla facciata di un edificio residenziale del Rinascimento. A Cricoli Trissino aveva già impiegato un sistema di stanze di dimensioni diverse, e uno schema di proporzioni interrelate, stabilendo quindi quello che doveva diventare un elemento chiave nel sistema progettuale palladiano.
Trissino ebbe grande importanza per Palladio ancora in altri modi. A livello pratico, egli ebbe quasi certamente un ruolo determinante nel raccomandarlo agli altri patrizi vicentini durante i primi anni della sua attività. E fu ancora con Trissino che Palladio fece quei viaggi a Roma che, negli anni quaranta del Cinquecento, gli rivelarono quel carattere dell'architettura antica e moderna nella città che egli aveva conosciuto fino ad allora solo attraverso il Quarto Libro (1537) e il Terzo Libro (1540) di Sebastiano Serlio. Trent'anni dopo Palladio ricorderà come avesse trovato le costruzioni antiche "di molto maggiore osservatione degne, ch'io non mi aveva prima pensato" (Quattro Libri, 1, p. 5). Queste opere, viste con occhi nuovi in età piuttosto matura, ebbero su di lui un impatto estremamente forte e gli fornirono un'ampia gamma di modelli che egli immediatamente adattò ai suoi lavori. Molto probabilmente Trissino guidò Palladio anche nelle sue prime letture di Vitruvio. Non si sa se Palladio fosse in grado di leggere il latino; ma anche se non lo fosse stato (e comunque non bisogna escludere che egli possedesse una sufficiente conoscenza della lingua) intorno al 1540 era già possibile accedere a molte opere fondamentali latine e greche in versione italiana (il trattato dell'Alberti, ad esempio, appare in una traduzione italiana già nel 1546). Il che doveva essere di grande aiuto agli sforzi compiuti da Palladio per acquisire una cultura di ampio raggio ed assimilare testi che presentavano difficoltà anche agli studiosi.
TRISSINO E GLI ASPETTI LINGUISTICI DELL'ARCHITETTURA DI PALLADIO

Se torniamo alla questione del modo in cui Palladio somiglia e si distingue dai suoi contemporanei e dagli autori dei "classici moderni" che egli studiò a Roma e altrove, allora emerge quello che è forse il suo più grande debito nei confronti del Trissino.
Bramante, Raffaello, Peruzzi, Antonio da Sangallo il Giovane, Giulio Romano, Falconetto, Sanmicheli e Sansovino ebbero tutti una considerevole influenza su Palladio quando era trentenne. Tutti costoro impiegavano nelle loro opere gli ordini classici in un modo che non era del tutto fedele, ma che anzi rappresentava un compromesso tra la lettera di Vitruvio e la pratica osservabile negli antichi architetti romani. Tutti costoro incorporavano nelle loro opere schemi sia planimetrici che di alzato derivati dall'antico. E in questo erano del tutto simili a Palladio. La grande differenza tuttavia, consiste nel fatto che a partire dagli anni quaranta l'architetto vicentino farà uso di una serie stabilita di tipi generali, di forme differenti di stanze, di forme degli ordini. Egli vedeva la distanza tra le colonne come componente essenziale di ogni ordine: due diametri di colonna e mezzo, ad esempio, come intercolumnio per l'ordine ionico e due diametri per il corinzio. L'ordine diviene quindi, per la prima volta nell'architettura del Rinascimento, un potenziale generatore di schemi sia bidimensionali che tridimensionali. L'opera di Palladio mostra un'aderenza ad un sistema di progettazione che fa uso d'una grammatica di forme e proporzioni e di un "misurato vocabolario" di motivi. I suoi immediati predecessori e i suoi contemporanei più anziani sono meno sistematici. Vi sono ragioni per questo. Costoro in un certo qual senso inventavano e variavano man mano le regole, progredendo come architetti di opera in opera. Sovente poi essi si trovavano a doversi confrontare con commissioni tanto nuove ed inusuali (come Bramante con San Pietro, col Cortile del Belvedere, col Tempietto; Raffaello con Villa Madama; Giulio con Palazzo del Te; Michelangelo con la Sacrestia Nuova e la Biblioteca Laurenziana; Sansovino con la Libreria) che non vi era alcuna regola, norma o tipo di edificio contemporaneo potesse essere utile per raggiungere un disegno soddisfacente.
Lo stesso Palladio dovette confrontarsi con problemi unici, "irripetibili": la Loggia della Basilica di Vicenza, palazzo Chiericati, il Teatro Olimpico, le sue due grandi chiese veneziane, il ponte di Rialto. Ma il maggior numero - ed era un gran numero - delle sue commissioni erano per residenze di città e ancor più di campagna, che avevano necessità e requisiti piuttosto simili. Nessun architetto fino allora, neanche Antonio da Sangallo il Giovane, aveva avuto tante commissioni di ville e palazzi. Ciò rendeva auspicabile un sistema di forme e dimensioni ottimali prestabilite, se non altro come modo di ridurre la quantità di lavoro necessaria per progettare ogni singolo edificio. All'inizio della sua carriera Palladio si rese conto che non era necessario decidere per ogni fabbrica quanto dovessero essere larghe ed alte le porte interne, quale forma dovessero avere le scale, o quali profili e proporzioni dare al capitello dorico. Era sufficiente stabilire una serie di forme standard, certo tali da essere modificate quando fosse stato necessario, ma in genere applicabili alla maggior parte dei progetti. L'architettura di Palladio quindi, più di quella di ogni altro architetto del Rinascimento, è fondata su una serie di elementi concepiti con cura e concettualmente precostituiti: si può osservare come questi elementi venissero combinati flessibilmente e creativamente in un disegno (RIBA XI/22 verso) in cui egli genera rapidamente venti schizzi differenti per la pianta di un palazzo.
Il senso comune aveva un ruolo nell'elaborazione di questo sistema, così come le consuetudini di lavoro degli artigiani e dei tagliapietra a Venezia e nel Veneto. I mastri veneziani erano abituati da lungo tempo ad ordinare alle cave blocchi di dimensioni standardizzate e ad usare forme e misure unificate per le porte, per le finestre e le colonne. Ma la corrispondenza dei propositi di Palladio con la creazione di un'architettura di forme, proporzioni prefissate, principî messi in opera con regolarità, è un atteggiamento cosciente, che deriva probabilmente dalle molte ore e i molti giorni che egli spese discutendo con Trissino. Trissino era uno dei più autorevoli teorici di ortografia, grammatica e teoria letteraria del suo tempo. Come altri letterati suoi contemporanei egli era interessato, in un periodo in cui, a parte la forma toscana impiegata da Dante, Petrarca e Boccaccio, non vi era un versione letteraria canonica della lingua, al problema della maniera più appropriata di scrivere in italiano. Trissino tuttavia andava al di là di questa preoccupazione per la forma di italiano più "corretta", fino a comprendere che l'effetto letterario dipende dalla grammatica e dalla scelta del vocabolario. E' possibile che lo stesso Trissino vedesse il parallelo tra la struttura linguistica e l'approccio strutturato al disegno architettonico; d'altra parte, per un processo di osmosi intellettuale, Palladio, aiutato dalle sue letture di Vitruvio e Alberti, potrebbe aver trasferito all'architettura il punto di vista del Trissino sulle relazioni tra lo stile letterario e le regole linguistiche. In ogni caso la sua architettura assumeva un carattere linguistico e grammaticale che, consciamente o inconsciamente, era riconosciuto e approvato dagli intellettuali umanisti, come il suo amico e committente Daniele Barbaro. Per Barbaro, come per i suoi amici colti, Palladio offriva qualcosa che neanche il grande e tanto inventivo Sansovino poteva offrire: un'architettura davvero razionale, basata non solo (come raccomandava l'Alberti) sull'applicazione della ragione e dei principî derivati dalla natura, ma strutturata sulla falsariga della linguistica umanista. La preferenza di Barbaro per l'approccio sistematico di Palladio all'architettura lo spinse ad ottenere per l'architetto vicentino, a partire dalla fine degli anni '50, una serie di commissioni ecclesiastiche proprio a Venezia (la facciata di S. Francesco della Vigna, il refettorio e chiesa di S. Giorgio Maggiore, la ricostruzione del Convento della Carità), che altrimenti sarebbero state affidate all'anziano, ma ancora molto rispettato, Sansovino.
L'AFFERMAZIONE DI PALLADIO COME ARCHITETTO

Non è esattamente chiaro come Palladio, dall'esecuzione manuale di difficili dettagli come i capitelli, e dalla progettazione di opere su piccola scala, sia divenuto, dapprima occasionalmente e poi integralmente, un architetto che lavorava non più con gli strumenti dello scalpellino, ma con la mente, con i libri, con squadra e penna, e con i suoi disegni dell'antico. E' documentato che nel 1540 egli fece un disegno per la villa Godi a Lonedo, ma per quella data il suo effettivo intervento era probabilmente limitato, dal momento che il tracciato delle fondazioni della grande villa era già stato stabilito e non corrisponde alla divisione preferita da Palladio per la pianta di una villa in suites di stanze (generalmente tre) di forme e dimensioni differenti. Più importante è il suo lavoro per palazzo Civena (per quattro fratelli, ricchi ma socialmente irrilevanti) del quale ci restano diversi disegni. Il palazzo originariamente apparteneva ad Aurelio dell'Acqua, amico del Trissino, ed è possibile ipotizzare che Trissino e Palladio avessero già fatto dei disegni per la ricostruzione prima che, nel 1540, fosse acquistato dalla famiglia Civena. Nei progetti non realizzati per villa Pisani al Bagnolo, ed altri disegni di Palladio per diverse ville databili intorno al 1542, si può osservare da subito l'impatto che la prima visita a Roma ebbe sull'architetto. Appaiono, con entusiastica abbondanza, motivi derivanti dalle Terme, dal Cortile del Belvedere e da Villa Madama. Nel disegno finale questi elementi vengono semplificati e ridotti per lasciar posto a spazi abitabili e per non gravare eccessivamente sulle finanze dei committenti. In ogni caso, l'architettura che nasce dal lavoro di Palladio negli anni intorno al 1542, con alti saloni voltati a botte o a vela, con ampie logge e transenne di colonne, è quella che lo accompagnerà per tutta la carriera, in attesa della migliore occasione d'essere usata, come nelle chiese di San Giorgio Maggiore e del Redentore a Venezia. Anche la costruzione di villa Pisani è sorprendente per la nobiltà della sua loggia absidata e del suo grande salone voltato: una tale altezza e magnificenza a questa data erano comuni solo alle chiese più importanti, e l'architettura della villa deve aver sorpreso, se non stupito molti di quelli che la vedevano per la prima volta.
L'ARCHITETTURA DELLA VILLA

Nel 1550 Palladio aveva già prodotto un intero gruppo di ville la cui scala e decorazione può essere vista come perfettamente adeguata alla ricchezza e alla posizione sociale dei suoi proprietari; i potentissimi e ricchissimi Pisani, banchieri e patrizi veneziani avevano enormi volte e una facciata a loggia realizzata con pilastri di pietra e paraste doriche bugnate; il ricco (per breve tempo) e meno nobile esattore delle tasse sul sale Taddeo Gazzotto aveva invece, nella sua villa a Bertesina, paraste di mattoni e soltanto le basi e i capitelli scolpiti in pietra; Biagio Saraceno a Finale aveva una loggia con tre campate ad arco (tripartita), ma senza ordine architettonico. A villa Saraceno come a villa Poiana, Palladio fu capace di conferire dignità e presenza ad una facciata usando semplicemente un'orchestrazione di finestre, frontoni e logge arcuate; i suoi committenti meno abbienti devono aver apprezzato la possibilità di godere di edifici di grande impatto senza dover spendere molto per la pietra e la sua lavorazione.
La reputazione di Palladio agli inizi, ed anche dopo la morte, si è fondata sulla sua abilità di disegnatore di ville. Durante la guerra della lega di Cambrai (1509-1517) erano stati inferti ingenti danni a case, barchesse e infrastrutture rurali. Il raggiungimento dei precedenti livelli di prosperità nella campagna fu probabilmente lento, e avvenne soltanto negli anni quaranta, con la crescita del mercato urbano delle derrate alimentari e la decisione a livello governativo di liberare Venezia e il Veneto dalla dipendenza dal grano importato, e specialmente da quello che proveniva dal sempre minaccioso Impero ottomano. Questo enorme investimento in agricoltura e nelle strutture necessarie alla produzione agricola accelera il passo. Per decenni i proprietari terrieri avevano acquistato costantemente, sotto lo stabile governo veneziano, piccole tenute, ed avevano consolidato i loro domìni non solo attraverso l'acquisto, ma anche con lo scambio di grandi poderi con gli altri possidenti. Gli investimenti nell'irrigazione e le bonifiche mediante drenaggio accrebbero ulteriormente il reddito dei ricchi latifondisti.
Le ville del Palladio - cioè le case dei proprietari fondiari - rispondevano alla necessità di un nuovo tipo di residenza rurale. I suoi disegni riconoscono implicitamente che non era necessario avere un grande palazzo in campagna modellato direttamente su quelli di città, quali sono di fatto molte ville della fine del quindicesimo secolo (come l'enorme villa da Porto a Thiene). Qualcosa di più piccolo, spesso con un unico piano principale abitabile, era adatto come centro per controllare l'attività produttiva, da cui derivava probabilmente la maggior parte del reddito del proprietario, e per impressionare gli affittuari e i vicini oltre che per intrattenere gli ospiti importanti. Queste residenze, benché fossero talvolta più piccole delle ville precedenti, erano ugualmente efficaci al fine di stabilire una presenza sociale e politica nelle campagne ed erano adatte per il riposo, la caccia, e per sfuggire dalla città, sempre potenzialmente malsana. Le facciate, dominate da frontoni di solito decorati con le insegne del proprietario, annunciavano una potente presenza in un vasto territorio pianeggiante, e non avevano bisogno, per essere visibili, dell'altezza dei palazzi cittadini. Le loro logge offrivano un luogo piacevole ed ombreggiato per pasteggiare, per conversare o per le esecuzioni musicali, attività queste che si possono vedere celebrate nella decorazione della villa, ad esempio a villa Caldogno. Negli interni Palladio distribuiva le funzioni sia verticalmente che orizzontalmente. Cucine, dispense, lavanderie e cantine si trovavano al piano terreno: l'ampio spazio sotto il tetto veniva impiegato per conservare il prodotto più prezioso della tenuta: il grano, che incidentalmente serviva anche per isolare gli ambienti abitabili sottostanti. Al piano principale, abitato dalla famiglia e dai suoi ospiti, le stanze più pubbliche (la loggia e il salone) si trovavano sull'asse centrale mentre a destra e a sinistra vi erano delle infilate simmetriche di stanze, dalle grandi camere rettangolari, attraverso le stanze quadrate di medie dimensioni, fino a quelle rettangolari piccole, usate talvolta dai proprietari come studi o uffici per amministrare il fondo.
L'abitazione dei possidenti spesso non era l'unica costruzione di cui Palladio era responsabile. Le ville, nonostante la loro apparenza non fortificata e le loro logge aperte, discendevano ancora direttamente dai castelli ed erano circondate da un cortile recintato da un muro che le dotava della necessaria protezione dai banditi e dai malintenzionati. Il cortile ("cortivo") conteneva barchesse, torri colombaie, forni per il pane, pollai, stalle, abitazioni per i fattori e per i servitori domestici, stanze per fare il formaggio e cantine per spremere l'uva. Già dal XV secolo si usava creare una corte davanti alla casa, con un pozzo, separata rispetto al cortile di servizio e con le sue barchesse, gli animali e gli spazi per battere il grano. Giardini, orti di verdure e di spezie, vasche per i pesci e, quasi invariabilmente, un grande frutteto (il "brolo") erano tutti raggruppati o localizzati all'interno del muro di cinta.
Nei suoi disegni Palladio cercò di coordinare tutti questi differenti elementi che nei complessi precedenti non erano collocati in considerazione delle visuali simmetriche e delle gerarchie architettoniche, ma soltanto in base alla forma dell'area disponibile, generalmente delimitata da strade e corsi d'acqua. Anche l'orientamento era importante: nei Quattro Libri, Palladio afferma che le barchesse dovrebbero essere esposte a Sud in modo da tenere asciutta la paglia, per evitare che fermenti e bruci. Palladio trovò ispirazione nei grandi complessi antichi che somigliano alle dimore di campagna circondate dalle loro dipendenze, o che forse credeva davvero fossero dei complessi residenziali - esemplare è il tempio, che egli aveva rilevato, di Ercole Vincitore a Tivoli. E' chiaro per esempio, che le barchesse ricurve che costeggiano l'imponente facciata della villa Badoer riprendevano quel che era ancora visibile del Foro di Augusto. Nel suo libro Palladio mostra generalmente gli impianti di villa simmetrici, ma in realtà era consapevole del fatto che qualora non fosse stato possibile esporre entrambe le ali delle barchesse a Sud, come nel caso di villa Barbaro a Maser, il complesso non sarebbe mai stato costruito simmetricamente. Un esempio è la villa Poiana, dove la grande barchessa con raffinati capitelli dorici è certamente disegnata da Palladio. La barchessa esistente è esposta a Sud, e non viene bilanciata da un elemento corrispondente dall'altro lato della facciata principale.
Bisogna inoltre aggiungere che le barchesse, i muri di cinta e gli elementi simili sono oggi a rischio ancor più delle parti residenziali del complesso. Si è perso il senso dell'integrità dell'impianto originale, e le barchesse, anche quelle disegnate da Palladio, sono poco conosciute, in molti casi non sono ufficialmente notificate e di conseguenza si rendono necessari notevoli sforzi per salvaguardarle dalla distruzione o da danneggiamenti irreversibili. Un esempio di opera palladiana in pericolo è proprio la barchessa dorica di villa Poiana.
PALAZZI

Tra il 1542 e il 1550 Palladio era impegnato nella progettazione di tre importanti palazzi di città, tutti a Vicenza: il palazzo Thiene, il palazzo Porto, e il palazzo Chiericati che vengono tutti analizzati in questo catalogo. Se la base economica delle principali famiglie delle città venete derivava dalla campagna, la vita politica convergeva invece nei centri urbani, dove la maggior parte di coloro che costruivano e possedevano palazzi controllavano gli affari cittadini come consiglieri. Nei centri come Verona e Vicenza la nobiltà era generalmente divisa in due opposte "fazioni", una a favore dei Francesi e dei Veneziani e l'altra degli Spagnoli, secondo una partizione che rifletteva quella della scena politica internazionale. In un certo senso queste fazioni costituiscono un precedente dei partiti politici benché fossero innanzitutto espressioni di una trama di relazioni tra clienti e protettori, spesso violentemente animate da vendette e odî familiari. Le famiglie a capo delle fazioni, come i Thiene e i Porto da un lato, e i filo-ispanici Valmarana dall'altro, avevano una particolare necessità di esprimere la loro supremazia con un palazzo grandioso e competitivo. E la reputazione di Palladio era tale che gli venivano richiesti progetti dai personaggi dominanti di gruppi opposti.
Il primo tra i più importanti palazzi di cui Palladio si occupò, il palazzo Thiene, venne iniziato nel 1542 per Marcantonio Thiene e suo fratello, che in quel momento erano i personaggi più ricchi della città. E' possibile ipotizzare, sulla base dei dati stilistici, della testimonianza di Inigo Jones e degli stretti rapporti che esistevano tra i Thiene e i Gonzaga, marchesi di Mantova, che il disegno iniziale per il palazzo sia stato fatto da Giulio Romano il quale visitò Vicenza nel 1542. Palladio, che non aveva ancora raggiunto chiara fama e affermazione come architetto, sarebbe stato impiegato in un primo momento solo per realizzare i progetti dello stimatissimo Giulio Romano. Ma dopo la morte di Giulio nel 1546, egli ebbe la possibilità di applicare le proprie idee ed i propri motivi all'edificio, che poi pubblicherà nei Quattro Libri come un lavoro interamente suo. Questa collaborazione con Giulio fu probabilmente di grande importanza per Palladio: gli diede la possibilità di entrare in contatto con un architetto esperto ed incredibilmente sofisticato, le cui esperienze risalivano agli ultimi anni della vita di Raffaello. E forse anche a Palladio, come a Vasari durante la sua visita a Mantova, furono mostrati i disegni di Giulio, tra i quali anche quelli per l'appena terminato "Italienische Bau" della Stadtresidenz a Landshut. Questo raffinato palazzo urbano che si collegava tramite un cortile al "Deutsche Bau", iniziato poco prima dal Duca Ludwig X (che aveva visitato Mantova, ed aveva molto ammirato il palazzo del Te), sembra aver ispirato il modello palladiano dei due palazzi gemelli che si affrontano affacciandosi entrambi su un cortile. E' questo infatti lo schema inusitato che Palladio proporrà prima per palazzo Porto e poi per palazzo Valmarana. Un progetto non realizzato per la facciata di palazzo Porto, disegnato tra il 1542 e il 1544, con un ordine di paraste che abbraccia sia le finestre del piano nobile che il mezzanino, ricorda anch'esso l'alzato del cortile del palazzo a Landshut.
L'AFFERMAZIONE DELLO STILE PERSONALE DI PALLADIO

A palazzo Porto, a villa Poiana, alla Basilica e a palazzo Chiericati, Palladio completa l'assimilazione delle lezioni dei suoi più influenti contemporanei; e passa dall'ecclettismo degli anni '40 alla formulazione di un proprio inconfondibile linguaggio, mostrando allo stesso tempo un'intelligenza architettonica di altissimo livello. Nel caso della Basilica, per esempio, egli crea una quinta monumentale di particolare magnificenza intorno ad un nucleo preesistente (con le botteghe al piano terra, e la grande sala dei consigli cittadini sovrastante). La struttura, realizzata in solida pietra, è, nonostante il suo aspetto romano, quasi gotica nel combinare leggerezza e solidità. Prendendo spunto dagli anfiteatri di Arles e Nimes, le semicolonne addossate ai pilastri con la loro trabeazione aggettante costituiscono un efficace modo di contraffortare e rinforzare il principale elemento portante che deve resistere alle spinte delle volte retrostanti - le logge precedenti, che Palladio sostituì con questa costruzione, avevano infatti subito un cedimento strutturale. L'adozione del motivo della serliana, che era stata usata da Sansovino nella Libreria e da Giulio Romano (ad esempio nell'interno dell'abbazia di San Benedetto Po), combinato da Palladio con i robusti ma sottili pilastri si rivelò una scelta brillante. Questa soluzione fa sì che il massimo di luce penetri all'interno dell'edificio (la luminosità viene inoltre aumentata dagli oculi che si aprono nei pennacchi) e che le inevitabili irregolarità dell'alzato siano assimilate in maniera discreta, quasi impercettibile, negli spazi tra l'ordine minore e i pilastri, lasciando gli elementi principali, pilastri ed archi, uguali e regolari.
La raffinatezza del disegno di Palladio, in cui gli elementi funzionali, strutturali ed estetici giocano tutti un loro ruolo, si deve osservare anche nei dettagli, come la scelta della base cilindrica (ossia la base tuscanica secondo Vitruvio) invece della normale base attica per l'ordine dorico minore. Quest'ultima è una mossa funzionale, poiché le basi cilindriche senza alcun plinto non sporgono affatto e dunque non intralciano coloro che entrano ed escono dall'edificio; al contempo, la semplificazione della forma della base (ripetuta anche al livello superiore) è una maniera di evitare la fastidiosa proliferazione dei dettagli più piccoli, enfatizzando l'impatto delle grandi basi attiche. Bisognerebbe aggiungere che Palladio non progettò soltanto un esterno. In origine le volte a crociera che coprivano i larghi passaggi trasversali erano trattate con un intonaco bianco brillante una cui componente era la pietra polverizzata. L'interno si leggeva quindi in continuità con l'esterno anche nel colore e nella grana della superficie. Un grande spazio romano, paragonabile alla sala del mercato dei Fori di Traiano con una grande serliana a chiudere la prospettiva. Il pessimo stato in cui oggi appaiono le volte, senza stucco, con i mattoni scoperti, ci priva dell'impressionante esperienza spaziale creata da Palladio.
Non è compito di questo breve saggio introduttivo di ripercorrere tutta la lunga e prolifica carriera di Palladio, ma soltanto di suggerire alcuni aspetti della sua formazione e del suo approccio al disegno di architettura. Un resoconto cronologico delle sue opere dopo il 1550 deve tenere in considerazione l'ulteriore arricchimento della sua cultura architettonica durante questo decennio a metà del Cinquecento, risultato della sua stretta collaborazione con un'altra grande figura intellettuale, il patrizio veneziano Daniele Barbaro. Fu Palladio a fornire quasi tutte le illustrazioni per la monumentale traduzione di Vitruvio (con commentario integrale) redatta dal Barbaro. Questo sforzo definì ulteriormente il linguaggio architettonico di Palladio; servì inoltre a fissare alcuni elementi che egli avrebbe utilizzato costantemente nei suoi disegni, come la facciata a tempio con frontone per le ville e l'ordine gigante con colonne libere che si estende su due piani e che deriva dalla sua ricostruzione della basilica di Fano descritta da Vitruvio. Palladio realizzò in pietra quest'ultima efficace soluzione a villa Sarego. Il carattere innovativo dell'approccio al disegno delle chiese e delle loro facciate da parte di Palladio viene affrontato altrove in questo catalogo. Dovrò sorvolare su altri lavori, come ad esempio il ponte di legno a Bassano, privo di decorazioni, ma bello e strutturalmente elegante. Né vi è spazio per analizzare uno degli ultimi lavori dell'architetto, il teatro Olimpico a Vicenza, un'erudita, ma anche miracolosamente vitale resurrezione dell'impianto di un antico teatro romano.
I QUATTRO LIBRI E L'INFLUENZA DEL PALLADIO

Una delle più importanti creazioni del Palladio non può essere tralasciata, perché ha troppo a che fare con la mostra. I Quattro Libri (Venezia, 1570) rappresentano l'autorevole testamento architettonico di Palladio, nel quale egli espone le sue formulae per gli ordini, per le misure delle stanze, per la progettazione delle scale e per il disegno dei dettagli. Nel Quarto Libro egli pubblicò le ricostruzioni dei templi romani che aveva studiato più attentamente, e nel Secondo e nel Terzo libro offrì (cosa che nessun architetto aveva fatto prima) una sorta di retrospettiva dei suoi disegni per palazzi, ville, edifici pubblici e ponti.
Concisi e chiari nel linguaggio, efficaci nel comunicare informazioni complesse coordinando tavole e testi, i Quattro Libri rappresentano la più preziosa pubblicazione illustrata di architettura che si sia avuta fino a quel momento. Ci si può rendere conto dell'intelligenza e della chiarezza dell'"interfaccia" che Palladio offre ai suoi lettori se lo si confronta con i libri di architettura di Serlio che iniziarono ad apparire dal 1537. Mentre Serlio non riporta le misure nelle tavole, ma le include all'interno del testo, Palladio lo libera da questo appesantimento, e colloca le proporzioni direttamente nelle piante e negli alzati. A differenza di Serlio, egli presenta gli edifici e i loro dettagli in uno stile uniforme, rielabora i disegni che aveva tratto da altri architetti, e riporta tutte le dimensioni in una scala metrica comune: il piede vicentino, lungo 0, 357 mm.
Quindi non fu solamente l'architettura palladiana con la sua base razionale, la sua grammatica chiara, la sua inclinazione domestica, ma fu anche la capacità comunicativa del suo libro che portò all'immensa influenza del Palladio sullo sviluppo dell'architettura del Nord Europa, e più tardi in Nord America.
E' chiaro che - come aveva capito Inigo Jones - Palladio non rivelò tutti i suoi segreti nei Quattro libri. Egli non ha detto esattamente come si possa progettare seguendo un sistema senza diventare noiosi e ripetitivi; non ha spiegato con esattezza come e quando forzare le sue stesse regole; e neanche come usare un disegno per generare molte idee e disegni nuovi partendo da un singolo schema iniziale, o perché sia importante fare sempre degli schemi alternativi. Non ha spiegato come disegnare un dettaglio in modo che questo potesse essere perfetto non per un edificio qualsiasi, ma per uno in particolare, come le finestre di villa Poiana sono perfette per questa villa e quelle della Rotonda lo sono per la Rotonda. Scrivendo i Quattro Libri si proponeva certo di educare, migliorare il livello generale del disegno architettonico. Ma come tutti i bravi insegnanti (e tutti i maestri con i loro allievi) egli forse sapeva che è meglio lasciare ai discepoli qualcosa che possano scoprire da soli.

Howard Burns

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